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Racconti Erotici

Detestabile viltà

By 31 Luglio 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Oggigiorno, ripensandoci attentamente, memorizzo che in quella lontana mattinata diluviava abbastanza, dal cielo cascava infatti un fitto acquazzone mescolato a dell’abbondante nevischio che tentava di ricoprire il manto della campagna tutt’intorno, foderando con il suo bianco e silenzioso candore i tratti di quel territorio abulico, svigorito e piatto. In quell’occasione, invero, l’inespressiva e slavata luminosità gelida faceva d’adeguata scenografia alla giornaliera raffigurazione di figuranti senza volto, che s’alternavano con una marcia sbrigativa trascurandomi come se fossi poco intuibile e definito. Cercavo altresì di non pensare al freddo che pativo, mentre chinato sotto quella corrente gelida mi dirigevo verso la cassetta postale più vicina.

Nel periodo di Natale, ma non soltanto in quella contingenza, la gente dovrebbe essere più amorevole, benevola e prima di tutto tollerante, ognuno di noi dovrebbe essere armonizzante, conciliante e magnanimo, sentirsi in sintonia con il mondo intero, malleabile, pronto ad aprire il proprio cuore alla magia, ai miracoli e ai risultati insperati. Neppure una, infatti, di quelle natività di Cristo che avevo trascorso in vita mia, era stata così ragguardevole da essere citata, ad esclusione per il totale senso d’abbattimento e di sconforto assieme alla radicale inquietudine e all’immensa uggia che veniva puntualmente a infiltrarsi, nel momento in cui da solo davanti al piatto fumante m’accingevo a consumare quello che sarebbe dovuto essere il mio pranzo di festa.

Là, invero, non c’era nessuno assieme a me nello spartirlo, neppure uno con cui scambiare auguri, desideri, pronostici e speranze, nemmeno un albero argentato per decorare il mio monolocale in costante disordine, in una duratura disorganizzazione, bensì soltanto parvenze e zone buie di ricordi cupi, tetri e spenti, che annebbiavano la mente con l’affanno, il cruccio e il tormento di dispiaceri e di sofferenze vissute, che contraevano irrimediabilmente lo stomaco fino a far passare persino l’appetito, mentre rigettando convulsamente nel lavandino m’ostinavo a fissare il riflesso di ciò che era rimasto della mia faccia, tra quelle pieghe rossastre di carne bruciata. Nessuna donna al mio fianco né allora né mai credevo, pensavo e ribadivo con costanza. Ero convinto, ma qualcuno quel giorno bruscamente m’urtò e tutte le cartoline che tenevo in mano mi caddero per terra, tenuto conto che mentre cercavo di raccoglierle lì m’accorsi distintamente della sua presenza. A volte, inspiegabilmente, le cose accadono in modo veramente bizzarro e sorprendente, perché si può passare la vita a desiderare un evento e questo non si verificherà mai, poi quando hai perso tutte le speranze, quando lacrime e sangue hanno intaccato solchi d’amarezza scavandoti il cuore riducendotelo a brandelli, in quell’istante può esaudirsi qualsiasi cosa, come una stella di Natale entusiasta, frenetica e illogica, che per autocombustione s’accende in modo fulmineo allietando e vivacizzando la notte più fosca e tetra della tua esistenza.

Lei era molto intirizzita, questo era ovvio e tangibile, avvolta nel soprabito corto che scopriva magnifiche porzioni di merce in vendita, artificiosamente ossuta e scarna con le gote infiammate dal gelo mi fissava per l’occasione con occhi amorevoli, bonari e indulgenti. Nessuno, dall’infortunio, m’aveva più osservato in quel modo, probabilmente nemmeno prima, eppure sembrava che quella donna seppur totalmente forestiera avesse pienamente la capacità, la competenza e la vastità di discernere ravvisando e comprendendo, spingendosi in ultimo oltre il rivestimento deforme della membrana che accoglieva il mio animo afflitto e sofferente. Non aveva dubbi né inquietudine né paura né sgomento, nessuna diffidenza né indecisione nel suo sguardo né nel suo atteggiamento, nessun segno di ribrezzo. Per un istante mi sentii come se al posto mio ci fosse un’altra persona, rapidamente mi girai addirittura per accertarmi che in realtà non stesse guardando qualcun altro oltre le mie spalle, ma là intorno non c’era nessuno.

In quel momento, voltandomi, individuai nuovamente il suo armonioso e tenero sorriso, giacché non potei fare a meno di ricambiare, anche se sapevo che al massimo sarebbe sembrato un ghigno, eppure lei non staccò lo sguardo. Lei si faceva appellare Ludovica, perché senza pretendere avevo cognizione che non era il suo nome vero, tenuto conto che quello riposava inattivo scordato negli avvallamenti dell’intelletto infossato tra rammenti ammassati di quelle innumerevoli increspature amare, infauste e sfortunate, fintanto che nell’auspicio e nella chimera di sopravvivere a se stessa e di riguadagnare un bilanciamento, negoziava la penitenza giornaliera della sua inclinazione atipica e inconsueta, con la creazione di un’identità nuova e diversa. Capivo anche senza sapere. Non m’importava.

Io le domandai se avesse un posto dove andare, profetizzando le scuse imbarazzate e turbate che stavano per sopraggiungere. Un’infinità di volte le avevo origliate negligentemente, durante il tempo in cui i miei occhi sfogliavano e divoravano giustezze, obiettività ed esattezze differenti nelle iridi delle mie interlocutrici occasionali, ciò nonostante lei non inventò frottole né imposture di circostanza, perché sorridendo in maniera demoralizzata e scoraggiata mi sollecitò piuttosto se potessi portarla a casa mia, io senz’esitare misi in pratica l’evento senza fare domande. In nessun caso, prima d’allora, mi ero reso conto di quanto fosse insulso e minuscolo il mio appartamento. Accumuli d’indumenti sparpagliati e stoviglie affastellate ci accolsero con il caratteristico olezzo di chiuso, di muffa rancida, peraltro esanime, inerte e sfuggente, così come precisamente le piaghe individuali che ambedue agognavamo di celare e di mimetizzare vivendo. Svestendosi del pastrano cercò d’imprigionare il mio sguardo trasognato nell’ammirazione del suo corpo chiedendomi:

‘Immagino tu abbia qualcosa da bere?’ – chiese nel frattempo, accomodandosi su d’un ammasso di braghe che avevo appoggiato sulla poltrona, sebbene il disordine fosse spropositato lei appariva reputandosi pacificamente a proprio comodo.

‘Per il momento ho soltanto del latte in bottiglia’ – replicai io desolato e sconfortato. In realtà non ero abituato a ricevere visite, ed era già tanto se c’era quello, cosicché attesi il suo mansueto rifiuto, eppure lei mi stupì nuovamente annunciando:

‘Molto bene, nessuna catastrofe, a questo punto riscaldalo, berrò quello’ – perché avvicinandosi m’abbracciò sfiorandomi un lobo con le labbra.

Io mi voltai in cerca del suo sguardo controbattendo all’istante:

‘Toglimi una curiosità? Non t’allarmo, non ti terrorizzi della mia presenza? – domandai io incuriosito e intrigato.

Lei sorrise aggiungendo prontamente se io avessi per caso orrore e sospetto di lei, tenuto conto della sua esile, fragile e rinsecchita figura. Avrei voluto risponderle, riferirle parecchie cose, spiegarle che giammai mi era capitato di stare così vicino a una donna da quando avevo avuto l’infortunio, raccontarle di beffe calunnianti, di scherni infanganti e di farse scellerate, di prese in giro bieche, disdicevoli e indecorose, come le persone che me le avevano procurate. Discorrere di sentimenti masticati e sputati da baldracche che mi motteggiavano dagli angoli delle strade, quando rispolveravo il coraggio di sollecitare il prezzo del loro amore ingannevole e negato, di quanto rimpianto frammisto a odio mulinava vorticando nel mio animo, nel tempo in cui in emarginazione vagheggiavo su qualcuno che potesse vedere di sfuggita, oltrepassando il limite delle esteriorità e delle prassi, l’amore e la passione che bruciavano in me, tuttavia non ebbi il tempo, perché prima che potessi controbattere mi baciò togliendomi la voglia di pensare.

Io con intraprendente delicatezza la sospinsi verso il tavolo gremito di suppellettili ammassate, mentre le sue cosce vellutate s’agganciarono dietro la mia schiena, offrendomi un contatto frusciante con il punto più arroventato del suo corpo. Afferrandomi il viso seguì con la punta della lingua il contorno delle mie labbra, mentre mani irrequiete e precipitose iniziarono a sbrindellare le superflue separazioni di tessuto, che dividevano i nostri corpi, frattanto le sue unghie laccate e appuntite mi solleticarono collo e schiena, finché udii:

‘Voglio prendertelo in bocca, dammelo perché voglio giocarci’ – mormorò lei con la voce arrochita.

Lei in quel momento ammaestrava il mio glande fra le sue labbra tumide e boriose con quel rossetto sporcato, io assaporai lentamente la sua lingua sul mio frenulo teso al limite, mentre la sua mano insalivata massaggiava accortamente il mio scroto in punti mai esplorati né setacciati prima. Inghiottendo il mio cazzo in erezione cominciò a muoversi in maniera frenetica, mentre la lingua indomita continuava a sferzarmi con rapidi colpi. Fermandola per un istante cambiai posizione, perché volevo osservarla, cosicché inclinandomi tra le sue cosce inspirai l’intenso e penetrante aroma della sua fica arrossata, mentre la mia lingua perlustrò la sua piccola erezione che cominciai a succhiare. L’orgasmo repentino la scosse in ondate improvvise, nel momento in cui gemendo con la bocca piena cominciò a inghiottire gli spruzzi del mio denso piacere accumulato contemporaneo al suo. Sollevandomi le divorai un seno, mentre la sua mano discese in cerca del mio desiderio insaziato da guidare all’interno del suo corpo. Penetrandola mugolai di piacere e di dolore, smarrito nella completa e suprema cognizione del mio peccato carnale, mentre i fiotti degl’inarrestabili orgasmi che stava vivendo e gridando m’inondavano il torace e la faccia, incitandomi a proseguire oltre ogni limite da me conosciuto.

L’indomani, quando riaprii gli occhi, percepii che era andata via senza svegliarmi, però sul comodino, in ricordo della sua presenza, restava soltanto un piccolo foglietto spiegazzato, accanto al denaro che non aveva giustappunto voluto prendere:

‘Chiamami quando vorrai, se ti farà piacere’ – lessi, aprendolo. Il suo numero di cellulare era stato scritto con la matita per gli occhi in una grafia tondeggiante e sbavata.

Sospirando, in quel frangente leggermente incredulo m’accesi una sigaretta, assaporando nell’odore del fumo mattutino il delicato aroma che la sua pelle felpata aveva lasciato in retrogusto sulla mia lingua, perdendomi senza tempo nell’osservazione delle numerose e auspicate occasioni che salivano autonome e ingrate verso il soffitto che scrutavo all’interno di quel minuscolo alloggio.

Invidiando la loro leggerezza e gongolando nel profondo, iniziai a arrovellarmi, a estenuarmi per la mia bassezza, per la mia persistente codardia, per tutti i sensi di colpa che si stavano risvegliando, per il suo sorriso che non riuscivo né volevo in nessun caso dimenticare.

Riflettei a lungo ragionando senza meta, senza senso, senz’ideale né scopo né proposito alla mia unica stella di Natale, all’unica, impareggiabile e meravigliosa che avevo avuto tra le mani, riguardai il biglietto, poi acciuffai l’accendino e lo bruciai nel posacenere.

{Idraulico anno 1999}

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