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Suite n°1

By 7 Aprile 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

Suite n’1

Oz stava scolando la pasta, in parte avvolto dalla nuvola di vapore bollente, quando udì la musica. Abbandonò all’istante lo scolapasta nel lavandino, con ancora i bucatini caldi e perfettamente al dente dentro. Non degnò più di uno sguardo la ciotola in cui aveva appena sbattuto così attento il tuorlo fresco con il pecorino romano, il pepe e un paio di cucchiai dell’olio di cottura del guanciale. La carbonara perfetta restò così a morire sola, incompiuta e scomposta sul tavolo.
Si diresse rapido verso la porta-finestra della sala, che dava sul lungo terrazzo dell’attico, e l’aprì. La serata estiva era calda e l’aria più afosa si riversò lenta nella stanza climatizzata, mentre l’uomo si diresse rapido verso la fonte della musica, verso il basso divisorio metallico che separava la sua parte di terrazzo da quello dell’appartamento attiguo. Scavalcò agilmente, ormai era molto pratico in quell’operazione, e si avvicinò alla lunga vetrata, restando in parte celato dietro alcune alte piante e si riparò dietro al suo solito ficus benjamin osservando l’interno del salone oltre il vetro.
La stanza, illuminata dalla luce del sole che scendeva verso il tramonto, era soffusa di una sfumatura rosata. Da un lato un paio di divani color panna, moderni e squadrati si incontravano a L, intorno a un basso tavolino di vetro, dall’altro lato della stanza una enorme stampa di New York sovrastava un basso mobile bar. Naturalmente Oz non degnò di uno sguardo tutto questo, ogni atomo della sua concentrazione era impegnato su ciò che stava al centro della sala.
Una ragazza, seduta su un alto sgabello, stava suonando con passione irresistibile un violoncello. La musica, Suite n’1 di Bach, una di quelle che lei suonava più spesso e che l’uomo ormai riconosceva, permeava l’intera stanza e, attraverso la vetrata scorrevole aperta, si diffondeva all’esterno, carica di un’intensità voluttuosa. Ciò che però rendeva la scena così unica e imperdibile era che lei suonasse nuda, completamente nuda.
Le gambe sottili e nervose avvolgevano la cassa armonica, i piedi, lunghi e affusolati, con le unghie smaltate di rosso, si stringevano intorno al puntale, quasi abbarbicati ad esso. Le braccia sembravano volteggiare mentre la mano destra, impugnante l’archetto con solida leggerezza, creava la melodia con magica precisione. I seni piccoli, sormontati da scuri capezzoli, apparivano e sparivano secondo i movimenti, come stessero ballando in sincrono con la melodia. Il viso serio, concentratissimo, con occhi chiusi e labbra serrate, rivelava lo sforzo, la fatica e insieme la beatitudine del suo perdersi in Bach.
Come sempre fu afferrato dalla voglia assurda, profonda e irrefrenabile di lei. Sentì l’eccitazione appropriarsi di ogni fibra del suo corpo e il desiderio inturgidirsi dentro i suoi boxer, un’eccitazione davvero incontrollabile. La sua mano destra scese sotto l’elastico della tuta scura, che portava solitamente in casa, ad afferrare e stringere il suo pene eretto, mentre, osservando le gocce di sudore che lente, sottili scivolavano dalla fronte e dal collo lungo il corpo nudo di lei, si immaginava lì accanto a leccare ogni goccia tremula sulla sua pelle bianca, e poi accarezzarla, baciare il suo collo, la sua schiena per sentire la musica in lei, dentro la sua carne.

Tutto era iniziato a metà gennaio, quel periodo morto in cui si riportano in cantina gli addobbi di natale, si spengono le luci colorate dalle finestre e balconi e si progettano diete future che mai verranno davvero prese sul serio.
Orazio, Oz da sempre per gli amici, stava rientrando a casa nel tardo pomeriggio, proprio l’ora in cui inizia a farsi buio e il freddo diventa più pungente. Disegnatore e sceneggiatore di fumetti di mezz’età e dall’altalenante successo, viveva da una decina d’anni in un attico, al settimo piano di una palazzina anonima, uguale alle molte altre intorno. Il lato positivo era che si trovava in riva al naviglio, quindi con una vista decisamente bella e una certa tranquillità. Quel giorno era molto soddisfatto, il suo nuovo soggetto era piaciuto all’editore quindi rientrava con un bel contratto e un congruo anticipo. Non era affatto preparato all’incontro che avrebbe sconvolto così inspiegabilmente i suoi sensi e la sua vita.
Era appena entrato nell’androne quando vide una figura minuta, coperta da un lungo cappotto nero, impegnata a cercare di far entrare qualcosa di rosso e grosso nell’ascensore tenendo aperte le vecchie porte di legno con un piede. Si avvicinò rapido e le tenne aperta la seconda porta, consentendole così di riuscire a far entrare una grande custodia di pelle rossa con rotelle. Una volta poi spinta in fondo alla cabina la custodia del violoncello, perché di questo, scoprì poi, si trattava, la ragazza si strinse in un angolo facendogli poi segno di entrare. Scoprì quindi che anche lei era diretta al settimo e ultimo piano, ebbe così il tempo per osservarla bene.
Era indubbiamente giovane. Oz non era mai stato un fenomeno nell’attribuire un’età alle persone, ma senza dubbio era ancora più vicina ai venti che ai trenta. L’abbondante cappotto in cui era infagottata non rivelava molto delle sue forme, ma notò soprattutto le mani, lunghe, affusolate e dalle dita sottili, con unghie laccate di rosso, sebbene tagliate molto corte; e le gambe, o almeno la parte che spuntava in fondo al cappotto, con una caviglia molto esile e piedi che calzavano ballerine nere con listino. Un look total black che contrastava stupendamente con il rosso della custodia, delle unghie e delle labbra, anch’esse sottili, il cui colore acceso contrastava splendidamente con l’incarnato pallido e i corti capelli nerissimi.
Quando l’ascensore giunse al piano era giunto alla conclusione che fosse una ragazzetta carina, ma nulla più, certo ben diversa dal suo tipo ideale di donna, femminile, provocante e prosperosa. L’aiutò a far uscire il violoncello, anche se ora, scoperta la tecnica, fecero molta meno fatica, quindi la salutò scoprendo che era la sua nuova vicina e che aveva occupato l’appartamento a fianco al suo, che era stato vuoto per più di un anno.
La dimenticò appena entrato in casa, quando si accinse a preparare la cena per Lu. Lucrezia era una delle sue numerose amiche speciali, o trombamiche come molti definiscono un genere di rapporto in cui il legame reciproco &egrave dato da una più o meno piacevole amicizia e compagnia e da un reciproco desiderio sessuale senza legami particolari. In realtà Oz si era sempre sentito uno spirito libero, con la sua abbondante dose di manie, passioni e abitudini che non aveva alcuna intenzione di intaccare infilandosi in una qualsivoglia relazione esclusiva e quindi inevitabilmente possessiva.
Il piatto forte sarebbero stati i suoi celeberrimi scampi al vino bianco, un cibo goloso, leggero, considerato afrodisiaco e da mangiare rigorosamente con le mani, in un crescendo sessualmente eccitante. La serata infatti si svolse esattamente come previsto, chiacchiere, battute, baci, leccate reciproche di dita e labbra durante la cena e vestiti strappati appena terminato il dolce. Dopo aver giocato ed essersi stuzzicati un po’ in sala da pranzo, finirono presto sul grande letto, nudi e strettamente allacciati. Oz entrò in lei, prepotentemente. Tenendo tra le mani le sue gambe la prese guardandola negli occhi. Amava decisamente osservare il viso delle donne con cui faceva l’amore.
Giunse improvvisa, inaspettata, possente.
La musica lo avvolse. Il suono dolce ed esaltante del violoncello si diffuse nella stanza, sulla sua pelle, nel suo corpo e nella sua mente. Non riuscì immediatamente a capacitarsi della sensazione sempre più profonda che lo invadeva. Sentì l’eccitazione e il desiderio farsi più forti, più urgenti. Strinse di più le cosce tornite di Lu, scese con il busto su di lei per succhiare e mordere quei grandi capezzoli rossi, eccitati. Sentì il suo pene farsi ancora più duro, voglioso e spinse sempre più impetuosamente, senza freni. Le braccia di lei lo strinsero, sentì la sua voce ma non udì davvero le sue parole, perso nel parossismo che lo pervadeva. Infine si sollevò con la schiena mentre veniva copiosamente, dentro di lei. Ma al posto del volto rosso, carnoso e sorridente di Lucrezia ciò che vide, con lo sguardo arrossato dal piacere, fu il viso sottile e candido della sconosciuta vicina, la cui musica lo scuoteva così incredibilmente.
Si lasciò andare sul letto stendendosi accanto a Lucrezia e chiuse gli occhi, per cercare di riconnettere la mente, ma la musica proseguì; crescendo e calando, seguendo il suo ritmo incredibile e continuando a elettrizzarlo. Si eccitò nuovamente, inspiegabilmente. Quel suono destava in lui desiderio e carnalità insieme. Voleva godere ancora, doveva godere. Si allungò sulla compagna e la girò prona, sul letto. Quasi con violenza le sollevò il culo stringendole i fianchi tra le mani forti, finché lei si ritrovò in ginocchio. Sordo alle sue proteste per quella rudezza, le allargo i glutei con le mani, rivelando il suo tenero e roseo forellino. Certo era già passato per quella via, ma mai lo aveva voluto così impellentemente, brutalmente. Appoggiò la sua cappella rossa e dura e spinse, penetrandola a fondo.
Lucrezia gridò quando lo sentì allargare e affondare così spietato.
‘Mi fai male! Bastardo!’
Disse la donna a voce alta.
‘Zitta. Che in fondo ti piace. Lo sappiamo entrambi’.
Replicò Oz. Senza smettere di violarla, sodomizzandola con feroce lussuria, quasi seguendo il ritmo del violoncello, la cui musica vibrava e risuonava nella sua carne. Chiuse gli occhi, continuando a fotterla, concentrandosi sui suoni e sul desiderio di lei. Lei, la misteriosa vicina naturalmente. Lucrezia aveva abbandonato completamente i suoi pensieri.
Non impiegò molto a godere ancora, riversando nuovamente il suo seme in Lucrezia. Infine si abbandonò sul letto disfatto. Perdendosi in quello che aveva sempre chiamato il minuto dell’oblio. Quel breve lasso di tempo in cui l’intero universo perde importanza, in cui un uomo può solo smarrirsi nel proprio godimento.
Lei si avvicinò invece dandogli un piccolo pugno, poco più di un buffetto.
‘Mi hai fatto male sai. Stronzo. Una volta eri più dolce, più piacevole’.
Disse spezzando l’oblio che, con il violoncello in sottofondo, era persino più inebriante e suadente del solito.
Lui replicò senza nemmeno aprire gli occhi, e con un tono persino troppo provocatorio.
‘Se non ti va bene come scopo puoi sempre cercarti un altro che lo faccia meglio’.
Questa volta il pugno di lei, sul suo fianco nudo, fu più forte e rabbioso.
‘Ma che gran pezzo di merda sei stasera. Ti ha forse morso una tarantola? Se volevi troncare bastava dirlo’ gli gridò lei rabbiosa.
Quindi si alzò dal letto, raccogliendo e infilandosi i vestiti vorticosamente. Lui rimase sul letto a guardarla, quasi stupito di come si era comportato. Ma non le disse nulla. Infine Lucrezia, con i capelli rossi ora spettinati e lo sguardo da Medusa, si avviò verso la porta. Lo guardò ancora una volta, attendendo una sua parola, magari un gesto di scuse, qualsiasi cosa.
Oz si rendeva conto di essersi comportato in modo ignobile, eppure dentro di sé sapeva che tutto ciò che davvero desiderava in quel momento era che lei uscisse da quella porta, lasciandolo solo. Per cui restò muto. La donna emise un grugnito di rabbia e frustrazione, quindi, con un sonoro e rimbombante ‘vaffanculo!’ Uscì dalla stanza e, pochi secondi dopo, sbattendo sonoramente la porta d’ingresso, anche dal suo appartamento e dalla sua vita.
Si sollevò dal letto, ancora stordito da ciò che era successo. La musica, si rese conto in quel momento, era terminata e lui era ancora stupefatto per come si era comportato. Ebbe persino la tentazione di cercare l’iphone per provare a chiamare Lucrezia, dirle qualcosa. Ma prima di decidere se mettere in pratica veramente quel pensiero, il violoncello tornò a suonare.
Irresistibilmente curioso e attratto, si infilò senza pensare una maglietta e i boxer neri, quindi aprì la porta-finestra della sala e uscì sul grande terrazzo che circondava l’intero piano. Fuori il suono era più intenso, ancora più delizioso. Si avvicinò il più possibile, fino al divisorio a grata che separava i due terrazzi. Vide una luce tenue filtrare dalla grande vetrata dell’appartamento accanto, ma da quella posizione non poteva vedere alcunché.
Resistette solo qualche istante, quindi un po’ maldestramente scavalcò la grata. Incurante del freddo che gli aveva già reso la pelle di un colore tendente al blu e dei piedi nudi ormai ghiacciati sulle gelide piastrelle del balcone, si accostò alla vetrata e sbirciò oltre.
Non era certo preparato alla sublime visione che lo attendeva. Restò per più di mezz’ora su quel gelido terrazzo, rapito dal suono esaltante e ipnotico insieme, dalla bellezza della ragazza che così intensamente e magistralmente arpeggiava su quel grande violoncello e dall’eccitazione che derivava dal vederla così, nuda e stretta al legno scuro dello strumento, come stesse facendo letteralmente l’amore con lui.
Quello fu l’inizio di una passione folle e irrinunciabile che gli avrebbe logorato i pensieri e i desideri poco a poco, come se un tarlo feroce si fosse appropriato della sua libido rodendola in modo assoluto e totale. Fu anche la prima volta in cui Oz cedette alla voglia insopprimibile e si masturbò sul terrazzo dietro alle piante, guardandola e desiderandola infinitamente, spargendo il suo seme quasi fosse un offerta a un qualche Dio della lussuria che lo tentava.
Nei giorni successivi cercò di scacciare i pensieri e le fantasie che si accalcavano nella sua mente, come una torma di cavalli imbizzarriti, ma in realtà ebbe poco successo. Tentò di buttarsi sul lavoro ma ogni figura femminile che disegnava finiva immancabilmente per assomigliare alla sconosciuta musicista. E ogni disegno successivo esprimeva sempre più i suoi desideri peccaminosi. Quando poi udiva ancora la musica giungere a tentarlo nessuna forza poteva trattenerlo dal correre a guardarla.
Scoprì presto che non era stata una casualità, ma che in casa lei suonava sempre così, nuda e stretta allo strumento, e lui solo dopo essersi masturbato più volte e averla guardata a lungo riusciva infine a rientrare nel proprio appartamento. La ragazza suonava sempre con gli occhi chiusi, persa in una concentrazione assoluta, quindi il rischio di essere visto era molto ridotto, almeno finché non terminava.
Una delle prime volte infatti temette quasi di essere stato visto. Aveva indugiato troppo, quando lei terminò di suonare aprì gli occhi e la vide guardare verso di lui, verso la grande vetrata del terrazzo. Oz si abbassò dietro le piante rapidissimo nascondendosi poi dietro il muro. Con il fiato rotto dalla tensione e il terrore di udirla aprire la porta del terrazzo. Ma fu fortunato, pensò, non accadde nulla e poté quindi riscavalcare la grata e tornare in casa.
Da quella volta imparò bene a intuire quando lei stava per terminare e a fuggire prima. Scoprì poi poco a poco i suoi orari, e si ritrovò più volte a seguirla. Parte della sua mente lo ammoniva di smetterla, che era un comportamento folle, illegale e da stalker. Ma il lato oscuro del suo io non gli dava tregua, tacitava la coscienza e lo spingeva sempre più nella follia. Nemmeno il sesso riusciva a placare la febbre del suo desiderio. Aveva provato ancora a fare l’amore con alcune delle donne che frequentava abitualmente ma se lo faceva fuori casa, il suo desiderio e interesse era sempre scarso, svogliato, e i suoi pensieri durante l’atto immancabilmente indirizzati alla violoncellista. Se invece si trovava in casa le cose peggioravano persino, perché l’assenza della musica lo rendeva disinteressato e la sua presenza invece folle e brutale. Diradò quindi i suoi incontri con altre donne rapidamente, fino a cessarli del tutto.
Nei mesi successivi a quella prima notte aveva scoperto, grazie a finte casualità e incontri in ascensore, che lei si chiamava Marie. Era nata in Francia ma da padre italiano, ecco perché parlava correntemente entrambe le lingue, seppur con un leggero accento, una R moscia che Oz trovò da subito estremamente sensuale. Si era diplomata da poco e a pieni voti al conservatorio e aveva vinto un concorso per entrare nell’orchestra sinfonica della Scala.
Lei era sempre gentile e disponibile alla conversazione, eppure insieme distante, apparentemente malinconica, forse caratteristica dei musicisti, pensò lui, affamati solo della propria arte. Una sera, salendo insieme in ascensore, lei gli chiese se per caso la musica non lo disturbasse. Lui si prodigò in tali complimenti per la qualità e passione delle sue esecuzioni che lei gli fece avere un invito per un pomeriggio di prove in teatro.
Venne indubbiamente rapito dall’intensità e bellezza della musica, anche se vederla suonare nel rigoroso abito nero da concertista invece che nella splendida nudità cui era abituato la rendeva più distante, meno appassionata, seppur sempre immensamente desiderabile. L’attese comunque dopo la fine delle prove e la invitò a cena. Passò davvero una deliziosa serata in sua compagnia. Se possibile il desiderio di lei crebbe ulteriormente, ora non più solo qualcosa di fisico, di istintivo e brutalmente sessuale, si scoprì anche a desiderare la sua compagnia, il piacere della brillante e intensa conversazione, il suo sorriso aperto e quella strana, intensa luce che vedeva brillare nei suoi occhi. Lei si rivelò inoltre un’appassionata conoscitrice di fumetti d’autore e Oz si stupì nello scoprire che possedeva diverse delle sue opere, che promise di autografarle rendendola fanciullescamente entusiasta.
Fu durante la cena che scoprì il nome della musica che per prima aveva rapito così irrimediabilmente i suoi sensi. Uno dei pezzi preferiti da Marie, che suonava in effetti molto spesso, un vero virtuosismo da violoncello: la suite n’1 di Bach.
La serata fu davvero perfetta, Oz si rese conto di sentirsi davvero felice con Marie, qualcosa di istintivo, di stranamente profondo che travalicò persino il puro desiderio fisico che l’aveva spinto a ricercare freneticamente la sua compagnia. Si rese conto che gli piaceva conversare con lei, guardarla mentre appassionata, sosteneva un discorso impegnato e lo stesso quando rideva dopo aver raccontato sciocchezze.
Infine si ritrovarono a casa, sul pianerottolo dell’ultimo piano del palazzo. Salendo in ascensore erano rimasti stranamente in silenzio a guardarsi, molto più vicini di quanto fosse normale per due persone sole in un ascensore, per quanto piccolo. Oz aveva lentamente aspirato il profumo di lei, assaporato nella mente la sua pelle candida, così liscia. Ora chiacchiere e risate erano passate, e si scoprì di desiderarla ancora, profondamente e intimamente. Lei era arrossita sotto il suo sguardo, che inevitabilmente ora esprimeva i suoi pensieri più peccaminosi, come li stesse gridando all’intero palazzo.
Scesero infine dall’ascensore. La vide sollevare la mano e aprire la bocca, come volesse salutarlo e non poté indugiare oltre. Strinse forte la lunga e sottile mano di lei e l’attirò a sé. La vide sussultare, ma non ritrarsi. Quindi avvicinò la bocca alla sua e la baciò. Fu un bacio intenso, vorace, dotato di quel febbrile bisogno che ha un assetato di fronte a una fonte fresca e cristallina.
Le loro bocche si saldarono, le lingue si avvolsero strettamente, muovendosi forti e sinuose, quasi gareggiando a penetrare l’una la bocca dell’altro. Lui la avvinghiò a sé, le mani forti dell’uomo premevano sulla schiena sottile, un atavico senso di possesso che lo invadeva le guidò poi sui glutei alti e sodi di lei, dove accarezzarono e strinsero voracemente. L’erezione di Oz era ora così intensa da far quasi male. La voleva. Ora, subito! Iniziò a sollevarle lo stretto vestito nero quando le mani di lei strinsero forti le sue, fermandolo.
Marie staccò le labbra dalle sue, abbassando gli occhi e voltando la testa di lato.
‘No! Ti prego. Non posso’.
Disse sottovoce, allontanandosi.
Oz restò immobile, allibito. Le mani ora abbandonate lungo i fianchi, il viso arrossato dal desiderio, la bocca spalancata in una muta domanda.
Marie si diresse verso il suo appartamento, frugando nella borsetta per cercare le chiavi. Aprì la porta e, prima di entrare e chiuderla abbandonandolo solo e allibito sul pianerottolo, si voltò un’ultima volta verso di lui.
‘Perdonami, &egrave… stata una serata bellissima. Ma io…’
Non finì la frase. Entrò in casa e chiuse la porta. Oz vide alcune lacrime scendere dai suoi occhi neri.
L’uomo restò ancora fermo, a lungo. La mente in subbuglio, in cui i pensieri vorticavano accavallandosi come un maelstrom impazzito. Nella sua comunque lunga e più che discreta esperienza con le donne non riusciva a classificare l’accaduto. Sapeva di piacerle, era stato evidente, e il bacio era stato davvero unico, appassionato e fremente. Aveva percepito il desiderio di lei dalle sue labbra, una voglia profonda, istintiva, irrefrenabile, proprio come la sua. Eppure poi si era infranto tutto, come avesse inspiegabilmente spezzato una corda del violoncello e la musica fino a quel momento perfetta fosse divenuta una cacofonia inesplicabile.
Parte della sua mente gli gridava di suonare al suo campanello, farsi aprire e pretendere una spiegazione. Eppure si rendeva conto, anche se non avrebbe potuto dire perché, che sarebbe stato inutile. Lei non avrebbe aperto quella barriera che ora li separava.
Infine si decise e rientrò a casa. Si lasciò cadere sul divano, senza nemmeno accendere la luce, illuminato solo dai tenui bagliori della luna e delle stelle che filtravano attraverso le vetrate della sala, lasciandolo in una meditabonda penombra. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo era restato seduto, silente al buio. La musica lo riscosse.
La suite numero uno di Bach inondò l’aria e come una scossa elettrica rianimò i suoi sensi e muscoli. Sapeva cosa stava accadendo pochi metri oltre il muro che divideva i due saloni. Era come se lo vedesse già. Il lato egocentrico, dominante di lui cercò di resistere, pensò di accendere la televisione o lo stereo, di coprire e sopprimere quel suono e i pensieri ad esso legati. Perse in breve tempo.
Come ipnotizzato si alzò e rapidamente uscì sul terrazzo. Pochi secondi dopo era, come al solito, fuori dalla sua finestra a guardare. Lei era, come sempre, nuda e abbarbicata al violoncello. Notò che i suoi gesti, il modo di stringerlo erano persino più spasmodici del solito. Era più agitata, più impetuosa. La musica era intensa, quasi rabbiosa. Le note rapide, frementi e sul suo viso di solito disteso, estatico ora notava rughe pensierose e un contrarsi della mascella mentre i denti stringevano e mordevano le sue sottili labbra rosse.
La desiderava, forse più di quanto l’avesse mai fatto prima. Si spogliò abbandonando gli abiti sulle piastrelle fredde, restando ancora nudo, eccitato a guardarla. La porta a vetri spalancata non creava alcuna barriera al suono che così lo avvolgeva interamente, gli sembrava quasi di sentire il profumo della sua pelle, della sua eccitazione che accompagnava le note verso di lui.
Il corpo nudo di Marie era premuto contro il ligneo strumento ancora più strettamente del solito, vedeva in lei un movimento pelvico più marcato, davvero sembrava stesse facendo l’amore con il violoncello, come stesse cercando di scoparselo.
Poi, accadde qualcosa di inaspettato: Marie aprì gli occhi. Li spalancò guardando fisso verso l’esterno, oltre la porta e le grandi piante del terrazzo. Guardava lui, fisso negli occhi. Non mutò espressione e non smise di suonare, solo continuò con gli occhi aperti, senza distogliere lo sguardo.
Oz restò sorpreso. Così nudo e clandestino sul terrazzo di lei, con la mano destra stretta intorno alla propria prepotente erezione, non sapeva che fare. Nulla di ciò che avrebbe potuto dire avrebbe avuto un senso, una scusante per ciò che stava accadendo. Poi la verità si fece strada nella sua mente, mentre la musica cresceva ancora in intensità e mentre i piedi di lei, smaltati di rosso come la passione che lo pervadeva, stringevano il puntale del violoncello, quasi artigliandolo.
Lei sapeva, aveva sempre saputo. Era consapevole che lui la guardava suonare da fuori. Nei suoi occhi, quando l’aveva guardato, non c’era stato nessuno stupore, paura o rabbia. Nessuna emozione apparente. Lo aveva semplicemente guardato, cosa che non aveva mai fatto prima o almeno lui non se n’era mai reso conto. Restò quindi fuori, gli occhi fissi in quelli neri di lei, masturbandosi lentamente. Eppure contrariamente alla logica non si sentì ridicolo, idiota come avrebbe dovuto. Forse era la musica a rendere tutto così aldilà da ogni logica e senso comune da renderla una situazione comprensibile, desiderabile e in un certo senso giusta.
Poi Marie giunse alla ‘sarabanda’ il quarto dei sei movimenti della suite, e chiuse nuovamente gli occhi, abbassando la testa, come in un muto assenso, e ricercando forse più concentrazione nella musica. Fu per Oz un gesto che gli diede il coraggio di fare ciò che aveva sempre desiderato e mai davvero pensato di fare. Entrò.
I piedi nudi dell’uomo non fecero alcun rumore mentre, lentamente e respirando appena, si mosse verso la fonte del suo desiderio. Lei percepì il suo avvicinarsi, il respiro le si fece ancora più rapido, la stretta del corpo sul violoncello ancora più intensa, tanto da far arrossare l’interno delle cosce che avvolgevano la cassa armonica. L’uomo le giunse di fronte osservando finalmente davvero da vicino ogni movimento, il rapido incedere dell’archetto stretto nella mano destra, le dita della sinistra che si muovevano sulle corde come piccole ballerine armoniche, l’intero corpo che tremava e vibrava in sincrono con la melodia.
Poi lentamente si portò dietro di lei. Le guardò la schiena, sottile e inarcata, con le spalle in continuo movimento. Il sedere stretto e bellissimo che sporgeva appena dal piccolo e tondo sgabello su cui era seduta e che lo rese ancora più eccitato. In fondo non l’aveva mai vista così, nuda di spalle. Non potendo più resistere si avvicinò ancora. Con le mani le cinse i fianchi sottili, provocandole un sussulto. Lei non smise di suonare e Oz si sentì autorizzato a continuare. Il duro e rosso pene dell’uomo si schiacciò forte sulla sua schiena nuda mentre con la bocca scendeva sul suo collo. La baciò delicatamente lambendo le clavicole, poi risalendo verso le orecchie, con bocca e lingua, provocandole intensi brividi lungo la spina dorsale, che sentì anche attraverso il proprio glande congestionato che spingeva ansioso di penetrarla.
Le baciò, leccò e mordicchiò ogni punto di pelle cui riuscì a giungere senza bloccarle le braccia e impedirle di continuare. L’odore della sua pelle, umida e sudata per lo sforzo e l’eccitazione lo inebriava. Infine la suite terminò, lasciandoli in un silenzio irreale.
Marie si abbandonò sullo strumento, respirando sommessamente. Oz l’abbracciò da dietro, lasciando finalmente andare le mani verso i suoi piccoli seni. Strinse forte tra le dita i capezzoli turgidi strappandole più di un gemito, poi le voltò la testa di lato e la baciò. Ancora più intensamente e profondamente di prima.
Lei ricambiò il bacio, lasciò cadere a terra l’archetto e lo abbracciò, stringendo tra loro il violoncello, che emise alcuni brontolii quando le corde gli sfregarono il petto. Poi lei si staccò ancora dalla sua bocca. Oz vide nuovamente uno sguardo confuso, una intima disperazione incomprensibile. Infine Marie si alzò in piedi e appoggiò lo strumento al basso tavolino di vetro accanto a lei. Rimase così nuda, di fronte a lui. Nuda, bellissima e con un sottile, rosso e rigido pene eretto che svettava tra le sue bianche gambe.
Oz assunse un’espressione esterrefatta. Lente e lunghe lacrime solcarono le guance di Marie, mentre si girava dandogli le spalle, come se non potesse più sostenere lo sguardo sconvolto di lui.
L’uomo rimase immobile. Guardava quel corpo perfetto, quel sedere e quelle gambe per cui aveva così a lungo smaniato e al cui pensiero si era masturbato così spesso, senza riuscire a comprendere i propri pensieri confusi e le proprie reazioni.
Si rese conto che la sua eccitazione non era calata per nulla e che, contro ogni logica e ogni senso, la desiderava ancora e più di prima. Ormai era l’istinto, il desiderio, l’animalesca lussuria che governavano il suo pensiero, ogni tabù culturale e sociale era svanito nel rosso dell’eccitazione che lo pervadeva in ogni parte del corpo. Si avvicinò alla ragazza… o ragazzo? Disgregò il pensiero nell’attimo stesso in cui fece capolino nella sua mente e la strinse, riprendendo a baciarle il collo e spingendo tra le sue gambe la propria irrefrenabile eccitazione.
Marie gli strinse le mani che l’abbracciavano, quasi graffiandole con le rosse unghie da tanto le premeva con forza su di lei, sui suoi seni e ventre. Lui la morse sul collo, sulle spalle facendola gemere di piacere, quindi si inginocchiò dietro di lei stringendo tra le mani, tra le labbra e i denti i suoi glutei sodi, candidi. Li aprì con i palmi e affondò la lingua nella sua rosea e tenera apertura, che ora desiderava febbrilmente violare.
Leccò e baciò, percependo i brividi e il contrarsi voglioso di lei, finché fu Marie, ormai perduta nel piacere a incitarlo, con voce irrochita dal desiderio:
‘Adesso… prendimi ora. Ti prego’.
Oz si rialzò e la spinse contro la parete cui lei si appoggiò con le mani, le allargò le gambe, la strinse e appoggiò la punta rossa e marmorea del suo membro al suo ano, quindi spinse, lentamente ma con forza. Marie gemette mentre il membro di Oz la penetrava e si faceva strada dentro di lei dilatando insieme il suo corpo e la sua mente, in un esplosione di lussuria e doloroso piacere.
Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui lei aveva fatto l’amore, e in verità aveva sognato e desiderato a lungo quel momento, masturbandosi spesso al pensiero del suo vicino voyeur nelle notti solitarie nel letto, e persino qualche volta godendo nello fregamento del suo pene duro contro il violoncello, suonando e osservando tra le ciglia semiaperte l’uomo che si toccava per lei oltre la finestra.
Poi il piacere divenne assoluto e ogni altro pensiero svanì, lasciando spazio solo per quel magnifico cazzo che le invadeva le viscere così forte e profondo. Oz, dopo un inizio lento e dolce ora la stava sodomizzando con furia, montandola freneticamente. Mesi di voglie, fantasie e desiderio erano ora racchiusi in quella brutale cavalcata. La spingeva possente contro il muro bianco, sotto la stampa di New York in veduta notturna, facendola sussultare a ogni affondo e stringendo tra le dita i suoi capezzoli turgidi.
Quasi istintivamente, come aveva fatto molte volte e a molte donne in quella posizione, scese poi con la mano destra, per accarezzarla, condurla all’orgasmo più profondamente. La sua mano incontrò però il membro eretto di Marie. Senza pensare troppo lo avvolse con le dita, stringendolo.
Era una sensazione strana, negli anni si era accarezzato infinite volte, si era masturbato come tutti fin da ragazzino, eppure non aveva mai stretto tra le dita un cazzo che non fosse il proprio. Era più piccolo, eppure straordinariamente duro. Quando lo strinse lei mugolò più forte, voltò di lato la testa guardandolo, con occhi arrossati dalle lacrime di prima e dall’emozione del momento. Quindi gemette solo un lungo, ripetuto: ‘Sì…’.
Oz continuò a penetrarla e insieme mosse la mano, seguendo lo stesso ritmo incalzante. Vennero quasi contemporaneamente. Mentre le inondava il retto la sentì godere tra le sue dita. Lo sperma caldo eruttò violento, colpendo il muro e colando sulla sua mano. L’odore di sesso e di piacere a lungo desiderato si diffuse nella stanza, mentre l’uomo si ritraeva da dentro.
Marie si voltò guardandolo negli occhi, senza dire nulla. Poi strinse con le braccia sottili il suo corpo e lo baciò. Oz ricambiò il bacio mescolando intimamente saliva tra le labbra e sperma sui corpi nudi e intrecciati.
Si baciarono a lungo, dolcemente voraci, finché le rispettive erezioni tornarono a farsi sentire, l’una contro l’altra. Marie allora staccò le labbra dalle sue e, dopo averlo stretto a sé forte un’ultima volta, si avviò verso l’uscita in fondo alla sala, quella che conduceva alla sua stanza da letto. Sulla porta, si voltò e lo guardò, con quel sorriso dolce e intrigante che l’aveva sedotto da subito. Gli fece un cenno e sparì oltre.
Oz rimase fermo, in piedi, nudo e solo nella stanza. La mente aveva ricominciato a elaborare, vorticare nei molteplici pensieri che si accalcavano uno sull’altro. Infine sorrise tra sé, e con un’alzata di spalle la seguì.

“Il piacere &egrave un peccato, ma qualche volta il peccato &egrave un piacere.”
(George Byron)

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