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Giochi di ruolo

By 9 Settembre 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

r32;Oggi mi chiamo Anneliese. Sono una studentessa ventenne da poco trasferita ad Haarlem, da Amersfoort, dove studio poco e male solamente per compiacere mio padre, avvocato nella piccola cittadina, e mia madre, segretaria dell’avvocato. Ripasso la parte in treno, mentre nelle cuffiette ascolto la top 50 pop su spotify, con molte canzoni che non mi piacciono, ma piacciono per forza al personaggio che ho deciso di interpretare. Un personaggio che ha poco a che fare con la brillante professionista 27enne che sono nella vita reale, con un solo punto in comune: a entrambe piace il sesso e non riescono a starne senza. Guardo l’orlo della minigonna, è decisamente corta. Di fronte a me, un marocchino dorme, al suo fianco una donna avanti con l’età mi osserva con disgusto e malcelata invidia.
La dimenticherò nel momento in cui mi alzerò e mi guarderà ancora. Le minigonne corte le porto anche quando sono Deb, la vera me. Da sempre, direi da quando avevo 14 anni sono capace di portarle con disinvoltura, stile. Ne avevo una in ufficio oggi che un amico italiano a cui ho mandato la foto ha commentato così : “Sei super troia in questa foto, ma troppo raffinata. Eleganza naturale: ti rende troia il modo di proporti così”. Che poi, amico. Non è un amico. Per quello che ne so, è sulla 50ina, scrive da dio, e, per quello che mi dice, è un gran porco con le sue amanti, quasi tutte sue colleghe. Non so se sia vero, così come magari lui ha dei dubbi sui miei resoconti, ma chissenefrega: stiamo bene così, ed è forse la persona che conosce di più i miei lati nascosti. Ha creato un personaggio che somiglia molto alla vera me, e io per gioco oggi voglio assomigliare ancora di più al suo, prendendone in prestito il nome e alcune fantasie. Tornando alle minigonne. Quella del lavoro era corta, ma effettivamente più nel mio stile e si sposava alla perfezione con quello indossavo ieri mattina, collant compresi. Questa minigonna di pelle con le frangette è corta uguale, ma è più ampia, meno elastica e soprattutto la uso a gambe nude. Di sera, con 14 gradi. Ma siamo in Olanda qua, fino al primo giorno di autunno ci copriamo abbastanza poco… Ho abbinato uno stivaletto chic, ma in pochi guardano le scarpe di una ragazza che ha praticamente tre quarti di coscia nuda.’

Quando il treno sta per arrivare a Haarlem, Deb sparisce completamente, e divento Anneliese. Penso esattamente come ho deciso che pensa lei. Agisco come fossi lei. Apro la borsetta e cerco lo specchietto, mi sistemo l’eyeliner, un po’ più marcato rispetto a quello che porto ogni giorno. Ad Anneliese piace truccarsi in pubblico, gli occhi addosso. Sorrido, e con l’Iphone mi scatto un selfie con le labbra arricciate. Uno ovviamente non basta, ne faccio cinque leggermente diversi e poi invio il risultato migliore a Alex. Alex è un personal trainer che ho conosciuto l’altro ieri, qui ad Haarlem; ha un fisico pazzesco, due braccia forti, spalle larghe e bacino stretto. Dice di essere alto 1,96, ma non posso verificarlo: qui in Olanda i ragazzi sono tutti esageratamente alti. Mi ha scopata (o ha scopato Anneliese, non importa) nella palestra dove lavora, un paio d’ore dopo che ci eravamo conosciuti al bar. E’ stato bello, talmente bello che io volevo rivederlo il giorno successivo, ma pioveva e lui probabilmente aveva appuntamento con un’altra sgualdrina che pendeva dalle sue labbra. Non come me probabilmente, visto che ho fatto l’oca via messaggio finché non mi ha dato appuntamento: “Alle 22 al bar dove ci siamo conosciuti”. Ho risposto cose che solo una perfetta cretina scriverebbe. “ho già voglia di te”. “Non vedo l’ora di assaporare un tuo bacio”. “Mi piace quando le tue braccia forti mi tengono ferma” e cazzate così. Alex visualizza la foto ma non risponde. Non ho tempo per pensarci perché devo scendere e far mente locale su come arrivare al bar senza perdermi nelle stradine tutte uguali di questa meravigliosa cittadina. Mi alzo lisciando la gonna, a dei ragazzini che erano in un’altra fila cadono mandibola, lingua e occhi. Fossi Deb direi loro: “Li ritrovate all’ufficio oggetti smarriti, forse”. Siccome oggi sono Anneliese, chiedo permesso con un risolino da oca: chissà a chi penseranno quando si masturberanno stasera.”

Scendo dal treno e me la risistemo, stavolta tirandola un po’ verso il basso. Anche nella civilissima Olanda, le stazioni e i suoi esterni sono popolate da sbandati. “Lekker Kontje” li chiamiamo, significa letteralmente “bel culetto”, perché loro, in genere turchi, magrebini o italiani, lo “sussurrano” ad alta voce a ogni donna che passa, accompagnato da un fischio. Non sono femminista, ma a me dà più fastidio che piacere, sarà una questione culturale. Passo l’enorme parcheggio delle bici, e mi infilo nella via che passa verso il centro. Passato Kruisbrug, cominciano i bar un po’ più raccomandabili e posso smettere di aggiustarmi la minigonna ogni dieci passi; sono in anticipo, o meglio, sono in anticipo sul tatticissimo ritardo che ho di solito. Così mi siedo ai tavolini di un bar in una via che porta verso Smedestraat e il Grande Mercato. Ordino una coca zero e mi accendo una sigaretta, penso sia addirittura tipo solo la seconda della giornata. Scrivo ad Alex, sforzandomi neppure troppo di essere “la nuova me”. “Sono quasi arrivata” e ci aggiungo due righe di emoji che a un adulto dotato di cervello sarebbero forse incomprensibili. Mentre offro generosamente ai turisti tedeschi cinquantenni una visione delle mie gambe che cambiano l’accavallamento (sentendo un “bella vista ad Haarlem” sussurrato in tedesco mentre tracannano un sorso di una birra che a occhio non deve essere la prima della serata), mi vibra l’Iphone. Non è Alex. E’ una mail. E’ il cinquantenne italiano che mi scrive. “Buona serata troietta. Però io fossi in te mi presenterei senza mutandine”.’
La vera me l’ha fatto più volte. Ho sostenuto incontri di lavoro, presentazioni ai clienti , serate con ragazzi, feste in discoteca in vestitini poco più lunghi e senza mutandine. Non posso dire di essere abituata, ma ho un’eleganza e un controllo dopo anni di pratica: sono moderatamente convinta che nessuno a cui non l’abbia voluto far notare, abbia nemmeno mai avuto il dubbio. Ma così, nel mio ruolo di sciacquetta bionda, la cosa mi lascia un po’ perplessa: una cosa è essere in controllo più o meno completo del proprio corpo, e non esserlo in un ambiente protetto o almeno ‘ come nel caso di una discoteca ‘ dove sai che qualche mano può scivolare ma ci sono centinaia di occhi. Un’altra è trovarsi in un bar di una città che non è la tua, con una persona che hai visto una sola volta. Tra l’altro ho messo pure un intimo abbastanza carino, mentre quello di ricambio che ho in borsetta è piuttosto anonimo. ‘Fuck it’. Vado verso il bagno , che, come spesso capita qui in Olanda, è al piano interrato, ed è unico. Davanti a me in fila, uno dei due tedeschi: le birre si pagano, dentro deve esserci l’altro perché quando mi son alzata non c’erano più. Con gentilezza molto cavalleresca, l’uomo mi fa passare. Faccio la pipì, mi asciugo bene , e sì, tolgo le mutandine. Lo faccio in piedi, facendo estrema attenzione che non tocchino né il pavimento né la suola dei miei stivaletti. So che è stupido, in fin dei conti mi siederò su sedie non certo igienizzate, ma sono un po’ fissata. Ed è una cosa molto da bionda. Il lampo di genio però Anneliese ce l’ha mentre sta mettendo il perizoma nero di pizzo in borsa. E’ proprio lei che ce l’ha, perché io sono una zoccola elegante maliziosa. Lei è proprio scema e vuole darlo a vedere. Non ci praticamente penso nemmeno. Le mutandine in lycra di ricambio, molto semplici a dire la verità, passano sulla mia micia per lasciare un po’ di odore; le lascio sull’appendiabito sul retro della porta del bagno, ben visibili. E’ impossibile non notarle per riaprire la porta. Esco, il tedesco mi sorride e mi dà il cambio. E mi metto a lavarmi le mani, calma e lenta. Sono germofobica no? Tempo di sentire la serratura scattare, ed è il momento di salire. ‘Genie’e die Aussicht, mein Freund (Enjoy the view, my friend)’. Vorrei gridarlo, o sussurrarlo. Ma non sono Deb. Sono Anneliese. Lo dicono i miei occhi. è il mio lento incedere mentre salgo le scale a chiocciola a urlarlo.’ Fuori ci sono sedici gradi. Cammino leggera, ancheggiando ma in maniera non certo esagerata. Alex mi aspetta in un bar alla moda, poco olandese a dire il vero, sembra più di quei locali molto milanesi dove ti rifugi a bere prima di andare in discoteca. Lo scorgo al bancone, lontano dall’ingresso; il contatto delle gambe nude con il dorso di qualche mano è inevitabile, e lo assecondo distribuendo sorrisi da idiota dicendo ‘Sorry’, che è anche olandese visto che, incredibile, in questa lingua non esiste la parola ‘scusami’ né la locuzione ‘è permesso?’. Ora, mentre lo penso come Debbie, ci potrei scrivere un trattato su questa cortesia non cortese del paese di cui era originaria mia madre e in cui ho scelto di vivere. Anneliese invece non ha il cervello per pensarci – è olandese no? -, e soprattutto ha fame dei riccioli e dei muscoli di questo ragazzo dal fisico d’acciaio che ha conosciuto solo due giorni prima. Se uno mi conoscesse davvero, vedrebbe da cento metri che il sorriso è forzato. Siccome lui di me non sa nemmeno il mio vero nome, lo esagero come avessi quattordici anni e vedessi il ragazzo che mi piace e che so che non mi fila. Lui è oggettivamente bello. Un accenno di barba incolta, capelli scuri come i suoi occhi, e una maglia attillata con scollo a v non esagerato che mette in mostra quel ben di dio, dai bicipiti tatuati (solo il destro, con la manica’) a pettorali e addominali. Del resto, se io sfoggio questa minigonna è perché tutti mi guardino le gambe. Perché non dovrebbe valere per lui? L’atmosfera è piacevole e la musica non è troppo chiassosa, lui sembra un po’ distaccato ma gli olandesi sono così. Siamo nell’angolino del bancone, in fondo, lui sul lato corto e io su quello lungo, di tre quarti, vicino a una ragazzona di quattro taglie più grande di me. ‘Stai bene così’. Me lo annuncia, senza un minimo di inflessione o di emozione. ‘Echt?’.SO che lui dovrebbe parlare olandese e io italiano, in questo racconto. Ma ‘Echt?’ significa ‘Davvero?’. E una biondina infatuata di un ragazzo con un fisico da David di Michelangelo lo dice almeno una volta ogni minuto, affascinata da qualsiasi scemenza dica l’interlocutore. Così inclino la testa leggermente verso sinistra, sbatto le palpebre, mi passo la mano sinistra tra i capelli e appoggio la destra sulla coscia, dove la gonna finisce. “Eeeecht?” (“Davveroooo?”). Sento improvvisamente caldo lì sotto. Parecchio caldo e umido. Dondolo sullo sgabello e ordino due tequila. Il cameriere mi squadra, non è lo stesso di mercoledì. Per quanto ci sia il bancone in mezzo, direi che mi fa proprio la radiografia. Scommetterei che è italiano, si fanno sgamare subito. Fossi me, lo sfiderei con lo sguardo. Invece lo abbasso, timida, giocherellando con l’orlo della mini mentre mi rigiro verso il mio Alex.

Ogni donna lo sa. Una minigonna può essere allo stesso tempo troppo corta o troppo lunga. È una questione di postura, che ti insegnano fin da bambina. Quando hai abitini estivi, o le prime gonnelline, mamma e soprattutto papà ti riprendono ogni volta che, quando sei seduta, tieni le gambe aperte e si vedono le mutandine. Così, di riflesso condizionato, per tutto il resto della vita, istintivamente le chiudi, o le accavalli per stare più comoda. Quello che c’è in mezzo, non lo devi mai far vedere in pubblico. A meno che non si nasca zoccole come me, con una mini corta, in un bar affollato, per giunta. senza mutandine. Attirata l’attenzione di Alex con uno stratagemma (giocherellare con l’orologio con le mani in grembo), apro leggermente per un periodo di tempo che mi sembra infinito, soltanto in direzione sua. Fossi la vera me stessa, lo fisserei negli occhi. Invece visto che sto recitando la parte di una biondina, abbasso lo sguardo, accavallo e faccio finta di nulla. Lui se ne accorge, è evidente, ma non dice nulla. Ordina la seconda tequila e mi mette una mano sul ginocchio, o meglio, sopra il ginocchio. “Ma davvero ancora una? Non voglio ubriacarmi”, protesto con la voce più fintamente lamentosa che riesco a fare urlando. Ma così come è scesa la prima tequila, altre cose scendono: le mie emozioni, il mio sangue, il mio respiro, lo sento tutto concentrato sotto. È una situazione che fatico a comprendere, ma è come se il cervello – quel poco di cervello che ha Anneliese – non ce l’avessi più. C’è solo la mia figa che pensa. Per assurdo, se mi alzasse la minigonna e mi mettesse lì due dita dentro a darmi sollievo, non protesterei. Chissenefrega del pubblico, delle conseguenze. Ho bisogno. Ora.
Sorrido idiota al cameriere e ad Alex giochicchiando con i capelli mentre mi preparano la tequila, il sale e il limone. Batto forte il bicchiere sul tavolo e butto giù, sono sicura che i due si guardano e si scambiano un cenno d’intesa: “Ma dove l’hai rimorchiata questa idiota?”. Ecco, mentre la tequila scende, al pensiero che telepaticamente il cameriere e il mio accompagnatore mi vedono come un’oca senza dignità, indistintamente sento il primo crampetto. Lo riconosco. E mi riconosco. Così, scendo dallo sgabello senza badare troppo a tirar giù la gonna (che infatti sale lasciando scoperta mezza chiappa) e ancheggiando mi dirigo verso l’esterno per fumare, con la sigaretta spenta già in bocca come una tossica. I due si guardano ancora. E io, cazzo, mi bagno.

Esco, accendo e mi appoggio al muro. La posa è quella molto instagrammosa, culo incollato al muro, dove mi appoggio con un piede all’altezza del ginocchio. È molto comoda e sexy, soprattutto perché la gonna si accorcia leggermente. Stranamente nessuno mi si avvicina. Anzi no, tempo dieci secondi ed esce Alex. Lui è un non-fumatore-rompicoglioni, non era mai uscito a cercarmi nelle mie pause. “Anneliese” mi chiama. Io che nel momento non ero proprio calata nella parte godendomi la sigaretta, per un attimo lo guardo stralunata. Meno male che il mio alter ego è scema. Lo guardo, è proprio bello. O meglio, ha un fisico di quelli “prendimi e portami via”, da “portamigiùdovenositoccadovelavidaèloca”. Si avvicina, mi raggiunge, mi fissa inequivocabilmente, e mi bacia. Appena mi mette la mano sul fianco, l’eccitazione comincia a salire: quando io mi eccito, sono come una partita di ping pong. Lingua in bocca: crampetto. Mano su fianco: botta al cervello. Dita che giocano dove finisce la minigonna: sensazione di goccioline che stanno per strabordare. Lingua sul collo mentre divoro con un’ultima boccata la sigaretta: cervello che implora la mano di salire. Mano che incurante dei possibili sguardi a non più di dieci metri che finalmente trova il calore: sospiro a pieni polmoni con tutto il fumo che esce e sensazione distinta di bagnato. Pollice che gioca con la mie labbra che colano mentre mi sussurra “sletje” (troietta): vene del cervello che battono come se stessero per scoppiare. Pollice che mi penetra mentre chiudo gli occhi e accetto la mia condizione: livello spugna intrisa, che appena la tocchi gocciola. “Andiamo via ti prego”. “Ora?”. “Portami in palestra ti supplico”, piagnuccolo.

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Deb

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