Skip to main content
Racconti Erotici

One more time

By 28 Dicembre 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

 

Questo mese la nostra storia compie due anni.

Ci siamo conosciuti per caso. I soliti amici comuni hanno invitato entrambi ad una festa: un incontro banale, niente di avventuroso o d’insolito.

Non ricordo di lei cosa mi abbia colpito di più, la prima volta che me l’hanno presentata. Forse i capelli di un biondo lucido dai riflessi praticamente metallici. O la stupefacente trasparenza della pelle. E’ come se fossero passati mille anni. Ogni giorno che passa mi accorgo di vivere accanto ad un enigma senza speranza di soluzione.

Siamo stati felici, non lo posso negare. Ci siamo amati e probabilmente lei ancora prova lo stesso sentimento. Per quanto mi riguarda ho perso definitivamente lo smalto di quei giorni assurdi e felici.

Facendo un rapido bilancio, triste ragioniere dei miei sentimenti, devo ammettere di essere stato felice: almeno finchè è durata. Eppure già in quei momenti, se mi fossi ascoltato attentamente, avrei percepito quel battito disarmonico a rimarcare uno senso di disagio. Poi, un granello alla volta, il gruzzolo di affetto rocambolescamente conquistato, si è disperso nel vento, inesorabilmente.

Inaspettatamente il pensiero scivola a quella sera e ad un buon profumo di spezie e freschi fiori lontani. I suoi occhi che incontrano i miei, un sorriso che brucia e disarma.

Ero, come adesso, alla ricerca della protagonista di quello che sarebbe diventato il mio primo libro, oltre che quello di maggior successo. Parlammo tutta la sera sotto lo sguardo divertito dei nostri amici. In casa c’era un caldo umido e soffocante. Decidemmo di uscire in terrazza a mescolare vodka e parole. Chiacchierando venni a sapere che si occupava di alta moda e per questo viaggiava di continuo. Mi raccontò dei molti viaggi con la “tribù”, così definiva quelli del suo ambiente, delle innumerevoli persone conosciute. Mi descrisse divertita i capricci di quell’universo evanescente, le piccole e grandi manie, gli isterismi e le superstizioni di un mondo tessuto di bello.

Non trascurò, però, di mostrarmi l’altro lato della medaglia. Le stanchezze e la solitudine dei fari spenti, le passerelle incredibilmente vuote, l’eco dell’ultimo applauso che si polverizza nel silenzio.

In quelle parole era palpabile il disagio di una vita zingara: mai una vera casa che non fosse la stanza anonima di un albergo, per quanto lussuoso questo fosse. Oppure quell’indolenzimento sordo allo stomaco per le troppe sigarette bruciate dall’ansia ed i cocktail di party a cui “bisogna esserci”.

Il discorso si interruppe d’un tratto. Il filo sonoro s’impigliò tra i fiori della veranda. “Ma non è sempre stato così”. 

Ed il viaggio riprese accelerando a ritroso, percorrendo un sentiero di parole battute, fino alla porta di casa, alle cupole a cipolla delle chiesette di campagna, nei prati di girasoli ad altezza d’uomo e ai ragazzi dai volti impolverati nei campi. Poi tacque ancora e per un solo attimo riuscii ad ascoltare la voce del suo passato, il frinire delle cicale in una campagna grande come il cielo.

Poco alla volta, mentre le parole si mutavano in minute confidenze, le confessai il mio sogno di scrivere storie belle come quelle che mi avevavo attaccato la febbre della fantasia. Le raccontai la trama di quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo.

Quando ebbi finito, restammo seduti e silenziosi tra i gerani. Avvertivo il suo respiro. Poi, in un sussurro:

“Bello”.

Non potevo credere alle mie orecchie: era piaciuto subito! Bevvi un’altro sorso di quel liquore secco e freddo. Riprese:

“Bello davvero! Me lo farai leggere appena potrai?”.

Come uno stupido non seppi fare di meglio che annuire con il capo.

Alla fine di quella serata mi ritrovai in auto a pensare confusamente a quella ragazza. Avevo bisogno di una sigaretta che mi aiutasse a pensare. Sfilando il pacchetto dalla tasca interna della giacca, cadde qualcosa sul sedile. Un tovagliolino di carta ripiegato accuratamente. Non mi ricordavo di aver fatto nulla del genere.

Come illuminato da un prematuro lampo d’estate mi ricordai che Anna si era offerta di prendermi la giacca dal guardaroba.

Accostai al lato della strada. Nella luce sporca di un lampione lessi parole tracciate in una bella calligrafia tondeggiante in inchiostro stilografico nero-blu:

“Sara’ bello quando, alla fine, immaginerai la tua protagonista. Con il mio lavoro mi e’ capitato di conoscere alcuni scrittori. Alcuni molto famosi, altri solamente perduti in un proprio liquido delirio d’artista. Eppure, nessuno di loro sa mescolare altrettanto bene vodka e parole.

Credimi se ti dico che e’ per puro caso che io fossi qui, oggi. Solitamente rifiuto. Ne ho abbastanza di queste feste disperate, mi danno il voltastomaco.

Ma oggi, rinunciando, avrei perso qualcosa d’importante. Un presentimento, forse.

Non e’ da tutti i giorni conoscere uno scrittore intento nei suoi primi passi tra le parole; vergine alle lusinghe del successo. Per questi ed altri motivi, ti prego: appena le parole saranno compiute, dimmelo. Sara’ un piacere leggerti.

Anna.”

Ripiegai i fogli con cura: nel cuore la piacevole sensazione che qualcosa era accaduta e nulla piu’ sarebbe piu’ stato uguale.

A quello seguirono altri appuntamenti a cui, puntualmente, mi recavo con una borsa in cuoio screpolata e piu’ volte ricucita; ultimo testimone dei disperati anni di universita’. All’interno fogli e foglietti di ogni forma e colore accoglievano misericordiosi i giorni dei miei pensieri.

Trascorrevamo intere serate, tra letture e commenti, sulla tovaglia macchiata di una pizzeria scalcinata: l’unica che potessero permettersi le mie modeste finanze. Poi, mentre il buio della notte si sbiadiva nell’infuso lattiginoso di una luna curiosa, discutevamo di cieli tesi come pelli di tamburi dimenticati. Oppure di un sole che annega nelle acque ultramarine di un’isola calda lontana.

Qualcosa che non riesco a focalizzare accadde: silenzioso come la prima goccia timida di un temporale d’estate o i fiocchi solitari della prima neve d’inverno. Le stavo descrivendo la protagonista di quell’amore, stralunato e singhiozzante, che avevo immaginato:

“Lei non ha ancora un nome, non ne ho trovato uno adatto.

Spesso i nomi sono gabbie inossidabili, porte pesanti e muri troppo spessi da valicare. Talvolta inadatti, capaci di annientare gli spiriti più risoluti. I nomi, spesso, lasciano delusi tanto da chiederci: perchè? Queste rigide definizioni bastano per i trattati enciclopedici e per gli atlanti che mostrano la rotta per luoghi sperduti.

Così lei non ha un nome e forse non l’avrà mai. L’immagino libera: un uccello dalle piume cremisi e turchesi, dal nome impronunciabile. La sua voce è una torre sonora dai potenti effetti di vita e di morte.”

Bevvi ancora un sorso di quel vinaccio. Lei mi incitò con lo sguardo a continuare:

“Una notte ho fatto un sogno. Ero in una pianura desolata: bianco come un deserto di sale. Di fronte a me una donna dai capelli scuri e dalla pelle così limpida da sembrare un pesce di un abisso insondabile si è voltata è mi ha sorriso. Aveva occhi di un verde ultramarino, scuro come le più distanti foreste. In un attimo quel colore di pietra segreta è esploso nella mia mente fragile svegliandomi.”

Non avevo quasi più fiato. Quelle parole fragili come il tessuto d’ala di una farfalla, non avrebbero retto la minima interruzione. Mi accorsi di non aver preso aria durante il racconto perchè temevo che mescolando ossigeno alle parole queste avrebbero preso fuoco e sarebbero sparite.

Anna mi guardò silenziosa a lungo, poi abbassò lo sguardo fissando un tappo sbrecciato sul tavolo. Con naturalezza, come se quel gesto lo avesse già fatto un milione di volte, alzò il braccio e mi sfiorò la guancia con il dorso della mano. La pelle era fresca, la grana sottile e vellutata. Le mie guance in fiamme.

Per pochi istanti ebbi la sensazione di rivedere negli occhi chiari di Anna, lo stesso sguardo acquatico ed ultramarino del sogno. Per un attimo fluttuai in uno spazio senza tempo dimenticando la realtà. E poi che importava?

Mi sentivo un naufrago felice. Al contrario di Ulisse avevo scelto la dannazione di un canto irresistibile ed ultraterreno alla morte di tedio in un’isola calcarea e solitaria.

La vertigine non avrebbe avuto più fine se non mi avessero fermato un paio di labbra profumate di bosco acquatico e fiori nascosti.

Lasciammo il locale facendoci strada tra la gente in coda per un tavolo. L’aria fresca della notte sferzò i sensi intorpiditi dal caldo e dal fumo. Mi voltai e le rivolsi un sorriso aperto e timido. Lei mi prese delicatamente la mano tra le sue e la sfiorò con le labbra.

A piedi raggiungemmo una stazione dei taxi. Anna bussò sul tetto della vettura svegliando di soprassalto un autista sonnolento.

Durante il tragitto attraverso una città infreddolita ed assonnata, ci guardammo solo fuggevolmente. Mi vennero in mente le immagini stereotipate che si hanno degli amanti, quell’aria fuggevole e nervosa, un continuo guardarsi attorno, gli sbalzi al cuore per aver creduto di aver visto qualcuno che avrebbe potuto riconoscerci. E comunque tutto questo non può fermarli, intrisi, come sono, di un desiderio incontenibile e coscienti dell’ineluttabilità di quegli attimi.

La situazione inaspettata mi turbava ed incuriosiva allo stesso tempo. Presagivo che qualcosa stava per accadere, che infiniti tuoni aspettavano nel grembo del cielo per scoppiarmi tutti insieme nel cervello. Il cuore batteva come una danza disperata.

L’auto si fermò sotto un palazzo dall’aria signorile ma anonima. Anna, sempre silenziosa, fece strada fino alla porta di casa.

Ero ossessionato dall’ineluttabilità di quegli attimi. Quanto era successo quella sera era tremendamente reale: non me lo ero sognato. Quelle labbra piene ancora profumavano sulle mie. Quei capelli chiari ancora brillavano metallici nei miei occhi.

Entrammo in casa. L’appartamento era grande e modernamente arredato: sui toni del bianco e del nero. Sul pavimento numerosi tappeti attutivano i passi, amplificando il silenzio.

Anna, scoprii in quel momento, è una ossessiva collezionista di oggetti sacri appartenenti a quelle primitive religioni che avevano assistito alla gioventù del mondo. Maschere multicolori, decorate con piume multicolori, zanne e conchiglie; orbite vuote, bocche piegate dalla tristezza del destino o atteggiate nel ghigno soddisfatto di un’orgia sacra osservavano l’intruso in quella specie di tempio.

Una forte carica elettrica, come prima dello scatenarsi del temporale, riempiva l’aria. Da un momento all’altro quei fulmini in procinto di scoccare avrebbero cauterizzato il buio di due perdute solitudini.

Anna scomparve per un’attimo nel labirinto di stanze per comparire poco dopo con una bottiglia di Sauterne e due bicchieri.

“Mi piace il vino bianco e questo è particolarmente buono ” mi disse riempiendomi il calice.

Non mi rendevo ancora conto di cosa mi stava succedendo. Un rivolo di sudore nervoso scivolò tra le scapole. Per la prima volta l’emozione aveva preso il sopravvento. La bocca un deserto di sale; le parole fidate compagne per sempre svanite.

Non ci fu molto da dire prima di un’altro bacio, più lungo e struggente del primo. Un bacio da naufraghi senza speranza: ultimo desiderio prima dell’abbandono della fine.

Ripetei il suo nome più volte, come se, molto bello e musicale, risuonasse diverso ogni volta.

Il corteggiamento era durato anche troppo. Ci sentivamo come funi scricchiolanti tese al punto che avremmo potuto spezzarci in qualsiasi istante; corde di violino sollecitate allo spasimo per estrarre l’infinita, ultima, nota. Quelle continue schermaglie fatte di sguardi, di mani sfiorate afferrando una maniglia o sfiorando la pulsantiera di un’ascensore. Quell’essere così vicini per respirare il calore di un corpo, il suo profumo segreto, ci avevano portato al punto di non ritorno: il crinale di un abisso nel quale ci saremmo lasciati cadere.

Le accarezzai il volto, il collo e le spalle. Ripetei quel sentiero con le labbra per gustare il sapore dolce di quella pelle profumata di albicocca, miele e cannella, di fiore raro di serra. Con un gesto si sciolse i capelli raccolti dietro la nuca che ricaddero come pioggia scintillante nella luce rarefatta. Ancora un bacio sulle labbra, sugli occhi e sul collo, dietro i lobi piccoli e diafani alla ricerca di un profumo primitivo, nascosto, forte dove più caldo scorre il sangue. Un sospiro sottile, di angoscia liberata, mi accompagnava nell’esplorazione tattile del viso. Sfiorai quel profilo più volte ad occhi chiusi: un cieco che tenta di apprendere un volto sconosciuto. Poi, le dita scivolarono sulle spalle sottili ed insolitamente bollenti, inciamparono nelle minute spalline di quel vestito leggero e rosso come il petalo di un papavero. Inciamparono e caddero, le dita, trascinando con sè quella stoffa inesistente. Cadendo non produsse alcun rumore. Scivolò in terra liberando un corpo flessuoso a lungo immaginato. Mi scostai di un passo, per ammire quell’imagine bella e segreta. Tagliava il buio con le forbici infinitamente acute di un innato chiarore lunare. La strinsi a me con forza, assaporando il contatto con quel seno incredibilmente fermo. Scivolarono le mani lungo la schiena sottile da ballerina, sui fianchi pieni, sulle cosce dalla pelle perfetta senza la seppur minima macchia o imperfezione. Le dita impazienti, poi, risalirono lungo le gambe sottili che si erano silenziosamente e leggermente distanziate. La sfiorai il sesso scoprendola incredibilmente emozionata: una foglia tremate ed imbevuta della rugiada di lontani boschi pluviali. Ondate di elettricità ci scuotevano ad ogni carezza.

Scivolai ai suoi piedi , un guerriero sconfitto e adorante. Innalzai una muta preghiera carnale a quel corpo pallido di assoluta deità nordica.

Inspiravo i suoi molti profumi: il gusto dolce e speziato della cannella e del legno aromatico, quello di frutti dal nome impronunciabile, per concludere con le note apertamente schiumose ed oceaniche della sua femminilità.

Facemmo l’amore come se in quel momento fosse l’ultima speranza rimasta, l’unica che avesse un senso per la nostra esistenza. Ci perdemmo per strade acciottolate di sospiri troppo a lungo incatenati e finalmente liberati, in una morsa forte e livida, in dita che si aprivano e chiudevano con violenza. Demmo voce ad un canto assoluto del più puro desiderio. Non c’era altro da aggiungere ad un momento che esisteva ancora prima di conoscerci.

Quando penetrai in lei quella prima volta ebbi l’impressione di possedere tutti i desideri sopiti di un mondo disperato ed affamato di sensi. In quell’abbraccio liquido e rovente credetti di perdere la strada verso me stesso per sempre. Il suo sguardo vibrava, occhi vestiti di una luce nuova e pura: una pellicola di luce astrale. Scintillavano nel buio e mi accorsi che due lacrime di sofferto piacere galleggiavano in quelle trasparenti foreste, sciogliendo il trucco e disegnandole rivoli nerastri ai lati del viso.

Era tutto troppo trattenuto, frenato, per gioco ostacolato. Avrei dato qualsiasi cosa per possedere la magica capacità di controllare lo scorrere degli attimi e di fermarli per sempre, se ne avessi avuta voglia. Ma non c’era più tempo per tutto questo adesso. Il piacere mi esplose nel cervello senza che potessi fare più nulla per trattenerlo. Anna mormorò qualcosa prima di gorgogliare, in un lamento basso e rauco, un grido di soffocata liberazione. Mi strattonò più volte a strappare a pezzi e morsi il frutto maturo di un orgasmo a lungo sospeso. Affondai in lei ancora una, due volte, liberandomi di un’incontenibile desiderio di vita.

Leave a Reply