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Terapia d’amore (1a di 2)

By 5 Gennaio 2025No Comments

‘drin..drin..drin..’ «Buongiorno parla la signora Giovanna, scusi se la disturbo, chiamo dalla Clinica degli Angeli, i suoi esami sono pronti, il dottore mi ha sollecitato di dirle se può passare a prenderli il prima possibile, grazie e buona giornata.»
Ho chiuso la chiamata con uno strano presentimento, ma ero tardi, dovevo passere a casa, togliermi il vestito che avevo su, mettermi in tuta, prendere la borsa del tennis, attraversare mezza città all’ora di punta per incontrare Sara, per la nostra partitella settimanale.
Lei sempre in anticipo, io sempre in netto ritardo. Era la mia serata free, chi perdeva pagava la cena, che di solito, costava una sciocchezza per il cibo, ma lo scontrino si rimpinguava per le bibite. Ad ogni ritorno a casa eravamo passibili di ritiro della patente.
Solo arrivando a casa, mi sono accorta di aver lasciato il portafoglio in ufficio, e mi sono messa a cercare nelle tasche di giacche e giubbotti di Filippo, mio marito, che di solito, «guai un mal» come diceva lui, teneva sempre qualche banconota di scorta. Pescando con la mano nel cappotto appeso sull’attaccapanni, ho sentito al tatto la molletta portasoldi, e un altro foglio di carta ripiegato. Ho preso il tutto, ‘sequestrando’ 50 euro, e aprendo il foglietto ho notato che era la fattura di un residence, dove ho letto: “Villa delle Rose”, l’indirizzo, i numeri di telefono, e sotto le varie voci pagate: camera doppia Premiere 200euro; colazioni x 2, 40euro: totale 240euro. Avevo ancora i soldi di Filippo in mano e ho preso altri 100euro.
Insomma spandeva 240euro per fare sesso con la sua tirocinante, almeno 150 potevo intascarmeli. Era proprio uno stupido, dimenticarsi di una prova così lampante, se fossi stata un’altra donna… Forse, però, era proprio lui a ritenermi stupida o cieca, se credeva che non lo sapessi da tempo. Le sue camice messe direttamente in lavatrice dopo quattro ore che le aveva indossate, e quando le controllavo: vedevo gli aloni di fondotinta sul colletto, puzzavano di un profumo da ragazzina, e a volte pescavo tra la stoffa dei lunghi capelli biondi. Se credeva che non avessi capito si sbagliava di grosso, ma a me non importava proprio per nulla.
Filippo aveva uno studio di avvocati, e ogni tanto arrivavano alcune tirocinanti, 25-26enni giovanissime per lui che ne aveva 45, e il mio buon maritino le infarinava sulle procedure lavorative, e le intortava per portarsele a letto. Spesso prese da fantasticherie di possibili carriere, che era quello che lui prometteva, per qualche tempo se le portava in qualche hotel e sfogavano: i loro ‘appelli’ e le loro ‘petizioni’.
Tutte però alla fine scappavano da quell’ufficio e dal mio consorte, probabilmente perché: dopo qualche notte di ‘passioncina’, scoperto tutto il menù che gli veniva offerto, e considerato, anche il ‘lombrichino’: corto e secco, che madre natura gli aveva dato in dotazione, credo che pensassero che fosse meglio far carriera in altri uffici, più forniti.
Ieri doveva essere ad una conferenza a Bologna, non in un residence a 15 minuti da casa, ma poco mi importava.

Educata da una famiglia ricca e ultraconservatrice, il sesso per me era sempre stato un nemico da combattere, e di certo la mia vita erotica con il piccolo ‘anellide’ di Filippo, non me lo aveva fatto diventare amico.
Vedere la faccia arrossata, il sudore della fronte; sentire i suoi versi animaleschi, per soli dieci minuti, e poi la piccola morte lo coglieva, mi faceva quasi sorridere, altro che eccitare.
Comunque chiudendomi la porta alle spalle e pensando a Ivan Lendl, grande tennista di qualche anno fa, ho dimenticato la telefonata e ed i puerili giochini di mio marito.

Il pomeriggio dopo, quando sono arrivata in clinica, avevo la testa annebbiata dai bagordi etilici, che fino all’una mi avevano trastullata, in compagnia di una brillante Sara. Io e lei eravamo amiche da sempre, stesso liceo, stessa facoltà di Lettere, ed anche i nostri lavori erano affini: io ero socia di una Casa Editrice, con il sogno di diventare una grande e affermata scrittrice, lei aveva scelto il giornalismo e lavorava per una importante testata nazionale. Coetanee, entrambe 35 anni, due belle donne, che non passavano quasi mai inosservate, anche se spesso cacciavamo in malo modo gli ‘scocciatori’ per starcene da sole. Credo che Sara avesse da sempre un debole per me, che covasse dentro un’attrazione erotica nei miei confronti, non che fosse lesbica, infatti ieri sera si era portata a casa un ragazzo di 25 anni, che era in un tavolino in parte al nostro con un amico. L’amico avrebbe voluto strabiliarmi con le sue doti da ‘macho’, ma l’unica differenza che c’era tra me e Sara era proprio questa: lei ci stava, io rifiutavo. Comunque il tipetto era molto affascinate.
Sono entrata in quella struttura ospedaliera e una ‘sbuffata’ di disinfettante mi ha aggredito le narici, poi ho parlato con un’infermiera alla reception, che mi ha fatto accomodare su una sedia. Pochi minuti dopo ero in un ambulatorio, ed un dottore del viso arcigno mi ha fatto capire che c’era qualcosa di anomalo nelle mie analisi: un forte calo dei globuli rossi, ed un aumento considerevole di quelli bianchi. Le possibilità, a sentir lui, potevano essere molteplici, e mi ha consigliato di fare esami più specifici, mi ha anche cercato di tranquillizzare, e prima di uscire mi ha detto la frase, che dopo il Covid anche i cani sapevano: «Andrà tutto bene», parole che prevedono però che ci sia qualcosa che non va. Per me poi che ero agofobica, si prospettavano altre torture. Scesa per strada, ho cercato di non pensarci, e di aspettare i prossimi risultati.

Ho incontrato Sara in un bar per un aperitivo, e mi ha raccontato dettagliatamente la sua super nottata con Leonardo, il prode cavaliere di quella sera al ristorante, ne era entusiasta e si erano ritrovati spesso tra le lenzuola di casa sua. Lei sapendo tutto la mia situazione con Filippo: le corna, il mio non apprezzarlo a letto, la mia scarsa ricerca di un altro, mi spronava di lasciarmi andare, ma nella mia cocciutaggine e nel mio disinteresse verso il sesso, le dicevo che stavo bene così.

Forse preoccupata dalle analisi nuove che avevo fatto, la settimana seguente mi sentivo stanca, demotivata, avrei voluto sempre dormire, anche se quel sonno non era assolutamente ristoratore, ma mi sono tenuta tutte dentro per non allarmare nessuno inutilmente. Poi lo shock, una dottoressa, dopo aver visto i risultati degli esami e la T.A.C mi ha detto, con empatia e delicatezza, che avevo, per farla breve, un tumore al seno in fase iniziale: ancora circoscritto a pochi linfonodi adiacenti. Un lieve giramento di testa, la vista appannata, non volevo ascoltare le parole che mi stava dicendo, come un condannato speravo in un indulto, o di svegliarmi nel mio letto dopo aver solo fatto un brutto incubo. Poi la sua voce mi ha distolto dal torpore: «L’abbiamo scoperto in tempo, non deve preoccuparsi, già domani faremo una riunione d’equipe e valuteremo attentamente i possibili trattamenti, ma se fosse per me preferirei prima bombardare le cellule malate con una terapia specifica, poi valutare le altre opzioni più invasive. Si ricordi che il 90% delle donne, un anno dopo la terapia si dimenticano di averlo avuto. Comunque è in buone mani, saremo una squadra e le saremo accanto in ogni momento ne abbia bisogno.»Quelle parole avevano, appena appena, tinto di chiaro il nero e fuligginoso futuro che mi si delineava davanti. Uscendo da quello studio ho focalizzato: avevo un tumore al seno.

Quella sera, per fortuna, ero a casa da sola, non avrei potuto sopportare la presenza di mio marito, che, se glielo avessi detto, avrebbe risolto in breve, con la sua aria da saccente, con qualche inutile frase fatta. Invece io mi sentivo invasa, annichilita, terrorizzata da un male che fino a ieri non esisteva. Qualcosa mi stava distruggendo da dentro, e la mia mente roteava intorno alle parole: chemioterapia, radioterapia, asportazione mammaria, senza tregua, come inglobata in un vortice senza fine. Quando si è fatto buio, non riuscivo: né a leggere, né a guardare la tv, e neppure a stare sdraiata, e per cercare di straviarmi, bardata di: giubbottone, sciarpa e guanti, sono scesa a fare una passeggiata, nel gelo di una serena notte di dicembre. Vedevo le stelle splendere come non avevo mai notato, o forse, presa sempre da altro, non le avevo mai osservate così. Le strade deserte, le luci di Natale nelle case, scatenavano, in me, tempeste di emozioni tetre e cupe. Il giorno prima di Natale era alle porte, ma per me un altro tipo di vigilia era pronta ad aspettarmi, una vigilia di battaglia con un male sconosciuto fino a poche ore prima. Come cambia la vita in un attimo, spesso non ci diamo neppure troppa importanza se capita agli altri; ma che scava, scardina, demolisce se capita a noi.
Rimettendo poi tutto insieme, oltre alla stanchezza, alla spossatezza sentita nelle settimane precedenti, avevo accusato anche altri sintomi che ora collegavo, una leggera squamatura del capezzolo destro, e un lieve dolore al braccio che però imputavo alle partite di tennis.

L’ho solo detto a Sara, agli altri avrei aspettato di capire quale tipo di terapia mi sarebbe stata consigliata; e lei da vera amica, dall’alto del suo acume e della sua intelligenza, mi è stata vicina senza mai una frase sbagliata, o un comportamento troppo compassionevole. Quando quella sera dopo una veloce pizza alle 21: lei andava a casa ad aspettare Leonardo, per condividere il suo matrimoniale; io tornavo nella mia a condividere la solitudine con Filippo. Iniziavo a vedere le cose con altri occhi, prima mi sembrava di poter rimandare tutto al domani, adesso volevo recuperare il tempo andato in ozio e piccole paure inesistenti. Il terrore di deperire fisicamente: di perdere i capelli, di non poter vedere la mia 4a allo specchio e toccarmela, sentendola, come sempre era stato, piena e tonica, di aver sprecato un corpo senza neppure conoscere quello che di bello avrebbe potuto offrirmi mi faceva indignare con me stessa.
Era arrivato il momento di cambiare, di riporre in soffitta i tabù, i ‘proibito’, i ‘vietato’ che mi portavo nella testa. Prima di tutto volevo sistemare le cose con Filippo e spiattellargli tutto sul muso, tutte le falsità che prima non mi urtavano, ora mi facevano sentire oltraggiata da tutte le sue bugie e tutti i suoi sotterfugi.

Il pensiero costante al mio male era una fissazione assidua, un pungolo che premeva dentro me. Ma quando la dottoressa mi ha detto che il primo passo poteva essere meno invasivo del previsto, mi sono leggermente sentita alleggerita, mi proponevano una terapia endocrina a bersaglio molecolare, per poi vedere quello che sarebbe successo. Vivevo come una persona borderline, a volte da una parte del rasoio ero distrutta, chiusa in me stessa, ma quando scivolavo dall’altra, mi sembrava di essere una ventenne piena di energia e di voglia di scoprire cose nuove. Avevo iniziato maliziosamente a vestirmi sexy, ha far notare il mio bel corpo, fino ad allora seppellito in abiti larghi e indossati senza gusto.

Avevo un capriccio da togliermi, si chiamava Matteo, un giovane architetto che aveva il suo studio nello stesso palazzo della mia Casa Editrice. Di sfuggita ci vedevamo tutti i giorni, ed un pomeriggio in ascensore mi aveva chiesto di uscire con lui, di andare a mangiare qualcosa insieme, facendomi capire chiaramente qual era il programma per il dopo cena.
Era davvero bello, i suoi occhi nocciola con taglio orientaleggiante ti inchiodavano a lui, i suoi capelli castani lunghi e mossi, il suo fisico atletico, e senza pensarci troppo l’ho invitato io a cena fuori. Quella sera ogni dieci minuti mi messaggiava non credendo che mi sarei presentata. Invece quando ha fatto il suo ingrasso nel locale concordato, ero lì seduta in un vestitino nero corto ad aspettarlo con uno spritz in mano. Già quando mi stavo vestendo, osservandomi allo specchio, mi sono accorta che: avere cura di me, incontrare qualcuno che mi piaceva e l’incertezza di quello che sarebbe successo, mi allontanava dal mio quadro clinico; era ora di vivere, domani ci avrei ripensato al resto.

Dopo una cena passata a stuzzicarci, ho sentito, forse per la prima volta, un grande impulso di voler possedere quell’uomo, di toccarlo, di accarezzare il suo corpo e nutrirmene. Alle 22:00 ero sul divano di casa sua, e aiutata dall’apporto alcolico, disinibita ed eccitata con non mai, ho iniziato a spogliarlo, fremendo di passione. Quando ho visto il suo pene: lungo, marmoreo, glabro, con il prepuzio che ricopriva la sua rotonda punta, avevo il perizoma madido dei mie liquidi. Con un mano lo sfioravo in tutta la sua lunghezza adorandolo, e con l’altra le carezzavo il torace muscoloso, liscio e caldo.
Eravamo entrambi nudi, e mi piaceva che mi vedesse così, ed ho iniziato a baciargli il collo, i pettorali, poi sono scesa agli addominali e seguendo una sottile linea di peli scuri e morbidi, sono arrivata al suo grande membro, e tirandogli indietro la pelle, ai movimenti in su e giù della mano, ho aggiunto la mia bocca che ha preso tra le labbra quel cazzo che sapeva di buono. Lui respirava forte e mi faceva fare, ed io sperimentavo il vero piacere, la vera voglia di qualcuno. Non lasciavo nulla al caso, tutta la notte precedente, nella mia lunga e consueta veglia, avevo già immaginato, quello che stavo per fare realtà. Adoravo quel corpo, adoravo il suo sesso, che leccavo con parsimonia perché tutto non finisse. La mia lingua roteava sulla sua cappella, poi me lo infilavo in bocca fin che mi stava, e con la mano muovevo il resto. L’ho messo i mezzo ai miei seni, e lo cullavo tra di loro. Era assurdo che tenessi quella cosa sana ed eretta tra le mie grosse e malate tette, ma sentivo calde pulsazione tra le mie gambe, e quel pensiero l’ho fatto scappare via da me e da quell’attimo indimenticabile.
Mi ha presa delicatamente e mi ha poggiata sulla schiena sul divano, mi ha divaricato la gambe ed ha perlustrato con la bocca la mia bruciante vagina. La sua saliva mi dava sollievo, e la sua lingua mossa con maestria mi elevava ad una dimensione quasi ultraterrena, eterea, e quando il contatto con la sua bocca è diventato ritmato non ho fatto altro che lasciarmi scivolare verso un delizioso orgasmo che mi ha scossa tutta, in spasmi e leggere grida di puro ed inaspettato godimento.
Ormai ad ogni leggero tocco sussultavo, allora dopo un lungo bacio, mi sono inginocchiata su di lui, ed ho ripreso il mio meraviglioso svago, ma stavolta volevo che venisse, volevo farlo smaniare, soffrire di passione come aveva fatto a me. Ho visto il suo corpo contorcersi, ho fissato i suoi occhi che si erano fatti velati, e ho sentito il suo caldo liquido riempirmi la gola, con la mano ho stretto e mosso più veloce il suo cazzo, e con la lingua lo leccato tutto, ripulendolo fino all’ultima goccia, fino che le sue lievi spinte si sono fermate. Gli ho sorriso, ero felice, ero sazia di emozioni e scarica di tensioni che mi pedinavano giorno e notte come un’ombra di angoscia.
Con la scusa che si era fatto tardi, mi sono rivestita, con Matteo che mi implorava di rimanere a dormire da lui. Rassegnato ai miei no, in verità io volevo rivederlo, e gli ho detto, spudorata come neppure credevo di essere: «Se domani mi inviti a cena dormo con te, solo se facciamo l’amore tutta la notte, ok?» Il suo sguardo è tornato disteso e baciandomi mi ha risposto: «Tu mi farai innamorare così, è da più di un anno che penso a te, lo sai? Domani quando vuoi io ti aspetto qui, e facciamo tutto ciò che vuoi, lo sai che sei splendida?»
In macchina lungo la via del ritorno neppure l’ombra di sensi di colpa, nessun pensiero al demone che avevo dentro, anzi mi sono detta che avrei affrontato tutto con più forza e più determinazione sia: con mio marito, che con quella sordida e schifosa malattia. In due settimane da quella tremenda notizia io ero un’altra persona, pronta ad affrontare il futuro vivendo, non più nascondendomi dietro il nulla che mi facevo andar bene.

(continua nella 2a e ultima parte)

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