Skip to main content
Racconti di Dominazione

riccioli d’oro (Alessia)

By 31 Gennaio 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

Alessia passò con la sua auto vicino a quella piccola moto da cross, tutta infangata, ferma sul bordo della strada.
Uno dei due, in piedi dietro la moto, le fece cenno di fermarsi.
Erano due ragazzini, avranno avuto quindici o sedici anni.
Avevano finito la benzina alla moto, disse il più basso, brandendo una bottiglia di Coca Cola vuota, e il distributore era in paese a quasi dieci chilometri.
Lei lo avrebbe dovuto accompagnare fin lì, poi il ragazzo avrebbe trovato un passaggio, per tornare con la bottiglia riempita al distributore, mentre l’altro avrebbe aspettato per non farsi fregare la moto.
Alessia era una persona prudente, era arrivata a quaranta anni senza cacciarsi mai nei guai, e in genere non dava passaggi a sconosciuti, ma, in questo caso, non le sembrava proprio che ci fossero pericoli: di giorno, su una strada provinciale frequentata, con un ragazzino con i brufoli che avrebbe potuto essere suo figlio.
Lo fece salire.
Avevano fatto pochi metri che le disse ‘seguilo’.
La moto era miracolosamente ripartita ed ora era davanti alla sua auto, guidata dall’altro ragazzo.
Lei aveva anche un coltello puntato alla gola.
‘Ma sei impazzito? Non ho tanti soldi, stai tranquillo, ti do tutto quello che ho’.
‘Seguilo e basta’.
Seguì la moto per dieci minuti buoni, in un labirinto di strade e stradine secondarie, finché non presero un viottolo che si inoltrava nel bosco.
L’auto faticava a star dietro alla moto da cross in quel percorso pieno di buche.
Si fermarono in una radura, davanti ad una specie di magazzino abbandonato.
Il ragazzo della moto aprì un grande cancello arrugginito ed entrò con la moto.
‘Vai dentro anche tu’.

Il capannone era illuminato solo dalla poca luce che filtrava attraverso i vetri sporchi di alcune finestre poste in alto e quando il cancello si richiuse alle spalle dell’auto, per un attimo ebbe la sensazione di trovarsi al buio
Si aprì lo sportello e si sentì afferrare da diverse mani.
Si ritrovò a terra.
C’erano parecchie persone intorno a lei, era attorniata da una quindicina di ragazzi, più o meno dell’età dei due della moto.
Riuscì a rimettersi in piedi. Era completamente circondata.
‘Carina, un po’ piccolina di statura ma mi sembra che abbia tutto quello che serve’.
Disse il ragazzo che l’aveva condotta lì con il coltello puntato alla gola, ‘…con due belle tette …’ mentre la tastava attraverso il pesante maglione.
Alessia gridò e cercò di fare un passo indietro, ma non aveva spazio per muoversi.
‘… e un bel culetto’. Disse un altro alle sue spalle piazzandole le mani sul sedere e palpandole vigorosamente le chiappe.
‘… e avrà pure una fichetta, calda calda, questa bella ricciolona’.
Concluse il primo tirandole giù la lampo dei jeans.
Lei avrebbe voluto impedirlo, ma le avevano già bloccato le braccia dietro la schiena.
Comunque, anche se parzialmente immobilizzata, stava lottando, scalciando vigorosamente, nel tentativo di non farsi spogliare.
Riuscì a colpire per bene un paio di volte prima che riuscissero ad abbassarle i pantaloni fino alle ginocchia.
Era stanca e si rendeva conto che la sua resistenza era del tutto inutile.
Si avvicinò il primo ragazzo, che era evidentemente il capo, e le sfilò del tutto i jeans, agitandoli poi in aria, come se fossero un trofeo.
La lasciarono libera, in mutande, con le gambe nude coperte solo dagli stivali, circondata da questo branco di lupi, piccoli ma pericolosi.
‘Fai da te o continuiamo noi?’.
Era rimasta immobile, con le mani a proteggere il pube da quello che si preannunciava come uno stupro di gruppo.
Da dietro le sfilarono il maglione. Quando passò sopra la sua testa, sollevò per un momento la massa dei suoi capelli biondi e ricci, che poi ricadde sulle sue spalle ormai nude.
In un attimo le furono tutti addosso. Si sentì letteralmente strappare di dosso le mutandine ed il reggiseno.
Tante mani cominciarono a toccarla dappertutto.
Erano come i tentacoli di qualche essere alieno che esploravano il suo corpo.
Le manipolavano i seni tirandole i capezzoli, tastavano le sue natiche, toccavano le sue gambe, soffermandosi sulle cosce e sui polpacci ben modellati, ma, soprattutto, si incuneavano proprio lì, cercando, con le dita, di aprirle la vagina.
Poi si sentì sollevare in aria.
Attraversò così, tenuta in orizzontale, tutto il grande ambiente.
Vedeva sopra di sé, in alto, le travi di legno della capriata che sosteneva il tetto.
La piazzarono a sedere su un grande tavolo di acciaio.
Il freddo pungente del metallo sulla sua pelle nuda la scosse un attimo.
La stesero completamente su quella lamiera ed il freddo le attraversò tutto il corpo.
Guardando di lato vide una grande ruota dentata che spuntava in parte da un taglio nel piano d’acciaio.
Era una sega circolare. Evidentemente quel posto era una falegnameria o una segheria, rimasta inutilizzata ormai da tanti anni, a giudicare dalla polvere e dallo stato di abbandono generale.
La tirarono in avanti fino a portare le sue gambe fuori dal tavolo, poi le allargarono a forza.
Alessia cominciò ad urlare, ma sembrava che le sue grida non avessero il minimo effetto su di loro, che continuavano imperterriti.
Le bloccarono le gambe con delle robuste catene, passate più volte intorno alle sue caviglie ed alle zampe del tavolo, mentre altri facevano la stessa cosa con le sue braccia distese all’indietro ed allargate.
Ora era completamente immobilizzata, al massimo poteva leggermente sollevare la testa, facendo forza sui muscoli del collo.
Il capo si avvicinò sorridendo, mentre tutti gli altri si erano disposti intorno, a semicerchio.
Alessia, riusciva solo ad intravedere, in lontananza, nell’incavo tra i suoi seni, un ciuffetto di peli del pube.
Naturalmente vedeva benissimo la faccia del ragazzo, sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe visto per tutto il tempo dello stupro.
Si era calato i pantaloni e le mutande e si stava massaggiando il pene per farlo drizzare.
Quando fu pronto si avvicinò, con una mano le afferrò saldamente i peli del pube e li tirò in alto, mentre con l’altra lo indirizzò precisamente dentro al bersaglio e cominciò subito a muoversi avanti e indietro.
Anche se non poteva vedere tutto il resto, era in grado di sentire il suo pene che, mano mano, cresceva dentro di lei e, dall’espressione del ragazzo poteva capire come stesse procedendo.
Subito prima di venire, si irrigidì un attimo, fermandosi, aprì la bocca per prendere aria e poi spinse forte.
Sentì i testicoli che le sbattevano sull’inguine mentre le piantava le unghie nei fianchi, poi lo sperma caldo iniettato a forza nella sua vagina.
Quando ebbe finito gli amici gli fecero un piccolo applauso. Ricambiò un leggero inchino e si allontanò di qualche passo.
Stava facendo buio ed i ragazzi accesero un paio di lampade a gas.
Ora toccava a loro. Si preparava una brutta notte per Alessia.
I visi, illuminati in maniera spettrale dalle lampade si succedevano uno dopo l’altro.
Spuntavano all’improvviso dall’ombra, a volte sorridenti, a volte imbarazzati, in alcuni quasi impauriti, ma a parte questo, facevano tutti la stessa cosa: la scopavano.
Uno dopo l’altro, ficcavano il loro cazzo dentro di lei, e poi cominciavano ad andare avanti e indietro, incuranti delle sue urla e del suo pianto.
Solo un paio, forse inesperti, forse troppo emozionati, vennero in mezzo alle sue cosce allargate, prima ancora di aver fatto in tempo a metterglielo dentro, impiastrandola malamente.
Si sentiva presa da una rabbia sorda ed impotente: se uno di quei ragazzini avesse provato a toccarle il culo sull’autobus, l’avrebbe fatto scendere a calci nel sedere, rosso di vergogna, ma ora erano un branco dove le forze di ognuno si sommavano a quelle del resto del gruppo.
E poi c’era il capo. Anche se, come aspetto, appariva identico agli altri, aveva capito che per loro era una guida, un faro, non avrebbero fatto nulla senza il suo permesso, ma avrebbero fatto qualsiasi cosa se glie lo avesse ordinato.
C’era anche l’umiliazione di dover rimanere lì completamente nuda, legata, davanti a loro, che la infastidiva forse più dello stupro che stava subendo.
A tutto questo si aggiungeva il freddo insopportabile: era novembre inoltrato e la temperatura, con il calar del sole, si era notevolmente abbassata, avrebbe avuto freddo con il maglione addosso, figuriamoci completamente spogliata e poggiata su una lastra di metallo.
Inaspettatamente, quando anche l’ultimo ebbe finito, le slegarono i polsi.
Si tirò su a fatica, le girava la testa e dovette puntellarsi con le braccia per non cadere di lato. Era imbrattata del loro sperma dall’ombelico fin quasi alle ginocchia.
Le sciolsero anche le caviglie e riuscì finalmente a rimanere seduta sul tavolo con le gambe chiuse.
Tutto quello che aveva covato dentro di sé, durante quei momenti orribili esplose violentemente.
‘Maledetti ragazzini bastardi, vi siete divertiti abbastanza?’.
Si era alzata in piedi. Era un po’ malferma sulle gambe a causa della prolungata violenza subita e per la posizione scomodissima, mantenuta troppo a lungo.
Si accorse di camminare a cosce larghe, ad ogni passo dalla sua vagina arrossata e dilatata, usciva un fiotto di sperma, di cui parte finiva a terra e parte le colava lungo le gambe.
Si diresse verso l’auto e nessuno la fermò, anzi si scansarono al suo passaggio.
Aprì lo sportello e prese dal cassettino del cruscotto un pacchetto di fazzolettini.
Dovette usarli quasi tutti per ripulirsi.
‘Adesso che vi siete fatti la vostra prima scopata, vi sentite sicuramente più uomini, vero?
Beh, penso che possa bastare. Ora ve ne tornate buoni buoni a casa vostra ed io me ne vado a dormire’.
Erano rimasti tutti zitti ed immobili, come ipnotizzati.
Raccolse da terra il maglione ed i pantaloni e li poggiò sul tetto della macchina.
Più in là c’erano anche reggiseno e mutandine, ma erano strappati e sporchi, perché nella foga dell’assalto li avevano calpestati e trascinati in giro.
Si mise i pantaloni, cercando di non prendere i peli in mezzo alla lampo, poi si infilò il maglione.
Adesso sarebbe entrata in macchina e se ne sarebbe andata, avevano avuto quello che volevano, era riuscita a riprendere il controllo della situazione, pensò.
Il capo si fece avanti.
Aveva qualcosa in mano ma, nella semi oscurità di quel posto non riusciva a vedere cosa fosse.
‘Dovrai prima riprenderti queste, se non vuoi andare via a piedi’.
‘Ridammi le chiavi’.
‘E tu che potresti darci in cambio? Vediamo ‘ forse il tuo bel culetto. Che ne dici? Ci facciamo un bel giro anche in mezzo a quelle chiappette, e poi ti rimandiamo a casa’.
Si erano di nuovo avvicinati a lei e l’avevano circondata.
Quando la spogliarono di nuovo, non oppose resistenza.
Era stanca, e poi non sarebbe servito a nulla, anzi, aveva l’impressione che si sarebbero eccitati di più.
Le tolsero anche gli stivali, questa volta, e la riportarono sul tavolo d’acciaio.
La legarono come prima con le catene, gambe e braccia divaricate, ma stavolta a pancia sotto.
Ora non avrebbe visto nulla, avrebbe solo sentito.
Si sentì accarezzare i capelli e, istintivamente sollevò la testa, per quel poco che le era possibile.
Era il capo.
‘Hai proprio dei bei capelli sai? Mi piacciono questi riccioloni d’oro. Stanno benissimo sul tuo musetto’.
L’accarezzò su una guancia.
‘Ma che fai? No, Non devi piangere, sono sicuro che ti piacerà. Certo, avrebbe fatto comodo qualcosa tipo vaselina, ma purtroppo qui non abbiamo nulla del genere. Ci dovremo arrangiare senza.
Farà un po’ male all’inizio, ma poi, dopo le prime quattro o cinque volte non sentirai più nulla’.
Cominciò a urlare, a supplicarli di non farlo. Certo, prima, in piedi e libera di muoversi, era riuscita a bloccarli per qualche secondo, ma ora, nuovamente legata, inerme, poteva fare ben poco. Erano di nuovo sotto il controllo del capo branco.
Sicuramente stavano tutti lì dietro, alle sue spalle, e guardavano il suo sedere nudo, indifeso. Magari stavano decidendo chi sarebbe stato il primo. Le arrivavano piccoli brandelli di conversazione. Alcuni erano preoccupati perché non l’avevano mai fatto, ma la maggior parte si era fatta trascinare dal capo e sembrava decisa ed eccitata.
Sentì due mani poggiarsi sul sedere.
‘Riccioli d’oro, io sono pronto, e tu? Hai veramente un bel culetto, quasi quasi mi dispiace sciuparlo.’
‘Che dicevi prima? Siamo dei ragazzini per te, vero? Senti un po’ se questo è di un ragazzino’.
Con le mani le allargò forte le chiappe e lo spinse dentro, senza tanti complimenti.
Alessia urlò di dolore ma lui lo spinse ancora più dentro.
‘Non stringere, riccioli d’oro, ‘che ti fai male. Dai su, da brava, allarga il culetto, ecco, così va bene’.
Faceva un male cane, perché anche se ragazzino, aveva un pene grande e duro, non certo più piccolo di quello di un adulto ben dotato.
Ormai era entrato e lei non avrebbe potuto far nulla per impedirlo, si muoveva lentamente, avanti e indietro, facendole sbattere la pancia sul bordo di metallo del tavolo.
Il dolore non accennava a passare, anzi, aveva l’impressione che quel dannato affare che la stava dentro, diventasse ogni momento più grande e si inoltrasse sempre di più nel suo corpo.
Durò un bel pezzo e quando lei cominciava a non poterne più, inarcò la schiena all’indietro e concluse con diverse spinte più forti delle altre, che la lasciarono senza fiato, mentre si sentiva allagare.
Indugiò parecchio dentro di lei, forse voleva farle sentire che lui non era un ragazzino e la poteva dominare come e quando voleva.
Alla fine, finalmente uscì.
Tornò a giocherellare con i suoi capelli.
‘Allora, riccioli d’oro, ti è piaciuto? Adesso tocca ai miei amici, sono molto ansiosi di provare il tuo culetto. Certo gli ultimi lo troveranno ‘ come si può dire ‘.un po allargato, direi ammorbidito, ma è normale, siamo un bel gruppetto, aspetta che li conto. Uno, due, tre ‘, voi, la dietro, venite un po’ avanti ‘ se non ho saltato nessuno siamo diciotto, oltre a me, buon divertimento’.
I ragazzi, dietro di lei, si alternavano ridendo e scherzando tra di loro. Erano eccitati e su di giri. Sicuramente qualcuno si era drogato, qualche pasticca, qualche acido ed avevano pure cominciato a bere.
Infatti, alcuni era andati a prendere un paio di cassette di birra e della pizza.
Tra uno e l’altro le infilavano profondamente il collo di una bottiglia vuota.
‘E’ per mantenerlo bene in forma tra un’inculata e l’altra’, disse il capo ridendo.
Ci volle parecchio tempo prima che finissero perché ormai erano quasi tutti ubriachi e perdevano tempo, ogni volta, discutendo: ‘Tocca a me!’, ‘No tu l’hai già fatto!’, ‘C’ero prima io’.
Alla fine comunque si ritennero soddisfatti e la slegarono.
Questa volta non riuscì ad alzarsi in piedi, rimase lì, nella stessa posizione, per qualche secondo, poi scivolò lentamente e restò seduta in terra.
‘Beh, ragazzi, credo che possa bastare, si è fatto tardi e mi sembra che riccioli d’oro sia un po’ stanca’.
La lasciarono in terra, nuda, dolorante e disperata e se ne andarono.
Sentì il cancello che si chiudeva fragorosamente dopo il loro passaggio ed i motori di scooter e motorini che si avviavano.
Sentì quei rumori per un po’, mentre si allontanavano dalla segheria, poi cessarono e rimase sola, al freddo ed al buio.

Dopo parecchio tempo riuscì a trovare le forze per rialzarsi.
Si passò una mano dietro e se la ritrovò insanguinata.
Doveva assolutamente coprirsi perché stava morendo di freddo.
Dove avevano messo i suoi vestiti?
Era tutto nella sua macchina ma l’avevano chiusa a chiave.
Mangiò un pezzo di pizza e mezza bottiglia di birra, avanzati dalla loro cena, poi cercò di esplorare la sua prigione.
Oltre al cancello c’era una porticina sul retro, anch’essa chiusa, e le finestre erano tutte in alto, ad un’altezza impossibile per lei.
Avrebbe dovuto aspettare che qualcuno le aprisse da fuori, sperando che non fossero di nuovo loro.
Oltre al grande ambiente principale c’era un magazzino vuoto ed un piccolo cesso.
Si ricordò che erano tante ore che non andava in bagno, ma era così sudicio e per di più senz’acqua, che preferì fare pipi in un angolo, accovacciata.
Cercò a lungo qualcosa per coprirsi ma trovò soltanto un grande telo di cotone, una volta bianco, ora grigio e pieno di macchie. Era umido e puzzava di muffa, ma era sempre meglio che rimanere completamente nuda.
Si distese su una catasta di tavole di legno e cercò di avvolgersi, meglio che poteva, nel telo.
Fu svegliata da una lama di luce, proveniente da una delle finestre, che le arrivò dritta sugli occhi.
In lontananza sentiva il rumore di un motore. Forse erano loro che tornavano a tormentarla di nuovo.
Il rumore sparì. Poi tornò di nuovo, più leggero.
Ecco, stava aumentando, era sicuramente una piccola moto, anzi forse più di una.
Doveva fare qualcosa.
Nella sua borsetta, se non l’avevano tolto, c’era il cellulare. Doveva aprire la macchina, magari rompendo un vetro, e chiamare la polizia.
Si alzò in piedi, a fatica. Il rumore era molto vicino. Erano là fuori. Troppo tardi.
Il cancello si aprì. In controluce, con lo sfondo del bosco illuminato dalla luce del primo mattino, entrarono due moto.
Il cancello si richiuse.
‘Buongiorno, riccioli d’oro. Hai dormito bene? Per ora siamo solo in quattro, ma non ti preoccupare, gli altri verranno più tardi’.
Questa volta non la legarono sul tavolo della sega circolare.
La fecero inginocchiare per terra, poi le fecero allargare le gambe e le piazzarono in mezzo una sedia di metallo, sistemandola con lo schienale contro le sue spalle.
Poi le legarono per bene le caviglie alla base delle zampe posteriori, e le cosce a quelle anteriori della sedia, usando le stesse catene del giorno prima.
Terminarono il lavoro appesantendo la sedia, mettendoci sopra quattro corte putrelle d’acciaio, molto pesanti.
Alessia era praticamente inchiodata a terra.
Non si poteva alzare perché non sarebbe mai riuscita a ribaltare la sedia con tutto quel peso sopra, e neanche avrebbe potuto cambiare posizione. Sarebbe dovuta rimanere con le ginocchia a terra ed il busto dritto, contro lo schienale della sedia.
Le passarono le braccia dietro la schiena, oltre lo schienale della sedia ed incatenarono anche queste.
‘Indovina qual’è il programma di oggi?’.
Indovinò, subito, quando lui si aprì i pantaloni e glie lo avvicinò alla bocca.
Questo no. Non lo avrebbe fatto. Non poteva costringerla.
Sembrava quasi che le avesse letto il pensiero.
Aveva in mano il coltello con cui l’aveva minacciata il giorno prima. Le prese con due dita un capezzolo, tirò forte verso di sé, poi poggiò la lama del coltello, sotto il seno, un paio di centimetri all’interno.
‘Adesso taglio una fetta da questa bella tettina e la cucino alla brace, come una bistecca.
Poi se non ti sbrighi ad aprire la bocca faccio un’altra fetta, e poi un’altra ancora, finché non è finita. Dopo, se non sei ancora convinta, faccio lo stesso con l’altra. Va bene?’.
Alessia chiuse gli occhi ed aprì la bocca.
Le veniva da vomitare ma non aveva scelta.
Chiuse delicatamente le labbra sul suo pene e rimase immobile, mentre lui si muoveva.
Dopo un po’ si stufò.
‘Riccioli d’oro, guarda che il pompino me lo devi fare tu, sennò non vale’.
Si era fermato. Le prese la testa piazzandole le mani sulle guance e cominciò a farla muovere.
‘Ecco brava, su e giù. Così’.
La lasciò e lei continuò da sola.
‘Bene così. Continua, non ti fermare, ci siamo quasi’.
Alla fine lei cercò tirarsi un po’ indietro, ma lo schienale della sedia contro cui era legata le impedì il movimento.
Lui le tenne forte il viso ed estrasse il pene dalla sua bocca solo quando fu sicuro che tutto lo sperma fosse uscito.
La costrinse, con una mano a non aprire la bocca, per qualche minuto, finché fu certo che lei avesse ingoiato tutto.
Appena ebbe la bocca libera, Alessia cominciò a sputare disperatamente, urlando, piangendo e dimenandosi, cioè provando a dimenarsi, perché così legata le era impossibile muoversi.
Le lasciarono tranquilla qualche minuto, poi venne il turno degli altri.
Alla fine le fecero bere un po’ d’acqua e le diedero una pulita alla faccia.
‘Che facciamo ragazzi? La lasciamo un po’ tranquilla fino a stasera quando torneremo anche con gli altri?’.
Decisero che era la cosa migliore e se ne andarono, dopo averla di nuovo liberata dalle catene.

Sul tavolo dove l’avevano tenuta legata la notte scorsa avevano lasciato una bottiglia di acqua minerale ed un vassoietto di cartone con dentro pizza e supplì.
Si erano raccomandati che mangiasse tutto perché doveva tenersi in forma. Avevano detto proprio così, ridacchiando, mentre mettevano in moto i loro motorini.
Alessia mangiò tutto perché voleva realmente essere in forma, ma non certo per quello che pensavano loro.
Doveva fare qualcosa, assolutamente.
Doveva ragionare, far funzionare il cervello, esaminare ogni cosa, ogni possibilità, anche la più piccola.
Innanzitutto, doveva recuperare i suoi vestiti, sia perché non riusciva più a resistere al freddo, sia perché se fosse riuscita a fuggire da lì non poteva certo andarsene in giro nuda per la campagna.
I vestiti erano in macchina e doveva in qualche modo aprirla.
Sembrava facile rompere un vetro, e quando colpì il finestrino con un pesante pezzo di ferro, rimase stupita scoprendo che era rimasto intatto, a parte una piccola scalfittura.
Colpì ancora, con più forza, e al terzo tentativo il cristallo esplose frantumandosi in mille pezzettini, come le tessere di un puzzle.
Recuperò subito maglione e pantaloni e si rivestì. Finalmente.
Si sedette sul sedile del passeggero, incurante dei frammenti di vetro, sparsi ovunque, e si infilò gli stivali.
Ora si sentiva meglio: non aveva più freddo e, soprattutto, non era più costretta a stare lì, in quel posto orribile, completamente nuda, ad aspettare che quei bastardi tornassero a fare di lei quello che avrebbero voluto.
Veramente la situazione era migliorata solo di poco, perché li avrebbe aspettati vestita, poi loro l’avrebbero spogliata nuovamente ed avrebbero ricominciato da capo.
Per terra, sotto il sedile di guida, c’era anche la sua borsetta. L’aveva messa lì subito prima che il ragazzo salisse in macchina. Evidentemente non l’avevano notata.
Dentro c’era il suo cellulare, avrebbe chiesto aiuto. Non aveva idea di dove fosse ma la polizia l’avrebbe trovata e così, la sera, quando sarebbero tornati, avrebbero avuto una bella sorpresa.
Aprì il display. Non c’era campo. Andò in giro per tutto il locale, cercando un punto dove comparisse almeno una tacca, sotto il simbolino dell’antenna, ma non ci fu nulla da fare.
Chissà forse fuori da lì. Oppure quella zona proprio non era coperta dal segnale, facilissimo visto che, da quanto poteva ricordare, era lontana dall’abitato e quasi in mezzo alle montagne.
Doveva cercare di uscire.
Esaminò il cancello, era un grande portone in ferro a due ante. La serratura era stata tolta e dal buco circolare si vedeva il bosco e la strada.
Provò a spingerlo. Si aprì di pochi centimetri mostrando, attraverso la fessura che si era aperta, una grossa catena che lo bloccava.
Da lì non sarebbe passata.
Esaminò con più attenzione l’uscita sul retro. Era una solida porta in ferro, ben chiusa.
Un uomo robusto non sarebbe riuscito ad aprirla a spallate, figuriamoci lei.
Restavano le finestre. In un angolo c’era una lunga scala di legno. Una volta salita, avrebbe rotto un vetro e poi ‘
E poi si sarebbe rotta sicuramente una gamba cadendo da quell’altezza.
L’avrebbero trovata per terra, ferita e dolorante, l’avrebbero riportata dentro e sarebbe ricominciato tutto come prima.
Non c’era proprio nessuna possibilità di uscire di lì.
La chiave!
Accidenti, che stupida, non averci pensato prima.
Ora ricordava le parole del suo meccanico.
‘Signora, le macchine di oggi sono molto complicate. Se lei perde la chiave non ci sarà verso di metterla in moto. Anche se riuscisse ad aprire lo sportello in qualche modo, se non inserisce nel blocchetto di accensione quella chiave, non succederà nulla. Nella chiave c’è un codice e senza quel codice la centralina si rifiuterà di far avviare il motore’. Poi aveva preso una delle chiavi che le avevano dato dove aveva acquistato l’auto, l’aveva avvolta in uno straccio e l’aveva incastrato in una specie di buco sotto la parte posteriore della macchina.
‘Se dovesse perdere la chiave ed è molto lontana da casa, potrà ritornare, recuperando questa’.
Lei era molto attenta e non le era mai successo. Erano più di tre anni che aveva quell’auto e la chiave doveva essere ancora lì.
Si chinò sotto l’auto e cominciò a cercare. Lo straccio, dopo tutto quel tempo aveva preso il colore scuro della parte inferiore della macchina ed era sporco di fango, ma dentro la chiave era come nuova.
Che stupida non averci pensato prima. Avrebbe evitato di rompere il vetro.
Ora la sua situazione era migliorata: aveva recuperato i suoi vestiti e poteva mettere in moto la macchina. Già, per andare dove?
Avrebbe potuto lanciare l’auto contro il cancello?
Sicuramente avrebbe sfasciato la macchina e magari il cancello, legato con quella grossa catena, avrebbe resistito.
Aveva il mezzo per andarsene via, lontana da quell’incubo, ma non poteva usarlo.
Intanto il tempo passava, tra qualche ora si sarebbe di nuovo aperto il cancello ed avrebbero ricominciato.
Si sarebbe aperto il cancello. Certo, per entrare, dovevano aprire il cancello.
Sicuramente non si sarebbero aspettati di trovarla in macchina pronta a fuggire.
Poteva prenderli di sorpresa: mentre loro aprivano per entrare lei sarebbe uscita.
Era l’unica possibilità.
L’avrebbero inseguita?
Probabilmente sì, ma doveva tentare.
Non conosceva quelle strade e stradine che aveva percorso il giorno prima, preoccupata solo di seguire la moto che la precedeva, con l’angoscia di quel coltello alla gola.
Su quelle strade loro potevano essere più veloci, avrebbero potuto raggiungerla e bloccarla, prima che raggiungesse una statale dove avrebbe potuto accelerare e lasciarli indietro.
Se le si fossero messi davanti non avrebbe frenato, avrebbe sicuramente trovato il coraggio di investirli, dopo tutto quello che le avevano fatto.
Sarebbe anche potuta finire in una strada cieca, e allora non avrebbe avuto scampo, l’avrebbero riportata indietro e glie l’avrebbero fatta pagare.
Aveva paura, era molto rischioso, ma doveva assolutamente tentare.
Provò a mettere in moto e il motore si avviò al primo colpo. Ora doveva far manovra: la macchina era in mezzo al capannone con la coda rivolta al cancello.
Non era pensabile uscire in retromarcia. Avrebbe avuto pochi attimi, prima che il branco, colto di sorpresa, organizzasse la sua reazione.
Girò l’auto e la mise con il muso rivolto al cancello, spostata un po’ da una parte, in modo che non si accorgessero del cambiamento prima di aprirlo quasi tutto.
Ora doveva solo aspettare.
Li avrebbe sentiti arrivare da lontano, avrebbe ascoltato il rombo dei motori che si avvicinavano, poi avrebbe sentito le loro voci, infine la catena che veniva sfilata ed il cigolio del cancello che si apriva.
Solo in quel momento avrebbe avviato il motore e sarebbe partita di scatto.
Il sole era ormai basso quando sentì in lontananza il rumore dei loro motorini che si avvicinavano.
Strinse forte il volante ed aspettò.
Doveva mettere in moto solo all’ultimo quando avevano già tolto la catena ed il cancello si stava aprendo.
Erano arrivati. Erano lì fuori e ridevano tra di loro. Sentì la voce del capo.
‘Riccioli d’oro, siamo tornati. Gli ho detto che sei bravissima con i pompini, sono tutti ansiosi di provarlo. Poi, naturalmente faremo anche tutto il resto. Non vedo l’ora di ficcarlo ancora in quel bel culetto’.
Ci fu una risata generale.
‘Riccioli d’oro, ci sei?’.
Maledetti bastardi, riccioli d’oro gli avrebbe fatto una bella sorpresa e se qualcuno si fosse trovato davanti al muso della sua macchina, peggio per lui.
Sentì il rumore della catena che veniva sfilata e accese il quadro.
Il cancello cominciò ad aprirsi cigolando e rimase per un momento abbagliata dalla luce.
Come vide spazio sufficiente davanti a lei mise in moto e partì. Le ruote anteriori sgommarono un attimo sul cemento sporco di terra e polvere, poi la macchina saltò in avanti.
Era fuori.
Superò le facce sorprese di quei piccoli bastardi che si vedevano sfuggire la preda.
Quelli che erano sulla sua traiettoria si scansarono precipitosamente, tranne uno che cercò stupidamente di fermarla aggrappandosi allo sportello di destra.
Si ferì profondamente la mano con i frammenti del vetro rotto e mollò subito la presa.
Non riuscì ad evitare uno dei motorini, messo di traverso sul cavalletto. Una gran botta sulla parte destra dell’auto ed il piccolo scooter che volava in aria sbattuto contro un albero.
La macchina sobbalzava e sbandava sul viottolo sterrato.
Alla fine doveva girare a sinistra, questo lo ricordava, poi, per il resto, sarebbe andata ad intuito.
Quando svoltò l’auto sbandò e finì con una ruota sul prato che costeggiava la strada.
Riuscì a riprenderla. Doveva stare attenta, non poteva rischiare assolutamente un’uscita di strada.
La seguivano?
Nello specchietto vide due motorini, erano ancora troppo lontani per sperare di raggiungerla subito, ma non così tanto da perderla di vista.
Svoltò per una strada che le sembrava più larga, più importante.
Doveva assolutamente arrivare ad un abitato, dove poter chiedere aiuto o alla statale dove avrebbe potuto aumentare l’andatura e lasciarli indietro.
Uno dei due motorini, ora, era più lontano, forse stava rinunciando, ma l’altro si avvicinava. Anche se non poteva vedere chi lo guidava, era sicura che fosse il capo.
Era venuto a riprendersi la sua preda.
Ormai era a pochi metri, vedeva nello specchietto di sinistra quel piccolo mezzo che zigzagava, cercando forse di innervosirla e farle commettere qualche errore.
Doveva guidare tranquilla, senza perdere la calma, gli altri erano lontani, fra un po’ avrebbe desistito anche lui.
Era senza casco, probabilmente nella fretta dell’inseguimento lo aveva dimenticato.
Lo vedeva benissimo, era lui, sempre più vicino.
Ora gridava qualcosa.
Aprì un pezzo di finestrino per sentire.
‘…riccioli d’oro ‘ riccioli d’oro, ora ti prendo. Vedrai che ti faccio’.
Lui accelerò e l’affiancò.
Poco più avanti, a causa di un ponticello, la strada si restringeva leggermente.
Ormai era a metà fiancata.
Istintivamente Alessia sterzò a sinistra. Sentì il colpo della moto sulla fiancata, poi sterzò rapidamente a destra per evitare la spalletta di cemento del ponticello, riuscendo ad urtarla solo con lo specchietto che si chiuse.
Lui, impossibilitato a deviare, prese in pieno la spalletta.
Sentì un botto spaventoso e poi vide il corpo del ragazzo volare in aria, oltre la sua auto.
Atterrò su un masso a pochi metri dalla strada e lei ebbe l’impressione di sentire il rumore di qualcosa che si spiaccicava.
Non rallentò neanche.
Aprì il finestrino e rimise a posto lo specchietto.
Faceva freddo ed il vento le scompigliava i capelli, i suoi riccioli d’oro.
Non chiuse più il finestrino per tutto il viaggio, finalmente si sentiva libera.

Leave a Reply