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Racconti erotici sull'Incesto

La prima volta con mia figlia

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Sono un uomo felice, oggi, e sul viale del tramonto, ma di un tramonto dorato e che si allunga verso l’azzurro profondo di un cielo senza nuvole. Fui un uomo molto diverso vent’anni fa, e per un certo momento fui anche un uomo disperato. Ma poi venne lei, l’angelo della mia vita, la Fata, meglio, che con un tocco della sua magia meravigliosa ha trasformato la mia esistenza. Lasciamo perdere’ so che a voi interessano i fatti, ma i fatti che vi racconterò hanno un significato, per il mio cuore: vi prego almeno di non dimenticarlo.

Faccio il critico d’arte. Non &egrave un ‘mestiere’: &egrave una vocazione. Ma questo forse &egrave un’altra cosa che può interessarvi assai poco. Anche perché non ha attinenza con i fatti che vi racconterò. O forse sì. Forse sì perché un uomo che vive d’arte non può non comunicare qualcosa della superiore nobiltà di essa a coloro che ama. Per esempio ai figli. Ho due figli: un maschio e una femmina, due persone realizzate e mature, padri e madri di famiglia a loro volta, ecc. ecc. Sono orgoglioso di loro, insomma. Ma soprattutto della figlia.

Bella scoperta! Direte voi. Come può un padre non provare un debole per la figlia. Alt! Mettiamo le cose in chiaro: mia figlia si &egrave meritata ‘sul campo’ l’enorme amore che porto per lei, l’assoluta passione che nutro per la sua anima e il suo corpo’ ma sto anticipando troppo. Andiamo con ordine.

Mia moglie morì vent’anni fa. Avevamo quasi cinquant’anni tutti e due, ci amavamo alla follia. Non voglio farla lunga, ma era una donna stupenda dentro e fuori, e ciò che abbiamo vissuto davanti alle opere d’arte come tra le lenzuola &egrave il capitolo fondamentale della mia vita, il suo punto più alto. Poi avvenne un incidente d’auto: guidava mio figlio, lei morì, lui rimase gravemente ferito per mesi. Seduto al suo capezzale d’ospedale, gli tenevo la mano cercando di calmare la sua disperazione. Il senso di colpa gli tolse la giovinezza: quando venne dimesso, sembrava un vecchio quarantenne malato, e aveva 23 anni.

Mia figlia soffrì come una bestiolina. Piangeva sulla mia spalla, e riusciva a farmi disperare anche di più di quanto già non fossi, perché continuava a ripetere: ‘Povero papà, come farai adesso”. Infatti aveva un intuito che io giudico la cosa più fenomenale in senso psicologico e morale che abbia mai visto in una persona: piangeva la mamma, piangeva il proprio dolore, ma piangeva soprattutto per me come uomo. Fummo sempre discreti, Linda (mia moglie) ed io, in casa coi figli: facevamo amori strepitosi, ma come una brava coppia borghese, in assoluta intimità e discrezione. Ma l’amore ha mille modi di manifestarsi, e le antenne di Enrichetta (Chetta) sono stupefacenti. Lei sentiva cosa correva tra papà e mamma. E ne era felice.

Fu per questa ragione, e solo per questa, che quel giorno angoscioso, in ospedale, con le lacrime agli occhi, Chetta disse: ‘Stasera vengo a dormire con te’. Aveva 25 anni e già si era fatta un lavoro e una propria indipendenza. Aveva un fidanzato, ma ancora non avevano deciso nulla e lei si trovava bene in un regime di semi-libertà. ‘Vengo a dormire con te’ per lei voleva dire: sei rimasto solo dopo aver vissuto e dormito per 26 con la donna più bella e dolce del mondo, che amavi sopra ogni cosa; io ti voglio bene, e questa sera cercherò di farti sentire meno solo, di scaldare il letto e di esserci quando ti verrà il bisogno di urlare di dolore. Nient’altro. Io non risposi, ma dentro di me ringraziai il Signore.

Così fece. Stanchi, prostrati e con gli occhi rossi, ci trovammo accanto al lettone matrimoniale. Le diedi la buona notte, mi diede la buona notte. Aveva un pigiama a pallini rossi, grazioso e ingenuo. Spensi la luce, e sentii la sua mano prendere la mia. Piansi, e lei mi asciugò le lacrime. Dormii.

Chetta fece ‘la donna’: fu cio&egrave quell’essere straordinario che comprende ciò che l’altro sente, e vive nel corpo prima che nella testa questa comprensione. Passammo giorni drammatici in ospedale, a vegliare il ragazzo. Tornavamo stanchi a casa per dormire, e il mio dolore non era ancora maturato del tutto. Ma quando Lucio (mio figlio) fu fuori pericolo, quando le visite si diradarono, e la vita cominciò a riprendere un corso apparentemente normale, allora la mia anima scoppiò. Avevo perso Linda.

Una notte, svegliandomi d’improvviso per non so quale incubo, dimentico di dov’ero, del tempo e delle circostanze, sentendo vicino a me il respiro regolare di una donna addormentata, la abbracciai con tutte le forze, baciandole i capelli e accarezzandole il seno. La sua voce: ‘papà” mi colpì come una bastonata. Rimasi paralizzato dall’angoscia e dalla vergogna. ‘Papà mio” ripet&egrave Chetta, voltandosi e accarezzandomi il volto. ‘Sognavi?’ mi chiese.

‘Sì bambina mia’ perdonami’.

‘Non c’&egrave bisogno di perdonare niente. Se vuoi abbracciarmi, puoi farlo’ disse con semplicità. ‘Sono venuta per questo’.

‘Cosa intendi dire?’ chiesi perplesso.

‘Che un uomo che ha tanto amato, come te, non può rimanere senza donna così, in questo modo. Può impazzire. Ho sentito come piangevi, l’altra notte. Abbracciami, papà, se ti fa bene, abbracciami, ti prego’.

‘Ma tu non sei la mia donna, Chetta’ come faccio ad abbracciarti’?’

‘Non &egrave questione di tua o sua’ e se non sai come fare ad abbracciarmi, te lo faccio vedere subito’. Così dicendo, si avvicinò a me, si infilò come una gattina tra le mie braccia, si accoccolò con la fronte sul mio petto, e rimase teneramente in attesa delle mie carezze. Io la strinsi incredulo e finalmente capii l’enorme valore del suo gesto. Non era lì per sostituire sua madre: era lì per darmi quel calore che solo il corpo di una donna, chiunque essa sia, custodisce dentro di sé quando ama. E io non stringevo più una figlia, neppure il sogno di una moglie perduta: stringevo un dono d’amore prezioso come l’acqua per l’assetato, o il pane per l’affamato. Stringevo un batuffolo di tenerezza calda e morbida, un grumolo d’affetto e di dedizione generosa e disinteressata, un corpicino che era mio come non era mai stato fino a quel momento.

Quella notte sentii il calore di mia figlia ridarmi la vita. Sentii che avevo perso molto, ma non la cosa più importante: la voglia di vivere, la possibilità di farlo. Le notti seguenti furono molto simili alla prima: mi svegliavo, assaporavo per un po’ il mio dolore, poi mi voltavo e trovavo il corpo di Chetta addormentata vicino a me. Le accarezzavo la fronte, la svegliavo. Lei si stirava adorabile e tenera, si voltava verso di me e mi abbracciava, mettendo le gambe attorno alle mie, come a chiudermi in un guscio protettivo.

Adesso parliamo un po’ di lei. Chetta assomigliava alla madre’ anzi: le assomiglia sempre più: oggi che ha quarantacinque anni, rivedo con straziante emozione Linda camminarmi vicino come allora. Entrambe coi capelli rosso castani, Linda lunghi e sciolti, Chetta più corti e ricciolini; il viso nobile delle gran dame di una volta, altero e intelligente; il corpo alto e snello, con grandi seni, gambe lunghe e ben tornite. A vent’anni, Chetta era più rotonda, e più fresca delle ragazze della sua età, e quindi non mi accorsi subito della sua somiglianza con la madre. Ma non ci volle molto perché aprissi gli occhi’

Ci vollero un paio di mesi, o forse meno? Che importa. Chetta non se ne andava più; io ero stupito, ma nel mio egoismo lasciavo andare le cose come venivano. Sembrava non del tutto convinta della mia guarigione, ogni notte mi accarezza la fronte chiedendomi di essere meno duro con me stesso, di avere meno paura di prendere. Non capivo tanto bene, o forse avevo paura di capire?

Un giorno presi il coraggio di aprire l’armadio di Linda. Chetta non c’era: erano affari miei. I vestiti erano tutti lì, come li aveva ordinati lei. Il dolore bussò di nuovo al mio cervello come un segnale di morte. Poi aprii i cassetti: la sua biancheria, le mutandine, le calze’ Perché l’avevo fatto!? Perché?! Richiusi, ma non so come mi trovai un paio di mutandine in mano: erano le più tenere che Linda avesse mai indossato, un modello bianco e molto sgambato che indossava sotto i pantaloni per non far vedere il segno delle mutande. Le avevo molto apprezzate in alcune serate dolcissime, e adesso mi erano’ rimaste attaccate alla mano. Le nascosi sotto il cuscino: non erano più intrise del profumo di Linda, ma erano pur sempre qualcosa di molto intimamente suo. Avrei voluto, lo confesso con molta semplicità, masturbarmi con loro, ma non ne ebbi la forza. Rimandai alla notte, quando fossi stato preso dalla disperazione.

Ci coricammo, Chetta mi diede il solito bacino della buona notte, e ci voltammo le schiene. Sotto il cuscino trovai l’indumento amato. Me lo portai alla faccia, baciandolo in silenzio. Ero di nuovo disperato. Non era affatto passata. Non sapevo cosa fare: strinsi per un po’ quel gomitolo di cotone fra le mani, poi sentii il pene drizzarsi. Era stato abituato troppo bene, e ci voleva poco, anche solo un ricordo, per fargli reclamare un po’ della vita perduta. Allora portai la mano sotto i calzoni del pigiama, e avvolsi l’uccello nelle mutandine, cercando di calmarlo, e di dargli chissà quale sollievo. Ma lui voleva di più: rimaneva ritto e duro, indifferente alle mie suppliche, pulsando di desiderio. Dovetti farlo: mi masturbai raccogliendo il seme nelle mutandine di Linda. E allora, una mano leggera si posò sulle mie spalle, e la voce di Chetta disse: ‘sei tanto solo, papà mio”. Chiusi gli occhi per non urlare. ‘Non ti preoccupare ‘ riuscii a mormorare -, poi mi passa’. Ma lei sapeva che non era così facile. Sentii i suoi seni premere contro la mia schiena, e la sua bocca sul mio orecchio mormorare: ‘soffro più di te a vederti così’ possiamo cercare di trovare un conforto?’. Le sue braccia mi cingevano il petto, la sua bocca quasi mi baciava l’orecchio, sussurrando, i suoi seni si erano fatti puntuti.

Continua’

Ero paralizzato. La vergogna di essere stato sentito da mia figlia, la vergogna di un desiderio che si stava riaccendendo al contatto di quei seni, la vergogna di non saper essere duro con una bambina che giocava a fare la donna. Non ero mai stato ‘duro’ con mia figlia. E ora si prospettava l’ipotesi, spaventosa, che avrei potuto diventarlo in un modo inconcepibile per la mia coscienza.

‘Devo raccontarti una cosa, papà”.

‘Che cosa?’.

‘Un segreto tra me e mamma, di pochi mesi fa’.

‘Ti prego, Chetta!…’

‘&egrave una cosa dolce, papino, molto dolce”

‘No”.

‘Ascolta. Eravamo al mare. Ci siamo provate dei costumi. E io ho detto: se papà mi abbracciasse ad occhi chiusi, mi scambierebbe per te’ Aveva ancora un corpo stupendo, la mamma. Io lo so: &egrave il mio’. E così dicendo, mi diede un bacio sulla nuca. Provai un brivido istantaneo e profondo, un capogiro lungo e tormentoso. Quando mi ripresi, sentii degli strani fruscii accanto a me. Capii.

‘Chetta non te lo permetto” mormorai senza riuscire a fare uscire la voce.

‘Non &egrave niente, papà’. Rispose con infinita serietà.

Mi imposi di non muovermi, di non pensare, di non ascoltare’ Lei era ferma, accanto a me. Aspettava.

Non so più quanto tempo passò. Non lo posso dire. Un’ora, due, dieci minuti? Eravamo immobili, i nostri respiri si confondevano con cadenza regolare e sommessa. Non potevo alzarmi, andarmene. Non potevo voltarmi, guardare. Non potevo fare niente: volontà e coscienza si scontravano in un corpo a corpo mortale nella mia mente. Chiunque avesse vinto, avrebbe ucciso il vecchio uomo che io ero, lasciandone uno nuovo che non conoscevo. Se avesse trionfato la coscienza, avrei cessato di essere l’uomo vitale e felice che ero sempre stato: sarei diventato un triste solitario, nostalgico e abbarbicato a ricordi dolorosi e insopportabili. Se avesse vinto la volontà, nessuno poteva dire che cosa sarei diventato.

‘Perché, Chetta?’ chiesi finalmente?

‘Perché ti capisco, perché ti amo, perché ho amato la mamma, perché amo la vita e l’amore. Sono le cose che mi avete insegnato voi. E tu dimmi: perché no?’.

Già. Perché no? C’era vita, in quel corpo, e c’era amore. Il resto che cos’&egrave?

Mi girai verso di lei.

Le coperte si abbassarono. Era completamente nuda. Si accese una luce, e vidi Linda di nuovo sdraiata accanto a me. Ma non era quella la cosa che mi fece piangere. Era la vita di quel corpo, che mi avrebbe aiutato a sconfiggere la morte.

Appoggiai una mano sul suo seno. Respirava con calma, mi guardava con un sorriso appena accennato, aveva gli occhi radiosi. Lei infilò la sua nei miei pantaloni. Avevo ancora le mutandine di Linda avvolte sul pene. Le trovò, stupita le portò fuori e capì. Ne inspirò voluttuosamente l’odore, che era quello del mio seme.

‘Chetta tu sei una donna” non potei trattenermi dall’esclamare. Non sapevo neanche che aggettivo usare: ‘completa’, ‘fatta’, ‘eccezionale’? Tutte cazzate. Era una Donna. Ma lei capì benissimo.

‘&egrave ovvio’ L’unico che poteva dubitarne eri tu, papà. Da buon padre’ Ma mamma lo sapeva benissimo. Io so quanto mamma ti amava, e non in modo astratto, papà’ Io so cosa amava mamma di te’. Mi venne duro: il cuore era andato a pulsare tutto lì.

Mi prese la mano. Se la portò sulla vagina. Teneva le gambe strette: mi fece sentire solo il calore del suo dolce pelame rosso. Sembrava davvero una gattina morbida.

‘Mio Dio” mormorai. Lei riprese la mano e la baciò. Poi si mise in ginocchio accanto a me. Aveva delle curve perfette: il culetto si allargava a mandolino sotto una vita stretta e fresca, i seni rotondi e puntuti le davano una allegra spavalderia. Le gambe accovacciate nascondevano il fiore del suo segreto: vedevo solo i soliti peli rossicci che, come un cespuglietto malizioso, facevano capolino dal triangolino del pube. Il cuore mi scoppiava, il pene andava e veniva impazzito: un po’ era duro e palpitante, un po’ si rammolliva spaventato dalla situazione.

‘Se ti spogli anche tu, starai meglio” mi disse sorridendo. Ne dubitavo, ma ormai ero suo prigioniero. Mi sedetti sul bordo del letto, tolsi la giacca del pigiama. Ma i pantaloni non volevano saperne di scendere. Quello sarebbe stato forse il momento più difficile. Mi abbracciò di nuovo, alle spalle. E di nuovo sentii i suoi seni, ma questa volta erano a diretto contatto della mia pelle, sodi, gonfi, brucianti’ Le sue mani mi accarezzavano il petto irsuto, provocandomi un piacere profondo e bruciante. Manine da bambina, della mia bambina’ La sua bocca mi baciava il collo: boccuccia fresca, da bimba, della mia bimba’

‘O mio Dio” quasi urlai. Lei non si fermava più: scese con le mani sul ventre, poi continuò. Si infilò di nuovo nei pantaloni, arrivò al pube, prese ad accarezzarlo con la punta delle dita, intrecciandole ai miei peli.

‘Il mio papà’ – mormorava ‘ il mio dolce papà, che da bambina mi faceva vedere l’uccellone per spaventarmi, e invece io non mi sono spaventata. Io mi sono innamorata. E adesso non ti lamentare: mi prendo quello che ho sognato per anni’. E afferrò saldamente il mio cazzo duro.

Chiusi gli occhi per assaporare la sensazione. Accadde una cosa strana. Da quel momento, da quella presa così sicura, sapiente e possessiva, non ebbi più paura, non pensai più a niente. Era la presa di Linda, passata col codice genetico nelle mani di mia figlia.

‘Io ti amo papà, ti ho sempre amato”.

Mi alzai. Mi abbassai i pantaloni. Ero ancora voltato di schiena a lei, ma non lasciò la presa. Cominciò a baciarmi le natiche, che tremavano dall’emozione e dall’eccitazione, perché con la mano non stava ferma, palpando ogni punto del mio pene senza masturbarmi.

‘Voglio vedere il tuo cazzo, papà. Finalmente me lo voglio godere da vicino, tutto mio. Sdraiati”. Guidava lei la danza, e io ballai. Mi sdraiai. L’uccello gonfio e turgido puntava verso l’alto, in attesa di spiccare il volo. Inginocchiata vicino a me, mia figlia si chinò verso di lui prendendolo a coppa nelle mani, dolci e innamorate. ‘Il tuo cazzo’ il tuo cazzo’ il tuo cazzo’ l’ho sognato da quando avevo cinque anni. Era la forza del mio papà che desideravo: di essere presa tra le tue forti braccia, stretta al tuo corpo, sentirne il calore, l’amore. Di essere protetta e abbandonarmi per sempre vicina a te. Poi me l’hai nascosto, ma io ho continuato a immaginarlo, dietro i tuoi costumi attillati da macho, sotto i tuoi pantaloni, quando vi spiavo fare l’amore. Sì, vi ho spiati. Ho visto poco, ma ho sentito la mamma piangere di piacere, e mi sono fatta i primi ditalini, a tredici anni. Ero così innamorata di te, che non potevo neanche essere gelosa di mamma: ho cercato solo di diventare sua complice, per ricevere da lei le briciole della tua mascolinità. Le mi ha capita, sai? &egrave stata molto tenera ed educativa. Mi ha insegnato a conoscermi, mi ha ascoltato quando parlavo di me, e mi ha parlato di te. Da donna a donna. Era felice con te, tanto. Amava il tuo corpo, tanto. Come me” e chinandosi, mi prese il pene in bocca.

Chiusi gli occhi, incapace di intendere e di volere. Le sue dolci mani avvolgevano i coglioni come una conchiglia di carne calda; la sua testa andava su e giù inghiottendo tutto quel che poteva. Non era forse la sua prima volta, ma certo ne godetti tutto l’entusiasmo da ragazza: i suoi denti mi fecero un male cane. Le presi la testa, la alzai, glielo spiegai. Lei arrossì, e mi abbracciò baciandomi sulla bocca: ‘scusami, sono un disastro”.

Non sapevo da dove cominciare ad assecondare quel dono d’amore. La tenni stretta a me, emozionato, pieno di desiderio, di paure. Ma lei non si fermò.

Mi rimise sdraiato, e si alzò. ‘Guardami, dimmi se sono davvero come mamma”; così dicendo, si mise cavalcioni su di me, all’altezza della mia faccia. Le guardavo la dolce fighetta dal sotto in su, la posizione che mi piace di più. Possibile che Linda fosse arrivata a quel punto di confidenza? Le accarezzai le gambe, con un fervore, un amore, una passione da ventenne. Lei mi prese le mani e se le portò di nuovo alla vagina, ma stavolta in mezzo alle gambe. Gliela allargai, la osservai. ‘E allora?’ chiese. ‘Bambina mia, bambina mia” mormorai, non sapendo cos’altro dire.

‘Sì, sono la tua bambina” mormorò anche lei, e vidi che si stava bagnando. La feci sedere cavalcioni sul mio torace, in modo che godesse ampiamente del contatto col ruvido pelame. Lei chiuse gli occhi, ondeggiando leggermente, per prendere possesso con la sua bocca segreta della superficie del mio corpo. Poi le strinsi, con molta dolcezza, i bruni capezzoli tra le dita.

‘La mamma ti ha anche detto che facevo il bambino attaccato ai suoi seni?’.

‘Mi ha detto tutto” rispose, maliziosa. ‘Mi ha detto che si bagnava tutta, quando ti accucciavi su di lei succhiandole il capezzolo’ Mi ha detto che dalla prima volta che avete fatto l’amore, hai sempre pensato prima a lei che a te, e che te ne era così grata, che ti avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Era innamorata della tua signorilità. Eri il suo gentiluomo’.

Era vero che mi ero sempre preoccupato del piacere di Linda, ma non certo per nobili motivi: volevo semplicemente primeggiare ai suoi occhi. Sapevo che una donna non tradisce, quand’&egrave pienamente soddisfatta, e la bellezza di Linda mi aveva sempre reso geloso. Così, col darle ogni volta orgasmi plurimi, sapevo di essermi reso prezioso ai suoi occhi. Ma non era il caso adesso di fare troppe parole con Chetta; un papà si sente sempre fiero di essere l’eroe della figlia.

Sarei rimasto così, con mia figlia seduta nuda su di me, a parlare per ore. Sapevamo di aver rotto la barriera delle paure e dei fantasmi, e che da quel giorno in avanti, tutta la vita era nostra. Ma da troppo tempo non possedevo una donna, e l’eccitazione cominciava a prendere il sopravvento nel mio sistema simpatico e parasimpatico. Le palpai i seni, duri e grossi come meloncini. Lei sobbalzò chiudendo gli occhi. Quei seni! Trasbordavano dalle mie mani come nuvole di carne bianca. I capezzoli bruciavano, e si indurivano man mano che la fanciulla strusciava la figa sul mio petto e percepiva il tocco delle mie dita.

‘Dimmi ancora che sono la tua bambina” sussurrò prendendomi il cazzo in mano dietro la sua schiena. ‘E’ la cosa più meravigliosa di tutta questa storia’ dissi finalmente, svelandole tutto il mio pensiero. ‘Assieme al fatto che tu sei tu, il mio papà’ mio padre’.’.

‘Ti desidero, Chetta”.

A quelle parole lei strinse forte il cazzo, cominciando a masturbarmi. Per fortuna ero appena venuto, e ad una certa età lo sperma non abbonda più. Avrebbe così potuto continuare tanto a lungo quanto avrebbe desiderato. Io non l’avrei certo fermata.

‘Ti amo, papà”.

‘Fammi succhiare”.

‘Che cosa?’ mi chiese, arrossendo e sorridendo.

‘I tuoi seni” risposi emozionato.

Si sedette a capo del letto, e mi prese la testa tra le braccia, come un bambino. La mia bocca si attaccò al capezzolo e cominciò a succhiare avidamente. La sua mano, intanto, scendeva provocante lungo il mio ventre, e prese a giocare con tutto il mio armamentario glorioso: titillava i coglioni con la punta delle dita, mi scappellava, mi accarezzava, me lo menava forte per poi smettere e ricominciare con leggerissime carezze. Tutto come Linda! Non resistetti a lungo. Dovetti rimettermi seduto, prendendole una mano.

‘Che cosa ti ha detto veramente, la mamma?’ le chiesi con un tono quasi perentorio.

‘Ho tante cose da raccontarti, papà”.

‘Cose di che tipo?’.

‘Di com’era il nostro affetto, tra me e mamma’.

Non capivo’ ‘com’era?’, chiesi imprudente.

‘Particolare’ mi rispose in un soffio, stringendomi la mano.

‘Una domenica pomeriggio ‘ cominciò mia figlia -, avevo forse 15 anni, voi vi faceste una lunga e memorabile scopata’ scusa papà, fa male anche a me ricordare’ credevate che fossi uscita, invece tornai a casa silenziosamente. Volevo cercare di vedere il vostro amore, il tuo corpo, papà, il tuo uccello. Non mi era mai riuscito bene, per mille motivi. Volevo tentare il tutto per tutto, speravo che aveste tenuto la porta aperta. E infatti era così’ Corsi un rischio tremendo, mi affacciavo alla porta con il batticuore, ma vidi molte cose che mi fecero impazzire. Non potevo toccarmi, per non fare rumore, ma accumulai una tale eccitazione, che alla fine dovetti correre in bagno a sfogarmi. Mi tolsi le mutandine e mi feci un ditalino con tre dita, di quelli da svenire. Ero ancora seduta sul water, agitata e eccitata, quando entrò mamma. Era nuda. Io avevo le mani sulla figa, e la mia espressione non lasciava dubbi. ‘Ti ho vista dietro la porta a spiarci, porcella”. ‘Era rossa e sorrideva divertita’ Le chiesi scusa, un po’ vergognosa. ‘Ascolta bene: il mio amore per tuo padre, e viceversa ‘ mi disse -, &egrave così superiore a qualunque altro, che il fatto che tu possa imparare da noi non può farmi che piacere. Non potremmo mai chiedere a tu padre di darti una poltrona in prima fila’ e neppure ti raccomando di ripetere una simile imprudenza’ ma se vuoi possiamo rimediare io e te”. Non capivo. ‘Vieni qui, monella” mi disse, prendendomi per le braccia e facendomi alzare; poi mi abbracciò e baciò teneramente. Non me l’aspettavo. Risposi al suo abbraccio con un entusiasmo poco filiale. I suoi seni erano ancora duri’ le toccai il culo, glielo strinsi, la baciai sulla bocca’ era tutto l’amore che avevo per te che finì addosso a lei. Cercò di calmarmi, si allontanò da me, mi accarezzò’ Da quel giorno, cominciarono le nostre confidenze più intime e particolari. Mi parlò di te, del tuo amore, del suo, e alle mie domande insistenti, mi parlò del tuo corpo. E un giorno avvenne che, di confidenza in confidenza, ci eccitammo tutte e due: io continuavo a tormentarla, lei resisteva, ma diventava rossa e si eccitava, così finì per soddisfare ogni mia curiosità. Non resistetti a lungo: dovetti alzarmi la gonna e toccarmi il clito, già bagnato. Lei vide, arrossì ancor di più, poi mi imitò. Si alzò la gonna, si abbassò le mutandine, e davanti ai miei occhi allibiti si ficcò tre dita nella vagina. Ci masturbammo una di fronte all’altra, non so più bene dire se eccitate dalla tua immagine evocata, o dalla vista reciproca’.

Non credevo alle mie orecchie. La confusione delle mie emozioni era totale: allibito, eccitato, commosso, scandalizzato’ Guardavo nel vuoto, cercando di figurarmi quella scena, di vedere mia moglie e mia figlia sedute una di fronte all’altra, con le gonne alzate sopra le cosce, con la mutandine abbassate, con le cosce spalancate e le mani a frugare frenetiche nel profondo delle loro vagine. Fui bruscamente richiamato alla realtà. Chetta mi si era buttata addosso, e ora si strusciava tutta su di me, tenendomi il volto tra le mani, avvolgendomi tra le cosce, schiacciandomi i seni sul petto.

‘Avevi due donne sesso-dipendenti, atomiche, e ne hai avuta solo una per volta. Peggio per te, zoticone! Avremmo voluto a un certo punto coinvolgerti, ma mamma tremava all’idea della tua reazione. Io invece ero convinta che ti avremmo sedotto. Non avresti potuto resistere a noi due, come non hai resistito a me sola. Baciami, stupido!’

Ci rotolammo sul letto, bocca nella bocca. Mi prese il pene tra le cosce e cominciò ad ancheggiare, scappellandomelo con il loro interno morbidissimo. ‘Anche questo ti ha insegnato?’ domandai ansimando dal piacere.

‘Tutto” rispose. Cominciò a scendere con la bocca: mi baciò il collo, il petto, mi leccò i capezzoli piano piano, sempre facendo in modo che la punta del cazzo non scappasse dalla presa delle sue gambe super sexi, dal contatto stravolgente col suo clitoride bagnato. Cominciavo a perdere la testa, ad abbandonare ogni freno. E lei scendeva, scendeva. La sua lingua arrivò all’ombelico, mentre le mani sostituirono il gioco delle cosce. Adesso baciandomi palpava, palpava sapiente. Era completamente fatta: come una tossicodipendente uscita dall’astinenza, manovrava il pene di suo papà con una passione, una dolcezza, un’eccitazione e un’ansia brucianti. Il desiderio accumulato in anni di fantasie, di frustrazioni, e poi di nutrimento artificiale, fatto di parole e immagini riportate, esplodeva in quei minuti irripetibili come una reazione atomica fuori controllo. Il suo tocco sul mio uccello era duro, frenetico, ossessivo, a tratti cattivo, in altri di una vogliosa tenerezza, affamato, curioso e incredulo, pignolo e scrutatore, bruciante. Poi ci arrivò con le labbra.

Non fece più l’errore di prima. Aveva imparato a non avere fretta. Avvicinò le labbra come per un bacio, ne avvolse la punta, la succhiò gemendo di incredula eccitazione. Si strusciava le cosce per godere. A quella vista le afferrai le gambe e le trascinai a me. Lei le allargò e mi scavalcò la testa. Vi infilai la faccia. Era un perfetto 69.

Fummo furiosi e crudeli. Il piacere, l’eccitazione, l’emozione di quella situazione si scaricò sui reciproci genitali come una tempesta. Strusciai tutta la faccia tra le sue labbra bagnate, leccando, baciando e gridando di piacere. Lei anche gridava, pastrugnandomi il cazzo come una forsennata, poi mettendolo in bocca, poi palpandolo, poi masturbandomi. Venne prima lei, con dei colpi d’anca che erano quasi dei pugni in faccia. Non smisi. Continuai a leccare, leccare, leccare, baciare, strusciare, e lei saltava su di me gridando e gemendo, con parole come: ‘dio mio, papà mio, papà mio, godo, godo’!!!’. Poi venni io, sbrodolandole in faccia. Ma neanche lei smise. Con un ritmo assatanato impedì al mio cazzo di rimpicciolire, lo tenne rigido accelerando la masturbazione, con le dita intrise di sperma, toccandogli la punta con la lingua, parlandogli: ‘sei bello, cazzo di papà mio, sei bello, pisellone grande e duro, sei il mio cazzo duro, duro, duro’ stai fermo lì, cazzolone dolce mio, che ti devo mettere dentro la fica, la fica della tua bambina, cazzolone di papà”.

Sembrava resistere. Velocemente Chetta si rivolse verso di me, aprendosi per riceverlo dentro di lei, a smorzacandela. Ma i 50 anni, gli stress, le emozioni’ insomma non era più quel palo telegrafico con cui avevo iniziato la serata in solitario intrattenimento, e che si era miracolosamente donato al primo assalto di mia figlia. Appena cercammo di infilarlo, resistette, piegandosi, e la tensione (mia) si smorzò. Afferrai la ragazza e la strinsi a me: ‘dammi qualche ora di riposo, e ti ripagherò del piacere che m’hai dato’. ‘Ti do tutta la vita, papà’ rispose.

Andammo a lavarci. In bagno, mentre mi davo d’attorno alle pulizie sul lavabo, lei continuò a stuzzicarmi come un demonietto: mi baciava la schiena, mi strizzava le chiappe, mi abbracciava mordicchiandomi il collo. Era felice e senza freni come una bambina la notte di Natale in mezzo a cento regali principeschi. ‘Non ci posso credere’ Non ci posso credere” continuava a ripetere, ridendo e toccandomi dappertutto. Le presi il musetto baciandole il naso; poi la accompagnai a farsi il bid&egrave. La insaponai, le lavai la figa, con scrupolo, molto molto in profondità. Lei mi mordicchiava l’orecchio e mi palpava tutto l’armamentario pendulo, con la solita frenesia giocosa. ‘Voglio essere la tua schiava del sesso” mi mormorava di nuovo eccitata. Mi tornò duro. Le baciai i capezzoli e poi la asciugai con delicatezza.

Tornati in camera, mi prese il cazzo tirandomelo come una molla e dicendo: ‘non &egrave giusto che tu sia così buono con me’ devi punirmi, non vedi come sono porca, zozza, troia e indecente? Come puoi permettere a tua figlia di comportarsi così?!’. Capii al volo. Mi sedetti sul letto, la afferrai facendola sdraiare sulla mie ginocchia a pancia in giù, e ammirai quel culo di femmina così burroso e mio. ‘Picchiami’!’ implorava. Le affibbiai due sonori scapaccioni, e in tre secondi le natiche presero fuoco. ‘Perdonami, papà’ gridava dimenando il didietro; e arrivò il terzo. Adesso gemeva, con una vocina flebile e cucciola. Avevo la febbre da’ erotite: le allargai le cosce, le avvolsi la vagina nella mano, e appena percepii il liquore femmineo spandersi a quel contatto, la penetrai con due dita. Fu impressionante la forza che si scatenò in quel gioco: spingevo senza frizionare, semplicemente godendo di quel possesso assolutamente intimo del suo corpo, premendo contro le pareti bagnate e il collo dell’utero, facendo rotare il palmo in modo da accartocciarle il clitoride, invaso da un desiderio di femmina, dalla sensazione di potere che quel toccamento mi dava su di lei, tali da farmi girare la testa. Lei mugolava dimenandosi, aprendo e chiudendo le cosce per sentirmi meglio e per imprigionarmi nella loro morsa, alzando e abbassando il culetto per facilitarmi i movimenti verso il monte di Venere. Era così meravigliosamente erotico e porco quel gioco, che il mio cazzo se ne nutrì come d’un filtro d’amore: ricominciò a crescere e a pulsare, premendo contro il suo ventre. A un certo punto lei lo sentì, e gridò: ‘sentilo, sentilo, &egrave mio, &egrave mio”. La liberai. Lei si rialzò, scarmigliata, rossa e con gli occhi dilatati dall’ansia; mi buttò sul letto e si accovacciò sul mio ventre, prendendo l’uccello e guidandolo finalmente dentro di sé. Entrai, ero suo.

Si inarcò, facendomi penetrare fino in fondo. Aveva gli occhi chiusi, il respiro affannoso, mi stringeva il petto tra i pugni, facendomi male. Per un po’ stette ferma, ad assaporare il possesso del suo sogno; poi cominciò a dondolare avanti e indietro, per sfregare il clitoride contro i miei peli, e per farsi ‘scopare’ su tutta la superficie profonda della vagina. Non disse una parola. Io la guardavo: mia figlia era lì, nuda, con la pelle luccicante di un leggero velo di sudore, i seni inturgiditi dall’affanno e i capezzoli esplosi come schegge impazzite. Il suo ventre aderiva al mio come una morsa: era bella, era femmina, era il ritratto di sua madre le prime notti di nozze. E in effetti, quella fu la nostra notte di nozze.

Io non venni più, ma assistetti al suo orgasmo. Fu un’eruzione lenta e profonda, venne da lontano, avvolgendola tutta dalla profondità del ventre fino alla punta dei capelli. E la sensazione di calore del suo piacere invase anche me, scatenandomi un pianto e un’eccitazione che non immaginavo possibili. Non urlò, non disse parole: si concentrò sul piacere nuovo e fortissimo come un monaco buddista in meditazione.

Trascorremmo la notte abbracciati. Per molto tempo rimasi dentro di lei, andando e venendo con erezioni lente e piene di dolcezza e teneri rilassamenti. Chetta assaporava le mie braccia: la fantasia di dormire protetta dalla calda forza del padre e insieme di proteggerne nell’intimità del proprio corpo la forza maschile fu per lei come un sonnifero. Non mi sentì uscire dalla vagina, non mi sentì coprirla, dormiva proprio come la mia bambina di vent’anni prima, all’alba della nostra storia. Mi addormentai all’alba, ancora nelle mani e su tutto il mio corpo il suo profumo di donna.

Il giorno dopo fu una festa delle emozioni e dei sensi. Mi alzai tardi: la scoprii in cucina, affaccendata attorno alla colazione. Mi venne quasi un colpo: aveva indossato la biancheria di Linda. Uno splendido completino nero composto da reggiseno e mutandine a piccoli ricami rossi, e il reggicalze uguale, con calze grigio fumo. Avevo l’accappatoio, ma lei me lo tolse immediatamente. ‘Devo recuperare dieci anni di impossibili desideri’ Non perdiamo neppure un minuto’. Le risposi con un’erezione da ventenne. Ci rifocillammo, mangiandoci contemporaneamente con gli occhi. Poi venne a sedersi a cavalcioni su di me, baciandomi la punta del naso. Le accarezzavo le cosce sensuali fasciate di nylon, le baciavo le fossette dei seni, lei mi titillava il cazzo scappellandomi e strusciandolo sul suo ombelico. Tornammo in camera da letto.

Si sdraiò per farsi ammirare. La leccai tutta, sulla pelle scoperta e sulla biancheria. Con i polpastrelli ne percorrevo le curve più nascoste e femminee: salii lungo il polpaccio all’interno del ginocchio, poi tra natiche e vagina, poi nelle fossettine dei gomiti: lei assaporava quella sensazione aprendosi come una rosa alla rugiada.

‘&egrave il giorno più bello della mia vita’ disse. Le tolsi le mutandine, la feci salire su di me, a cavalcioni della mia faccia, come la sera prima, per ammirare ancora una volta quel capolavoro della natura. Mi beai della sua figa a lungo, con trasporto quasi mistico: la baciavo con tocco leggero delle labbra, la sfioravo appena con la punta delle dita, lei se la allargava e si muoveva per rendersi ancora più eccitante. Come sua madre, anche Chetta aveva il dono di donarsi, di comprendere il lato visivo dell’eccitazione maschile. Poi si sedette su di me, alla ricerca del primo orgasmo della giornata. Leccai piano, lentamente, cominciando dalla punta del clitoride per passare a tutta la superficie vaginale, con moto costante e insistente. Le mani intanto le stringevano le natiche, spalancandogliele e cercando il buchetto. Lei mi cercava strusciandosi sulla mia faccia. Venne in modo deciso ma contenuto. Si sdraiò al fondo del letto e mi prese il cazzo in bocca’.

Devo continuare? Quel giorno non ci fermammo neppure quando ogni energia ci aveva abbandonati. Per tacito accordo, continuammo a donarci e a cercarci per il solo piacere di farlo, di saperci lì, uno per l’altra, all’inizio di una nuova vita. Col pene molle continuai a baciarla e a stuzzicarla, ricevendo da lei infinite prove di una sapiente tenerezza. Non abbiamo più smesso di amarci, di cercarci, di entusiasmarci al fuoco della nostra passione, anche dopo che lei si sposò e fece due figli. Rimasi e sono, ancora a settant’anni, la sua dimensione iperuranica del desiderio e del piacere di amare. Lei rimase ed &egrave la perfetta fusione delle uniche due donne della mia vita.

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