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Tornando a casa

By 12 Maggio 2015Ottobre 2nd, 2021No Comments

Un lieve sospetto, la sensazione che qualcosa non quadrasse del tutto. Ma non ci pensò troppo e presto lo dimenticò.

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Pasquale Antuono, detto Chicco, chissà perché, forse così lo chiamava sua madre da bambino, lavorava come area manager per l’Europa del Sud (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) per la sua azienda, specializzata in macchinari per la lavorazione di materie plastiche.

Ingegnere, quarantasei anni, parlava bene lo spagnolo, sapeva cavarsela col portoghese e, quando doveva visitare i clienti greci, si affidava all’inglese o in casi estremi a un interprete. Aveva presto compreso che quel poco di greco antico che aveva imparato al liceo classico non era per niente sufficiente nel mondo degli affari.

Quel lunedì di febbraio, nell’imminenza della sua partenza per Siviglia, dove era prevista la firma di un grosso ordine, mise come al solito al corrente sua moglie Silvia dei dettagli del suo viaggio: in quale albergo si sarebbe fermato, quali clienti avrebbe visitato, con quali colleghi della succursale spagnola si sarebbe visto.

Le disse anche di essere stato invitato alla partita Sevilla – Borussia per l’Europa League e che quindi quel giovedì sperava di dimenticare le disgrazie della sua squadra, il Milan, assistendo a un confronto ad alto livello tra due formazioni protagoniste del calcio europeo.

Chicco era amichevole, solare, allegro, benvoluto da tutti, sempre contento (forse per via delle sue origini casertane, anche se era nato e cresciuto a Milano) e non vedeva l’ora di sedersi allo stadio con i suoi colleghi spagnoli.

Contava di tornare venerdì entro sera col contratto firmato.

Invece, con sua gran sorpresa, il cliente aveva acquisito un’importante commessa e aveva una fretta pazzesca di cominciare a produrre. Necessitava i suoi macchinari al più presto e quindi voleva concludere senza ulteriori indugi. Non ci furono trattative sul prezzo e la riduzione dei tempi di consegna e di installazione fu l’unico punto di discussione. Già il martedì pomeriggio, quindi, Chicco poté contare con la firma del presidente sul contratto.

Decise a malincuore di rinunciare alla partita, preferendo tornare a casa al più presto con un contratto di diversi milioni in tasca (già stava mentalmente calcolando le sue commissioni) e riuscì a cambiare il biglietto per un volo del mercoledì mattina. Sarebbe arrivato alla Malpensa poco prima delle tre del pomeriggio.

Appena sbarcato, prima ancora di ritirare i bagagli, chiamò sua moglie al lavoro per avvertirla del cambio di programma.

– Studio Spoldi come posso esserle utile? – Era lo studio di avvocati fiscalisti dove Silvia lavorava.

– Gina?

– No, sono Erika.

– E che fine ha fatto Gina? – Gina era l’assistente di Silvia. Lavoravano insieme da molti anni ed erano molto amiche.

– È in ferie fino a lunedì. Che posso fare per lei?

– Posso parlare con la dottoressa Silvia Gianzini?

– Ah… No, lei è… Chi devo dire? – La ragazza rivelava un certo imbarazzo.

– Sono Chicco, suo marito. Ho urgenza di parlarle un minuto.

Passò un considerevole lasso di tempo, forse un paio di minuti. Era davvero sorpreso.

– Mi spiace – Alla fine rispose Erika, con una certa esitazione nella voce – ma la dottoressa Gianzini è in riunione e non può essere interrotta. Non so dirle quando si libererà. Posso lasciare un messaggio?

– Non importa, le dica solo che ho chiamato. Tanto la vedrò stasera. – E chiuse la comunicazione.

Qualcosa non andava. La sera prima si erano parlati al telefono e Silvia gli aveva assicurato che avrebbe passato tutto il giorno in ufficio.

Possibile che non potesse parlare un minuto con lui, anche se fosse stata impegnata col più difficile dei casi?

L’altra stranezza era l’assenza di Gina. Silvia voleva Gina sempre accanto a sé, non si fidava di nessun altro. Una volta l’aveva fatta venire in ufficio anche con la febbre a trentotto e la obbligava a prendersi le ferie in coincidenza con le sue. Che lei fosse in ufficio senza Gina era davvero inconsueto.

Provò a chiamarla sul cellulare, ma scattò subito la segreteria, come se il telefono fosse spento.

Recuperò i bagagli e col treno raggiunse la stazione di Cadorna. Da lì, con la metropolitana fino a Gessate e finalmente con l’autobus scese vicino alla villetta a schiera dove abitava.

Erano quasi le sei di sera. Era tutto buio, fuori e dentro casa.

Disfò la valigia e rimise a posto i capi che non aveva usato nei cassetti e quelli sporchi nell’apposito cesto. Si mise in tuta e si accorse di sentire freddo. Controllò il termostato e vide che era stato regolato sui quindici gradi. Strano, pensò mentre lo alzava a ventidue gradi. Silvia era freddolosa e le basse temperature la mettevano di malumore.

Di solito sua moglie rientrava verso le sette, ma alle otto ancora non si era vista. Chicco si preparò qualcosa da mangiare. Trovò delle uova e le fece al tegamino. Avrebbe preferito qualcosa di più sostanzioso, poiché aveva quasi saltato il pranzo, ma la preoccupazione gli chiudeva lo stomaco.

Si mise davanti alla Tv aspettando la moglie. C’erano le partite di Champions League, ma la sua squadra non si era qualificata e quindi l’interesse era abbastanza limitato.

Il tempo passava e sua moglie non tornava. Cominciò a preoccuparsi. Se le fosse successo qualcosa? Un incidente, un malore… Però poi pensò che in quel caso qualcuno avrebbe chiamato casa per avvertire, e invece il telefono non registrava nessuna chiamata persa e nessun messaggio nella segreteria.

Provò ancora a chiamare il suo cellulare, ma lo trovò spento come al solito. Si chiese come mai. Forse un guasto? Forse scarico?

La paura che a sua moglie fosse capitato qualcosa di grave continuò ad aumentare.

Alle nove e mezza non riusciva più a stare seduto e si trovò a camminare nervosamente per tutto il salotto in preda alla preoccupazione più nera.

A quel punto squillò il cellulare. Era Silvia.

– Pronto?

– Chicco, tesoro! Stavo cominciando a preoccuparmi! Ho chiamato il tuo albergo e mi hanno detto che te ne sei andato! Tutto bene?

– Sì, sì, tutto ok. Solo un piccolo cambio di programma… Tu? Stai bene? Dove sei?

– A casa. Ho appena terminato di lavare i piatti e sono seduta in cucina con una tisana. È piuttosto triste e silenzioso, qui, la sera, senza di te. Tornerai venerdì secondo il programma? Come mai hai cambiato albergo?

– Venerdì sarò a casa, stai tranquilla. Non sono più in quell’albergo perché c’è stata un’accelerazione nella trattativa e abbiamo dovuto spostarci. Cercami sul cellulare, se vuoi parlarmi. – Intanto si guardava intorno, nella vuota e buia cucina dove Silvia sosteneva di essere. I piatti sporchi nel lavandino. Nessuna traccia di sua moglie.

– Niente di nuovo in ufficio? Ho cercato di chiamarti, ma non sono riuscito a fare in modo che ti passassero la chiamata.

– Ah… già. No… niente di speciale. Forse quando mi hai chiamata ero col dottor Cazzaniga. Sai, stiamo lavorando come pazzi per quel progetto dell’Eni… Franco Cazzaniga mi ha aiutata moltissimo. Ti ricordi che ti raccontavo che la trattativa per la fornitura di consulenza legale era a un punto morto e che ci avevano già mezzo buttati fuori? Bene, è stato proprio lui a trovare la via d’uscita e a suggerirmi le mosse giuste. Proprio ieri l’Eni ha annunciato che la nostra offerta è la prescelta e che dobbiamo solo modificare qualche dettaglio di scarsa importanza! Non è magnifico? Lo Studio farà un enorme salto di qualità e per me dovrebbero esserci sostanziose commissioni e probabilmente una promozione! Il capo me l’ha praticamente promessa, potrei diventare partner dello Studio! Non sai come sono contenta!

– Sono felice per te. Vorrei tanto essere a casa, con te, per festeggiare.

– Tranquillo, festeggeremo questo week end. Cerca di non tardare, eh? Sono stufa di stare sola in questa casa vuota, in questo letto così grande e freddo senza di te!

La conversazione proseguì ancora qualche minuto su argomenti di carattere domestico, prima che si salutassero.

Chicco rimase seduto in cucina, come tramortito dal numero di balle che sua moglie gli aveva raccontato. Sentiva un crampo allo stomaco, un sapore acido in bocca, un pulsare alle tempie.

Fino a pochi minuti prima aveva creduto che il suo matrimonio fosse felice e solido come una roccia, non aveva mai messo in dubbio l’amore di sua moglie, ma ora sapeva di essersi sbagliato.

Andò a letto tardissimo, ubriaco e distrutto, ma ebbe comunque difficoltà ad addormentarsi, rigirandosi per ore nel letto. Quello stesso letto nel quale Silvia aveva detto di sentirsi sola.

Si svegliò comunque alle sette con un gran mal di testa, dopo neanche tre ore di sonno. Gli occhi spalancati a fissare il soffitto e a chiedersi se non si fosse trattato di un brutto sogno.

Alle nove e mezza si rassegnò al fatto che sua moglie non sarebbe tornata. Chiamò ancora l’ufficio di Silvia, il centralino stavolta e non il diretto.

L’operatrice disse che la dottoressa Gianzini non era reperibile. Al che la informò che avrebbe chiamato più tardi.

– Mi spiace, ma credo che la dottoressa sia in ferie fino a lunedì. È inutile che la chiami prima.

Chicco ringraziò e chiuse la comunicazione. Doveva fare qualcosa e decise di muoversi. Chissà, forse avrebbe potuto saperne di più.

Chiamò l’ufficio e parlò col suo capo. Gli spiegò di avere un problema personale che lo obbligava a chiedere qualche giorno di ferie. Non ci furono problemi, visto che il contratto era già stato firmato.

A quel punto cominciò a darsi da fare.

Sua moglie non si era ancora convertita alle agende elettroniche e ogni anno comprava un organizer cartaceo e ricopiava diligentemente indirizzi e numeri di telefono. Così ritrovò l’agenda 2014 e cercò “Cazzaniga”. C’era un indirizzo di Monza. Una bella zona, vicino al Parco.

Scese nel box, scartò la Toyota Land Cruiser perché troppo riconoscibile e salì sulla sua vecchia Volvo V60 canna di fucile, più anonima.

Si diresse verso l’ufficio di sua moglie, a Milano, zona Loreto, ma nel parcheggio antistante riservato allo Studio la Mini tre porte rossa della moglie non c’era.

Puntò allora dritto verso Monza.

Seguendo il navigatore, presto si trovò in un quartiere elegante: palazzi di lusso, molto verde, ville esclusive.

All’indirizzo di Cazzaniga corrispondeva una palazzina di due piani e solo quattro appartamenti, con grandi terrazzi, che d’estate doveva rimanere quasi totalmente nascosta dalla fitta vegetazione del grande giardino.

La piccola e rossa Mini di Silvia era parcheggiata quasi davanti al cancello. Sporca, come se nessuno l’avesse spostata da giorni. Gli si annebbiò la vista e fu costretto a fermarsi per asciugarsi gli occhi.

Guardò l’orologio. Ormai era mezzogiorno passato. Decise di trovare qualcosa da mangiare nelle vicinanze per far passare il tempo.

Trovò una pizzeria, ma fece fatica a inghiottire il cibo. Più della metà della margherita che aveva ordinato rimase nel piatto. Non avrebbe saputo dire che sapore avesse.

Centellinò la birra per arrivare alle due e mezza, quindi ritornò all’indirizzo di Cazzaniga. La macchina della moglie era ancora lì.

Lentamente, guidò verso casa, la mente in subbuglio. Non sapeva cosa fosse rimasto del suo matrimonio, della vita felice che aveva condotto fino alla sera prima. Si chiese se sarebbe mai riuscito a sorridere ancora.

La sera, solo a casa, fu un incubo. Si trovò a vagare per le stanze come un fantasma. Non riuscì a decidersi a cucinare per cui si arrangiò con qualche salatino, un avanzo di formaggio e un succo di frutta.

Verso le nove e mezzo di sera ecco la solita rituale telefonata di Silvia.

Allegra e spiritosa lo informò che nulla di nuovo era successo e gli ripeté come lui non avesse idea di quanto vuoto e solitario le apparisse il loro letto senza di lui. Chicco grugnì qualcosa, come a dire che no, non aveva idea di quanto le potesse apparire grande, freddo e vuoto. Lei rispose di non capire e gli chiese cosa intendesse. Lui bofonchiò qualche frase di circostanza, chiarendo che poteva immaginare quanto lei si sentisse molto, molto sola nel letto.

Prima di chiudere la comunicazione le dichiarò il suo amore e le ricordò, con voce commossa, che l’amava più della sua stessa vita.

Si attaccò di nuovo alla bottiglia di amaro per poi virare sul limoncello e finì a letto dopo mezzanotte, confuso dall’alcol e autocommiserandosi senza riuscire a dormire. Sua moglie provava ancora qualcosa per lui? O meglio: aveva mai provato qualcosa per lui? Per caso stava cercando di punirlo? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Aveva forse esigenze di cui lui non s’era reso conto e che non riusciva a soddisfare? Avrebbe potuto correggersi e far meglio? Era ancora in tempo? Oppure lei già si stava preparando a lasciarlo per questo maledetto Cazzaniga?

Si addormentò tardissimo, ma si svegliò comunque, distrutto, prima delle sette.

Rimase seduto sul divano, in ciabatte, con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva lasciato le tapparelle abbassate e la luce spenta. Il latte era andato a male e per colazione non aveva preso che un succo di frutta e un caffè. Era ormai venerdì mattina.

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Alle dieci avvertì il rumore del motore della Mini di sua moglie. Poi quello della porta basculante del garage che si apriva per poi richiudersi dopo che l’auto spegnesse il motore.

Dopo qualche minuto Silvia apparve alla porta che collegava l’anticamera al garage, trascinandosi dietro un trolley.

Dal punto in cui era seduto poté vederla bene: sommariamente abbigliata, come se avesse pensato che non valesse la pena di rivestirsi con cura visto che non prevedeva di uscire dall’auto se non nel garage, con un plaid avvolto attorno ai fianchi al posto della gonna e la camicetta di seta rosso scuro sbottonata quasi del tutto. Il piumino sulle spalle.

Pareva fresca, rilassata, appena docciata, i capelli raccolti con una forcina ancora umidi sul collo. Al quale aveva la collana d’argento con motivi Inca e una pietra dura che lui le aveva comprato da H. Stern durante una vacanza in Perù e che le era costato uno sproposito. Le stava d’incanto.

Passando, Silvia diede un’occhiata in cucina e si fermò di botto vedendo stoviglie sporche accumulate nel lavandino.

Chicco, infatti, non si era preoccupato di riassettare dopo la colazione, né dopo la sbornia della sera prima.

Non le sfuggì neanche che la macchina per il caffè espresso fosse accesa.

Si guardò attorno, allarmata. Poi lentamente, con circospezione, entrò in cucina come aspettandosi di trovare qualche sconosciuto. Le finestre erano chiuse, ma un po’ di luce filtrava tra le persiane.

Passò in sala scrutando ogni angolo. Si avvicinò al caminetto e afferrò l’attizzatoio, senza accorgersi che, seduto in poltrona, al buio, suo marito la stava guardando sorreggendo un bicchiere di succo d’arancia.

Chicco scelse proprio quel momento per palesarsi, agitando una mano nella penombra. Silvia quasi diede un salto all’indietro, prima di riconoscerlo.

– Chicco! O mamma, che spavento! Quasi mi prende un colpo! Quando sei arrivato?

Chicco non rispose subito. Lasciò che il silenzio calasse tra loro per qualche secondo, in modo che a Silvia passasse il batticuore e cominciasse a rendersi conto della situazione.

– Un paio di giorni fa. – La sua voce, bassa e roca, non aveva niente a che vedere con il piglio allegro che lo contraddistingueva sempre.

Silvia parve contrarsi, rimpicciolirsi. Arretrò di mezzo passo, pietrificata dalla sorpresa. Diede l’impressione di vacillare, come se le sue ginocchia faticassero a reggerla. Si lasciò cadere sul divano di pelle color tabacco di fronte al marito.

– Perché non hai chiamato, santo cielo?! Non sapevo niente! Dove sei stato in questi giorni?

Chicco bevve lentamente un altro sorso di succo prima di rispondere:

– Ti ho chiamata, invece. Mercoledì pomeriggio, sia a casa che in ufficio ma non ti ho trovata da nessuna parte. E non c’era nemmeno Gina. – Fece un’altra pausa, prima di continuare: – Poi hai chiamato tu e quando ho risposto ero seduto in cucina. Ho passato la notte nel nostro letto, che tu trovavi “grande e freddo”.

Fuori era spuntato il sole, dopo una mattinata nuvolosa, e un raggio filtrava dalla persiana. I figli dei vicini, due maschietti intorno ai dieci anni, cominciarono a litigare e le loro grida arrivarono attutite. Anche un cane cominciò ad abbaiare.

Nella penombra delle persiane chiuse e delle tende tirate della sala non c’erano altri rumori, a parte il respiro affannoso di Silvia.

Chicco terminò il suo succo e continuò:

– Chissà perché, ma faccio fatica a credere che il letto dove hai passato le ultime notti sia stato così vuoto e solitario. Ti spiace raccontarmi, Silvia? Mi fai capire cos’è successo?

Silvia piangeva ormai apertamente e grossi lacrimoni le scendevano sulle guance.

– Niente, Chicco! Non è niente! Sono tua moglie ed è a te che voglio bene! Quello che è successo non ha niente a che vedere con te… con noi… con quanto abbiamo costruito. È solo una piccola cosa che mi sono sentita in dovere di fare, ma che non mette minimamente in discussione il mio amore per te, Chicco, ti giuro!

– Non ha senso quello che dici, Silvia. Come può non avere niente a che vedere con me, con noi il fatto che tu mi tradisca e mi metta le corna?

– No! No! stavo solo cercando di dimostrare riconoscenza a Franco per l’aiuto che mi aveva dato, non c’entrano i sentimenti: mi sono sentita in debito e ho cercato di ringraziarlo così, niente di più.

Chicco rimase in silenzio un momento, poi si alzò per raggiungere la cucina dove si versò un altro po’ di succo nel bicchiere. Chiese anche a Silvia se desiderasse qualcosa, ma lei scosse la testa senza alzare lo sguardo.

Non lo alzò neanche quando Chicco ritornò a sedersi di fronte a lei.

– Va bene. Adesso spiegami bene in cosa consiste questa “riconoscenza” verso Cazzaniga che ti ha indotta a buttare il nostro matrimonio nel cesso. – Gli venne un pensiero all’improvviso. – Non ti ha ricattata, vero? O sì?

– No! Cosa vai a pensare! È un uomo onesto e rispettabile, un vero galantuomo. Non farebbe mai niente del genere! Mi ha dato un enorme aiuto e lo ha fatto solo per senso del dovere e per solidarietà verso una collega. Non certo perché si aspettasse qualcosa in cambio! Sapeva che non ero stata io la responsabile del pasticcio e non era giusto che dessero a me la colpa, così si è rimboccato le maniche e mi ha tirata fuori dai guai.

– Capisco. Quindi, se lui non ha chiesto nulla in cambio e non è stato lui a suggerire il sesso, sei stata tu a ficcarti nel suo letto di tua iniziativa? È questo che mi stai dicendo? Oppure ho capito male?

– Lo fai sembrare una cosa volgare e sporca! Non è così! Gli ho dato solo ciò che si era meritato, ma non ha niente a che vedere con noi due e con l’amore che ci lega, te lo ripeto, cerca di capirmi!

– Allora si è trattato di qualcosa che t’ho fatto, qualche insoddisfazione che hai maturato nei miei confronti che ti ha spinta a tanto.

– No! No! – Disse Silvia quasi gridando. – Continuo a ripetertelo, non hai fatto niente di male! Si è trattato solo di un atto dovuto per quello che Franco ha fatto per me. Anzi, per noi, per tutt’e due. La mia promozione e il premio che riceverò beneficerà la nostra coppia, potremo concederci una bella vacanza oppure potrai cambiare la Volvo, non capisci? Mentre lui non ci avrebbe guadagnato nulla, così ho pensato che si meritasse pure qualcosa, no? Non l’ho fatto certo per me!

Ci fu un altro momento di imbarazzato silenzio.

– Così, visto che ti arrabbi tanto e che mi accusi di farlo sembrare una cosa volgare, mi stai dicendo che invece è stato qualcosa di bello e di… “puro”? Magari meraviglioso e indimenticabile?

Silvia questa volta non rispose e abbassà gli occhi, che fino a un momento prima le sfavillavano. Calò di nuovo il silenzio, finché Chicco riprese:

– Ti ricordi, Silvia, quante volte t’ho detto che io t’appartenevo? Quasi ogni volta che si faceva l’amore, dopo, te lo dicevo. Anche tu dicevi di appartenermi. Me lo ripetevi senza neanche che te lo chiedessi. – Pronunciò queste parole con calma, con voce piatta e monotona, ma sua moglie colse un lieve tremito.

– Certo, Chicco! Me lo ricordo bene! Non è cambiato niente, io sono ancora completamente tua, come prima, più di prima. Quello che è successo non c’entra con noi, è qualcosa al di fuori, separato, staccato, diverso!

– Come fai, Silvia, a non vedere! A non vedere la contraddizione. Hai dato volontariamente e coscientemente a un altro uomo la cosa più importante che avevo e che credevo solo mia, la cosa di cui ero più orgoglioso al mondo: te stessa! Non posso credere a ciò che sento: mi pare di capire che tu non dia molta importanza al sesso e che sia disponibile a farlo per i motivi più futili. Comincio anche a credere che tu abbia dovuto pregare Cazzaniga di venire a letto con te. O sbaglio? Rispondi prima a questo, e poi dimmi che ciò che è successo è una cosa che non ha a che fare con me, se ci riesci.

– Chicco, io sono sempre la stessa persona e sono qui con te e per te! Quello che è successo non ha importanza! Non ho smesso di essere tua! – Singhiozzò.

– Tutto ciò che facciamo, ogni azione che compiamo ci cambia, mia cara. Sei appena tornata dopo aver passato tre o quattro notti nel letto di un altro uomo. – Fece una pausa per ristabilire la voce che si stava rompendo in un singhiozzo. – Con lui hai senz’altro fatto cose, scambiato intimità che avresti dovuto riservare a me, a qualcuno che ami. Invece… – A questo punto la voce gli si ruppe. – Quante altre notti hai passato con lui?? Solo queste o ce ne sono state altre? E quante? Quante altre volte ti sei fatta scopare, magari in ufficio? – Si asciugò le lacrime, ma era fatica sprecata. Altre gli scesero copiose sulle guance. – Scusa, Silvia, ma non posso fare a meno di chiedermi con quanti altri uomini ti sia “sdebitata” in tutti questi anni! E quanti ne abbia “premiati” dando loro ciò che era mio, come se non fosse di alcun valore!

Silvia non riusciva più a proferir parola, pietrificata. Pareva come rattrappita in sé stessa, i gomiti stretti lungo i fianchi, le spalle curve, le mani a coprirsi la faccia, mentre comunque continuava a scuotere il capo come a negare, a non voler prendere coscienza di ciò che aveva fatto.

Il lungo momento di silenzio pareva non finire mai. L’uomo seduto con aria sconsolata di fronte alla donna in preda alla disperazione. Non si sentiva volare una mosca in casa. Gli unici rumori provenivano da fuori. Suoni banali, di tutti i giorni, il ticchettio dei tacchi di una vicina sull’asfalto, una moto in lontananza, un aereo diretto all’aeroporto di Linate. Il mondo esterno pareva continuare come sempre, del tutto ignaro del dramma che stava avendo luogo in quel salotto.

Chicco posò il bicchiere e continuò:

– Non so cosa fare, non so che ne sarà di noi. Ti guardo e capisco di volerti bene come prima, quanto te ne volevo lunedì, prima di partire. Ma sono sconcertato: continui a ripetermi che il tuo tradimento non è nulla, che non ha niente a che fare con la nostra coppia e allora capisco che tu non ti rendi conto di quello che hai fatto, che MI hai fatto. Ho perso la fiducia in te, Silvia. E non so se riuscirò mai a crederti ancora. Ogni volta che uscirai, ogni volta che suonerà il telefono, ogni volta che farai tardi, anche se avrai tutte le ragioni del mondo io non potrò fare a meno di chiedermi se tu non stia per caso “sdebitandoti” con qualcuno. E che dire di quando dovrò viaggiare per lavoro? Con che preoccupazione pensi che partirò?

Si fermò, poi riprese senza guardarla, come se parlasse a sé stesso:

– Che non ti venga in mente di suggerire che anch’io debba avere un’avventura, tanto per pareggiare i conti, eh? Se lo farai avremmo chiuso. Primo, se tu attribuissi così poco valore alla mia fedeltà tanto da rinunciarci spensieratamente, allora vorrebbe dire che abbiamo proprio una scala di valori completamente diversa e che non siamo compatibili nelle cose che contano. E, secondo, due sbagli non producono una cosa giusta. Due sbagli provocano uno sbaglio ancora più grave della somma dei due.

Si alzò lentamente e si diresse verso la finestra. Abbracciò con lo sguardo il suo curatissimo pezzetto di prato col barbecue in un angolo, coperto da un telo in attesa della bella stagione.

Riprese a parlare, ma questa volta la sua voce aveva un tono più duro e le parole gli uscivano a fatica:

– Ti vorrei prendere per il collo e scuoterti, scuoterti forte, fino a farti sbattere i denti. Non ho mai voluto far del male ad una donna, meno che meno a mia moglie. Ma ora… Per non parlare di quello che vorrei fare a quel Cazzaniga. Digli di starmi lontano e di non farsi trovare da me. Mi dovesse vedere in lontananza, meglio che cambi marciapiede. Non rispondo di me, anche se le tue spiegazioni suggeriscono che sia stata tu a sedurlo.

Silvia scosse la testa come a negare, ma non disse nulla.

Chicco continuò implacabile:

– Sì perché non so se ti rendi conto delle implicazioni. Mi hai detto che non è stata una sua idea, ma ora che ti ha “assaggiata” e si è trovato la tua passera su un piatto d’argento senza nessuno sforzo, si aspetterà che tu sia disponibile tutte le volte che vorrà in futuro. Anche se gli dovessi spiegare le tue ragioni, ti considererà sempre una donna facile, non credi?

Silvia fece per replicare, ma Chicco la zittì alzando una mano.

– Magari potrò credere che non la daresti a cani e porci, ma per lui tu sarai sempre una da prendere tutte le volte che ne avrà voglia. E alla fine perderà la stima e il rispetto per te e anche nel lavoro finirai per pagarla cara.

Poi continuò, la sfiducia negli occhi:

– Se vuoi, anzi, se vogliamo che questo nostro matrimonio torni a funzionare dobbiamo essere preparati a vivere ora per ora, giorno per giorno, settimana dopo settimana come se fosse l’ultimo per poter riaprire uno spiraglio di comunicazione e di fiducia tra di noi. Dobbiamo essere ferocemente determinati e pronti a riprenderci da infinite delusioni, infiniti momenti di difficoltà, infiniti passi indietro. E a poco a poco ricostruire.

Tirò un lungo sospiro.

– Non sarà per niente facile e, se vuoi la verità, non sono affatto sicuro di farcela. Ci vorranno mesi, forse anni prima che ci si senta a nostro agio come prima tra noi due. Sempre che ci si riesca. Intanto da stanotte non voglio più dormire con te. Starò nella stanza degli ospiti e domani andremo all’Ikea a comprare due letti singoli da mettere al posto del matrimoniale. Questo è il massimo che posso fare per il momento: non cacciarti e non andarmene. Ma tornare ad essere come prima è un’altra storia e per ora non se ne parla.

Si girò a guardare sua moglie, seduta al buio sul divano.

– Io voglio provare a salvare questo matrimonio. Magari, con un po’ di fortuna, ce la potremo fare se anche tu ci metterai tutto l’impegno necessario nei mesi a venire. Lo spero proprio. Perché ti amo ancora, Silvia.

E, dicendo queste parole, si infilò il giaccone e uscì nel freddo di quella livida mattina di febbraio chiudendo la porta dietro di sé a non sentire i singhiozzi sommessi di sua moglie.

PERTE II

Ho rovinato tutto.

Chicco è uscito, mi ha scoperta e il nostro matrimonio è distrutto.

Magari riusciremo a rimanere insieme, a ricucire poco a poco un rapporto, ma non sarà mai più come prima, ne sono perfettamente consapevole.

Mi addolora enormemente vederlo così ferito, arrabbiato, deluso, insicuro, infelice… So di avergli dato un colpo mortale e so che non se lo merita.

Perché un uomo e un marito migliore io non avrei potuto desiderarlo, nemmeno nei miei sogni. Un uomo attento, dedicato, premuroso, divertente, orgoglioso della sua famiglia e di me in particolare, a cui dedicava tutte le sue attenzioni.

Abbiamo avuto le nostre discussioni, finite sempre con gloriose riconciliazioni e con sessioni di sesso vario e piacevole. Sì perché anche come amante Chicco non è secondo quasi a nessuno.

Mi addolora enormemente. Ma lo rifarei. Non ho potuto farne a meno.

Chicco ed io ci conosciamo dai tempi dell’università e quando abbiamo cominciato a frequentarci non potevo credere di aver trovato un ragazzo così serio, intelligente, innamorato e con le idee chiare su carriera e matrimonio.

Fino ad allora avevo avuto tre o quattro brevi storie con certi deficienti senza cervello che neanche mi guardavano se non quando avevano voglia di scopare e che perdevano immediatamente interesse appena gli si ammosciava.

Uscire con Chicco, invece, per me è stato come scoprire un mondo. Parlavamo di tutto, andavamo insieme dappertutto, facevamo progetti, esploravamo il mondo e i nostri corpi, ci aiutavamo a vicenda.

Diventammo ben presto inseparabili. Lui trovò lavoro e presto le sue qualità emersero al punto che lo promossero Capo Area. Pensammo allora di sposarci, visto che i soldi non erano più un problema, anche se io non mi ero ancora laureata (Legge, alla Cattolica di Milano).

Decidemmo di aspettare per avere dei figli, perché anch’io avrei voluto entrare nel mondo del lavoro e fare delle esperienze significative prima di diventare mamma. Ci misi un po’, ebbi anche delusioni e addirittura delle crisi depressive, che superai anche e soprattutto grazie all’aiuto e al supporto di mio marito. Alla fine, una volta laureata e dopo molti tentativi andati a vuoto, trovai questo lavoro allo Studio Spoldi.

Mi ci buttai a capofitto e mi misi presto in luce. Oggi, a quasi quarant’anni, posso dire di essere arrivata dove volevo: un lavoro interessante e stimolante anche se impegnativo, uno stipendio a cinque zeri comparabile a quello di Chicco e la prospettiva di un altro salto di qualità. Di avere figli non ne abbiamo più parlato e ormai credo che sia troppo tardi per me.

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Avevo sentito parlare in ufficio di questo Cazzaniga, ma non l’avevo mai visto. Prima perché per qualche anno aveva vissuto a Roma facendosi carico della nostra locale filiale, poi si era preso un anno sabbatico per traversare l’Atlantico e circumnavigare il Sud America in solitario con la sua barca. Una volta passato Capo Horn avrebbe risalito il continente lungo le coste sul Pacifico e traversato il Canale di Panama. Poi sarebbe ritornato riattraversando l’Atlantico, questa volta percorrendo una rotta più settentrionale, seguendo la corrente del Golfo.

Per mesi non se ne sentì più parlare.

Finalmente, tre mesi fa, il mio capo mi chiamò nel suo ufficio. Quando entrai lo vidi in compagnia di altri colleghi e di uno sconosciuto. Un uomo alto, sulla cinquantina, i capelli brizzolati, abbronzato, elegantissimo. Me lo presentò come il dottor Franco Cazzaniga, informandomi che avremmo dovuto lavorare insieme sul progetto Eni.

Cazzaniga mi strinse la mano, una stretta forte e calda. Mi sorrise, mettendo in mostra denti bianchissimi che parevano scintillare per il contrasto con il volto abbronzato. Mi guardò con simpatia, con gli occhi più profondi e azzurri che avessi mai visto.

Il mio capo continuò a parlare, ma io non lo ascoltavo più. Mi sentivo avvampare, come se tutto il sangue fosse affluito verso la mia faccia, abbandonando le ginocchia che invece sentivo cedere.

Mi stava succedendo quello che spesso capita alle ragazzine alla prima cottarella: non capivo più nulla. Era come se un faro illuminasse la divinità che mi stava di fronte e tutto il resto del mondo fosse piombato in una indistinta oscurità. Il cuore mi batteva così forte che credetti che tutti l’avrebbero potuto sentire e i miei capezzoli s’indurirono istantaneamente dentro al reggiseno.

Cercai di rispondere al suo saluto, ma mi ritrovai a bofonchiare parole senza senso. Alla fine mi ripresi e riuscii a pronunciare, anche se non troppo chiaramente:

– Piacere. Silvia.

Non erano passati neanche dieci secondi dal momento in cui i suoi incredibili occhi azzurri mi avevano guardata e io mi resi conto di non avere mai provato, neanche lontanamente, un’attrazione fisica così forte, intensa e immediata per nessun altro in tutta la mia vita.

Eppure oggi, tre mesi dopo, mi rendo conto che Franco non è poi così bello. Certo, è alto, snello, in salute, ma il naso è troppo grosso, deve ricorrere agli occhiali da lettura, si sta stempiando (visto da dietro si vede già una piccola “piazza”) e sul collo ha una voglia color caffè abbastanza antiestetica.

Però quel giorno è stato come se tutto il suo testosterone si fosse fatto strada attraverso il mio corpo e avesse raggiunto la mia passera istantaneamente, lasciandomela pulsante in un lago di umori.

Mi chiesi cosa mi stesse succedendo, mentre lo guardavo come un leone può guardare una gazzella. Se me l’avesse chiesto mi sarei lasciata scopare da lui lì, sulla scrivania del capo, davanti a tutti.

Cominciai a sudare.

Com’era possibile!? Io, una donna felicemente sposata, realizzata, con un progetto di vita concreto e promettente ero pronta a gettare via tutto anche solo per una notte in compagnia di quest’uomo di dieci o quindici anni più anziano di me, che manco conoscevo? Eppure, per quanto cercassi di darmi un contegno, la lussuria che provavo me lo rendeva irresistibile.

Il resto della riunione passò senza che io me ne rendessi conto. Non ricordo nulla di quanto fu detto e fu deciso. Non riuscivo a non pensare ai suoi occhi azzurri, al calore della sua mano, al suo sorriso ipnotico. Mi ritrovai ad accavallare le gambe con forza, tenendo i muscoli pelvici in tensione spasmodica (per fortuna nascoste dal tavolo della riunione) e a fantasticare di cazzi e penetrazioni, mentre i colleghi ragionavano di cause e clienti.

Mi chiesi come fosse il suo cazzo. Magari il suo cognome, CAZZaniga, era di buon presagio.

Intervenne anche in una discussione, senza che capissi di che stesse parlando, perché tenevo gli occhi fissi sulle sue labbra, che immaginavo di baciare, mordere o penetrare con la lingua.

O, meglio ancora, a chiedermi che effetto avrebbero avuto sul mio clitoride, già in vibrante risonanza con il suono della sua voce. Mi resi conto che il solo pensiero mi avvicinava pericolosamente all’orgasmo e cercai di distogliere lo sguardo.

Nel corso della riunione capii che non avrei avuto pace finché non me lo fossi trombato. “Fanculo tutto il resto.

Chicco? Che c’entrava Chicco!? Qui si trattava di lussuria, non certo di amore e lui era il tranquillo e prevedibile marito di tutta la vita, felice di tornare a casa e mettersi in ciabatte. Era il futuro, la vecchiaia passata insieme, l’uomo che, semmai avessimo avuto un figlio, sarebbe diventato un perfetto padre.

Franco invece era la passione travolgente dei sensi, l’avventura, il pericolo, l’emozione. Una passione che sarebbe durata qualche settimana, qualche mese al massimo e poi sarebbe terminata lasciando però un devastante cambiamento della mia anima e un ricordo dolcissimo e indelebile.

Capivo di non aver veramente vissuto fino a quel momento e che se non avessi provato almeno una volta l’avventura con Franco la mia vita sarebbe stata smorta e priva di significato, grigia e vuota.

Quando la riunione terminò dovetti andare in bagno a cambiarmi le mutandine, ormai fradice, e ne approfittai per darmi sollievo con le dita. Bastarono pochi secondi e l’orgasmo mi esplose nel cervello con inaudita violenza, lasciandomi però ancora più vogliosa di prima.

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La sera, a casa, cercai di evitare Chicco il più possibile.

Mi sentivo ancora affezionata a lui come prima, ma certo la mia attrazione verso Franco era qualcosa che non avrei potuto condividere con lui e avevo difficoltà a guardarlo in faccia.

Chicco però non si accorse di nulla, preso com’era dalla partita del Milan, e nei giorni seguenti il mio senso di colpa diminuì e imparai a diventare due donne diverse: Silvia la brava moglie premurosa e affezionata e quell’altra Silvia assatanata peccatrice, almeno nelle intenzioni.

Riuscivo a tenere un atteggiamento quasi normale anche durante il sesso.

I primi giorni dopo aver conosciuto Franco praticamente cercai di uccidere Chicco a letto. Lo costrinsi a performance del tutto inusuali per lui. Tre, anche quattro volte per notte, tutte le notti. Ogni volta glielo facevo rizzare con la bocca, cosa che pareva apprezzare molto e che ricambiava con entusiasmo.

Gli feci intendere anche che mio culo avrebbe potuto cessare di essere tabù, se si fosse comportato bene (in realtà volevo sperimentare la cosa con Chicco, che sapevo attento e premuroso, in modo da non farmi trovare “vergine” in previsione di farlo con Franco, che mi immaginavo potesse essere più aggressivo e meno considerato).

Si alzava la mattina con le occhiaie, ma con un sorriso soddisfatto che non riusciva a togliersi dalla faccia per tutto il giorno.

Poi il mio entusiasmo si dissolse appena mi accorsi che ormai per provare un orgasmo dovevo pensare a Franco, ma comunque Chicco pareva non notare nessuna differenza.

Io invece mi rendevo conto di essere più passiva e di non prendere più l’iniziativa come prima, ma riuscivo sempre a lasciarmi coinvolgere, anche se naturalmente nella mia testa ero a letto con Franco e non con Chicco, così che la nostra vita sessuale, anche se leggermente più sporadica e con meno passione, alla fine era comunque accettabile, almeno ai suoi occhi.

La cosa andò avanti per settimane, perché conquistare Franco si rivelò un’impresa molto più difficile di quanto non mi aspettassi.

Franco infatti lavorava duro durante il giorno, ma poi spariva e non ne voleva sapere di ulteriori contatti coi colleghi. Aveva i suoi giri di amici navigatori, i fine settimana erano dedicati all’alpinismo e aveva qualche ragazza che gli ronzava intorno e che condivideva i suoi molti interessi.

Nessuna relazione stabile, più che altro amiche di letto, che vedeva senza impegno di tanto in tanto. Era stato sposato, ma era vedovo da diversi anni e i suoi due figli vivevano ormai da soli all’estero.

Con me teneva un atteggiamento amichevole, ma professionale e i miei moltissimi doppi sensi, le mie audaci allusioni, i miei “accidentali” contatti fisici, le mie gonne troppo corte o camicette slacciate risultavano inefficaci.

Cercavo in tutti i modi di interessarlo, non solo con gli atteggiamenti più ovvi, come mettermi in posizioni imbarazzanti, ad esempio piegata con i gomiti appoggiati sulla sua scrivania in modo che avesse una chiara visione delle mie tette dalla scollatura. Oppure fingendo di cercare un fascicolo nel cassetto in basso del raccoglitore in modo di aver la scusa di agitargli il mio sedere sotto il naso, oltre che a permettere che la gonna salisse a scoprire il bordo delle autoreggenti.

Avevo anche letto in certe riviste femminili di altre tecniche seduttive meno comuni, ma non meno efficaci, come compiere i suoi stessi gesti. Si appoggiava allo schienale? Lo facevo anch’io. Si grattava la testa? E io mi grattavo la mia. Aggrottava la fronte? Anch’io.

Oppure avevo letto di certi comportamenti che potevano suggerire al suo subconscio l’idea che fossi disponibile e interessata, come allargare la braccia, occupare il suo spazio o mostrargli i palmi delle mani.

Nulla pareva funzionare. Strano. Io sono una bella donna, me lo dicono tutti.

Non sono molto alta, ma sono ben proporzionata. Fianchi stretti (non ho ancora avuto figli), gambe lunghe, belle tette rotonde e un culo da perderci la testa.

Anche il viso è interessante: occhi neri come i capelli, pettinati a caschetto, labbra carnose, nasino alla francese. Non potrei fare l’attrice o la modella, ma non passo inosservata, ve l’assicuro.

Non capivo quindi il suo apparente disinteresse. Pensai persino che fosse gay, ma certi suoi vecchi colleghi mi assicurarono che, anzi, ai suoi tempi era stato un bel mandrillo.

Facevo molta fatica a farlo parlare di cose personali e, quando lo faceva, di solito era sbrigativo. Pure, mi dimostrava simpatia, mi sorrideva spesso e si complimentava per le mie capacità professionali.

Ma io, che mi scioglievo come burro ogni volta che lo vedevo o che sentivo la sua voce, non ero certo soddisfatta.

Gina, la mia assistente e una delle mie migliori amiche, si accorse presto che qualcosa non andava nel mio comportamento verso Franco e non mi risparmiava occhiate di disapprovazione.

Alla fine dovetti spiegarle che non c’era da preoccuparsi, che stavo solo cercando di ricordare le tecniche di seduzione prima di diventare vecchia, perché poi non ne avrei più avuto occasione di sperimentarle, ma che si trattava solo di un gioco, di un divertimento e che Franco per me non significava nulla.

Fece finta di credermi, ma le occhiatacce non si interruppero, anzi.

E così, le persone a cui stavo raccontando balle salirono a due. A mio marito, infatti, non solo non avevo confessato la mia folle attrazione per Franco, ma glie l’avevo dipinto come un anziano avvocato, di salute cagionevole, saggio e paterno, alle soglie della pensione. Non solo: in previsione di aver bisogno di dar conto del tempo extra-ufficio che speravo di passare con lui, avevo ingigantito la complessità del contratto Eni, che era sì importante, ma che già da tempo sapevamo che probabilmente avremmo vinto. Così, nel caso avessi avuto bisogno di una serata, avrei potuto giustificarla con qualche aggiustamento urgente della proposta da consegnare il giorno successivo.

Entrambe questa persone mi volevano sinceramente bene e si preoccupavano per me. E io le ripagavo prendendole in giro.

Cominciai a sentirmi spaventata da quanto mi stava accadendo e da come mi stavo comportando. Avevo perso il controllo! Stavo rischiando tutto per cosa? Una cottarella adolescenziale senza futuro? Mi chiesi se non fossi impazzita.

Cosa potevo fare, però? Ogni volta che mi trovavo in presenza di Franco mi tremavano le gambe, il cuore pareva voler esplodere nel petto e mi trasformavo in una gatta in calore, senza riuscire a evitare atteggiamenti civettuoli e provocatori.

Travolta. Ecco la parola: mi sentivo travolta dalla passione e incapace di resistere, in balìa delle mie emozioni incontrollabili.

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Finalmente l’occasione si presentò, qualche settimana fa.

Chicco era in viaggio nel Meridione. Un giorno a Napoli, un altro a Palermo, poi Bari e infine Roma prima di tornare a casa. Ne avrebbe avuto ancora per una notte e sarebbe rientrato l’indomani nel pomeriggio col Freccia Rossa.

Io e Franco invece quel pomeriggio eravamo a San Donato Milanese, nell’ufficio di un alto dirigente dell’Eni che cominciò a spulciare il nostro contratto chiedendo piccole modifiche qua e là.

Alle sette avevamo raggiunto un accordo su tutto, il funzionario si alzò e ci strinse la mano congratulandosi con noi e comunicandoci che il contratto con le ultime modifiche sarebbe andato alla firma della direzione generale l’indomani. Una formalità: il contratto era nostro, ormai.

Chiedemmo al dirigente se avesse avuto voglia di festeggiare con noi a cena. Nicchiò un po’, chiamò la moglie e alla fine accettò.

Pesce. Spaghetti all’astice. Aragosta. E vino bianco. Tanto vino. Un Lugana Santa Cristina fresco di cantina. Una, due, tre bottiglie. E allegria, risate, battute, pettegolezzi sui concorrenti e sugli altri dirigenti Eni.

Chicco mi chiamò al cellulare da Roma e lo informai che ero a cena con un cliente e altri colleghi. Mi augurò la buona notte e mi consigliò di divertirmi. “Già, lo vorrei proprio anch’io” pensai, mentre gli assicuravo, mentendo svergognatamente, di non veder l’ora che tornasse.

Alla fine l’uomo ci salutò dicendo che la moglie l’avrebbe ucciso se non fosse tornato entro una certa ora. Franco pagò l’esorbitante conto (che avrebbe messo in nota spese) e rimanemmo soli, in quella fredda notte di gennaio. Ubriachi e sovraeccitati.

Nessuno dei due aveva voglia di andare a casa malgrado fosse quasi mezzanotte.

Mi chiese se volessi bere qualcosa in qualche locale. Gli risposi avremmo potuto fermarci a casa mia, visto che non avrei voluto tornare a Milano a prendere la Mini nel parcheggio dello Studio (non ero in condizione di guidare. Beh, neanche lui, ma non stiamo a guardare tutto…) e che avrebbe dovuto passare dal mio paese per andare a Monza dove abitava. Avremmo potuto continuare col vino o passare a qualcosa di più forte. “Un solo brindisi”, gli dissi.

Mi guardò intensamente negli occhi. Io morivo.

– Sei sicura?

– Non sono mai stata più sicura di così in tutta la mia vita. – Risposi.

– E tuo marito?

– In viaggio. La casa è tutta per noi. E c’è una bottiglia di Macallan Fine Oak di diciotto anni che ci aspetta.

– Caspita! Ti piace il whisky?

– Non ne capisco niente, ma Chicco sostiene che sia una meraviglia.

– Infatti. Andiamo, allora.

Appena entrati in casa lo aggredii. Schiacciai il mio corpo contro il suo, bloccandolo contro la porta appena richiusa, gli misi una mano dietro il collo e mi issai in punta di piedi a baciarlo sulla bocca.

Rispose al bacio. Mi strinse a sé con le sue forti braccia e io mi sentii volare. Cominciai a divorargli la bocca, ma mi respinse.

– Aspetta, Silvia. Te lo chiedo di nuovo: sei sicura? Perché tu mi piaci, ma di solito non mi metto con donne sposate. Non voglio combinare disastri.

– Non ci pensare. Mio marito me lo gestisco io. Tu pensa solo a baciarmi.

Sorrise e mi prese per mano conducendomi su per le scale, verso la zona notte.

– Per di qua?

– Sì – Risposi con un filo di esitazione: stavo per cornificare Chicco nella sua, nella nostra camera matrimoniale.

Ormai era troppo tardi per tornare indietro, non c’era nulla che volessi di più al mondo e mi convinsi che non l’avrebbe mai saputo.

In camera, in piedi vicino al letto, Franco cominciò a togliermi gli abiti di dosso, baciando la pelle che mano a mano scopriva. Lo faceva con dolcezza, ma intensamente, dimostrando di apprezzare il mio sapore. Io tremavo come una verginella di quindici anni per l’aspettativa e l’intensità delle emozioni che stavo sperimentando.

Mi scoprì dapprima il collo e le spalle, poi mi tolse il reggiseno, denudando i seni e i capezzoli durissimi. Infine si inginocchiò davanti a me e mi liberò della gonna, delle calze e delle mutandine.

Fece un passo indietro.

– Rimani così. Voglio guardarti mentre mi spoglio. Sei così bella…! – E cominciò a togliersi giacca, cravatta e camicia davanti a me.

Non ci sono parole per descrivere come mi sentivo. Non avevo mai sperimentato un turbamento simile: ero eccitata al di là di ogni immaginazione. Sentivo i miei fluidi colarmi lungo le cosce.

Lo guardai emergere dai suoi abiti. Aveva un fisico ancora bello tonico. Non un accenno di pancia, non un filo di grasso. Era ancora leggermente abbronzato su tutto il corpo, senza segni di costume.

Il suo membro era già abbastanza eretto quando si tolse i boxer, e puntava dritto verso di me.

Notai che era lungo più o meno quanto quello di Chicco, ma ben più grosso alla circonferenza e non circonciso. Era magnifico.

Ne rimasi come soggiogata.

Avrei voluto gettarmi in ginocchio davanti a lui e prendere quella sua meraviglia in mano e quindi in bocca, per assaporarlo, per divorarlo, per inghiottirlo tutto intero. Invece Franco mi prese in braccio e mi stese sul letto.

Si dedicò a baciare e a carezzare il mio corpo. Dapprima il viso e la bocca, poi il collo e i seni, sussurrandomi quanto mi trovasse meravigliosa. Io gemevo e inarcavo la schiena a occhi chiusi, completamente fuori controllo.

Fu dolce per qualche minuto, poi però prese a succhiarmi un capezzolo con forza, mentre con la mano tormentava l’altro, tirandolo e torcendolo con decisione, fino quasi a farmi male.

Incredibilmente, venni. Gridai, scossa dall’orgasmo e quindi rimasi abbandonata ansimante, totalmente conquistata. Ma Franco non si fermò. Continuò a baciarmi e a carezzarmi il corpo. Evitò il mio sesso per qualche minuto, poi ci si avvicinò con movimenti circolari fino a carezzarmi la passera dolcemente.

Io, completamente impazzita, non riuscivo a smettere di gemere e mugolare, sempre su bordo del mio secondo orgasmo. Non so quanto tempo passò prima di avvertire la sua testa tra la gambe e la sua lingua sulle grandi labbra: mi parvero ore, ma forse si trattò solo di qualche minuto.

Con la lingua era un maestro: sapeva dare le giusta velocità, la giusta pressione e conosceva i punti giusti. Insistette sul clitoride fino a farmi urlare e venire a ondate. Temetti veramente che il mio corpo esplodesse e che sarei morta di piacere, per ridicolo che possa sembrare.

Lo abbracciai, tirandolo a me e cercando in tutti i modi di farmi penetrare. Lo volevo con tutte le mie forze.

Riluttante a interrompere la leccata, alla fine si convinse e mi montò sopra.

Mi penetrò con un solo morbido e sicuro, cosmico e incredibile colpo, fino in fondo.

Prese a scoparmi dapprima lentamente, con lunghi colpi pausati. Poi aumentò il ritmo e la foga e nella stanza si diffuse il rumore dei miei gemiti unito a quello dei nostri bacini che si urtavano con il caratteristico “sciaff” “sciaff”. Io cercavo di andare incontro ai suoi colpi come se la mia vita dipendesse da ciò. Mi dominava, mi prendeva con forza, con intensità. Ero del tutto impazzita, completamente nelle sue mani, senza volontà.

Lui insisteva, sempre più forte, sempre più veloce, ansimando. E io venni. E venni ancora. E ancora.

Eravamo entrambi in un bagno di sudore ed emettevamo suoni animaleschi. Lui pareva instancabile. Ancora dieci colpi, venti, trenta… Eiaculò, alla fine, tra gli spasmi del piacere, dentro di me.

Giacque sfinito accanto a me. Io mi rannicchiai contro di lui. Non mi ero mai sentita così ben scopata, così soddisfatta, così totalmente posseduta come in quel momento. Non avevo idea che il sesso potesse essere così esaltante.

Ma, contemporaneamente, un secondo pensiero mi attraversò la mente. Che razza di baldracca ero diventata, a tradire così mio marito senza neanche pensarci troppo? Mio marito! L’uomo che mi era sempre stato accanto, innamorato, gentile, devoto, attento, che mi supportava e mi aiutava in tutto! Che cosa aveva fatto di male perché lo trattassi così?

Però un terzo pensiero mi colpì come un pugno nello stomaco: io avrei dovuto farlo ancora, e ancora. Pazienza per Chicco, non potevo rinunciare al sesso con Franco.

FRANCO

Lo sapevo che sarebbe finita male. Dal primo momento che ho visto Silvia ho sospettato che mi avrebbe dato problemi. L’ho capito dal modo come mi ha guardato, dalla folle determinazione nel suo sguardo e dal sorriso da predatrice che le si era stampato in faccia.

Ho fatto di tutto per tenere la nostra relazione sul piano strettamente professionale e per qualche mese ci sono anche riuscito.

Intendiamoci: non è che Silvia sia una cozza o qualcosa del genere. E’ carina, simpatica, professionalmente brava, entusiasta e collaborativa. Ma io non sono certo in cerca di avventure sentimentali. Mi sono innamorato una volta, tanto tempo fa, e lo sono ancora, anche se quella donna, mia moglie, non c’è più ormai da sette anni.

Però penso ancora a lei e non c’è posto per nessun’altra nel mio cuore.

Certo, alle volte vedo il mio letto desolatamente vuoto e mia moglie, da lassù, mi perdonerà se cerco sollievo con qualche altra femmina.

Ho raggiunto un tacito accordo con un paio di amiche del gruppo che mi segue nel trekking e nelle regate e qualche volta (non troppo spesso per la verità), si fermano a dormire da me. Una di loro è fidanzata, ma il suo uomo lavora per una banca tedesca in Germania ed è a casa solo due fine settimana al mese. Credo che abbiano un tacito patto di reciproca tolleranza. L’altra è divorziata, sta benissimo da sola e non pensa proprio a trovarsi un uomo fisso.

Quindi il nostro accordo è perfetto: le due si conoscono, sanno l’una dell’altra senza che se ne sia mai parlato apertamente e si accettano senza problemi.

Poi è apparsa Silvia e il delicato equilibrio costruito in anni di “dico e non dico”, “so ma faccio finta di non sapere” corre il rischio di saltare.

Ormai, a cinquantacinque anni, non sento più la smania e l’urgenza di sesso continuo che avevo nei miei anni giovanili e, sinceramente, dopo una notte passata a scopare, preferisco rimanere da solo e non avere donne per casa almeno per una settimana o anche due.

Perché allora quella notte abbia accettato di passare da casa di Silvia per il bicchiere della staffa non so proprio. Sapevo benissimo che mi sarei messo nelle grane: Silvia era troppo entusiasta, troppo insistente, troppo determinata. Anche troppo poco preoccupata di farsi scoprire dal marito.

Forse l’euforia per il grosso contratto Eni, forse il vino, forse l’innegabile fascino di quella brunetta che non faceva mistero del suo desiderio (“Amor ch’a nullo amato amar perdona” dice Francesca nel canto quinto dell’Inferno di Dante), ma alla fine, contro ogni raziocinio, me la sono trombata.

Per carità, mi sono divertito un sacco, non dico di no. Lei pareva gradire in maniera spropositata. Aveva orgasmi uno dietro l’altro ed era disponibile a tutto.

Non c’è nulla di più gratificante per me che far godere una donna. Preferisco il suo orgasmo al mio, non c’è dubbio, e quella notte Silvia di orgasmi ne ha avuti tanti, più di quanti ne abbia mai procurati a nessun’altra. Un vero toccasana per il mio ego, tanto che dopo la prima chiavata è riuscita a farmelo rizzare di nuovo con un pompino da Guinness dei primati e abbiamo avuto un secondo round, una cosa che alla mia età ormai mi succede molto di rado.

Quando all’alba del giorno successivo me ne andai ero comunque determinato a non ripetere l’esperienza: troppo rischioso, sia perché non provavo per lei quello che invece lei pareva provare per me, sia perché era sposata e l’ultima cosa che avrei voluto era di dovermi preoccupare di un marito geloso che mi inseguisse armato di bastone, e infine perché era una collega e l’esperienza mi insegna di non mettersi mai con le colleghe. Finisce sempre male: alla fine tutti lo vengono a sapere, cominciano i pettegolezzi, le invidie e i rancori, il lavoro ne risente e non ti resta che cambiare aria, magari rinunciando a una bella posizione costruita in anni di fatiche.

Nei giorni successivi affrontai l’argomento facendole presente quanto poco opportuno fosse il fatto che avessimo una relazione, a quanti rischi ci si sarebbe potuti esporre e a quali svantaggi saremmo andati incontro cambiando radicalmente il nostro stile di vita.

Lei parve darmi ragione, ma mentre io intendevo interrompere immediatamente ogni contatto fisico, la sua idea era che la nostra storia avrebbe dovuto fare il suo corso ed esaurirsi spontaneamente nel giro di qualche mese.

Provai a insistere, ma vidi subito che se la sarebbe presa a male e che le veniva da piangere, così feci marcia indietro, sempre più preoccupato per le ricadute negative in ufficio, con questa Gina che ci guardava con aperto disprezzo e disapprovazione, alimentando anche un pettegolezzo contro di noi in tutto l’ufficio.

Infatti sfiorammo il disastro almeno in un paio di occasioni. Lei non riusciva assolutamente a comportarsi normalmente con me. Non ci riusciva prima della nostra nottata e tanto meno ci riusciva dopo: mi lanciava occhiate languide, mi aggrediva in ascensore, mi sussurrava proposte oscene all’orecchio, anche in presenza di altri colleghi.

Io ero imbarazzatissimo e in difficoltà e non so come ho fatto a non farmi scoprire quella volta che ci siamo baciati nello stanzino delle fotocopie e un secondo dopo che ci siamo staccati è entrato il capo, oppure quando m’ha fatto un pompino nel bagno disabili.

Da noi non ci sono disabili e il bagno non viene usato, se non nell’eventualità remotissima di visitatori affetti da qualche invalidità. Ma quella volta il bagno delle donne era occupato e la dottoressa Milani, che aveva mangiato qualcosa che le aveva fatto male e non ce la faceva più, cercò di entrare dove Silvia stava facendo del suo meglio per succhiarmi anche i coglioni fuori dall’uccello.

Trovando la porta chiusa, cominciò a bussare freneticamente. Noi entrammo nel panico non sapendo come uscire da quella situazione senza essere smascherati.

Fortuna volle che finalmente il bagno delle donne si liberasse e che la dottoressa Milani ci si precipitasse dentro, lasciandoci campo libero per andarcene alla chetichella, uno alla volta.

Ero sempre più preoccupato. Quando poi mi propose di prenderci qualche giorno di ferie da passare insieme approfittando dell’assenza del marito (in viaggio per lavoro), mi si rizzarono i capelli in testa. Il primo impulso fu di declinare l’invito, ma non feci in tempo perché lei mi chiese di pensarci e di darle una risposta l’indomani.

Ci pensai, repressi la voglia di negarmi e, anzi, vidi l’opportunità di troncare una volta per tutte.

Così il giorno successivo le confermai il programma e le proposi a mia volta che condividesse qualcuna delle mie passioni. I primi due giorni saremmo andati al mare, nella mia barca e poi avremmo speso gli altri due in montagna, in una escursione invernale in Val d’Aosta.

E così fu. Silvia si presentò a casa mia il lunedì verso mezzogiorno con un trolley (che giudicai immediatamente inadatto per ciò che avevo in mente), vestita con una gonna e scarpe con i tacchi. Pensai che ci sarebbe stato da divertirsi…

L’operazione distruggi-Silvia cominciò appena arrivammo al mio posto barca a Santa Margherita.

Salimmo subito sul cabinato, 6,40 mt, del mio amico Bruno che lo usa solo d’estate e me lo lascia il resto dell’anno. Silvia non era mai salita su una barca a vela e non sapeva cosa fare.

Le dissi subito che avrebbe dovuto cambiarsi: le scarpe coi tacchi non sono permesse in barca, la gonna non è pratica e appena esci dal porto il vento ti gela le ossa se non hai una giacca impermeabile, anche in Riviera. Nella barca c’era qualche indumento per le emergenze: un paio di mocassini da vela, più piccole di un numero rispetto alla taglia di Silvia e una giacca di Gore-tex verde pisello, questa volta due numeri più grande. Si ritirò in cabina a cambiarsi e, dalla sua smorfia, capii che aveva un’idea delle cabine molto più romantica di quanto fossero nella realtà: ce n’erano due, a prua, ognuna delle quali conteneva un giaciglio troppo piccolo per due persone adulte che volessero dormire, per niente accoglienti, con pochissimo spazio per riporre oggetti e indumenti.

Ci dirigemmo verso ponente, io indaffarato con le vele e il timone e lei impacciata a guardarmi, in precario equilibrio. Le chiesi di preparare qualcosa per cena, ma più che una pasta al burro non riuscì a mettere insieme.

Raccolsi le vele, gettai l’ancora e ci fermammo a cenare nella rada di Portofino. Il mare non era mosso, ma certo non era calmo come nel porto e il moto ondoso pareva avere effetti spiacevoli sullo stomaco di Silvia, a giudicare dal colore verdastro che andava assumendo il suo volto. Io invece descrivevo con toni entusiastici le delizie della vita del marinaio, l’avventura, il contatto con la furia degli elementi, la soddisfazione di vincere contro venti e maree.

Silvia non pareva impressionata e mi chiese dove fosse il bagno.

Con sadismo le mentii, spiegandole che, per quanto possibile, per le evacuazioni ci si doveva arrangiare sporgendo il culo fuori bordo, sottovento, per carità! C’era sì un vecchio water chimico, ma la puzza non c’era verso di eliminarla.

Comunque le mostrai il bagno. Vidi il panico disegnarsi sul suo volto quando si rese conto che il lavabo era delle dimensioni di una tazza da caffelatte o poco più e che non c’era traccia di doccia (in realtà c’era, ripiegata e nascosta da un pannello, ma siccome non me lo chiese esplicitamente, non mi parve il caso di dilungarmi in spiegazioni.

Eccola lì, un pesce fuor d’acqua, ridicola con la giacca troppo grande, scomoda per via delle scarpe piccole e con un principio di mal di mare che le toglieva ogni voglia di romanticismo.

Dopo cena cercò di mettere ordine nel suo trolley, ma un colpo di vento le fece volare una gonna in mare. Riuscii a recuperarla con un arpione, ma apparve subito completamente rovinata.

Più tardi mi avvicinai con chiare intenzioni amorose con la scusa di rincuorarla, ma mi sorrise debolmente e, anche se non mi respinse, si vedeva chiaramente che non era dell’umore giusto.

Ci accontentammo di qualche coccola prima di cadere nel sonno. Nell’attesa però mi aprii i pantaloni a babordo e pisciai fuori dalla barca, nel mare. Il freddo era intenso, la notte bellissima anche se la mia amica non pareva certo avere lo spirito per godersela. Mi guardò con orrore. Supponevo che anche lei avesse necessità di liberare la vescica a magari non solo quella, ma aveva troppa vergogna.

Le rivolsi un sorriso d’incoraggiamento.

– Fai pure con comodo. – le dissi mentre mi ritiravo nella mia cuccetta. Non c’era infatti spazio per due persone, anche se volevi fare del sesso. Il soffitto era così basso che ad ogni movimento ci avresti picchiato la testa, un gomito, un ginocchio e il materassino non era più largo di un metro.

La mattina successiva mi trovai di fronte una Silvia sull’orlo di una crisi di nervi. Così, dopo una breve colazione mi diressi di nuovo verso Santa Margherita, ormeggiai la barca nel posto assegnato e ripresi la macchina, rassicurandola circa il fatto che nella nostra nuova destinazione, un bagno l’avremmo trovato.

Silvia era ammutolita. Aveva avuto un assaggio di cosa avrebbe significato vivere accanto a me e si stava chiedendo se ne valesse la pena. Nel trolley aveva stipato vezzosi completi La Perla, camice da notte trasparenti, scarpe col tacco undici con l’idea di una romantica vacanza di seduzione e sesso e si ritrovava con un bisogno urgente di una doccia, i piedi doloranti, i capelli in disordine e, in generale, un aspetto che meno seducente di così non avrebbe potuto essere.

Nei due giorni successivi andò un po’ meglio. Per lei, voglio dire. Ci fermammo nel mio piccolo appartamentino a Courmayeur e la notte riuscimmo a fare sesso, seppure stanchissimi.

Il freddo era intenso e Silvia non aveva abiti adatti. Nell’armadio di casa c’erano giacche a vento, doposci e qualche calzamaglia termica, oltre a guanti e cappelli, ma in un posto fighetto e alla moda come Courma, come lo chiamano confidenzialmente i residenti, i suoi abiti spaiati, non proprio della misura esatta e dai colori improbabili non le facevano fare una bella figura. Si sentiva a disagio passeggiando per la stazione sciistica o a pranzo nei ristoranti, ma peggio le andò quando la costrinsi, un pomeriggio inoltrato, a una camminata sulla neve lungo un percorso che costeggiava la pista da fondo.

Fino a quando restammo lungo il costone, al sole, fu quasi piacevole, anche per lei. Ma poi ci inoltrammo nel bosco, all’ombra, e la temperatura esterna scese. Meno dieci, meno quindici… Le labbra le divennero viola, pomelli e punta del naso rosso fuoco. Cominciò a tremare incontrollabilmente e le si paralizzarono i muscoli del viso. Il naso prese a gocciolarle e il muco le si congelava sopra il labbro.

Quella sera, dopo cena, Silvia quasi ebbe un crollo nervoso.

Al ristorante (polenta e capriolo), circondati da turisti che sfoggiavano i migliori capi di abbigliamento da montagna, lei cercava di rendersi piccola ed invisibile, con le sue cose spaiate e della misura sbagliata, ma era ovvio che stesse davvero male. Voleva far colpo su di me e invece riusciva solo a rendersi ridicola.

A letto, la sera, finalmente mi presi il tempo di scoparmela come si deve. A un certo punto si mise a piangere, non so se per la gioia, per la frustrazione e l’umiliazione o se per il senso di colpa verso il marito. Mi misi d’impegno e la feci godere con la lingua le dita e con una scopata di quasi quaranta minuti, forse il mio record.

Fu proprio mentre mi riposavo dopo essere venuto, ancora sudato e ansimante che mi venne l’idea. Il fatto era che ero spompato e non pensavo di essere in grado di fare un bis, anche se avessi aspettato un’ora o più. Pensai che ci sarebbe voluto qualcosa di più eccitante, qualcosa di inconsueto…

Silvia era una gran gnocca, una delle migliori che avessi mai avuto e il suo punto forte era il culo. Alto, rotondo, sporgente, con le chiappe ben separate, senza un filo di cellulite. Morbido, ma sodo, del tutto inusuale per una donna della sua età.

Decisi di comportarmi da stronzo, anche peggio di come mi ero comportato fino a quel momento.

Aspettai di essermi ripreso e rifocillato e la condussi di nuovo in camera. Le tolsi la vestaglia che aveva temporaneamente indossato e le sussurrai:

– Dài, girati che facciamo il culo.

– Come? No… Aspetta… Non… Franco scusa, ma non l’ho mai fatto. Anche Chicco me lo chiedeva ma non mi sono mai decisa.

– E’ giunto il momento. Rilassati. – E intanto la spinsi sul letto e la girai bocconi. Mi posizionai tra le sue gambe aperte e le separai le chiappe con le mani, esponendo il suo buco. A quel punto cercò di reagire e di girarsi ancora verso di me per fronteggiarmi.

Ma io sono più grosso e forte e non ebbi difficoltà a sottometterla. Dal comodino presi un gel lubrificante e le unsi l’ano, ignorando le sue proteste.

La penetrai senza altri preliminari, approfittando di quella mezza erezione che m’era tornata.

– Ahhhhhh! – Un grido di dolore, non di piacere. Non vi feci caso e continuai a pompare.

– Basta, Franco, ti prego, esci, mi fai male!

– Rilassati, bella. Se stringi le chiappe è peggio.

Era strettissima ed il massaggio al cazzo che ne ricavavo era delizioso. Per lei non doveva essere altrettanto piacevole.

– Ahiiii! Franco basta! Esci! Neanche a mio marito permetto di penetrarmi lì!

Era giunto il momento del mio discorso da figlio di puttana.

– Io non sono tuo marito. Non sono obbligato a rispettarti e a farti contenta. Mi prendo quello che voglio e tu non hai altra scelta che lasciarmi fare. Sono io che comando in camera da letto, non tu. Il bello è che non puoi correre da lui a piagnucolare, se non ti va, ma scommetto che tra un paio di giorni, passato il dolore, sarai già così affamata di cazzo che verrai a pregarmi di trombarti ancora, vero troietta? Adesso allarga bene le chiappe e sporgi il culo in fuori, che sono scomodo quando ti irrigidisci.

Non disse nulla, ma la sentii singhiozzare piano. Comunque non si mosse più e non oppose più resistenza.

Venni, tolsi l’uccello sporco di gel lubrificante, sangue, sperma e merda dal suo culo e mi misi sotto la doccia. Tornai a letto dopo qualche minuto e mi girai dall’altra parte con un freddo:

– Buonanotte. – A cui non rispose.

Dopo circa un quarto d’ora la sentii alzarsi ed andare in bagno, dove rimase quasi un’ora.

L’indomani saremmo tornati a casa e probabilmente non avrei più dovuto preoccuparmi di Silvia e delle sue paturnie. Mi addormentai con un sorriso stampato in faccia.

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SILVIA

Erano quasi le sette di sera. Sentii il motore della Land Cruiser di Chicco avvicinarsi a box e mi soffermai a constatare come la mia vita fosse andata in fumo nel giro di poche settimane.

Qualche mese fa avevo una vita piena e soddisfacente con la prospettiva di una tardiva maternità, un marito innamorato, attento e premuroso, un lavoro stimolante e una cotta pazzesca per un collega che mi dava emozioni travolgenti.

Ora tutto ciò era a rischio.

Mio marito mi aveva scoperta e chissà che decisioni avrebbe preso nei miei confronti. E comunque, qualsiasi cosa avesse deciso, anche ammesso (e non concesso) che fossimo rimasti insieme, il nostro rapporto non sarebbe mai stato più come prima.

Io avevo cercato di minimizzare inventandomi così, sui due piedi, quella stupidaggine del debito di riconoscenza verso Franco che mi aveva spinta nel suo letto, ma capivo che Chicco non l’aveva bevuta neanche per un momento.

Col mio amante le cose non andavano meglio, dopo il disastro della mini-vacanza. Non sapevo infatti se la nostra storia avrebbe avuto un seguito o se fosse già finita. Io per il momento non avevo certo intenzione di rivederlo.

Questo avrebbe avuto un impatto anche sul lavoro: come avrei fatto a continuare a lavorare con lui se non riuscivo neanche a guardarlo in faccia? Avrei dovuto dimettermi?

Qualche settimana fa avevo tutto. Oggi con ogni probabilità non avevo più niente. Neanche il brivido dell’infedeltà dopo essermi sentita una perfetta deficiente sia a Santa Margherita che a Courmayeur e soprattutto dopo essere stata quasi violentata da Franco l’ultima notte. Il suo freddo commento mentre mi sodomizzava mi risuonava nella testa e agiva come un estintore sulla fiamma di passione che avevo provato per lui fino a quel momento.

Il viaggio di ritorno dalla montagna era stato un incubo.

Nessuno dei due aveva aperto bocca e io continuavo a darmi della stupida per aver rischiato tutto pur di stare con il figlio di puttana che in quel momento stava guidando. In più non avevo avuto modo di lavare la mia roba (le poche cose sexy che avevo portato e che si erano rivelate del tutto inutili) e avevo dovuto indossare la corta gonna nera che era caduta in mare due giorni prima. Era tutta stropicciata e il sale aveva lasciato aloni bianchi dappertutto. Anzi, il danno doveva essere anche più profondo e strutturale, visto che si era ristretta e alla prima sosta per far pipì, risalendo in macchina, le cuciture erano saltate lasciandomi praticamente in mutande.

Pareva non esserci fine alle umiliazioni che avevo sofferto durante quel viaggio.

Mi avvolsi le gambe in un plaid e lasciai che l’umor nero si impadronisse di me fino a casa di Franco, a Monza, dove mi congedai da lui borbottando un freddo saluto prima di salire sulla mia Mini rossa.

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Chicco entrò in casa con una borsa del supermercato, non mi salutò e si diresse in cucina, aprì il frigo e cominciò a riporvi ciò che aveva comprato.

Sentii che stappava una bottiglia di vino.

– Silvia, vuoi del Chianti?

– Sì, grazie.

Tornò in sala con due bicchieri e me ne allungò uno.

Si sedette di fronte a me.

– Allora? Che facciamo?

– Come? Niente, non è successo niente. Non è cambiato niente. Dimentichiamo tutto e continuiamo come prima.

– Ti sei innamorata di lui?

– Ma no, cosa vai a pensare?!

– E allora perché l’hai fatto? E per favore non insistere con questa balla della riconoscenza, non insultare la mia intelligenza. Se avessi voluto sdebitarti gli avresti comprato una Mont Blanc, una valigetta in pelle, o magari un servizio da scrivania in alabastro, o persino un orologio di marca, ma non avresti allargato le gambe per lui, Silvia!

– Cosa vuoi che ti dica… è stato un momento di debolezza, un capriccio… Ma è tutto finito, Chicco, ti giuro!

– Però ci sei andata a letto, no?

– Beh, sì.

– Da quanto tempo te lo scopi?

– Chicco, lascia stare, ci facciamo solo del male a rivangare il passato.

– Da quanto, Silvia? Devo sapere: se sospettassi che tu mi nascondi la verità me ne andrei immediatamente e tra noi sarebbe finita. L’unica remota possibilità che noi si rimanga insieme passa attraverso la sincerità più completa e totale.

– Da due o forse tre settimane. Ecco!

– Quanti altri amanti hai avuto prima di lui?

– Chicco! Ma per chi mi hai preso!? – Mentre lo dicevo mi resi conto che mi aveva preso esattamente per quello che ero. Una zoccola. – Ti giuro. Questa è stata l’unica volta.

– Quante volte te lo sei trombato?

– Una volta, una sola, prima di questa vacanza, te lo giuro!

– E com’è stato? è migliore di me, come amante? – Come faccio, come faccio a dire a quest’uomo che amo e rispetto che Franco è stato il miglior amante del mondo? Che neanche in paradiso si fa l’amore così? Se gli dessi una coltellata gli farei meno male. – Diverso, forse, ma non migliore, no.

– Hai provato qualche novità con lui che con me non hai voluto sperimentare? – Non posso dirgli del culo, non posso proprio.

– No, Chicco, no. Certo, ognuno ha la sua tecnica…

– Allora, ricapitoliamo: Non sei insoddisfatta di me, lui non è un amante migliore e non hai provato con lui cose nuove. Di lui non sei innamorata e non stai pensando di lasciarmi per metterti con lui. E allora perché cazzo l’hai fatto? Perché mettere a rischio tutto per una cosa che, da come me la racconti, non significa niente? Sei in grado di rispondermi, Silvia?

Ci pensai un momento. La spiegazione era ovvia: si è trattato di una irresistibile tentazione e io sono una stupida che non è stata capace di rinunciarci. Cercai di trovare la maniera di spiegarglielo senza fargli troppo male e senza pregiudicare il nostro futuro insieme.

– Come ti spiego… Hai presente quei mocassini Timberland con il tacco basso che metto sempre? Sono le scarpe più comode del mondo. Le ho da due anni e anche se sono usate sono ancora in ottimo stato, mi stanno benissimo e le posso portare tutto il giorno senza problemi, estate e inverno. Ci sono affezionatissima e non ci rinuncerei per niente al mondo. Poi però un giorno passo davanti a un negozio e vedo delle decolleté rosse col tacco undici. So benissimo che non sono adatte a me, che mi faranno male, che non riuscirò a camminare. Ma per qualche giorno mi faranno sentire strafiga. Non riesco a resistere e entro a comprarle.

– Quindi io sarei il mocassino Timberland e Franco la decolleté rossa?

– In un certo senso…

– Capisco.

Si alzò dal divano e si infilò il cappotto.

– Dove vai?

– A fare shopping. Ho visto un paio di scarpe stringate di vitello nero della Moreschi che fanno al caso mio. Credo che sia ora di rottamare le mie vecchie Clarks.

E uscì dalla porta e dalla mia vita.

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