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Racconti Erotici

ERA LA PRIMAVERA DEI SENSI E DEL PIACERE

By 3 Maggio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Era la primavera dei sensi e del piacere.
Una giovinezza perpetua e senza tempo, destinata a non svanire mai.
Ne brillavano le luci vaghe dell’aprile, delle estati tristi, fatte di sofferenza ed oblio, scontate all’ombra turchina dei faggi, vicino ai tulipani appassiti.
Tu scintillavi ed eri tanto, tanto assente, quanto le figure cupe e senza volto, che erravano nel bosco, in cui si erano spenti i mille e mille giuramenti di passione.
Io giocavo, tu giocavi, egli (il tempo) giocava a rincorrere ogni cosa, tra le edere lussureggianti, i fiori bianchi, le margherite appassite, perché c’erano due vite.
Erano la mia, la tua, nient’altro, soltanto un vago pianto di cui bruivano gli specchi d’acqua verde e le rose smarrite tra le spine.
Non ricordo il tuo nome, né ricordo il mio. Non rammento la sensazione vellutata dei gigli, né la presenza favolosa dei tuoi tigli, dove facevano il nido le tortore bigie e si posavano le allodole più amiche.
Indossavi una mascherina nera, che ti copriva il volto attorno agli occhi, mentre con la mano accarezzavi tutti i tuoi germogli. Accecavano i raggi di rame dell’astro del giorno, ma non le prime luci dell’aurora, né il lume delle lanterne dei villaggi, mentre sospiravamo, tra gli affanni, dell’eterno vivere di quell’illusione, nata dall’impossibile, per non finire mai.
Ma come, come era possibile che l’avvenenza del tuo volto e del mio volto non potesse essere intaccata dal tempo e dalle sue usure, terribili e così cupe? Le tue labbra scarlatte avevano sempre e solo vent’anni, compiuti da ieri; i tuoi lunghi boccoli, ornati di ghiande silvestri, erano veli, morbidi e leggeri, le tue guance erano di bambola, no, anzi, di fata, col cappello turchino sul capo e la bacchetta magica stretta nella mano.
Ignoro quanti fossero i tuoi anni, quante volte il sole e la luna si fossero rincorsi nel cielo dal giorno in cui avesti i tuoi natali sino a quell’epoca di incanti.
Brillavi di occhi di rugiada e di pelle ornata di mimose, delicate, soavi ed odorose. A tratti ti denudavi, lì sull’erba, facendomi succhiare la linfa vitale delle tue membra, dove sapevi non c’erano le serpi, nere ed insidiose, e le farfalle s’involavano nell’etere voluttuose.
Io vivevo, tu vivevi, egli (il tempo) viveva di una primavera senza fine ed incessante. Ti prendevo all’improvviso, ti possedevo nuda, magari davanti a uno sguardo furtivo, di qualche spione che si celava dietro un vepre od un rododendro dalle giganti fronde. Tu tacevi e sorridevi sempre. Ti posavi il dito sulle labbra, lo passavi sulle mie, piangevi e ridevi insieme, alzavi in aria il piede e la caviglia, giocherellavi nuda con una collanina vermiglia.
Ci eravamo consacrati all’eterna primavera dinanzi ad una fonte, di marmo bianco, che gli elfi avevano costruito nella foresta grande, accanto alla torricella dimenticata, dove un tempo (nel Seicento) depositavano gli archibugi. Allora, avevi chiamato a testimoni le upupe consolatrici e le tortore canore, che s’erano posate sulle nostre spalle nude, mentre facevi scorrere sulle nostre membra senza veli le acque incantate dell’infinita giovinezza, raccolte con un mestolo d’oro puro.
Poi, con le tue labbra carnose e scarlatte avevi proferito quell’antica formula magica:
– Je ne ferai que vivre heureuse de mes r’ves, de ma vie, qui éblouiront de plus en plus apr&egraves que ces eaux auront touché mon corps et mon esprit’ Le printemps éternel ne nous laissera jamais’
Poi, la tua dolce bocca si chiuse e tacque, nell’inclito silenzio del bosco e dei tuoi amici tutti.
Ricordo che una volta avevi pianto, sì, avevi molto pianto e mi mostravi il tuo bel volto ricoperto di lacrime, sotto la luce fredda del sole di una di quelle estati. Un orco ti aveva presa a schiaffi e le tue morbide guance ancor recavano i segni bruttissimi di quel misfatto. Mi raccontavi singhiozzando di come ti aveva inseguita, di come ti aveva afferrata brutalmente, dicendoti mille e mille cattiverie’ Ti aveva presa e tu avevi cercato inutilmente di difenderti’ Vi eravate rotolati sull’erba fredda, più e più volte, mentre quel cattivo ti gridava di volerti strappare gli occhi’ Poi, tu eri caduta, infelice e disperata, sui rovi, tanto, tanto spinosi’ Oh, sì, sì, sì, era andata così!
Alla fine, il perfido si era allontanato, promettendoti di nascondere una tagliola nel bosco, per prenderti, per catturarti, sì’ L’avrebbe fatto presto, molto, molto presto, sì!
Tu eri la mia sola, dolce amica, troppo bella e giovane per non suscitare l’altrui invidia’ L’orco voleva porre fine ad ogni tua felicità’
– Non ti rivelerò mai il suo nome, perché se tu cercherai di difendermi, lui ti ucciderà! – mi sussurrasti, negli orecchi.
Le parole tristi si smarrivano nel silenzio grande di quell’eterna primavera perduta. Le parole tristi sapevano di pianto ed evocavano le memorie confuse del passato’ Ascoltandole, discernevo vaghe le torri degli orologi, le torri dell’Ovest, nere come la pece, che svanivano nei cieli pieni di vento, di fuoco e di brume, e dalle quali mi giungevano le voci dei corvi, di quanti erano partiti, per non ritornare mai più, degli amanti inconsolabili, che non potevano riabbracciarsi, di coloro che si dicevano addio, addio per sempre.
Ed io cercavo, cercavo di sapere chi fosse l’orco, quale fosse il suo nome, per poi inseguirlo, nel caso in cui avesse fatto dell’altro male all’innocente. Ma non v’era nessun’anima buona, giù al villaggio, nessuna, che volesse rivelarmi chi fosse. Vi si potevano trovare soltanto delle case, fatte di sassi e di fango, che parevano abitate da fantasmi, dai volti mascherati e pronti soltanto a schernire e a fare gli scherzi più crudeli, a prendere a bastonate l’ignaro passante, a imbrogliare e a mentire.
– Guardate! Guardate! E’ arrivata la pecorella del bosco!
Udii le loro parole di scherno, vidi le loro maschere bianche, i loro vestiti neri, strappati, fatti a brandelli, le loro scarpe sfondate. Uno di essi mi fece lo sgambetto e caddi nella mota.
Poi, fuggii.
Quell’episodio fu una nube, che passò nel cielo di sogni dei nostri istanti e delle nostre amate lusinghe, piene, piene di faville.
Ti ricordi? Nel bosco, lungo il viale di sassi, piantato a faggi, c’era una vecchia scuola abbandonata, dai muri scarlatti e un po’ sconnessi, il tetto aguzzo e spiovente, come si usava in quel paese di malinconia. Una delle finestre aveva il vetro infranto. Fuori, dipinta sui mattoni, c’era ancora la scritta, a lettere gotiche, ‘schul’. In una delle stanze erano rimasti dei banchi di legno. Tu eri la mia bella, che si sedeva mentre io le facevo da maestro. Era facile consumarvi un dolce amplesso. E nessuno dei nostri istanti apparteneva al tempo.

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