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Maledetto piercing

By 28 Ottobre 2015Ottobre 2nd, 2021No Comments

Qualche anno fa io e mia moglie Daniela acquistammo una villetta a schiera in Brianza, per sfuggire allo stress della città. Non ci siamo mai pentiti di quella scelta anche se raggiungere i nostri rispettivi posti di lavoro a Milano era diventato più complicato, malgrado il buon servizio delle Ferrovie Nord.
Siamo giovani, sportivi, appena sopra i trent’anni, ancora senza figli, ma amiamo lo sport, la natura, la vita all’aria aperta e non siamo attirati dalla movida notturna milanese. Abbiamo lasciato quindi la città senza rimpianti.

La nostra villetta è la terza di una serie di cinque e presto abbiamo fatto amicizia con gli altri proprietari, al punto di diventare un gruppo molto unito. I coniugi Farina, a quarant’anni, erano i più “anziani” ed erano gli unici ad avere dei figli, due ragazzini che erano talmente in confidenza con tutti gli altri da essere considerati figli di tutti. I Farina avevano la villetta di testa, quella col giardino più grande dove spesso, nella bella stagione, organizzavamo grigliate all’aperto. Poi c’erano i De Gennaro, quelli col cane, pressappoco della nostra età e i Colombo, vicini ai quaranta (lei era olandese, simpaticissima, gran bevitrice), nella cui taverna almeno una volta al mese si faceva tardi giocando qualche euro a poker.

Solo la prima villetta era di proprietà di una anziana vedova, che dopo la morte del marito si era trasferita in Riviera e che, in attesa di vendere la proprietà, la affittava attraverso una agenzia. Da quando gli ultimi inquilini se n’erano andati mesi fa, però, la villetta era vuota.

Io sono Fernando, detto Nando, Nando Mantica, sono figlio di italiani emigrati in Argentina e sono nato e cresciuto a Buenos Aires. Poi mio padre pensò bene di fare ritorno in patria con tutta la famiglia quando avevo appena terminato il liceo ed eccomi qua.
Non è stato facile adattarmi, ma alla fine mi sono integrato bene. Mi è rimasta la passione per il Boca Junior (che condivido con quella per il Milan, la squadra di mio padre) e la maestria nel cucinare la carne alla griglia, che in Argentina è considerata quasi una religione, al pari del fútbol.

Sono sposato con Daniela da cinque anni. Cinque meravigliosi anni che sono stati una grande avventura sia professionale che sentimentale. Abbiamo ben avviato le nostre rispettive carriere, gli stipendi sono buoni, abbiamo ottime prospettive che continuino ad aumentare e insieme ci troviamo a meraviglia, scoprendo ogni giorno qualche nuovo motivo per innamorarci ancora di più l’uno dell’altra.

Per esempio a letto. Daniela è scatenata, fantasiosa, disinibita. Ama il sesso e non ha paura di farmelo sapere. Mi insegue per casa e non è contenta fino a quando non ha il mio uccello tra le cosce. Abbiamo provato di tutto, esplorando i nostri limiti. Un tocco di bondage, un pizzico di S&M, oggetti, giochi di ruolo, travestimenti, per decidere che alla fine ci gratificava di più restare sul tradizionale.
Una cosa però le faceva veramente perdere il lume della ragione: il cunilinguo, cioè quando gliela leccavo. Impazziva, letteralmente.
Io, visto che gliela leccavo quasi tutti i giorni, ero diventato bravissimo e lei non si limitava a gemere o mugolare: strillava addirittura e, a giudicare dai sorrisetti che ricevevo dai vicini la mattina successiva, sospettavo di non essere l’unico a sentirla.
– Ahhhh. Oh Santo cielo! Nando… Nando… Sììì! AHHHHH! AH-AH-AH-AH!
Era pazzesco. Io sorridevo dentro di me, mentre la sentivo gridare e il suo corpo fremere nell’orgasmo. Cercavo di stare attento ad assecondare il movimento del suo bacino, che all’ultimo diventava tumultuoso, senza però smettere di esplorare con la lingua tutte le sue fessure, di circumnavigare il suo piccolo clitoride o di tenerlo stretto tra le labbra. Lo mordicchiavo dolcemente anche, finché sentivo il suo ansimare farsi acuto, il suo corpo tendersi, gli spasmi e le contrazioni impadronirsi dei suoi orifizi. Ma non mi fermavo al primo orgasmo: sapevo che ce ne sarebbe stato un secondo e un terzo, e ancora e ancora.
Una apoteosi. Tutte le volte. Anzi, pareva che ogni volta le piacesse un po’ di più.

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Quella mattina di aprile, uscendo di casa, incrociai un camion di una impresa di traslochi che avanzava lentamente nella nostra via, privata e senza uscita. Visto che in questa via ci sono solo le nostre villette, capii subito che la vedova aveva trovato un nuovo inquilino. La sera, infatti, tornando a casa vedemmo due ragazzi ancora indaffarati con mobili e scatoloni.
“Caspita!” pensai. Il ragazzo (giovane, non più di ventiquattro, venticinque anni) era un punk, completamente vestito di pelle nera, borchie, fibbie e anelli di ferro attaccati dovunque nei pantaloni e nel giubbotto. Aveva la testa rasata da una parte e i capelli lunghi dall’altra, che cominciavano neri e diventavano viola sulle punte.

Si intuiva un tatuaggio sul corpo, le cui propaggini uscivano dalla t-shirt e coprivano parte del collo (cos’era? Un’ala d’uccello o di drago? Una fiamma?).
Aveva un anello in una narice e altri piercing al labbro inferiore, alle sopracciglia e soprattutto alle orecchie, che erano completamente incorniciate da una serie di anellini, oltre ad un disco, grosso come una moneta, infilato in ciascuno dei lobi.

La ragazza invece non aveva piercing visibili, se si esclude un brillantino al naso, ma si faceva notare comunque per la sua magrezza e per la pelle bianchissima che esibiva con noncuranza.
Era infatti vestita solo con un paio di minuscoli pantaloncini che lasciavano scoperte metà natiche e le lunghissime e magrissime gambe che terminavano con i piedi infilati dentro scarponi con la suola di gomma tipo carrarmato. A coprire le piccole tettine, una camicetta senza maniche semitrasparente. Si muoveva lentamente, come in trance, incurante del freddo (era aprile e si stava bene con una giacca o una felpa) occupandosi solo delle scatole più piccole e leggere e fermandosi spesso a sistemare i corti capelli color sabbia che le cadevano davanti agli occhi.
Quando la vidi mi ricordò un vecchio fumetto che avevo trovato tra le cose di mio padre: Valentina, di Crepax, ma con i capelli biondastri anziché neri.

Un paio di giorni dopo il loro arrivo, mia moglie Daniela propose un gesto di benvenuto nei loro confronti, tanto per non essere maleducati. Così quella sera suonammo alla loro porta con una teglia di pasta al forno calda che Daniela aveva preparato nel pomeriggio e una bottiglia di vino rosso del Salento.

Ci aprì lui, con una faccia sospettosa. Da vicino era ancora più inquietante, con i pantaloni di pelle nera e a torso nudo. Vidi che sul petto aveva tatuata un’aquila ad ali spiegate ed era la sua ala quella che avevo visto sporgere dal colletto. Era magro, ma non aveva un aspetto debole, anzi. Pareva un fascio di nervi.
– Sì? – Toccava a me prendere la parola.
– Salve! Io sono Nando e lei è mia moglie Daniela. Siamo i vostri vicini, due villette più in là. Volevamo darvi il benvenuto nella nostra piccola comunità e abbiamo pensato che, visto che sarete indaffarati con il trasloco, magari vi farebbe piacere trovare la cena pronta.
– Ah… Piacere. Io sono Zero. Vi ringrazio, però noi non beviamo vino.
E mi chiuse la porta in faccia!

Mi rabbuiai e tornando a casa non lesinai insulti nei confronti di Zero (Zero? Ma che cazzo di nome è!?) e mi lamentai con mia moglie per il modo in cui ci avevano trattato. Con mia grande sorpresa, Daniela non pareva essersela presa quanto me.
– È un ragazzo, lascia perdere. – E quasi le scappò un sorriso.

Nei giorni successivi ci capitò di vederli dalla finestra sistemare poco a poco il loro alloggio. Lavoravano molto lentamente e si prendevano lunghe pause, spesso seduti in giardino, circondati da bottiglie di birra vuote.
Ricevevano molte visite, anche in orari non proprio ortodossi. Visite molto brevi, per la verità: da dieci minuti a meno di un’ora, non di più. Di solito i visitatori erano ragazzi punk come loro, ma c’erano anche donne con l’aria da casalinghe o signori in giacca e cravatta. Nessuno del paese, però.
Spesso inforcavano la loro Triumph bicilindrica modello America e si allontanavano, anche per tutta la giornata. Pareva che nessuno dei due avesse un lavoro fisso.

Con gli altri abitanti delle nostre villette, nelle settimane successive durante il poker, ebbi l’occasione di commentare l’accaduto e di sottolineare ancora che maleducato fosse il nostro amico Zero, ma sorprendentemente ottenni opinioni più positive, in particolare da Valeria, la moglie di Corrado De Gennaro, che li aveva incrociati al supermercato, aveva scambiato quattro piacevoli chiacchiere con loro e ne aveva ricavato una buona impressione.

Intanto eravamo in maggio, l’estate era alle porte e la stagione delle grigliate era cominciata. I Farina avevano preparato la griglia e la domenica successiva avremmo avuto la nostra prima esperienza dell’anno.
Vittorio Farina aveva fatto costruire la griglia secondo le mie indicazioni: abbastanza grande per sfamare fino a una ventina di ospiti, regolabile in altezza, inclinabile e con la griglia composta da sbarre di acciaio con profilo a “v”, per non permettere al grasso di colare sulla brace e sviluppare vapori cancerogeni.

Avevo prenotato la carne da un macellaio di fiducia, anche lui di origini argentine, che aveva un piccolo allevamento in un paese non lontano dal nostro. Chorizos, asado de tira, cuadril, anticuchos… Ce la saremmo proprio goduta. Daniela aveva imparato a preparare la salsa chimichurri per accompagnare la carne e le altre donne si sarebbero date da fare con le insalate, le patate (fritte e al cartoccio) e le altre salse, tra cui spiccava una strepitosa maionese alle erbe che Birgit, l’olandese, ci aveva fatto conoscere.

Contando parenti e amici, aspettavamo quindici – venti persone e io avevo previsto prudenzialmente cibo per qualcuno in più.
La mattina alle undici mi presentai dai Farina con le borse della carne e cominciai ad armeggiare intorno alla griglia per controllare che fosse pulita e per accendere la carbonella. Mi diedi da fare e alle dodici e trenta avevo una bella brace che sprigionava il calore giusto per cucinare. Gli invitati cominciavano ad arrivare ed il prosecco scorreva a fiumi.
Mentre mettevo sulla griglia le prime bistecche, vidi entrare in giardino i nuovi vicini.

Come? Chi li aveva invitati?!

Chiamai il padrone di casa e gli chiesi cosa ci facessero quei due nel suo giardino.
Mi informò di averli invitati lui, che gli sarebbe parso maleducato organizzare una grigliata con tutti i vicini tranne loro. Gli feci presente che quel tipo non mi piaceva, che era un cafone e che ci avrebbe dato problemi, ma lui minimizzò e sostenne che sarebbe stato solo questione di imparare a conoscerci.

Guarda caso, quei due non avevano portato nulla, mentre nessuno degli altri si era presentato a mani vuote: chi una bottiglia, chi un dolce, chi una pietanza… Loro nulla. E poi l’abbigliamento. Lui era ancora più spaventoso, essendosi truccato anche gli occhi come Marilyn Manson, ma lei era praticamente nuda.
Aveva infatti una camicetta annodata sotto il seno ma non allacciata, che al minimo movimento lasciava vedere le piccole e bianche tettine, e una minigonna microscopica di jeans, sotto la quale tutti si accorsero presto che non portava biancheria intima e che era depilata. Eppure pareva perfettamente a suo agio e dava mostra di non fare caso agli sguardi allibiti dei presenti.
Le donne, poi, erano più stupefatte che scandalizzate.

Decisi di ignorarli e di concentrarmi sull’impegnativo lavoro di grigliare la carne, mentre cominciavano a girare i primi taglieri di affettati e formaggi e gli ospiti ci davano dentro. Le bottiglie vuote cominciavano ad accumularsi numerose sul tavolo della cucina.
Zero passò a salutarmi con cordialità e mi presentò la sua ragazza, Bibi.
– Bibi? – chiesi.
– Sì I miei mi avevano chiamata Bianca, e Beatrice come secondo nome, ma alla fine Zero ha scelto di chiamarmi con le iniziali dei miei due nomi, B e B. Bibi, inzomma. – Disse proprio “inzomma” con la zeta. Aveva infatti un lieve accento meridionale, non avrei saputo dire se calabrese o campano, a dispetto della sua carnagione diafana e degli occhi grigio acqua.
– Ah, Ok. Bene, divertitevi. Ci vorrà ancora un quarto d’ora per la carne, ma intanto sono sicuro che troverete qualcosa da bere e da mangiucchiare nell’attesa.

Dopo che se ne furono andati a ispezionare quanto la casa offrisse, Gabriele Colombo, il marito dell’olandese, si avvicinò con un bicchiere in ogni mano, uno dei quali per me. Sudavo infatti copiosamente mentre mi affaccendavo davanti al calore della carbonella.

– Hai visto quella?
– Quella chi?
– La ragazzina magra insieme a quello fuori di testa, Bibi.
– Che cos’ha?
– Ti sembra il modo di andare in giro? Appena si siede le si vede la passera. E ad ogni movimento del busto le saltano fuori i capezzoli. Col piercing, anche! Le nostre donne sono senza parole. Ma non ha vergogna?
– Non mi piace quella gente. Non sono come noi, non sono dei nostri. Ho detto a Vittorio di lasciarli perdere, ma ha voluto invitarli ugualmente. Avremo di che spettegolare per tutta l’estate.
– Chissà che male, un piercing ai capezzoli! Però io me la farei volentieri, così, tanto per provare com’è una fica rasata. Ho cercato di convincere mia moglie a depilarsi la passera, ma quasi mi butta fuori di casa.
Risposi con un grugnito per troncare la discussione.

La verità era che questa Bibi l’aveva fatto venir duro anche a me, anche se ostentavo un atteggiamento di riprovazione.

Ci volle una buona mezz’ora, ma poi la griglia cominciò a sfornare le prime salsicce, seguite dalle bistecche e dagli spiedini. Qualcuno, a turno, mi aiutava tagliando il pane e riempiendo i piatti con la carne e l’insalata accanto.
L’allegria era alle stelle, tutti si complimentavano con me sia per la qualità della carne che per la perfetta cottura e io decisi di prendermi una pausa, mangiare qualcosa e lasciare che il sudore si asciugasse. Cucinavo l’asado de tira per ultimo. Lo mangiavo quasi solo io perché ha molto grasso e molte ossa, ma la carne in quegli interstizi è paradisiaca e solo gli intenditori la sanno apprezzare.

Alzai gli occhi a cercare mia moglie.

Al contrario di tutte le altre donne che parevano non voler aver niente a che fare con i due punk, lei era impegnata in una fitta discussione con Bibi, mentre Zero assisteva divertito.

Stava benissimo con quella corta gonna a fiori, molto primaverile che le lasciava le gambe nude e la sua canottiera verde pallido. Era fresca, sbracciata, allegra, carina, sexy senza essere troia. Era la mia donna ed ero orgoglioso di lei.

Mi risultò evidente che il tema della discussione riguardasse i capezzoli di Bibi e i due anellini di metallo che li trapassavano. Vidi Daniela che li indicava, Bibi che apriva la camicetta ancora di più per consentirle una migliore visione e infine, incredibilmente, mia moglie che con cautela infilava due dita sotto la camicetta e le toccava il seno soffermandosi sui capezzoli.
Ero sicuro che l’avesse fatto su esplicito invito della ragazza, ma anche così…

Continuai ad osservare quelle tre persone in piedi in un angolo del giardino: Zero, Bibi e mia moglie, che parevano ignari del resto del mondo.
A un certo punto mi parve che Daniela domandasse se Bibi non avesse altri piercing, perché indicò la microscopica gonna della ragazza, come a intendere che si sarebbe aspettata che la sua passera ne fosse dotata, ma questa scosse la testa, dal che dedussi che non lo fosse. La conversazione proseguì, come se Bibi pensasse di installarsene uno, prima o poi, e stesse argomentando circa pro e contro dell’operazione.

Qualche altro ospite si avvicinò e cominciammo a parlare di calcio e delle sfortune del Milan, così mi distrassi e la persi di vista. Dopo qualche minuto me la ritrovai accanto, con una lattina di birra in mano.
– Nando? Tutto bene? – Aveva la parola impastata. Capii che ci aveva dato dentro con le birre, che di solito le facevano un effetto afrodisiaco: l’alcol le azzerava i freni inibitori e diventava pronta a tutto.
Ottimo. La ragazzina mi aveva scaldato il sangue e a fine giornata sarei stato felice di dare una ripassata a Daniela, tanto per farmi passare i bollori.
– Hai mangiato qualcosa? Hai provato l’asado de tira? Spettacolare, eh?
– Non so, credo di aver assaggiato qualcosa ma non ci ho fatto caso e non ricordo bene.
– Però hai bevuto. Quante te ne sei filtrate?
– Non tante. È la seconda lattina. No, la terza. O forse… non so, non ricordo.
– Ti fa male bere senza mangiare. Ho visto che chiacchieravi con i nostri vicini.
– Sì. Sono proprio interessanti. Lei mi stava raccontando dei suoi piercing ai capezzoli. Dice che sono diventati ultrasensibili e che può raggiungere l’orgasmo solo toccandoseli. Incredibile. Ti piacerebbe che anch’io me li facessi perforare?
– Scherzi, vero? Dobbiamo avere dei bambini, dovrai allattare. Lascia stare le tue tette che sono belle così come sono. E poi è la prima volta che le parli e già ti relaziona sui suoi orgasmi? Ma che razza di gente è?
– Mi ha proprio incuriosita. Ora torno da loro, così finiscono di raccontarmi. Dai, vieni anche tu, sono simpatici.

Decisi di seguirla, con una certa riluttanza.

I due mi accolsero con un freddo sorriso, senza minimamente accennare alla carne che avevo preparato, se l’avessero gradita a o meno. Il ghigno di Zero mi parve strafottente, niente affatto amichevole.

Daniela invece era eccitata.
– Hai visto i capezzoli di Bibi? Incredibile! Bibi, fagli vedere!
– Guarda pure. Vuoi toccare? – Disse Bibi aprendosi la camicetta e lasciandomi dare una bella occhiata.
– Credo che per questa volta passo. – Risposi distogliendo lo sguardo e utilizzando il gergo del poker.
– E devi vedere Zero! Tira fuori la lingua! – Mia moglie era sempre più eccitata, mentre invitava Zero a mostrarmi l’interno della sua bocca.
Zero esibì una lunga lingua biancastra, perforata da parte a parte da un piercing che terminava, sopra e sotto, con una pallina argentata. L’odore del suo alito di birra si diffuse nell’aria.
– Caspita! – dissi, senza avvicinarmi troppo – Ma riesci a mangiare?
– Per la verità provo un minimo di disagio. In compenso a leccare… Chiedilo a Bibi! – Rispose con un ghigno. Bibi ridacchiò.
– Maronna! Da non credere! Non ci sta cosa più meravigliosa al mondo! – esclamò, dirigendo a Daniela uno sguardo d’intesa.

Ora, siamo tutti adulti e io non mi scandalizzo di certo. Ma trovai inappropriato che facesse pesanti allusioni alle loro abitudini sessuali neanche due ore dopo che ci eravamo conosciuti.
Mi sentii infastidito, mentre notai che Daniela non lo era affatto.
– Nando, tesoro, perché non te ne fai mettere uno anche tu? – Sapevo che non era mia moglie a parlare, ma la birra che aveva bevuto.
– Non credo che al lavoro apprezzerebbero. – Lavoro in banca. E’ obbligatoria la cravatta, figuriamoci.
– E ho anche un Principe Alberto. – Insistette Zero.
– Ah! Però fammi un favore: non farmelo vedere. – dissi, fingendo di aver capito mentre invece non avevo idea di cosa stesse parlando. Però un sospetto m’era venuto.

(Mi capitò in seguito di cercare su Wikipedia la voce “Prince Albert” per scoprire trattarsi di un orrendo ferro infilato nel pene, che mi mise i brividi solo a guardare la cruda foto a corredo dell’articolo).

Intanto, per fortuna, un paio di ragazzi mi chiamarono e così ebbi la scusa per allontanarmi, non prima di aver suggerito a Daniela di non ignorare gli altri invitati.
Quel tizio non mi piaceva proprio: arrogante, strafottente e maleducato.
Continuai a ridere e scherzare con il gruppo. Dal calcio alla politica e poi alla macchina nuova (ibrida) di Gabriele, poi al tempo e infine qualche gossip sulla gente del nostro paese: corna, trasgressioni… le solite cose. Anche i figli dei Farina mi coinvolsero in un loro videogioco.

Mi fermai a chiacchierare con i genitori di Corrado De Gennaro, una vecchia coppia molto simpatica. Lui professore di storia in pensione, coltissimo e che aveva girato il mondo. Aveva sempre qualche racconto appassionante e arguto delle sue avventure di viaggio ed era un piacere stare ad ascoltarlo.
Intanto qualche signora aveva preparato delle torte e ce ne toccò una fetta. Vennero aperte un paio di bottiglie di vin santo per accompagnare il dolce e il tempo passò piacevolmente fino a quando il sole cominciò ad abbassarsi all’orizzonte e l’aria si rinfrescò.
A quel punto qualcuno cominciò ad accomiatarsi e anche i vecchi De Gennaro si alzarono per andarsene.
– Mi ha fatto piacere conversare con te, come sempre. La prossima volta promettimi che parleremo spagnolo, non voglio arrugginirmi con le lingue. Peccato che non abbia potuto salutare tua moglie di persona. Portale tu i miei saluti. – e se ne andò.

Già. Che fine aveva fatto mia moglie?

Volsi lo sguardo tutt’intorno al giardino, ma non c’era.
Nemmeno i due punk. Pensai che fosse entrata in casa e magari si fosse appisolata un attimo sul divano, visto che aveva bevuto più del solito.
Chiesi in giro, ma nessuno l’aveva vista, se non tempo prima, mentre chiacchierava con i ragazzi.
Bah! L’avrei cercata dentro, visto anche che dovevo fare una visitina al bagno.
Il bagno al pianterreno era occupato, così salii le scale per provare in quello al primo piano. Provai anche a vedere nelle camere, nel caso Daniela avesse pensato bene di farsi passare la sbornia in un letto. Ma no, non c’era.
Tornai in giardino leggermente sorpreso, ma non ancora preoccupato. Che fosse tornata a casa, due villette più in là? Mi chiesi anche che fine avessero fatto i nostri giovani vicini: dapprima pensai che se ne fossero andati, ma poi scorsi Bibi chiacchierare con Birgit (occhio spento e risata ebete: sbronza come al solito) e con un’altra donna, una sua amica.

Corrado mi passò accanto e gli chiesi se avesse visto Daniela.
– No, non la vedo da un po’. L’ultima volta che l’ho vista è stato prima che cominciasse la partita alle tre. – Corrado era interista e quel sabato l’anticipo della Serie A riguardava proprio l’Inter, così con un altro paio di complici si era seduto in sala per guardare la partita su Sky. Poi continuò:
– Era con quei due tizi fuori di testa. Hai visto che tipo quello?
Infatti. In quel momento realizzai che era la prima volta che vedevo Bibi senza Zero.

Non c’era lui e non c’era neanche mia moglie.

Non era difficile fare due più due. Allarmato, cominciai a ispezionare il giardino e l’interno della casa con più attenzione, facendo finta di niente e con un mezzo bicchiere di vino in mano. Aprii porte, controllai persino un gabbiotto dove Vittorio teneva gli attrezzi da giardino.
Niente.
La testa andava riempiendosi di brutti presentimenti. Non che Daniela mi avesse mai dato motivo di dubitare della sua fedeltà, ma sinceramente il fatto che avesse bevuto troppo mi dava da pensare. E poi quella sua entusiastica reazione, inaspettata, al vedere i piercing di Zero…

Mi rimaneva da controllare un ultimo posto, la taverna. Sapevo che Vittorio la usava più che altro come un deposito, ma c’era comunque un divano, un tavolo e un piccolo bagno.
La porta era aperta. Scesi la mezza rampa di scale che portava alla taverna. Non sentii nulla. Accesi la luce. Non c’era nessuno.

Mi sentii sollevato. Per un momento davvero avevo temuto il peggio. Feci per tornare sui miei passi, quando sentii un inequivocabile gemito femminile di piacere. Proveniva dal garage, a cui si accedeva da una porta accanto a quella della taverna.
“Non può essere” pensai, mentre mi imponevo di abbassare la maniglia.

Non so descrivere ciò che provai nei minuti successivi. Il mio cervello, di solito freddo, logico e capace di affrontare qualsiasi crisi o emergenza al lavoro, smise completamente di funzionare. Ogni capacità deduttiva fu rimpiazzata da un’onda emotiva che non avevo mai provato, come un camion a rimorchio che mi fosse passato sopra. La vista annebbiata, un martellare alle tempie e lo stomaco in subbuglio.
Inoltre persi completamente la visione periferica: come i cavalli con i paraocchi delle carrozzelle di Roma, ai lati vedevo tutto buio, mentre davanti a me, i miei occhi, come due puntatori laser, mettevano a fuoco la scena di quei due.

Daniela era stravaccata sul cofano della Audi A6 di Vittorio, la testa rovesciata all’indietro e gli occhi chiusi. La gonna era arrotolata ai fianchi, le cosce oscenamente aperte tra le quali la testa di Zero si muoveva piano. Zero, in ginocchio, sosteneva con una mano la gamba destra di mia moglie in modo che puntasse verso l’alto, mentre la sinistra penzolava dal cofano, con le mutandine appese alla caviglia.

Sentii il sangue gelarsi nelle vene e pugni e mascelle si serrarono involontariamente, mentre vedevo quel bastardo leccare avidamente ciò che avevo sempre pensato fosse esclusivamente mio.
Daniela cercava di soffocare i gemiti, senza riuscirci, e produceva tutti quei versi, quei mugolii così caratteristici, così “suoi” che conoscevo intimamente bene e che da quel momento non sarei stato più il solo a conoscere. Il mio cuore parve stracciarsi a brandelli e la vista di quella scena mi divenne insopportabile. Non per niente ero nato in Sudamerica, cresciuto in un ambiente “machista”, nel quale un uomo non può tollerare le corna.

I due piccioncini non si erano accorti della mia presenza, intenti com’erano nel loro parossismo amoroso.

Presto lo sbalordimento si tramutò in furia cieca. Sentii l’adrenalina scorrermi nelle vene e un velo rosso offuscarmi la vista.
Mi gettai su di lui. Dovevo separare la sua faccia dall’inguine di mia moglie, a tutti i costi. Lo afferrai per i capelli, che erano solo sulla parte sinistra del cranio e strattonai violentemente.
Lo sentii gridare, mentre picchiava il sedere contro il pavimento di cemento. Forse anche Daniela urlò, ma non ne sono sicuro. Agivo come col pilota automatico, senza pensare e senza rendermi conto di quanto ci fosse intorno a me.

Zero mi afferrò il polso e cercò di torcermelo perché lasciassi la presa, ma io continuai a trascinarlo per i capelli, fuori dal garage, su per la corta scala (lo presi anche per il bavero della giacca per fargli salire le scale), poi ancora in corridoio, fino in cucina. Da lì, attraverso la porta finestra, nel giardino dov’erano gli invitati rimasti.

Rimasero tutti pietrificati al vedere la scena. Nemmeno io dovevo essere un bello spettacolo, con gli occhi fuori dalla testa e la bocca contorta in una smorfia di rabbia.

– Vittorio, butta fuori questo pezzo di merda, che altrimenti lo ammazzo! – Urlai. E rivolto a lui:
– Me entendés, vos, hijo de una gran puta?! Pendejo! Cojudo! Concha tu madre, la puta que te parió! – È inutile, quando sono incazzato mi viene più naturale lo spagnolo.

Lo trascinai davanti ai piedi di Bibi, dove lo lasciai.
Ma appena allentai la presa Zero cercò di tirarsi in piedi e, mentre era ancora barcollante, mi tirò un pugno che mancò la mia mascella di mezzo metro.

Cercò di darmene un altro, aggiustando la mira, ma questa volta lo aspettavo al varco e lo colpii con un diretto destro in piena faccia, tra il naso e l’occhio, con tutta la forza che avevo, centuplicata dalla rabbia e dall’adrenalina in circolo.

Cadde tramortito come un sacco di patate.

Intanto mi resi conto di un trambusto alle mie spalle: Bibi cercava di attaccarmi brandendo una marmitta per l’insalata, ma le altre donne glielo stavano impedendo, trattenendola per le braccia.
Rivolsi un’altra occhiata a Zero, che appena si muoveva sull’erba in una pozza di sangue. Il pugno infatti gli aveva strappato il piercing sul naso, lacerando la pelle. E forse quello sul labbro l’aveva ferito alle gengive. Anche il naso pareva innaturalmente storto.
Bibi piangeva disperata, mentre supplicava le altre donne di lasciarla andare affinché potesse soccorrere il suo uomo.
Così fece infatti appena fu libera e chinandosi su di lui consentì a tutti di vedere bene il suo culo nudo.

Aiutò Zero a rialzarsi incurante del sangue che gocciolava dal naso del suo uomo e le macchiava la camicetta, in un silenzio surreale, e lentamente se ne andarono dal cancello, senza una parola.

Mi sentii in dovere di accomiatarmi.
– Chiedo scusa a tutti, ho perso il controllo. Non volevo rovinare la festa e forse ora è meglio che me ne vada.

Mi avviai anch’io, solo, verso casa, sotto gli occhi sconcertati dei presenti che sicuramente si stavano domandando che cosa fosse successo.
Uscii passando dalla cucina, perché più comodo per raggiungere casa mia, e sul tavolo raccolsi una bottiglia di grappa ancora mezza piena e me la portai a casa, bevendo un sorso a canna durante il cammino.
Mi accorsi che la mano destra stava sanguinando e che mi faceva un male cane. Evidentemente il piercing al naso aveva lacerato la pelle mentre sferravo il pugno.
Entrai in casa e mi sedetti in poltrona nella penombra, con ancora la bottiglia di grappa in mano. Mi sentivo la testa vuota, ero come istupidito e non riuscivo a rendermi conto di cosa mi fosse successo.
Bevvi un altro sorso. Lentamente ripresi padronanza di me stesso, mentre sentivo il calore dell’alcol salire dallo stomaco fino alle orecchie.

L’immagine di mia moglie con le gambe spalancate che mugolava muovendo lascivamente il bacino contro la bocca di quel bastardo mi riapparve nella testa, più vivida che mai. Il cuore ritornò a martellarmi nel petto.

Com’era potuto succedere?
Perché Daniela aveva voluto distruggere tutto ciò che avevamo costruito insieme?

Avrei voluto prenderla per le spalle e scuoterla violentemente chiedendole perché, perché!?
Ma ero troppo infuriato. Meglio di no. Non avevo mai alzato una mano su una donna e non volevo cominciare proprio da mia moglie, la donna che avevo sempre amato, ma non mi ero neanche mai sentito così furioso in vita mia. Certo, presto o tardi ci saremmo confrontati, ma non in quel momento.

Niente, non riuscivo a stare fermo. Entrai un momento in bagno per fasciarmi la mano alla bell’e meglio per fermare l’emorragia e me ne uscii a camminare nelle stradine di campagna lì attorno.

Ebbi modo di ragionare, calmarmi, riprendere il controllo. Non riuscivo a darmi una spiegazione per il suo comportamento. Possibile che non avesse pensato alle conseguenze? Come poteva pretendere che uno come me, geloso e possessivo, potesse tollerare di vederla cosce spalancate farsi leccare da un altro?
E se l’avesse drogata? Se le avesse messo qualcosa nel bicchiere a sua insaputa per approfittarsi di lei?
No… Impossibile. Chi mai porterebbe droga a un barbeque per famiglie? E che ruolo giocava Bibi in tutto questo? Era al corrente delle trasgressioni del suo compagno? Le tollerava? O magari le incoraggiava?
Non c’era una spiegazione razionale. Daniela fino a un momento prima sembrava felicissima di stare con me, soddisfatta del suo ruolo di donna professionalmente emancipata, di moglie benestante e di amante fantasiosa al punto di fare continuamente progetti per il nostro futuro insieme.
Progetti che per il momento erano finiti tutti nella spazzatura. La frase “futuro insieme” suonava ridicola ora.

Tornai a casa dopo un paio d’ore. Più per sfuggire al freddo e ai pericoli delle auto che sfrecciavano nel buio senza fare caso ai pedoni che per il desiderio di tornare in quella che non sentivo più come “casa nostra”.

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A casa trovai Valeria e Corrado De Gennaro seduti sul mio divano. A quanto pareva avevano accompagnato una terrorizzata Daniela a casa, convincendola che sicuramente non le avrei fatto del male. L’avevano raccolta sul pavimento del garage di Vittorio, dove era rimasta come inebetita, l’avevano accompagnata a casa e l’avevano messa a letto, sbronza com’era.
Per tranquillizzarla le avevano promesso che sarebbero rimasti in casa con lei fino a che non fossero stati sicuri della sua incolumità.

Valeria mi mise una mano sulla spalla e guardandomi negli occhi mi supplicò:
– Ti prego, Nando. Capisco la tua rabbia, ma Daniela è distrutta. Abbi pietà di lei. Cerca invece di confortarla e magari, col tempo, anche di perdonarla. Quella donna è davvero innamorata di te, credimi.
– L’unica cosa che ti posso promettere è di non farle del male. Per il resto è troppo presto. Vi ringrazio comunque per esservi presi cura di lei.
– Sono sicura che se vi sedete e ne parlate a cuore aperto troverete il modo di risolvere il problema. Voi due sembrate fatti l’uno per l’altra e siete perfetti insieme.
– Non so, Valeria. In questo momento ho tanta di quella rabbia in corpo che non vedo un gran futuro per noi due. Ma chissà…

Corrado invece mi chiese cosa fosse successo, di preciso, per prendermela con Zero in quel modo. Dovetti raccontargli sommariamente tutto, sapendo bene che nel giro di qualche minuto l’avrebbe saputo tutta la nostra comunità, ma quei due erano troppo amici miei e non me la sentivo né di mentire, né di nascondere la verità.

Se ne andarono alla fine e mi ritrovai solo in casa con Daniela addormentata.
Mi decisi a fare una doccia sperando di lavar via, oltre al sudore, al sangue e alla puzza di carne alla griglia, anche la rabbia che ancora mi faceva martellare il cuore nel petto e tremare le mani.
Stanchissimo, alla fine mi accostai nel lettino nella camera per gli ospiti. Non me la sentivo proprio di stare nello stesso letto con Daniela.

L’indomani, domenica, ci furono pianti, imbarazzi, sguardi sfuggenti. Finché non ci sedemmo, dopo pranzo, davanti ad un caffè. L’ora della confessione.
– Allora Daniela, raccontami: dopo la sua lingua avresti provato anche il suo cazzo con relativo piercing “Principe Alberto”? – Lo so, è stato infantile da parte mia, ma non sono riuscito a resistere.
– No! No, Nando, no. Senti, non sai quanto sia pentita…
– Sì, sì. Lo so. La solita storia: eri ubriaca e non rispondevi delle tue azioni. Bla bla bla.

Prima di continuare si soffiò il naso. Piangeva, nel senso che le scendeva una lacrima e le si arricciava il mento, ma non singhiozzava.
– Non cerco scuse. Avevo bevuto, sì, ma ero ancora lucida e poi avevo bevuto di mia iniziativa: nessuno mi aveva ficcato la birra in gola contro la mia volontà. Il fatto è che dal momento che ho visto il suo piercing sulla lingua non ho potuto pensare ad altro. Mi pareva di sentirlo contro il mio clitoride e tutt’intorno. E poi le cose che diceva Bibi non hanno certo aiutato. Era come se mi incoraggiasse. Cercava di descrivere cosa si provava, ma, insomma, come si fa a spiegare una sensazione come quella?! Però un risultato l’ha raggiunto: mi ha messo in uno stato di eccitazione come non lo ero mai stata. Mi sentivo come in un altro mondo.

Prese un fazzoletto di carta dalla scatola per asciugarsi una lacrima e continuò con la voce rotta dal pianto.
– Per tutto il tempo non sono riuscita a togliermi quel pensiero dalla testa e quando sono dovuta andare in bagno ho incontrato Zero che ne usciva. Mi ha fermata e mi ha detto “Sei venuta a scoprire di persona cosa si prova?” e ha tirato fuori la lingua e si è leccato le labbra, sopra e sotto. Nando, non puoi capire. Ero così eccitata, così eccitata… – Si fermò ancora a soffiarsi il naso. Non riusciva a guardarmi negli occhi.
– Mi spiace, mi vergogno a morte e non so come sia stato possibile che accadesse, ma quando mi ha preso la mano e m’ha detto “Dai, possiamo farlo proprio qui, è questione di pochi minuti, non ci vede nessuno” io mi sono lasciata trascinare nel garage. Lui ha aperto la porta e io l’ho seguito. Lo so, lo so che ho sbagliato, che non avrei dovuto, ma ne avevo una voglia matta, è stato irresistibile. Io.. Io… non…

Scoppiò in singhiozzi, ma si riprese.
– Una volta entrati ha chiuso la porta e sono rimasta lì, in piedi e in silenzio, mentre lui mi sollevava la gonna infilandone il bordo nella cintura in modo che non potesse più scendere, e poi mi abbassava gli slip fino alle caviglie. Mi ha fatto alzare un piede per sfilarli da una sola parte e poi mi ha presa per i fianchi e mi ha sollevata per farmi sedere sul cofano della macchina.
– Basta! Basta perdio! Non posso sentire queste cose!
– Nando, ti prego, perdonami! Dimmi che mi perdonerai, giuramelo! Non so cosa mi abbia preso, è stato solo un attimo di debolezza, ho perso la testa, non succederà più, te lo garantisco!
– Vorrei poterti perdonare, ma sinceramente non so se ne sarò capace. Ieri c’è voluta tutta la mia forza di volontà per non ammazzare quel bastardo e ora non so più chi sono, cosa sento, cosa voglio. Sono infuriato, ma anche triste e mi sento solo. Ci vorrà del tempo e non poco.

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Da quella sera sono passati ormai due mesi. È piena estate ormai.
Le cose tra me e Daniela non vanno per niente bene. Viviamo ancora insieme, ma dormiamo in stanze separate. Parliamo poco. Lei mi guarda spaventata, non sapendo se potremo ancora avere un futuro insieme.

Io mi sono calmato. Capisco Daniela, il suo senso di colpa, il suo rimorso. Mi fa tenerezza e qualche volta ci abbracciamo stretti, con disperazione.
Perdonarla? L’ho già perdonata: è stato un momento di debolezza quando era particolarmente vulnerabile. E poi questo è il ventunesimo secolo, c’è stato il ’68, l’amore libero, il femminismo. La coppia è in crisi, la famiglia è in crisi, la fedeltà non è più un valore, ci sono mille tentazioni a ogni passo, anche in internet, come posso non tenerne conto?!

Perdonare sì, ma dimenticare è tutto un altro discorso.

Ogni volta che chiudo gli occhi la vedo, gambe aperte, mugolare di piacere completamente rapita dal sesso con un altro uomo. E poi: quanti ragazzi ci sono in giro con un piercing sulla lingua? Quante altre volte sarà preda di una “tentazione irresistibile”? Io, per indole e per scelta di vita, non me la sento di controllare i suoi movimenti passo per passo ventiquattr’ore al giorno. Ho bisogno di una compagna di cui mi possa fidare ciecamente, per la quale possa mettere la mano sul fuoco. Purtroppo Daniela non è più quella donna. Con infinita tristezza capisco che invece quando non è con me io passo il tempo a chiedermi se non stia per caso facendosela leccare da qualche collega, amico, sconosciuto… o da qualche donna, persino.
Non possiamo andare avanti così. Non abbiamo più ripreso a fare sesso. Ne abbiamo una gran voglia, ma con lei non me la sento più: e se non le piacesse più quello che facciamo e pensasse con rimpianto a quant’era bravo Zero? Non posso, non posso proprio.

Vedo quindi avvicinarsi a grandi passi la fine del mio un tempo felicissimo matrimonio. Spero ancora di svegliarmi una mattina e di non pensare più al passato, ma solo al futuro. Ogni giorno che passa, però, la speranza diminuisce.

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Intanto, mentre la compassione per Daniela si impadroniva di me, nei confronti di Zero, invece, mi sentivo pervadere da una gelida sete di vendetta. Cominciai a chiedermi come avrei potuto fargliela pagare.

In banca mi occupo di leasing e locazioni operative e ho accesso a diversi data base contenenti le informazioni finanziarie praticamente di tutti.

Sarebbe illegale consultarli per scopi personali, ma non controlla nessuno. Così, attraverso il marito di mia sorella, vigile urbano a Milano, e con la targa della moto di Zero, siamo risaliti dapprima al suo vero nome, Paolo Garlaschi, di Besana Brianza, per scoprire che per le banche non era un soggetto solvibile (non poteva neanche aprire un conto) perché pregiudicato. Mio cognato scoprì che lo spaccio di droga era il suo forte, diverse volte era stato fermato e una volta anche condannato a passare più di un anno in galera.

Questo poteva spiegare le molte visite che riceveva giornalmente. In quella casa si spacciava e probabilmente ve ne era nascosta una certa quantità. Non potevo certo dire di esserne sorpreso.

La sorpresa arrivò invece da Bibi. Non si sapeva niente di lei. Zero (o meglio: Paolo – si capì che il nome Zero gli era rimasto appiccicato addosso per via della sua passione per i fumetti e per una rivista a cui era abbonato, Zero Calcare) non l’aveva sposata.
Mio cognato non trovava nulla su di lei, finché gli capitò in mano un elenco di persone scomparse. Nell’elenco non c’era nessuna Bianca Beatrice, ma per scrupolo andò a consultare il data base completo, che riportava casi anche più vecchi ed eccola lì: Bianca Cappiello, ventidue anni di Melfi, in provincia di Potenza. Secondo nome Beatrice, scomparsa da casa il 12 luglio 2011 all’età di diciotto anni. Di buona famiglia (il padre farmacista), brava studentessa, religiosa, mai un problema, un fidanzato anche lui di buona famiglia, sportivo (frequentava l’università a Napoli e nel tempo libero vogava con la Canottieri Stabia, la stessa degli Abbagnale, con promettenti risultati).

Bianca era scomparsa improvvisamente, pare con dei ragazzi che aveva conosciuto solo qualche settimana prima.
Cercai sull’elenco la Farmacia Cappiello, a Melfi, ma non c’era. Così le chiamai tutte (non erano molte, cinque o sei) chiedendo del dottor Cappiello. La terza che chiamai mi informò che Cappiello non c’era e mi diedero il numero di casa sua.

– Pronto? – Un voce femminile.
– Buongiorno, parlo con la famiglia Cappiello?
– Sì, chi parla?
– Lei non mi conosce signora, mi chiamo Nando Mantica, chiamo dalla Brianza, tra Milano e Como, e sono un vicino di casa di Bianca Cappiello, che credo sia parente vostra.

Ci fu un momento di silenzio.
– Lei… Lei sa dove si trova mia figlia? Bianca?
– Sì, signora, abita di fianco a me.
– O santo cielo! Sia benedetto il Signore! Carlo! Vieni a sentire! Qui c’è uno che dice di sapere dov’è Bianca!
Sentii la voce del marito che le diceva di non fidarsi, che era pieno di mitomani e comunque di darle la cornetta.
La signora cominciò a piangere.
– Pronto! – disse il marito.
– Buonasera dottor Cappiello, sono Nando Mantica.
– Ma è sicuro che sia nostra figlia?
– Abbastanza sicuro. Vive con un tizio con i capelli solo da una parte della testa, pieno di tatuaggi e piercing che si fa chiamare Zero.
– È lei! Ma certo! Sicuro! E sta bene?
– Credo proprio di sì, almeno per quello che posso capire.
Parlammo concitatamente per un po’. Io raccontai come avessi avuto un alterco con questo Zero, al punto da cercare informazioni su di lui perché convinto di avere a che fare con un delinquente e di essere per caso venuto a sapere che la loro figlia risultava scomparsa. Diedi loro tutte le coordinate su come raggiungerci.

Partirono la sera stessa per la nostra cittadina e viaggiarono tutta la notte col Freccia Rossa.

Trovai loro un posto a Gerenzano, all’Hotel Concorde.
Arrivarono nel pomeriggio e con loro c’era anche l’ex fidanzato, un certo Emanuele Montemarano, che aveva noleggiato una macchina alla stazione di Milano per arrivare il prima possibile.

Ci presentammo. Erano visibilmente stanchi, ma anche in grande trepidazione. Pareva brava gente, seria, colta. Si ritirarono in camera un momento per rinfrescarsi, poi rimontarono in macchina seguendomi per quel chilometro e mezzo che ci separava da casa mia.

Quando fummo davanti a casa di Zero rallentai e indicai il portone. Parcheggiai un po’ più avanti, non volevo perdermi la scena. La moto di Zero non c’era.
Scesero tutti e tre e suonarono il campanello del cancelletto che portava a un piccolo spazio verde, qualche metro, prima della porta di casa vera e propria.

Lo sbalordimento di Bibi nel vedere la sua famiglia fuori dal cancelletto fu impagabile.
Poteva succedere di tutto: che chiudesse loro la porta in faccia, che li insultasse o che li trattasse con indifferenza.
Invece si buttò nelle loro braccia piangendo. Rimasero qualche minuto nel giardino baciandosi, carezzandosi, piangendo e poi finalmente scomparvero dalla mia vista entrando in casa.

Io me ne tornai a casa, però rimasi a bazzicare vicino alla finestra da dove riuscivo a vedere il giardinetto anteriore dell’abitazione di Bibi. Infatti un paio d’ore dopo li vidi uscire, con due valigie.
Zero scelse proprio quel momento per ritornare con la sua moto e cominciò a gridare. A quel punto, però, anche Bibi prese a urlargli contro, rimbeccandolo. Riuscivo a sentire le sue parole perché era girata dalla mia parte. Gli disse che se ne andava a casa e che non voleva più vederlo né sentirlo per il resto della sua vita. Che ne aveva abbastanza di lui e dei suoi vizi.

A quel punto Zero fece un errore fatale. Cercò di afferrarla per un braccio per trattenerla.

Emanuele lo prese per il collo e lo colpì in piena faccia, proprio dove l’avevo colpito io qualche settimana prima.

Lo sapevo che quel ragazzo era un grande. Mi era stato subito simpatico.

Infatti riprese Zero per la collottola, gli alzò la faccia a mezz’aria e lo ricolpì di nuovo dall’alto in basso, questa volta nell’altro occhio.
Zero cadde a terra e non si mosse più.
A quel punto mi aspettavo che Bibi corresse a soccorrerlo, come aveva fatto quando Zero le aveva prese da me, invece si girò contro la spalla del padre, che la abbracciò, e nascose la faccia contro il suo petto.

In casa, alzai le braccia a esultare come per un gol del Milan, mentre la famiglia riunita risalì sulla macchina allontanandosi.

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I guai per Zero non terminarono lì. Mio cognato infatti aveva allertato il nucleo antidroga della Polizia che qualche giorno dopo (dopo un lungo appostamento) fece irruzione in casa sua e gli agenti sequestrarono marijuana, cocaina, ecstasy e chissà quali altre sostanze. Certo, non grandi quantità, ma abbastanza per garantire a Zero un soggiorno, tutto pagato, nel carcere di Bollate.
Una vacanza di un paio d’anni che si era proprio meritato, dopo aver rovinato per sempre il mio matrimonio e la mia vita.

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