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Diario di una Mistress – Giorno 4

By 13 Novembre 2025No Comments

Preghiere spezzate

Ho tirato la corda finché non ho sentito il suo collo cedere al mio volere. L’ho tenuto stretto come fosse al guinzaglio, lì, davanti all’altare. Non volevo fare tutto di fretta, non volevo disperazione immediata. Volevo che il luogo stesso lo addomesticasse, che la pietra fredda dove era inginocchiato, entrasse nella sua pelle come ricordo.

Gli ho tolto gli indumenti poco alla volta ma con gesti rapidi e affilati; non l’ho spogliato per esibirlo in innocenza o per una mia curiosità personale, ma per renderlo disponibile alla mia volontà. La pelle chiara risaltava sotto i raggi di luce che filtravano dai vetri appannati; la sua erezione, inutile come una promessa disattesa, dava alla scena una vergogna rumorosa che non ho esitato a sfruttare.

Per prima cosa ho acceso l’incensiere trovato vicino alla sedia dove di solito siede il prete. L’odore dell’incenso, dolce e amaro, ha riempito l’aria con un’aura di sacralità contaminata. Ho fatto oscillare il braciere sopra la sua testa, lasciando che il fumo gli sfiorasse il volto, insinuandosi nelle sue narici mentre lui cercava aria pulita. Ogni inspirazione era qualcosa che non gli apparteneva più: respirava la mia disciplina, il mio comando.

Lo stavo purificando, dai suoi peccati. 

Gli ho ordinato di inginocchiarsi con la schiena al bordo dell’altare. Le sue ginocchia toccavano il marmo freddo; il petto era scoperto, il ventre teso. Ho preso una candela larga e robusta, l’ho accesa e ho cominciato a far cadere la cera in una sequenza deliberata: prima una goccia sul petto, una seconda ancora più in basso, poi sul ventre. La cera era il mio strumento per comandare il tempo: lenta, incisa, personale. Ogni goccia solidificata diventava monumento a ciò che gli apparteneva di me… la memoria della mia decisione, infissa nella carne.

Non ero interessata a sfiorare la sua virilità per dargli attenzione, volevo che sentisse tutto il mio potere su di lui. Così ho portato il braciere verso la grande acquasantiera, ho preso l’acqua stagnante al suo interno con una ciotola e senza avvisarlo gliel’ho versata addosso. Non era l’acqua pulita di un rito: era torbida, odorosa, sporca. Come lui.

L’ho colata sul suo petto, sentendo le goccioline scivolare tra i rivoli di cera. Il contatto era umiliante: una finta purificazione che invece lo marchiava.

Poi gli ho infilato in bocca il rosario spezzato, i grani ruvidi che gli premevano sulle gengive. “Stringilo,” gli ho detto. Non era una preghiera, era un’ imposizione: la corda di perline era la sua parola forzata, l’unica ripetizione ammessa. Quando cercava di mormorare, gli chiudevo la mascella con una mano; il suono doveva essere solo quello che io decidevo di sentire.

Ho deciso però di aggiungere una pressione che fosse più sottile e continua: ho stretto intorno al suo basso ventre una cintura di corda ruvida, avvolta più volte, poi fissata con un nodo. La corda creava un limite, una costrizione che stringeva la respirazione, accentuava ogni battito e lo rendeva ipersensibile a ogni mio tocco. Appoggiai la punta di un rosario al centro della corda, come fosse un segno. 

“Questo è il tuo nuovo confine,” gli sussurrai a denti stretti. “Non superarlo senza permesso.”

Camminavo attorno a lui con calma distruttrice; ogni tanto passavo le dita sulla cera indurita, per poi strapparla di colpo, facendolo urlare e lasciandogli i segni della mia perfidia addosso. Quando la mia mano scendeva verso il suo cazzo, lui sussultava. La tensione sale quando la risposta è negata: il suo corpo tremava, ma non merita di provare sollievo ed eccitazione grazie alle mie mani. Io ho il controllo pieno su di lui e non deve dimenticarlo. 

Per riportarlo alla realtà ho preso un altra secchiata di acqua fredda, rovesciandola lungo la sua schiena sudata. Le gocce che scendevano sul cazzo gli lasciavano una sensazione appiccicosa, fastidiosa; non era sollievo, era una molestia che lo teneva in allerta come facevo io. 

“Ricordati di oggi, ricordati di ciò che ti ho dato. Tu vivi solo grazie a me, altrimenti sei il nulla.” ho detto, e la sua gola ingoiò aria che puzzava di incenso e antichi peccati.

Gli ho ordinato di recitare una frase, di continuo, fino a che non fosse diventata meccanica:

 “Io obbedisco.”

Voce spezzata, senza melodia. Ogni errore veniva corretto con la pressione delle mie dita che pizzicavano le sue palle, o un rapido schiaffo che gli ricordava che si trovava di fronte alla sua dea. Quando la voce si faceva più ferma, lo facevo sentire importante, concedendogli un:

 “Bravo verme”. 

Volevo vedere anche il suo orgoglio umiliato da piccoli dettagli: con la punta di una penna nera ho scritto sulla sua pancia una parola minuscola, visibile solo a chi si chinava abbastanza per leggerla. Era la mia sigla, il marchio che troverà la notte quando cercherà di cancellare il ricordo o quando proverà mai a far avvicinare qualcuno che non sia io. Ogni segno che gli lascio è sia promessa che condanna.

Il tempo si è piegato: ogni minuto con la cera, l’acqua, il rosario e la cintura ha inciso in lui una memoria che non si cancellerà subito. Non ho cercato di spezzarlo nel corpo, ma nella sostanza: lasciandolo vulnerabile, dipendente, con la bocca piena di perle che non possono pregare santi, ma solo obbedire me, e le mani legate dietro la schiena come suppliche.

Quando mi sono alzata per uscire, ho afferrato i suoi capelli facendogli alzare lo sguardo per guardarmi, donandogli un promemoria. 

“Resta qui,” ho detto con arroganza. “Prega il tuo rosario come conviene. E ricordati: la purificazione che ti ho dato è solo mia.”

Sono uscita dalla chiesa senza voltarmi. Sentivo solo l’eco dei suoi respiri, il gocciolio dell’ acqua che cadeva, le perline sputate che cadevano e rotolavano a terra. La chiesa ha inghiottito tutti questi suoni, trasformandoli in una preghiera rotta e permanente.

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