Skip to main content
Racconti di Dominazione

Escamotage

By 1 Aprile 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Sono in ritardo. Sono maledettamente in ritardo. Mi starai aspettando fuori la stazione e ti chiederai dove sia finita. Il treno è lento, cazzo, arriveremo tardissimo. Mi dispiace, ma non posso fare nulla se non mordermi le unghie e contare ossessivamente i minuti. Una ragazza mi domanda l’ora ed io mi limito a mostrarle lo schermo del cellulare, preferisco non ascoltare il suono della mia voce rotto dall’ansia. Finalmente, la mia fermata. Non è quella dove scendo di solito, è più buia; ma mi hai dato appuntamento qui perciò non appena le porte si aprono schizzo sulla banchina e localizzo l’uscita. Faccio le scale di corsa e sono fuori. Fa freddo e sono vestita troppo leggera, come al solito. Ma stasera volevo essere carina, ci saranno tutti i tuoi amici; perciò reprimo un brivido e mi avvicino alla macchina, l’unica in doppia fila. Apro lo sportello e inizio subito a scusarmi, ho fatto davvero tardi, tesoro, perdonami’ E giù a raccontarti gli imprevisti, la lentezza dei mezzi, le solite storie. Tu non mi guardi. Non appena sono salita, hai messo in moto e ora guidi con espressione concentrata. Impegnata a sistemare la cintura, non noto che non mi hai neppure salutata. Il tragitto per fortuna è breve, restiamo in silenzio. Solo quando siamo nei pressi della villa mi domandi dove sia stata la sera prima. A casa, rispondo, poi di nuovo silenzio. Parcheggi sul prato già pieno di macchine. Il vialetto è illuminato e lo percorriamo fianco a fianco, mentre già si sentono musica e voci di invitati. E’ la festa di laurea di una tua amica, penso che sia stato davvero gentile da parte sua chiederti di portare anche me, in fin dei conti non la conosco per niente. Quando entriamo resto un po’ spaesata: l’atrio è enorme, tutto decorato e stracolmo di gente. Se non si sono ancora mossi di qui, forse non abbiamo fatto così tardi’ Ma intanto tu hai incontrato qualcuno, un tipo non molto alto che parla come un vecchio zio e ti riempie di pacche sulle spalle. Ti resto accanto con un sorriso di circostanza, quello riservato alla categoria ‘vecchie zie’, mentre ti districhi in una conversazione banale con il tizio. Non mi presenti, né lui mi nota. Così lascio correre lo sguardo sugli invitati, sulle piante ornamentali in vaso, sul soffitto con l’affresco’ Viene naturale chiedersi quanti cazzo di soldi abbia la famiglia della tua amica, poi mi torna in mente che si è laureata in architettura e che anche il padre fa l’architetto. Un ragazzo mi dà involontariamente una spinta e io barcollo. Sorrido per accettare le scuse che mi rivolge al di sopra del volume della musica. Poi mi giro e mi rendo conto di averti perso. Forse il tipo con cui parlavi ti ha portato a prendere da bere. Mi faccio largo tra la gente in direzione di un arco che intravedo sulla sinistra: dà sul salone, una stanza lunga disseminata di divanetti su cui le persone siedono chiacchierando, o stanno stravaccate a bere. Niente bicchieri di plastica, non posso fare a meno di notarlo; tutti sono muniti di quei calici usa e getta, ma che quasi sembrano di cristallo vero. Qualcuno mi saluta, finalmente un viso familiare! E’ un tuo amico, uno di quelli che conosco abbastanza, e scambio due parole con lui. Mi chiede dove sei, scuoto la testa e gli dico che non ne ho idea, ti ho perso di vista all’entrata e ti sto cercando anch’io. Lui sorride, mi fa l’in bocca al lupo perché ritrovarti in questo casino non sarà semplice. Poi lo chiamano dai divani, mi fa un cenno e torna a sedersi. Ora mi sento un po’ a disagio, penso che se proprio devo starmene in mezzo a tutta questa gente sconosciuta voglio un calice finto anch’io. Mi metto a cercare il tavolo dei drink, anche se visto il tono della festa non è improbabile che ci siano dei camerieri che girano per servire da bere. Io comunque non ne incontro. A furia di chiedere permesso e di ricevere in cambio occhiate indifferenti, se non addirittura malevole (avrò messo un vestito adatto? Ecco che la mia autostima inizia a vacillare) arrivo in una stanza meno affollata, forse perché qui il volume della musica è davvero sgradevole, ferisce le orecchie. Un rapido sguardo e non ci sei. Mi sposto di nuovo, comincio ad essere sudata e non vorrei avere un calo di pressione proprio ora, sono convinta che questa gente mi calpesterebbe se dovessi accasciarmi qui. Nella stanza di fronte l’aria è più fredda: le vetrate delle finestre che danno sul giardino sono spalancate, mi sa che ho trovato la sala fumatori. Mi appoggio al davanzale e respiro a fondo l’aria umida. Il vestito mi si è incollato addosso e probabilmente domani avrò il raffreddore, ma me ne frego e accendo una sigaretta per calmarmi, prima di riprendere la ricerca del bar e di te. Fumo guardando il prato, e all’improvviso sento la mano che stringe la borsetta vibrare, è il telefono. Un messaggio. Tuo. ‘Sali’ c’è scritto e basta. Ok, penso, ci sarà una specie di raduno privato della cerchia di amici più stretti. Un ultimo tiro, getto via la cicca e torno nel corridoio principale, cercando con gli occhi una scala. E’ là in fondo, direzione opposta rispetto all’entrata: una scalinata a chiocciola che però sale dolcemente, con curve ampie e armoniose. Il corrimano in legno è liscio al tatto, vi lascio scorrere la mano sfiorandolo appena. Al primo piano mi si presenta un corridoio pieno di porte tutte identiche, tutte chiuse. Avanzo sul tappeto morbido, perplessa. Sento delle voci, ma tra la musica e la confusione non riesco a capire da dove provengano. Senza alcun preavviso, la porta che ho appena oltrepassato si spalanca e sono afferrata per un braccio e trascinata dentro con forza. Il movimento è fluido, ma quando la mano mi lascia non riesco a tenermi in equilibrio e scivolo ai piedi di un letto. Mentre mi sorreggo alla sponda di legno tentando di rialzarmi, sento il rumore della porta che viene chiusa. A chiave. Mi raddrizzo, passi alle mie spalle. Sei tu. Sono sorpresa, accenno un sorriso ma uno schiaffo violento mi colpisce e la testa si piega. Chiudo gli occhi per il dolore, la mano corre al viso. Quando li riapro sei davanti a me, immobile come una statua. Non mi hai mai guardato così. Non so cosa pensare, le parole escono da sole ma tu mi interrompi con una sola domanda, di nuovo: dov’ero ieri notte. Il tuo tono è duro, glaciale; adesso inizio a capire, ed inizio anche ad aver paura. Non so come, ma tu sai. Sai che ieri non sono uscita con gli altri come ti avevo detto, sai che non ero a casa e non ci vuole molto per giungere alla conclusione più ovvia: che se ti ho mentito, è stato per vedere qualcuno. Devi essere furioso. Realizzo tutto questo in un istante, e quello dopo il mio cervello si è messo già in moto per cercare una spiegazione plausibile, una scusante, qualsiasi cosa che possa calmarti. Pessima idea. Prima ancora di riuscire a farfugliare due parole mi arriva un altro schiaffo, ancora più forte. Il dolore è lancinante, vedo piccole schegge dorate rotearmi davanti agli occhi. Il mio goffo tentativo di fare un passo indietro mi fa inciampare sulla gamba del letto e cado di nuovo a terra. Da lì ti guardo: sei ancora immobile, mi fissi ma non è me che vedi; è la tua umiliazione, il tuo orgoglio in frantumi, la tua fiducia strappata ad opera di una ragazzina che non ti merita, che vuole solo fare la puttana in giro. Stavolta resto zitta, ma anche questo è un errore perché è la mia arrendevolezza che finisce di mandarti in bestia. Ti chini su di me e mi afferri il polso, mi tiri su con uno strattone; l’altra mano è sul mio viso, mi tieni il mento per impedirmi di guardare altrove. Siamo così vicini che riesco a sentire il tuo fiato quando alla fine mi parli. ‘Da chi ti sei fatta sbattere?’ Una doccia gelida, il mio silenzio sembra dire molto più di quanto vorrei.
‘Lascia stare non me ne frega niente’. Ti basta una piccola pressione per spingermi sul letto, io cado a peso morto, le gambe scomposte. ‘Visto che non puoi fare a meno di darla in giro, non ti dispiacerà se ne approfitto anche’io’ ‘. Ti guardo con gli occhi sgranati mentre sfili le spalline del vestito per scoprirmi il seno. Tento timidamente di ricoprirmi ma ricevo una manata sul seno sinistro che, ne sono certa, lascerà un livido. ‘Non metterti a fare la verginella adesso, avresti potuto pensarci prima’. Una mano scivola sulle mie gambe a far salire la stoffa lucida del vestito, l’altra mi inchioda supina. Respiro appena mentre sento il tuo tocco sulla coscia, smetto completamente quando con le dita sposti il bordo delle mutandine. ‘Ti sei bagnata troietta’, e c’è una certa sorpresa nella tua voce. In effetti, sono un lago, le tue dita mi entrano dentro con estrema facilità; ti diverti ad esplorarmi per un po’, ma al primo gemito le sfili. Sento il rumore della zip dei pantaloni e apro gli occhi per ammirare il tuo cazzo già in tiro. Tu noti la direzione del mio sguardo e te lo prendi in mano, soppesandolo. ‘Lo vuoi, vero? Non vedi l’ora di farti scopare, eh? Sono stato uno stupido a pensare di poter stare insieme a te. Le troie come te servono solo da svuota coglioni’. Questo mi ferisce, ma il dolore per le tue parole si mescola al piacere della penetrazione violenta, del tuo cazzo che mi apre e delle mie labbra che lo accolgono. Inizio a muovere il bacino per assecondare i tuoi colpi, ma una, due sculacciate mi rimettono al mio posto. ‘Sta ferma puttana, adesso si fa come dico io’. I tuoi movimenti sono duri, secchi: stai prendendo il tuo piacere, non stai pensando a me. All’improvviso ti sfili, riesco a vedere il tuo membro lucido dei miei umori prima che tu mi costringa a girarmi. ‘Mettiti in ginocchio, è la posizione giusta per la cagna che sei’. Da dietro sento il tuo cazzo che mi sfonda, mentre mi tieni per i fianchi e continui a insultarmi e a fottermi con tutta la crudeltà di cui sei capace, tutta quella che ho cercato così a lungo in te, e che alla fine sono riuscita a far emergere con un trucco. Un trucco, sì: perché non ero con un uomo ieri sera, volevo solo che tu lo credessi per vedere la tua reazione. E la tua reazione è magnifica, finalmente ti sei deciso a mostrarmi chi sei. E mentre mi scopi brutalmente pensando di non potermi più amare senti il mio orgasmo che ti stringe il cazzo in mille punture di spillo; avrei voluto guardare i tuoi occhi in quel momento, increduli, che cambiano colore e di nuovo ti appartengono, come ti appartengo io. Le mie grida e le mie contrazioni ti conducono al piacere, che mi scarichi dentro con un gemito; è un guaio, ma poi ci penseremo. Ti stacchi da me e io mi getto ad occhi chiusi tra le tue braccia, non hai la forza di respingermi adesso. Annuso la tua pelle, e penso che non ti dirò mai la verità: voglio che tu continui a vedermi come stasera, non come la statua di una dea, come una persona. Come una che non ti ha mai amato più di ora.

Leave a Reply