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Racconti Erotici

LA VEDOVA DELLE VETTE

By 20 Aprile 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

Lamentoso era il vento.
E la montagna serbava un pianto segreto.
Io non so cosa fosse, né da dove venisse.
Ululati gelidi abitavano le grotte’ Era una voce di mistero, che parlava d’addii. Era un lamento, lungo il sentiero, che raccontava destini di morte!
Oh, sì, sì, sì!
Anime parlanti mi narrano i loro nomi e la loro sorte. Io le ascolto e non posso dimenticare, no, ahim&egrave, mai!
Rivedo i ghiacciai bianchi, i gelidi laghi, ove giaceva sepolto il destino che m’appresto a raccontarvi.
Aquile maestose si levano in volo dai calvi picchi dei monti e salutano l’immenso. Il loro verso di malinconia riempie il silenzio ed &egrave tacito miracolo.
Oh, davvero, io non so quanti anni prima del presente istante ha inizio la nostra storia! Forse, verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento. Ad ogni modo, il cuor non mi rammenta alcuna data al riguardo.
Ed ecco, rivedo ogni evento, che temevo precipitato nell’oblio.
Un tetro suono mi riporta a quell’epoca, a quei luoghi, ai sentieri delle favole tristi, al paese della cupa malinconia.
Ah!
Una processione di neri preti usciva quel mattino dalla bigia cattedrale.
Rammento le lunghe vesti del color della pece, quei libri bianchi fra le mani, i cappelli cupi dei prelati, che passavano l’uno appresso all’altro, in fila, come corvi.
Sì, come corvi’ Ah!
E dalla grande scalinata ne scendevano sempre, sempre, sempre’
S’udivano le loro voci nel silenzio’ Le parole latine riempivano l’immenso, accompagnate dal suono assai lugubre di una campana.
Pareva un funerale.
Oh, forse, lo era!
Chissà, chissà chi era il defunto mortale rapito dal destino! Forse, era la gioia ad essere morta.
Io non so’
E un vento freddo, tanto freddo, faceva tremare le vesti nere dei prelati, era come se avessero le ali e le sbattesse la bufera. Della polvere grigia volava per le strade morte’ Gli alberi non avevan foglie.
Ed era sempre silenzio, forse, eterno!
Requiem aeternam, requiem aeternam’ Altro non ricordo di quegli istanti, se non le mute parole che erravano per l’immenso.
Ah’
Altro non ricordo!
Un’anima buona guardava passare i corvi neri, affacciata alla finestra appannata.
Io so chi era’
Lacrime malinconiche riempivano gli occhi suoi, a nessuno era permesso di conoscere il mistero di quelle pupille.
Oh, no, a nessuno!
Ella s’asciugava il volto con un fazzoletto di seta bianco: era l’ultima cosa cara che le restava.
Era di seta, il fazzoletto, sì!
Gliel’aveva regalato l’amata madre, prima di morire e di lasciarla sola in quel mondo pieno di lupi!
Era il fazzoletto d’infanzia, con cui la buona donna soleva asciugare le prime lacrime della sua bambina. Oh, quante ne sarebbero venute, negli anni seguenti!
Oh, sì, sì, sì!
Il destino aveva riservato alla misera la sua tristezza, fin dai suoi più teneri istanti. Fin dai suoi più teneri istanti, sì, ahim&egrave!
Nel camino non ardeva fuoco.
E la bufera ululava attraverso i vetri rotti.
Ella era inginocchiata e vegliava.
Da tre giorni e tre notti gli occhi suoi non conoscevano sonno, da tre giorni e tre notti l’angoscia tormentava quel petto.
Io rammento quel che diceva, sì!
Io rammento’
China sul suo inginocchiatoio di legno, diceva:
– Oh, Dio, vi prego, fate che non torni! Fate che non torni, ascoltate la figlia vostra, che vi chiede pietà!
Ella chiedeva pietà, sì.
E tragiche ragioni la inducevano a domandare la morte di una persona’ Oh, la mente sua farneticava, l’animo suo non viveva più!
L’infelice era come morta, perché le cattiverie l’avevano uccisa.
– Vi prego, fate che lui non torni più!
Ella domandava la pace, ma nessuno, nessuno mai gliel’aveva concessa, in vita sua, nemmeno il silenzio.
Oh, no, neppure quello!
Il cappello del perfido giaceva lì, appeso in un angolo.
La sconsolata non osava toccarlo.
Il Malfattore delle Montagne la teneva prigioniera nella sua catapecchia, non le permetteva di uscire quasi mai ed aveva preparato per lei un destino di stenti.
Le carte dicevano che erano parenti, ma in realtà non era vero, no, no, no’ Le macchine con cui il disgraziato soleva stampare biglietti falsi ed ogni sorta di documento contraffatto erano là, giù, in cantina, ma ella non le aveva mai viste, mai, mai viste, si diceva.
E il perfido era solito ripeterle che, qualora ciò fosse accaduto, le forze del male sarebbero venute a prenderla’ E glielo diceva sogghignando!
Ah!
Ella era ossessionata da quel volto.
Cielo, le sembrava sempre di vederselo davanti, tra le fiamme dell’inferno!
Eppure, anche Clarisse viveva degli istanti di paradiso.
Oh, sì, questo era il nome suo, questo’
Rammento che, una volta, era primavera’ Gli alberi avevano tanti bei fiori, sapete? Si erano ricoperti tutti di foglie verdi, la neve se n’era andata, non c’era più.
Clarisse passeggiava tutta sola lungo i sentieri. Oh, chi mai avrebbe potuto turbarla? E c’era un silenzio, una quiete, che’ Soltanto un verso triste rompeva quella meraviglia, era un canto sopito nel torpore dell’immenso.
– Oh, piccola averla, sei tu? Tu, con me? Oh, sì, vieni qui, posati qui accanto, in modo che io ti possa vedere!
L’uccello della malinconia era ad un passo da lei.
Oh, forse, voi non ci crederete!
Ma quel momento fu un sogno, sì, un sogno, davvero, vi giuro, perché la piccola averla triste parlava, parlava, parlava teneramente alla sua amica, posata su quella debole spalla. Proprio così, sì’ Era bellissimo.
– Oh, averla cara! Sei venuta a raccontarmi una delle tue storie di ghiacci e di foreste, di chiese perdute e di malinconie sepolte! – diceva Clarisse.
– Sì, amica mia, proprio così! – si sentiva rispondere.
L’uccello parlante si era posato su di un ramo accanto a lei e la guardava, la guardava, la guardava’
– Oh, quanto &egrave triste la tua storia! – credette di udire la giovane donna dall’uccello parlante.
– Amica mia, lo credi davvero? – disse lei.
– Mai in vita mia ho udito di tanto dolore.
– E tu non sai quanto tutto ciò mi fa triste!
Sì, proprio così!
Quella volta le due provarono una lieta mestizia, perché l’averla parlante aveva raccontato la storia della sua amica. Poi, se n’era andata via’
E tutt’intorno era primavera, tutt’intorno sbocciavano i fiori, tutt’intorno si sentiva il respiro della vita, che sbocciava.
Ma poi’ Oh, mai più!
Voi non sapete che cosa vogliono dire queste parole’ Voi ignorate il significato di tanto mistero, di tanta sconsolatezza!
Io ve lo svelerò.
Ecco, la nostra storia &egrave cominciata.
Le labbra mie tremano, pronunziando una ad una le parole che raccontano destini di morte, perché vita e morte si combattevano, lassù, tra i ghiacci di nevi eterne.
Rammento un giorno di gelo’
Una candida coltre avvolgeva le case e i tetti, ma non era bello, brividi di freddo sembravano scuotere gli abeti della montagna.
E tutto era così triste!
Poche anime sconsolate abitavano quel silenzio. Poche ombre malinconiche erravano nella malinconia di un giorno di morte.
Non c’era che grigiore, tutt’intorno!
E si vedevano i ghiacci, eterni, freddi.
Sulle scale bigie della cattedrale sedeva un mendicante, cieco, appoggiato al suo bastone.
Era solo, non c’era nessuno accanto a lui.
E tendeva la mano, inutilmente, per chiedere un po’ di pietà, un po’ di carità, di umanità’ Ma la sua era una speranza vana, oh, sì, assai vana!
E passò un uomo vestito con abiti di lusso’
– Pietà per un povero senzatetto! – disse il disperato.
– Oh, sì, certo! Mi fai davvero compassione, ih ih ih! Adesso ti regalerò qualcosa di bello.
E gli mise tra le mani una pietra, fredda, gelida’ Lo fece ridendo, sghignazzando’ Poi gli tirò addosso dei sassi. Non lo vide nessuno’
Rammento quell’immagine confusamente’ C’era una neve bigia, che cadeva e imbiancava la scalinata della cattedrale’ Pareva volersi potar via ogni cosa, oh, pareva volesse rapire persino la vita.
Ah!
Ma chi, chi era il miserabile mortale che osava tanto? Egli era un uomo senza compassione.
Tutti lo conoscevano con l’appellativo del Malfattore delle Montagne. Era un soprannome fastidioso, cupo.
Ed egli ritornava sghignazzando alla sua baracca, alle sue macchine, che lo attendevano come se fosse stato il loro padrone severo, che le faceva lavorare.
Era notte.
La povera Clarisse stava inginocchiata accanto al suo letto, avvolta nella sua lacera vestaglia bianca; il rumore triste non la lasciava dormire. Sconsolata! Giù, nella cantina, funzionavano le macchine e lo sventurato elaborava le sue trame.
Oh, sì, dei marchingegni infernali erano in funzione e nessuno li poteva fermare! Quel luogo tetro era pieno di ragnatele e non si discerneva altra luce se non quella del furto e dell’inganno.
Gli ingranaggi scricchiolavano’ Le presse facevano sentire la loro voce’
Biglietti di banca turchini uscivano senza sosta dalle bocche ferrate di quei mostri, le cui braccia sembravano quelle di piovre, pronte a stritolare il malcapitato che le avesse incontrate.
Ella scese’
C’era tanto buio, l’infelice aveva le lacrime agli occhi ed una candela in mano.
Gli scalini di legno scricchiolavano al suo passaggio e tradivano la sua presenza.
Faceva così freddo, laggiù’
Oh!
L’ombra di Clarisse si disegnava sul pavimento’ Ella vide i biglietti di banca, lucidi e bianchi, che brillavano nella semioscurità. La giovane tremava’
– &egrave questo tutto il male del mondo! – disse.
Aveva ragione, benché neppure io sapessi spiegare il vero significato delle parole sue.
– Sì, continua! Continua a morire, nella tua crudeltà! Oh’
Questo mormorò la donna. Egli vide il volto di lei, più candido della sua lunga vestaglia, illuminata da quel furtivo lume di candela. La voce della donna si era distinta dal frastuono delle macchine.
L’aveva scoperto, ahim&egrave! Altro non rammento di quegli istanti, se non delle vaghe lacrime d’argento, che brillavano nell’ombra.
Poi’ Oh!
Egli la perseguitava.
Ricordo di una volta, in cui le girava intorno, con una sorta di frustino da cavallo in mano. Ella stava seduta sulla vecchia sedia a dondolo, lo supplicava, lo supplicava, invano, sì, invano.
– Ah, ah, ah! Signorina! – le ripeteva lui.
E l’infelice teneva sempre le mani giunte.
Oh, possibile che il perfido non sapesse fare altro che tormentarla?
– Non lo sai? Disubbidire a chi ci vuole bene &egrave molto male! Disubbidire a chi ci ama &egrave peccato, oh, sì, &egrave peccato mortale, ih ih ih!
– No, tu non mi costringerai a fare del male! – gridò lei.
La giovane aveva stretto forte il pugno, ma inutilmente.
– Oh, oh, oh! Tu hai fatto piangere il tuo amico, hai fatto spuntare le lacrime nei suoi occhi e osi dire che questo non &egrave male? Fare del male &egrave proibito! – insisté il Malfattore delle Montagne.
– Ma’ Cosa dici? – disse Clarisse.
– Iddio ti ha vista. Egli ti ha seguita e credimi, ti punirà con uno dei suoi innumerevoli castighi.
Egli era il suo rimorso, la sua pena.
Credetemi, in quegli istanti la sconsolata non capiva più nulla, gelo e ghiacci abitavano in lei!
Fuggì.
Oh, ma dove poteva fuggire? Quella casa aveva le grate alle finestre, la porta era sprangata con il paletto e solo lui aveva la chiave.
Ma invece, quella volta egli le permise di andare’
Clarisse se ne andava via’ Oh, ma dove poteva fuggire? Tutt’intorno, non v’erano che torrenti e selve, nevi e ghiacciai.
Solo morte e silenzio!
Ah!
Ella s’avvicinò al Lago Maledetto.
Oh, sì, tutti, in quel paese di montagna, lo chiamavano così e nessuno osava andarci mai, perché grande era il timore di non poter ritornare più indietro dopo aver visitato quel luogo.
Ma ella vi andò.
Lungo le sponde del lago crescevano i rovi. Erano spogli, le acque erano quasi sempre ghiacciate e bianche’ Ghiacciate e bianche’ Ghiacciate e bianche, sì’
A prima vista, non si discernevano né nidi, né uccelli.
S’udiva soltanto il vento, che passava solitario, invisibile, ululante.
Era lui il tacito compagno del silenzio!
Clarisse era sola su di una roccia, ma una voce crudele la accompagnava, la perseguitava.
Cielo!
Io so di chi era quella voce, io so a chi apparteneva e da dove proveniva. Il perfido Malfattore delle Montagne la perseguitava, facendole credere di essersi macchiata di colpe mai commesse’ La testa le girava forte, tanto, tanto forte e le sembrava di scoppiare.
– Oh, Dio, aiutatemi! – disse la giovane. – Quest’oggi io mi sono perduta e sono precipitata nella casa della morte!
Questo, il grido che sfuggì alle labbra sue.
Apparvero dei corvi, neri e minacciosi.
Sì, i corvi della montagna le volavano intorno, gracchiando, gracchiando e sembrava che volessero ucciderla, con i loro versi ed i loro becchi aguzzi. La beccavano, la beccavano, la infastidivano, senza darle pace’
Il Lago Maledetto era uno specchio ghiacciato, innanzi a lei.
Ahim&egrave!
– Io sono innocente’ No, non ho commesso queste colpevoli azioni! Le immagini di una vita passata si disegnano davanti ai miei occhi! Sono visioni, sotto i miei sguardi pieni di monti, di nevi perenni, di passi alpini spettrali e cupi, ponti di legno e certose sperdute lungo i laghi verdastri delle Alpi! Chi mai sono stata prima di nascere in questi luoghi? Come mi chiamavo prima che mi dessero il nome che porto?
Così gridò Clarisse.
E le rispondeva l’eco della montagna, l’eco dei ghiacci, come una maledizione, pronta a rapirla, a portarla via con sé.
E fu come se un’altra voce le parlasse’
Fu come se le dicesse:
– Stupida donna mortale! Come osi spingerti quassù, sino a queste vette? Lo sai? Chi ha visitato il Lago Maledetto non ha mai potuto narrarlo ad alcuno!
Era vero.
Cielo!
Che ne sarebbe stato di lei? La maledizione l’avrebbe portata via con sé? Forse i ghiacci l’avrebbero uccisa? Oh, chissà!
Io me la ricordo immobile, sulla neve’ Corvi neri volavano sopra di lei, sui suoi scarmigliati capelli castano rossicci, oh, la perseguitavano!
Sì, era così.
Le sue bianche vesti tremavano, scosse dal vento dei ghiacci.
Oh!
Erano momenti di morte.
Perché forse, questa soltanto era la sua sorte.
E nulla più!
– Averla’ Averla, sei tu? Sei venuta a trovare la tua amica? Sei venuta a consolarla? – disse poi Clarisse.
Sì, la povera pazza aveva visto il caro uccello, che riempiva del suo canto malinconico il silenzio.
Oh, quale sconsolatezza mi avrebbe preso, se avessi saputo che quell’istante doveva essere l’ultimo suo istante! Io non vi so dire’
– Povera mortale! – sussurrava l’averla parlante. – Sei andata in riva al Lago Maledetto’ E tu non sai quanti miseri hanno perduto la loro vita lungo le sue sponde! Davvero, tu non lo sai’
Un brivido triste fece tremare l’infelice, come se fosse stata una bambina.
– Averla, averla! – sussurrò Clarisse. – Mi riporti a casa?
– &egrave il Cielo che mi manda da te, per fare quello che tu dici! Ti salverò dagli inferi – fu la risposta.
– Oh, piccola figlia della tristezza! Gli occhi miei si chiudono per il dolore’ Ma se potessi, oh, con queste mie labbra ti darei un bacio!
Ella non lo sapeva, ma l’averla parlante s’era posata affettuosamente sulla sua spalla. Il volo suo la conduceva lontano, lontano, via dai ghiacci e dalle loro eterne nevi.
Ma era destino che Clarisse facesse ritorno a casa, la stessa, maledetta dimora, ove il fato la voleva prigioniera e sconsolata, ahim&egrave!
Sì, proprio così!
E uno schiaffo, crudele, la accolse.
Era tardi, ella era ritornata con la neve’ Cielo, quanto sarebbe stato meglio se si fosse smarrita per sempre lungo il Lago Maledetto! Oh, sì, sì, sì!
– Crudele! Oh, io non voglio augurarti del male, per questo, ma fa’ attenzione, perché Qualcuno, lassù, ti punirà!
Clarisse diceva così’
Lacrime tristi toccavano gli occhi suoi.
Il Malfattore delle Montagne rideva, rideva, fregandosi le mani, oh, era come se stesse contemplando l’opera sua. La povera sconsolata giaceva al suolo, davanti agli occhi di colui che non si commuoveva.
Eppure, ella trovò il modo di fuggire, sia pure per pochi, fugaci istanti, lievi come sogni’ A dire il vero, aveva trovato la maniera di uscire da quella casa e se ne andava sempre per i boschi, quando il perfido era lontano.
Dove andava?
Io lo so’ E ritornava sempre prima di lui, affinché non potesse accorgersi della sua assenza.
Nella foresta c’era una piccola casa di legno, sapete? Era nascosta fra gli abeti, come un tesoro, che nessuno poteva scoprire.
Oh, sì, sì, sì!
Era la casa del guardiano’ Clarisse andava sempre a nascondersi laggiù, ove si sentiva al sicuro.
Il buon vegliardo, che aveva la barba bianca e la stanchezza dipinta negli occhi, la faceva piangere sulla sua spalla.
Oh, io non so che cosa provava Clarisse nei suoi confronti! Io non so che cosa provava per lui, no’
Io davvero non lo so, rammento soltanto che una volta, stringendolo tra le sue braccia, le sfuggì questa parola:
– Papà!
E gli raccontava vagamente di essere stata lungo il Lago Maledetto, di aver visto le aquile e i corvi neri, sulla neve, aveva udito i loro versi cupi, che incutevano timore al solo pensarci!
Rammento che la giovane e il vecchio camminavano insieme sotto gli abeti, lungo il sentiero delle bacche vermiglie…
Egli le mostrava i rovi dagli aculei velenosi, oh, no, no, no, non doveva toccarli, perché altrimenti sarebbe morta e l’anima sua sarebbe volata verso gli inferi.
– Oh, hai mai visto la mia averla? L’hai vista tu? – chiese una volta Clarisse.
– No, io non so quale sia’ – le rispose il guardiano.
– &egrave bellissima, il suo canto malinconico mi narra sempre dei cattivi e delle crudeltà che vogliono infliggermi! &egrave un essere parlante, forse l’unico animale al mondo con questa virtù.
Io ricordo che, in quegli istanti, il grazioso uccello li accompagnava e riempiva il silenzio con il suo cinguettio assai tetro, lugubre e triste.
Il vegliardo tremava.
Oh, cosa le stava raccontando!
Era una favola che faceva venire i brividi, perché parlava di morte.
C’era un luogo in cui Clarisse non era andata mai, un luogo non molto lontano da là, incastonato tra le montagne.
Era la cava abbandonata!
Lassù, non lavorava più nessuno, da lungo tempo, era come se una maledizione oscura fosse piombata su quel posto funebre, coprendolo con il suo nero manto.
Vi era morto un giovinetto’
E i minatori avevano cercato invano di salvarlo dalle braccia di Signora Morte’ Ma Ella aveva voluto portare via con sé anche loro.
Le rocce erano candide ed eburnee in quei luoghi poco ameni.
Pareva che un pietoso velo le ricoprisse tutte e fosse sceso dal Cielo. E le alte montagne, ricoperte di ghiacci, si stringevano in cerchio attorno a quel luogo, tanto che neppure un raggio di sole penetrava giù nella cava.
No, neppure un raggio di sole’
Solo il torrente, dalle acque profonde e fredde, vi giungeva e la voce sua narrava di morte.
I fantasmi dei minatori abitavano le rocce. Di tanto in tanto, raccontava il vegliardo, da lontano pareva di udire il sordo rumore delle piccozze, degli scalpelli, dei badili’ Erano echi di spettri.
Sì, era così’
E pareva di sentir passare la vecchia locomotiva a vapore, sul binario morto, che conduceva lassù.
– Oh, buon guardiano, &egrave tutto vero quello che mi racconti? – gli chiese Clarisse.
– Sì, ragazza mia – le rispose lui. – E credimi, non andare mai alla cava, non andarci, figliola, non andarci mai e poi mai’
Egli si raccomandava, sì.
Clarisse ritornò a casa tutta ansiosa, quel giorno’ Oh, no, il Malfattore delle Montagne non la scoprì, in quell’occasione e la verità si mascherò davanti agli occhi del perfido, che viveva di ciarle e di ruberie.
Rammento un istante triste’
Oh, la povera giovane era buona, sapete? E non avrebbe fatto nulla che dispiacesse al suo Dio’
Nulla!
Era andata al torrente, sapete? Le era parso che Egli la prendesse per mano e la conducesse lontano, lontano’
Era come se la facesse vagare sulle rocce, lungo il tortuoso e ripido corso d’acqua, fra i sassi’ Pareva che giocasse con lei e d’un gioco malinconico e affettuoso a un tempo.
– Oh, dove mi porti? – sussurrò Clarisse.
Ella gli parlava’
Perché era certa che Lui la sentisse!
– Uh, ma mi farai inciampare! Come corri! Come corri! – gli disse poi, allegramente.
Rideva, sembrava folle, perché era come se si fosse lasciata prendere per mano, come se si stesse abbandonando fatalmente a un incantesimo.
Doveva essere bello!
Ma non durò che un istante.
Forse, ella s’illudeva’ Ma che cosa importava?
Io so soltanto che s’era inginocchiata in riva al torrente, sui freddi sassi e l’animo suo era tutto rivolto verso l’Eterno.
Aveva chiuso gli occhi suoi’
Ed era come se mille piccole stelle d’argento le stessero ruotando intorno. Sembravano piovute dal Cielo e nessuno avrebbe potuto dire da quale parte dell’universo giungessero, ma erano piccole stelle d’argento, sì.
Ella giurava’
Oh, ed eran tanto belle le parole sue, sapete?
– Non farò mai del male’ Oh, no, no, no, non farò mai del male, neppure in sogno, neppure per scherzo, neppure se un giorno la cieca follia mi farà smarrire me stessa!
Così disse alle acque.
– Io lo giuro, sì! – aggiunse.
Clarisse si era commossa.
Io lo so, si sarebbe ricordata di quel giuramento sconsolato e forte per tutta la vita.
Oh, in cento momenti di sconforto agli occhi suoi sarebbe riapparso quell’istante passato, come una visione o un’ossessione!
Ella non voleva fare il male.
Ma l’infelice non sapeva di vivere in un nido di vipere’ L’avrebbero costretta a fare quello che non voleva, sì!
Clarisse non sapeva ancora nulla.
Quel giorno, fece ritorno a casa tardi, molto tardi. Trovò il cattivo ad aspettarla’
Oh, il cattivo, il cattivo!
Mi ritorna in mente un’immagine assai macabra, lugubre e cupa, che non so se devo raccontarvi, oppure no.
Le fiamme illuminavano la stanza’ E c’erano due ombre, una buona e l’altra cattiva, perfida, che s’agitava, si dimenava e stringeva tanto forte la sua nemica, oh, la stringeva in un modo tale, che’
Cielo!
– Lasciami!
– No, no! No e poi no! Questa volta hai fatto la bambina cattiva e la devi pagare! Vediamo un po’ cosa posso fare per darti una lezione’ Potrei incatenarti! Buona idea’
Sì, egli minacciò di incatenarla e non di farla uscire mai più dalla sua stanza.
Quella sera, il Malfattore delle Montagne aveva una voce crudele, non faceva che ripeterle che quella volta lei gli avrebbe ubbidito, ad ogni costo; sì, le avrebbe fatto fare ciò che voleva!
– Devi stare ai miei ordini! Sono io che comando, qui dentro!
Dopo che le ebbe detto queste parole, la condusse giù nello scantinato.
Rammento la luce debole di una lampada, che illuminava la stanza dalle pareti grigie, ricoperte di ragnatele; le macchine per stampare biglietti falsi sembravano giacere dimenticate e arrugginite nell’ombra.
– Che cosa vuoi farmi fare, buon Dio? – chiese Clarisse.
Ma il perfido non le rispose.
– Che cosa vuoi farmi fare? – ripeté la giovane.
La sconsolata piangeva.
Perché il Malfattore delle Montagne la costringeva a fare il male, lì, alla luce debole di una sorta di lanterna!
– Lavora! Fa’ funzionare le macchine! Riempi l’inchiostratrice! Olia le stampanti! Prepara gli stampi!
Egli rideva, dandole quell’ordine.
– No, io non farò il male! Tu mi vuoi costringere ad infrangere la legge! Tu mi vuoi costringere a tradire il buon Dio! – esclamò Clarisse, giungendo le mani.
– Sì, sì, sì e ancora sì! E tu lo farai! – le gridò l’altro, prendendo un bastone.
– No, te lo giuro!
E rammento che vi fu un alterco macabro, consumato nell’oscurità di quello scantinato, in cui correvano i topi e c’era una finestrella con la grata. Si sentiva il rumore delle macchine, lugubre e cupo’ Da quelle bocche d’acciaio uscivano biglietti di banca turchini’ Venivano stampati altresì dei titoli di credito falsi, dei contratti fatti soltanto per ingannare la gente’
– No!
Clarisse aveva gridato questa parola, più e più volte.
Perché il Malfattore delle Montagne aveva minacciato di farle stritolare la mano da una delle sue macchine! Poi se n’era andato, sogghignando.
– Ritornerò, per punire la malfattrice! – borbottò.
La lasciò in lacrime, sul pavimento freddo, bagnato di inchiostro.
– Io non voglio fare il male! Oh, no, no, no, nessuno mi può costringere a commetterlo! Chi sono stata nella mia vita passata, quali crimini ho commesso, per avere queste sofferenze nella vita presente?
La giovane sussurrava queste parole’ Oh, che destino, il suo! Soffrire ed essere felici’ &egrave mai possibile a questo mondo?
Clarisse fuggì, prima che egli tornasse.
Oh, davvero io non so, no, dove andò!
Ella ansimava, voleva nascondersi fra le rocce del torrente, nelle grotte’ Voleva immergersi nell’acqua fredda fredda, oppure scomparire dietro i rami di un rovo.
Sentiva forte la voce del rivo, ma c’era un altro rumore atroce, che la induceva a voltarsi.
E la sconsolata si voltò’
Cielo, il cattivo le stava alle spalle e teneva tra le braccia il fucile per ucciderla!
– Oh, Dio, aiutatemi, ho tanta paura che questi siano i miei ultimi istanti!
Ella disse così al suo amico’
Io me la ricordo, mentre correva sui sassi, lungo il torrente, con le lacrime agli occhi! Andava verso la cava abbandonata, vicino alla montagna grande’ Quel luogo era maledetto, forse quanto la vita sua.
Rammento la voce di quel fucile’
Oh, era tanto, tanto fredda!
– Clarisse, questa volta ti uccido, &egrave finita, ih ih! Ti manderò nel tuo paradiso, eh? Vedrai, vedrai quanto starai bene, Lassù, vedrai!
Io non rivedo dentro di me che le nuvole di fuoco che uscivano dalla canna di quel fucile ed il pianto sconsolato della vittima.
Erano in prossimità della cava’
Cielo!
La piccola Clarisse non era mai stata prima in quel luogo lugubre; oh, aveva visto due scheletri abbracciati, tra le rocce bianche!
Una sorta di caverna buia e cupa si apriva dinanzi a lei; le sembrava di sentire le voci dei minatori morti, che la chiamavano, percuotevano le rocce con le loro piccozze e non avevano volto.
Si voltò. Cielo, alle spalle aveva il perfido Malfattore delle Montagne, col fucile, pronto a spararle per ucciderla!
Tutto questo le accadeva perché non aveva voluto fare il male.
– Oh, buon Dio, salvatemi!
Così sussurrava Clarisse.
Io non so se l’avrebbe salvata, oppure no.
– Cielo, dove sono capitata? Ma dove sono capitata? &egrave questo il luogo del quale mi parlava il guardiano e dove non dovevo andare mai, per niente al mondo? – disse la nostra protagonista.
Era perduta!
La cava abbandonata era tanto lugubre a quell’ora’ Si vedevano le montagne che s’innalzavano lì intorno ed apparivano tanto alte, rossastre e minacciose, che’ Oh!
Le civette cantavano’
I miei occhi si chiudono’
Oh, sì, non vogliono vedere! I miei orecchi non vogliono sentire, udire’ I miei sensi non desiderano che il pianto, per il destino di un’infelice.
Poi, sentii un rumore.
Già, l’anima mia errava in quei paraggi, udiva tutto, tutto, tutto!
Oh!
Clarisse era caduta in ginocchio, davanti al cattivo col fucile. Aveva giunto le mani, inutilmente, davanti al ferro assassino che si apprestava ad ucciderla.
– Pietà, per carità, risparmia la mia vita e rendimi la libertà! – gridò lei. – Io non voglio uccidere, rubare, imbrogliare, truffare, come fai tu! Non &egrave giusto che tu mi uccida per questo’
L’anima buona diceva così.
Ma non fu la sua preghiera, a salvarla’ Improvvisamente, un lastrone di granito si staccò dalla parete e precipitò giù, giù, giù, giù, giù’
– Clarisse!
Il perfido gridò questa parola. Poi si alzò tanta polvere bianca e il rumore fu talmente forte, da far paura.
Oh, altro non ricordo di quell’istante! Altro non ricordo, era semplicemente un incubo bianco, che sembrava eterno e nessuno ne poteva parlare.
– Oh, Dio, ti prego, non ucciderlo! Non ucciderlo per la sua perfidia! Che le mie opere buone plachino la tua ira!
Clarisse sussurrava queste parole. Ma non sapeva quello che diceva. Poi se ne andò, scappò, lontano, lontano, giurando a se stessa di non fare mai più ritorno alla cava abbandonata, oh, no, no, mai più!
Una frana aveva investito il Malfattore delle Montagne.
Ma l’aveva forse ucciso?
Io non lo so’
L’averla parlante volò dalla sua amica, perché doveva avvertirla dei pericoli mortali che correva l’anima sua. Doveva avvertirla, sì!
– Averla’ Averla, sei tu? – sussurrò Clarisse, parlando alla sua visitatrice.
La povera vagabonda si era posata sul ramo di un rovo, tutto ricoperto di neve e di ghiacci’ Oh, faceva freddo, sì, quel giorno.
– Averla’ Oh, amica cara! – disse la donna.
– Sì, sono venuta per te, anche questa volta’ L’animo mio &egrave triste, quanto il tuo! L’animo mio &egrave venuto a rivelarti una verità sconsolata – rispose l’uccello fatato.
– Quale?
– Oh, tu non sei al sicuro! La tua vita &egrave in pericolo e Iddio sa quanto! Devi andare via, non devi lasciarti prendere dal cattivo’
– Forse egli non &egrave morto? &egrave ancora in vita dopo il terribile incidente?
– No, no, egli non &egrave morto’ La vendetta sua t’inseguirà, egli dice di essere tuo padre, ma non lo &egrave! Eppure, tutto il mondo gli crede!
– Sì, amica mia! Tutto il mondo ci odia!
Clarisse fece un’ultima carezza alla sua averla, che poi se ne volò via tranquilla.
Oh, era così calma e pia! E pensare, oh, e pensare che aveva fatto un balzo e si era appollaiata sulle fronde meravigliose di un leccio!
La sventurata rimase sola, piena di timore e di paura, sì, ahim&egrave!
Io rammento un soave istante, vissuto da Clarisse’
Un povero mendicante cieco era venuto a bussare alla sua porta, ella era corsa ad aprirgli, piena di carità e d’affetto’
– Clarisse!
– Oh, tu mi chiami con il mio nome! Ma come fai a conoscerlo?
– Io so tutto di te, sai? Tutto, tutto!
– Ma allora tu chi sei? Dio?
Questo il dialogo tra i due. Era stata lei a pronunciare quell’ultima parola e certamente era stato il suo cuore a sussurrargliela, sì, nient’altro che il suo cuore.
– Tu, qui, insieme a me? – sussurrò la nostra protagonista, sciogliendo i suoi lunghi capelli castano-rossicci. – Tu, qui, nelle sembianze di un misero essere infelice, che soffre! Io non posso credere ai miei occhi, &egrave tutto vero?
– Sì, Clarisse! – fu la risposta.
– No, non te ne andare’ Non lasciarmi sola in questo nido di vipere! Non lasciarmi sola sulla terra!
– Ma tu non sei mai sola!
Egli rideva, poi la sua amica corse, corse a prendere qualcosa per lui, con cui nutrirlo, con cui cercare di sfamare la sua gran fame.
– Oh, hai tutto il viso sporco di nero, sembri uno spazzacamino! – esclamò Clarisse.
Ella se n’era finalmente accorta’
– Dammi da mangiare, anche un solo pezzo di pane! Oh, te ne prego, una sola briciola’ – le disse il suo interlocutore.
Il mendicante allungò la mano verso di lei.
Poi arrivò il Malfattore delle Montagne, vestito con una lunga giacca di panno blu, rattoppata’ In testa portava una sorta di cappuccio da bandito’ Era appena stato a commettere una rapina.
– Caccialo fuori, non voglio straccioni in casa mia! – disse il cattivo. – Caccialo via, mandalo via! Clarisse, ubbidisci!
Cielo, che voce feroce aveva fatto! Faceva venire i brividi, faceva tremare la povera giovane dalle fondamenta.
– No, mai! – gridò lei.
– Caccialo fuori, &egrave un ordine! – riprese il mascalzone. – Tu farai quello che voglio io! Sì, tu farai il male! Lo farai ora, sì, te lo dico io!
– Oh, no, ti giuro sul mio affetto che non farò!
Ma l’altro la costringeva, sì, e le imponeva di chiudere la porta in faccia al mendicante, che era venuto a bussare alla loro casa.
Il derelitto, intanto, piangeva, singhiozzava’
Oh, davvero Clarisse sapeva che quel giorno una colpa da lei stessa commessa l’avrebbe perseguitata’ Aveva chiuso il buon Dio fuori della porta!
Me la ricordo tremante, mentre tendeva le palme delle mani verso il focolare, nel quale ardeva il fuoco.
Il Malfattore delle Alpi, che si spacciava per suo padre, senza esserlo, stava seduto alle sue spalle e la stringeva tra le sue braccia, come se avesse voluto divorarla.
– Clarisse’
La chiamava così, dicendole:
– Non hai paura che questo fuoco ti divori? Guarda, guarda come arde, come scoppietta e brucia’
Poi le mormorava in un orecchio:
– Hai paura del fuoco?
E lei gli rispondeva di sì.
– Oh, cara, ti assicuro che ne dovresti vedere tanto e per l’eternità! Dimmi, su, raccontami, che cosa hai fatto oggi? Che cosa hai fatto? Hai ubbidito ai miei ordini, hai fatto del male’
– No, non ho fatto nulla – sussurrò Clarisse, avvolgendosi nel suo scialle bianco, ornato di pizzo.
– Oh, e lo chiami nulla? Ti ricordi i comandamenti del buon Dio? E tu, che cosa hai fatto? Hai chiuso fuori chi ti chiedeva da mangiare’ Era un innocente! Aiutarlo non ti costava nulla, ma tu hai voluto cacciare via il bisognoso, per pura crudeltà’ Ih ih ih!
– Ma tu sai che non &egrave vero!
– Sì, che lo &egrave’ E adesso cerchi persino di mentire a te stessa, dici le bugie’ Non si fa!
– Perfido! Sei tu che lo fai!
– Accusare gli altri ingiustamente &egrave una cattiva azione! E vorresti essere una santarellina? No, no, no’
Clarisse scoppiò a piangere.
Oh, per tutta la notte non ebbe che incubi, perché il rimorso crudele la perseguitava ingiustamente, tanto, tanto ingiustamente!
Ah, il Malfattore delle Montagne, quel perfido!
– Io non ho fatto del male’ Oh, Signore Iddio, aiutatemi, io non ho fatto del male! Io non volevo’ Io non volevo macchiarmi di alcuna crudeltà’ Mi ci hanno costretta! Ma lui dice che le mie sono bugie! Oh, sì, dice che penso così solo per giustificare la mia iniquità!
Clarisse corse via appena poté.
Aveva una chiave segreta, che le permetteva di non restare prigioniera quando il perfido non c’era. Andò dal suo amico guardiano.
C’erano tanti ghiacci, tante nevi, che ingombravano il sentiero e rendevano aspro e tortuoso il cammino’ La casa di legno sembrava sepolta nella neve fredda. Ma l’amico era lì, ad aspettarla.
– Cara, su, confidati col tuo buon vecchio! – le disse.
– Oh, Mettius, ho tante cose tristi da dirti! Sono stata in quel brutto posto, sai? Sono stata alla cava! &egrave il luogo del quale tu mi hai parlato tempo fa’ – mormorò lei, appoggiandosi sulla sua spalla.
– Davvero, figliola?
– Sì, sono stata alla cava ed &egrave stato tanto brutto, perché un cattivo mi inseguiva per uccidermi’ E poi ha voluto punirmi, facendomi commettere una cattiva azione! Cielo, il rimorso mi uccide!
Clarisse gli parlò anche del Lago Maledetto, le Lac Maudit’
Ella non conosceva, no, non conosceva la leggenda sconsolata’
Nelle aurore boreali, il lago si tingeva di turpi colori, di nero, sì’ Allora, pareva tutto di pece. Era un piccolo inferno sulla terra e, in quegli istanti, si vedevano i rovi spogli tremare nel vento polare, per poi incendiarsi di fiamme, che nulla avevano di terreno.
– Non ritornarci mai più, cara. Non ritornarci più! – esclamò il guardiano.
Egli le disse così, stringendola forte a sé, in un modo tanto affettuoso, che io non so raccontarlo.
– Oh, come vorrei poterti ubbidire! – disse lei.
Egli cercava di metterla in guardia, parlandole di tanti altri luoghi pericolosi e cupi, sperduti in mezzo alle Alpi e dove ella non sarebbe mai dovuta andare, se le era cara la vita.
Oh, Cielo, di cosa le parlò!
Le narrò del Passo della Morte’
Lo si poteva discernere, di lassù’ Era là, incastonato tra i ghiacci delle alte montagne; tre vedove avevano osato andarci, un giorno’ Erano salite lungo l’erta tutte vestite di nero, evocando con lugubre voce i loro cari defunti.
Avevano duri bastoni alla mano e i volti rugosi, sfigurati da Madamigella Morte.
Chi le aveva viste ebbe una sorte tanto cupa, che nemmeno si può raccontare. Che brividi!
Le tre vecchie avevano risalito la china, erano giunte al Passo, battuto da gelidi venti; ah, casa delle aquile, luogo ove tetri rapaci costruivano i loro nidi e dal quale pochi miseri mortali erano ritornati vivi!
Iddio non aveva voluto che le tre vedove ritornassero a valle.
Esse avevano osato sfidare il Cielo, onde strappargli i defunti che aveva rubato ai loro petti affettuosi. Il castigo era stato tremendo ed assai atroce.
Si era levato un vento freddo, di bufera’ E tragiche grida erano sfuggite a quelle labbra, condannate alla morte. Delle tre sciagurate non erano rimasti che scheletri, abbigliati con lugubri panni vedovili ed abbandonati in eterno ai ghiacci.
Ma le anime delle dannate non abbandonarono mai il Passo della Morte, dove sventolava uno stendardo del color della pece, che sembrava bagnato di sangue!
Oh, no’ E ogni tanto, le tre sventurate desideravano sfamare la loro eterna inedia, divorando con le loro mascelle sdentate qualche ingenuo passante, che non temeva i geli e le insidie delle montagne!
Cielo!
Oh, che storia lugubre! Clarisse la ascoltò, tutta presa dai brividi.
Poi, la nostra protagonista tornò a casa.
Ricordo che riposava nel suo letto di legno, nel cupo della sua stanza segreta; attraverso la finestra si discerneva il paese, illuminato da lampioni dalle luci biancastre e battuto dalla bufera notturna.
– Clarisse’
Qualcuno la chiamava.
Ella intanto recitava le sue preghiere, sussurrando. Io non so chi l’avesse chiamata, io non lo voglio sapere, davvero, lo giuro!
So soltanto che’ Oh!
Il male tormentava quell’anima buona, incapace di concepire qualsiasi crudeltà. Quella sera, era venuto di casa’ Era entrato attraverso la finestra, l’aveva trovata china accanto al letto bianco, indisturbata’ Oh, che rumori cupi s’udivano!
E ricordo che il piccolo fuoco che ardeva nel focolare aveva cominciato a divorarsi i mobiletti di legno; il male minacciava di far bruciare anche lei’
– Stai attenta! Stai attenta, perché io stritolo chiunque non mi obbedisce!
Così diceva una voce nera.
Clarisse singhiozzava.
– Sì, sì! Io ti brucerò viva! Perché a questo mondo non si può non disobbedirmi, senza morire!
Da chi provenivano quelle parole nere? Mistero.
Che lugubri istanti!
Che terrore!
Poi, fu silenzio.
Clarisse era caduta addormentata sul pavimento di legno, freddo freddo, freddo freddo.
Io me la ricordo, allora era tutta vestita di bianco, teneva le mani giunte e le palpebre abbassate’ Gli occhi suoi, avvolti dal sonno, consumavano una visione di fuoco.
Cielo!
Ella si vedeva in pericolo’
Oh, qualcuno l’aveva presa con i suoi artigli e la stringeva forte, tanto forte; io non vi so neppure raccontare quegli istanti.
– Lasciami! Ah! – diceva lei.
Aveva salito la china, stava lassù, in cima alla rupe’ Tutt’intorno, non c’erano che rocce, bianche e gelide, sì, bianche e gelide’
Io non so chi fosse colui che l’aveva presa, vi prego, non chiedetemelo! So soltanto ch’ella si vide al Passo della Morte!
Il vento faceva tremare i suoi veli e la sua pelle.
Oh, Clarisse, che cosa ti accadeva? Che cosa ti succedeva, dimmelo!
La bella si risvegliò di soprassalto.
Si mise in ginocchio, per pregare il buon Dio’ Oh, aveva visto delle cose atroci!
– Cielo, aiutatemi! Ho sognato’ Oh, il Passo della Morte!
Sì, ella l’aveva visto proprio come gliel’aveva descritto il vecchio Mettius, il guardiano del bosco!
Oh!
La giovane aveva contemplato le nevi fredde, le aveva viste macchiate del suo stesso sangue’ Una luce di torpore le aveva mostrato tutto, tutto!
Le lacrime non bastavano ad intenerire il destino perfido.
Una volta, Clarisse era sola, con la sua averla parlante’
Aveva aperto la finestra, discorreva con lei attraverso la grata tutta arrugginita, sì, era tutta arrugginita’ E la sua amica la guardava con due occhi pieni di compassione triste.
– Oh, averla, averla, averla cara’ – sussurrava la sventurata.
Ella le diceva così, cercando invano di accarezzarla.
– Averla, lo sai? – disse poi la donna. – Io ho visto delle cose tanto, tanto brutte! Ho sognato la mia morte!
E quasi piangeva, dicendoglielo.
– Ho visto la neve fredda, che mi ricopriva’ E degli avvoltoi neri divoravano la mia carne, lassù, al Passo della Morte! – narrò la povera giovane.
– Poverina! Oh’ Sì? – mormorò l’uccello parlante.
– Davvero, &egrave proprio così come ti racconto! Tre vecchie dai lunghi capelli grigi mi avevano presa, oh, mi avevano gettata giù dal burrone’ Ed io morivo così, mentre loro sghignazzavano forte!
– Piccola cara! E poi?
– Erano tutte vestite di nero’ I loro volti rugosi sembravano il ritratto dell’inferno, vedevo solo dei teschi, nascosti dietro quelle cuffie nere’ Oh, sì, dei teschi! Povera averla, tu capisci davvero queste cose? Quanto vorrei vivere altrove, libera come tutti gli altri miei fratelli!
– &egrave una sorte triste, la tua’ Oh, amica mia, lo sai? Certe cose non si sognano per nulla. Certe cose, poi, succedono’ Le creature nate per la morte sognano di morte!
– Di morte, dici?
– Sì e io sono qui per aiutarti’ Io ti devo salvare, sai?
– E da chi? Oh, averla, mi dici da chi?
Clarisse aveva gli occhi bagnati di pianto, in quegli istanti’ Aveva capito tutto. Le era parso di vedere tutta la sua vita, come una sorta di incubo, dal quale non riusciva più ad uscire’ Il Passo della Morte’ Il Passo della Morte’ Il nome di quel luogo cupo le era rimasto scolpito nel cuore, come se quelle rocce fossero destinate a diventare la sua tomba!
– Averla, non andartene’ Non lasciarmi sola! – mormorò la nostra protagonista.
– No, se vuoi, resto’ – rispose l’uccello.
– Averla’ Oh!
Una bianca lacrima bagnò il davanzale freddo. E subito divenne ghiaccio.
Clarisse aveva chiuso gli occhi suoi, pensava alla felicità, ma una mano crudele si posò sulla sua spalla, le fece rialzare le palpebre, la spaventò alquanto’ Oh!
– Clarisse! – si sentì chiamare.
Era il Malfattore delle Montagne, il cattivo.
– Oh, ma guarda! – le disse. – Guarda guarda! Un uccellino tiene compagnia alla sconsolata!
E sapete che cosa fece? La canaglia prese dei sassi e cominciò a tirarli contro quella povera averla, l’amica intima di Clarisse, la sua sola confidente.
– Cielo, la ucciderai! No! No!
L’infelice gridava così.
Ma non c’era nulla da fare, il perfido aveva preso molti sassi e continuava a tirarli contro quella povera bestiola innocente’ Glieli scagliava contro, sì, uno dietro l’altro.
Uno di essi colpì l’averla.
– Ah!
Fu il povero uccello a gettare quella sorta di verso, perché era rimasto ferito. Il sangue suo bagnò il davanzale, la bestiola innocente parve precipitare, giù, giù’ Oh, povera amica!
– Che le hai fatto? – gridò Clarisse. – L’hai uccisa! Sì, l’hai uccisa tu, con la tua perfidia!
– Ma per piacere’ E se l’avessi fatto davvero? Eh? Rispondimi, che male ci sarebbe?
Egli le parlava inutilmente’
La povera giovane era talmente sconsolata, che non avrebbe mai più potuto rispondere a nessuno, si diceva. Questo era terribile.
Ella corse a chiudersi in camera, dicendo:
– Oh, Dio, quando vi deciderete a strapparmi a questo destino di sofferenze? Quando mi permetterete di chiudere gli occhi per sempre? Io non voglio più vivere in questo mondo!
Oh, quant’era folle, quant’era folle!
Ahim&egrave!
Noi la seguiremo, nelle sue tristezze’
Una sera di bufera, Clarisse teneva tra le sue mani una Santa Bibbia’ E la leggeva, silenziosamente, cercando di non farsi vedere dal Malfattore delle Montagne.
Sentiva il rumore delle macchine, che funzionavano, giù, in cantina, dove nessuno poteva vedere.
Oh, no, non c’era fuoco, nella stanza’ Tutto era silenzio e gelo, pareva un piccolo inferno turchino e anche l’acqua nella catinella s’era gelata.
Clarisse tremava’
Sì, ella aveva i brividi, malgrado fosse avvolta dalla sua coperta!
– Amica’ Oh, amica cara! – disse la voce del cattivo.
– Che vuoi? Vattene! Vattene! Vattene! – gli rispose la giovane.
– No, no e poi no!
– Cosa mi vuoi fare? Cosa? Perfido! Oh’
Egli aveva preso il suo libro sacro, al quale lei era tanto affezionata, perché conteneva le parole divine’ Clarisse gli ripeteva di restituirglielo, di non fare il male, perché altrimenti Iddio lo avrebbe punito’
– Certo! – tuonò il Malfattore delle Montagne.
E glielo restituì, gettandoglielo in faccia. Dovete sapere che, allora, il cattivo le stringeva forte un braccio’ Voleva che lei gettasse nel fuoco il libro sacro e le ripeteva di farlo’ Oh, con quanta violenza le gridava negli orecchi quei comandi orribili!
– Fallo, avanti!
E alla fine’ Cielo, le fiamme divorarono la piccola Bibbia! Pagina dopo pagina, la ridussero in cenere, a poco a poco’ Oh!
Era stato per mano di Clarisse’
Ella parve contemplare il misfatto come se fosse stato veramente opera sua.
– No! – gridò poi.
E cercò invano di nascondere il suo volto nel petto del suo nemico, ma incontrò due braccia terribili e una voce cupa, che le sussurrò parole di tristezza.
– Clarisse’ – disse lui.
– No, lasciami!
– No, non ti lascerò adesso’ Perché &egrave mio dovere rimproverarti, dirti che non bisogna comportarsi così, no, no, no, non si deve’
– Oh, che ho fatto?!
– Tu lo sai. &egrave appena accaduto’
– Menzogne! Menzogne, di che parli? Sei stato tu! Tu mi hai costretta a fare questo!
– Che ipocrita’ Hai sempre una buona scusa in tasca’ Guarda, contempla il tuo delitto, che brucia nel camino! Hai gettato alle fiamme la parola di Dio, oh, chi mai ti potrà salvare dal fuoco eterno, ora? Hai calpestato un dono di Dio, carogna!
– No, non &egrave vero! Io non volevo’
– Vergognati!
Io non so se Clarisse gli credette oppure no’ Oh, davvero, io non lo so, ma ho tanta paura di sì! Era sconsolata, i rimorsi la uccidevano!
Cielo!
Il Malfattore delle Montagne la costringeva a rubare e a spacciare i suoi biglietti falsi, oh, sì, le dava quella cartaccia che stampava di notte, nell’ora delle streghe!
Ma Clarisse era troppo debole per opporsi al braccio di ferro che la costringeva’
Così, un giorno in cui lui le fece trovare sbadatamente la porta di casa aperta’
Cielo!
Una bufera imperversava nella valle, ma la più potente era quella che abitava nel cuore sconsolato di Clarisse, vi giuro! Ella fuggì’ I rimorsi la conducevano verso la morte!
Gli occhi suoi non potevano guardare attraverso la neve bianca, che cadeva a grandi fiocchi, tristemente’ Oh, qualcosa la guidava verso l’oblio!
– Credo che ormai non vi sia più speranza, per me’ Oh, Dio, quanto temo di avervi offeso!
Ella diceva così’ Le pupille sue non vedevano più’ Sì, la giovane credeva di aver perpetrato degli irreparabili delitti!
– Vado alla morte!
Questo sussurrava.
Eppure, l’animo suo era fatto per la vita’ La sorte volle che io avessi modo di vivere quegli istanti e di vedere quella disperata!
Una mano nera l’aveva afferrata improvvisamente e la faceva soffrire molto, sì, molto’ Io non lo posso neppure raccontare’ Che istante!
La mano nera stringeva forte quella di Clarisse, che quasi impazziva, dicendo al vento:
– Oh, Dio, siete voi? Siete voi, che mi strappate al mondo dei crudeli, per condurmi verso quello della bontà? Oh, me indegna’
Ella credeva di avere infranto il suo giuramento’ Aveva giurato di non fare mai il male’
Forse, non s’ingannava.
Ma le sue gambe la stavano conducendo a poco a poco verso il Passo della Morte, lassù, tra le montagne bianche, ricoperte di ghiacci stregati.
La neve era tanto copiosa, che quasi impediva a Clarisse di capire dove stava andando.
– Cielo! Cosa accade? Che cosa mi sta succedendo?
Oh, lo sapeva, lo sapeva!
La morte le accarezzava le braccia’ La sventurata aveva risalito il sentiero pieno di tornanti, infestato dalle vipere del destino, vedeva la sua casa, lontana, lontana, lontana, insieme al volto del Malfattore delle Montagne!
– Dove sono? – diceva. – Oh, sì, io ho già vissuto tutto questo, in sogno! Era il Passo della Morte!
Clarisse giunse le mani, perché una delle vipere delle rocce l’aveva morsa, o almeno così le era parso!
Qualcuno sghignazzava’
Oh, forse, era il perfido, il crudele, che fingeva di essere suo padre, ma in realtà non voleva farle che del male!
Lei era arrivata fin lassù, al Passo’
Il vento freddo chiudeva gli occhi suoi, ma con due mani grandi e tremanti, qualcuno glieli aperse. Era il destino, che le concedeva di contemplare la sua sorte.
– Clarisse’ Clarisse’ Clarisse! – diceva una voce.
– Chi, chi mi chiama? Sei tu, Dio? – sussurrò la giovane.
No, non era lui.
Ella si toccava piano la ferita, oh, sì, qualcosa l’aveva morsa, era stato come se le vipere le avessero regalato il loro veleno mortale, che donava una fine disperata.
– Io non desidero che l’eterna pace! – mormorò la nostra protagonista.
Ululati di bufera tornavano a lei, rapiti dall’eco.
– Sì, sì! A questo mondo, non c’&egrave altro da fare che morire!
Questo disse l’infelice solitaria. Fu come se l’avesse detto ai monti.
Dal fianco della montagna precipitavano delle rocce, che dovevano seppellirla’ E una forza misteriosa, quella del rimorso, le gridava di andare, di andare, di gettarsi sotto i massi, per morire.
Oh!
– Io ho commesso dei falli irreparabili’ Irreparabili!
Ella non diceva che queste parole, in quegli istanti. Aveva udito le voci delle vecchie, che sghignazzavano, sì, ridevano della sua sorte. Erano le vedove fantasma, di cui le aveva parlato il caro Mettius.
Gli occhi suoi si chiusero, ella precipitò giù’
Cielo!
Altro non ricordo di quell’istante, ma forse, a ucciderla, sarebbe stato il rimorso!
Il vecchio guardiano aveva fatto un brutto sogno, come la sua amica.
Gli occhi suoi avevano contemplato la morte, l’oblio’ No, egli non poteva permettere che accadesse il male e il cuore suo tremava, al pensiero che Clarisse potesse morire!
Era notte di bufera’ L’anziano prese il suo fucile e corse a casa della sua amica.
Bussò forte, tanto, tanto forte a quell’uscio di legno, ma nessuno voleva aprirgli, no, nessuno apriva; sembrava che in quella casa ci fossero stati gli spiriti!
Allora, il guardiano decise di sfondare la porta, col calcio del suo fucile. Entrò e trovò il Malfattore delle Montagne seduto davanti al fuoco.
– Che le hai fatto? Parla, mascalzone, che le hai fatto? – tuonò Mettius. – Clarisse? Clarisse, dove sei?
L’intruso gridava con tutta la forza della sua voce, ma non gli rispondeva nessuno, nessuno’
– Oh, hai paura, forse? Hai paura che le sia capitato qualcosa di brutto? &egrave stata cattiva e ha avuto in cambio quello che si meritava’ – disse il padrone di casa.
– Bugiardo! – rispose il guardiano. – Povera bambina! Che le hai fatto?
– Io? Nulla! Ha fatto tutto da sola, se n’&egrave andata’ E il buon Dio deve averla inseguita nella bufera, per punirla’
– Con questo tempo? Parla, accidenti! Parla, dov’&egrave andata? Ho bisogno di una lanterna, per andare a cercarla nel bosco!
Cielo, che momento!
Il vecchio aveva puntato il suo fucile contro il Malfattore delle Montagne, la luce delle fiamme illuminava quella visione terribile e’
Oh, cosa mai stava per accadere?
– In nome del Cielo, dov’&egrave andata? Sì, io so dove! E ora, tu mi seguirai, te lo giuro sulla testa della mia bambina! – gridò il guardiano, prendendo la lanterna.
Egli chiamava Clarisse la sua bambina, con indicibile tenerezza.
Rammento l’espressione lugubre del Malfattore delle Montagne. Egli conosceva le insidie e i pericoli di quei luoghi ed avrebbe potuto far precipitare il suo rivale giù da uno strapiombo.
Sì, davvero’
Ricordo che il vecchio accese la lanterna e se ne andò al fianco del perfido in cerca della scomparsa.
– Prega Iddio che la ritrovi, altrimenti, prima dell’alba, i corvi si ciberanno delle tue carni! – mormorò Mettius in uno degli orecchi del suo accompagnatore.
Il mascalzone gli rispose sogghignando.
La luce della lanterna errava nel cupo della notte, tra gli ululati della bufera fredda.
Oh, Cielo!
S’udiva il lugubre canto dei gufi e delle civette, ma il muggito più cupo era quello dei pini, della brezza fredda, che moriva sulle rocce, ammantate di nevi perenni.
E in quell’inferno casto, un grido si levava sempre:
– Clarisse! Clarisse! In nome del Cielo, rispondimi!
Ma ella non rispondeva, no, non rispondeva’ Oh, ella non rispondeva più, perché la morte le chiudeva le labbra!
Sì, era così!
– Clarisse!
Nulla’
La ritrovarono il mattino dopo.
Il vecchio e il Malfattore delle Montagne erano saliti su in cima, fino al Passo della Morte’ Il sole triste illuminava le nevi bianche, cadute da poco.
Fra esse, c’era il corpo di lei, lì, sì, abbandonato sulle rocce, fredde fredde.
– Clarisse! – gridò il guardiano. – Se le &egrave successo qualcosa, giuro su questi monti che ti ammazzo! Ti ammazzo!
Il perfido gli rispose con una scrollata di spalle.
Poi, il buon Mettius si chinò sulla bella.
– Clarisse, riesci a sentirmi? – le chiese. – Clarisse?
– Oh’ Sì’ – rispose lei. – Chi siete? Cosa volete? Perché questi monti, che mi stanno intorno?
– Clarisse, sono io! Mi riconosci?
– Ho visto una bianca luce e poi l’inferno, con le sue fiamme’ Rimettetemi nella mia bara’
Cielo!
Una maledizione triste era precipitata su di lei e le chiudeva gli occhi’ Il buon vecchio aveva commesso un’imprudenza, sì, si era dimenticato di tenere sotto tiro col fucile il Malfattore delle Montagne. Questi aveva preso una grossa pietra e’
Oh, per i corvi delle rocce!
Io non voglio raccontare quell’istante, no, no’ Rammento soltanto quel riso tenebroso, che vagava, errava nell’aria fredda.
Era la maledizione del Passo della Morte!
– Mettius!
Clarisse aveva sussurrato quel nome, come intontita e sperduta tra la vita e l’oblio.
No, non c’era più niente da fare, il suo amico era morto, lo sapeva’ Un lampo di tristezza l’aveva rivelato agli occhi suoi.
– Amico mio! – disse la giovane. – Oh, me l’hai ucciso tu!
Ella pareva essere ritornata dagli inferi, onde perseguitare l’assassino del benefattore. Sarebbe stata la sua ossessione’ E tutto accadeva lassù, tra le rocce ricoperte di ghiacci!
– Adesso tu verrai con me, ih ih!
Il Malfattore delle Montagne aveva preso Clarisse tra le sue braccia, tutto compiaciuto di se stesso e colmo d’ira e di rancore.
Dove, dove desiderava condurla, se non nel nido di vipere in cui ella era vissuta fino ad allora?
Rammento soltanto la gelida brezza, che scuoteva la sciarpa del cattivo e la veste dell’infelice, che giaceva tra le sue braccia! Tutto questo accadde al Passo della Morte.
Clarisse giacque per cento notti sul suo solitario letto, ma la vita pareva voler abbandonare il suo misero corpo, sfibrato dalla malinconia, eppur sì giovane!
Oh, perché?
Io lo so.
Sì, sì, sì!
Una visione triste tormentava quel debole essere. Lei ce l’aveva sempre davanti agli occhi’ Cielo! Soprattutto, un grido le era rimasto nel cuore’ Era quello lanciato dal suo amico, mentre precipitava nello strapiombo, in mezzo alle rocce fredde.
La finestra era aperta quel giorno. Entrava la brezza alpina, che non riusciva a risvegliare l’infelice Clarisse dal suo torpore vano. Poi, però, giunse anche un uccello amico. Oh, sì, sì, sì, era l’averla!
Non era morta’ Il Malfattore delle Montagne non era riuscito ad ucciderla con i sassi’ No, egli non era riuscito a strapparle la vita, così lei poteva ancora regalarla a chi amava.
– Ciao, povera, piccola ammalata’ – disse la visitatrice.
– Chi sei? – sussurrò la giovane. – Chi sei tu, che vuoi risvegliarmi dai miei torpori eterni? Non ci vedo’
– Come, non mi riconosci?
– Una volta avevo una cara amica’ Era una piccola averla parlante, sì, parlante, cosa strana, ma meravigliosa’
– Ma sono io!
– Oh, tu? Tu? Ma non eri morta?
– No, piccola cara, sono ancora al mondo.
Era venuta a posarsi sulla piccola testiera di legno del suo letto e sembrava piena di compassione, sì!
– Povera averla! – esclamò Clarisse. – Tu credi ancora in questa vita?
Era venuta a parlarle di cose belle, che non potevano ispirare che allegria, spensieratezza, vi giuro, davvero’ Le diceva che presto sarebbe arrivata la sua primavera. Lei, piccola averla com’era, aveva voluto fare un volo fino all’estrema valle, dove aveva visto i primi germogli, le prime piante fiorite, gli alberi che mettevano le foglie’
– Oh, averla, possibile? – chiese la sventurata.
La sua cara amica continuò a narrarle di luoghi ameni e le disse di come avesse regalato il suo canto malinconico a delle bellezze nascenti ed incontaminate.
– Averla, portami con te, laggiù, nei luoghi meravigliosi di cui mi parli!
Questo le chiese Clarisse. Ella sapeva purtroppo che ciò che domandava era impossibile. Eppure, continuava a chiedere alla sua averla di prenderla per mano e di portarla via con sé.
Sì, le diceva così’
Illusioni!
Poi l’averla le sussurrò che doveva lasciarla, doveva far presto, perché stava arrivando il perfido, aveva sentito i suoi passi ed aveva tanta paura che le tirasse dei sassi e la uccidesse.
– Oh, con chi mi lasci, mia povera amica! – le disse la nostra protagonista.
Clarisse aveva ragione a salutarla così, perché il Malfattore delle Montagne era veramente un cattivo, che faceva di tutto, anche l’impossibile, pur di farla morire.
Era tornato!
Ed io rammento che’ Oh, Clarisse giaceva sul pavimento ed era in lacrime!
– Sì, ti diverti, ti diverti a farmi uccidere dal rimorso! Tu non sei capace che di far questo’ – gli disse.
L’altro non le rispose nemmeno.
– Che cosa vuoi? – riprese lei. – Cosa, più di questo?
L’infelice giaceva sulla terra fredda e nulla la consolava più, mentre il Malfattore delle Montagne le camminava intorno e la guardava dall’alto, divertendosi a farle paura con la sua pistola mezza arrugginita.
– Oh, adesso io ti dirò quello che succederà! Sì, adesso te lo dirò, in nome del Cielo’
Mentre gli diceva queste parole, Clarisse aveva una voce di fuoco e compassionevole, a un tempo.
– Ti prenderanno! – gli gridò. – Sì, presto verrà il giorno in cui ti prenderanno, ti acciufferanno, ti metteranno le manette ai polsi e a nulla ti servirà proclamarti innocente! E tu piangerai, ti lamenterai, ma i giudici ti giudicheranno, ti condanneranno e nessuno avrà pietà di te!
– Di che parli? – le rispose il cattivo. – Vipera!
– Ti prenderanno’ Tu cercherai di scappare, ma ti coglieranno in flagrante!
– Uh!
– Ti porteranno davanti al giudice, che ti condannerà! E morirai in prigione, fra le serpi, fra i topi, che ti rosicchieranno i vestiti, a poco a poco! Implorerai invano un perdono che non ti verrà concesso mai!
Clarisse piangeva, dicendoglielo.
Eppure, aveva ragione, lo sentiva!
Ma lui’ Oh, cosa le disse!
– Dovresti vergognarti! – le urlò. – Insultare e offendere così chi ti ha dato una casa e un tetto! Una casa e un tetto, per tutti questi anni’ Vergogna!
– Oh, no, no, no! – gli rispose la donna. – Tu menti!
– Insultare così chi ti ha accolta e protetta, chi ti &egrave amico! Ah, da te non me lo sarei mai aspettato! E tutto questo, perché sei un’ingrata! Hai fatto il male’ Sì, Clarisse, il tuo &egrave un peccato grande!
– Sei tu, tu, tu che mi costringi a commettere delle cattiverie!
Io so che cosa avrebbe voluto fare la giovane.
Ella avrebbe voluto strappargli di mano quella pistola mezza arrugginita, strappargliela via, una volta per sempre e’ E poi, sparare!
In cuor suo, lei sentiva che sarebbe stato giusto. Era Iddio stesso ad ispirarle quell’azione, si ripeteva; eppure, l’animo suo rifuggiva dal compierla, perché era pieno di paura.
Che brutti istanti, quelli che passò!
Ad ogni modo, ricordo un bel mattino’
Il Malfattore delle Montagne l’aveva lasciata sola e il risveglio suo era stato meraviglioso. Clarisse, vestita soltanto con la sua vestaglia bianca, corse alla finestra, tutta festosa e con il cuore aperto all’allegrezza.
S’affacciò.
Da poco l’aurora era sorta.
Non c’era niente di più bello, nell’ora mattutina, che contemplare la vallata e le montagne che s’innalzavano tutt’intorno. Le campane suonavano allegramente. Il gaio suono si diffondeva quasi ovunque, come un’armonia magica e senza fine.
Sembrava Pasqua.
La neve era fresca e appena dorata dai raggi del sole, che spuntava oltre i dirupi. Durante la notte, aveva nevicato tanto.
Una brezza leggera salutava il giorno, così, semplicemente’ Scarmigliava i capelli della povera Clarisse, che li teneva sciolti e appena sporgenti oltre l’inferriata della sua finestra.
Si vedevano alberi spogli, che tremavano dolcemente nel vento. I passeri disegnavano nel cielo sentieri immaginari, fatti di serenità, che solo l’immaginazione poteva seguire. Non un’anima mortale turbava quel silenzio triste.
E tutto prometteva la pace!
Oh, sì’
Una lacrima d’opale spuntò dalle palpebre di Clarisse. Oh, ma non era stato il dolore, a strappargliela! Semplicemente, la commozione’
Ella sussurrava:
– Oh, perché, perché il male, la sventura, la morte? Non uccidete la felicità, miseri spettri dell’inferno! Vi prego, non uccidetela!
Altro non ricordo di quell’istante.
Oh, no, no, no, altro non ricordo’
Una volta, il vento sibilava forte, tanto forte, attraverso le rocce della cava abbandonata.
Pareva uno di quei mattini tetri, di gelo, di cui spesso parlava la fantasia del popolo. Sì, uno di quei momenti lugubri, dei quali narravano le vedove del villaggio, vestite con i loro panni neri e rattoppati.
La cava sembrava deserta.
Oh, no, non c’era nessuno, non ci doveva essere nessuno, in quei paraggi, eppure’ Ah!
Nuvole di polvere grigia si levavano dal fianco della montagna sventrata, che sembrava un gigante, in procinto di lamentarsi per le violenze che gli avevano inflitto i mortali.
Un’aquila volava in alto, in alto, lassù’
Il Malfattore delle Montagne apparve nella nebbia.
Era avvolto nel suo lungo cappotto invernale ed aspettava i suoi complici. La bruma densa, oscura, ottenebrava il suo sguardo; una pistola mezza arrugginita gli spuntava da una tasca, nient’altro’ Poi, quello sparo, che l’eco parve trasformare nell’urlo della montagna, ferita a morte. Era il segnale.
Oh, ma chi, chi mai gli rispose?
– Perché mi hai chiamato? Sì, sono ritornato or ora dal mondo degli abissi, per avere il piacere di torcerti il collo, maledetto!
Quella voce apparteneva forse ad un defunto.
Sembrava quella di Mettius, il guardiano, sì’ Era la sua, perché il Malfattore delle Montagne lo vide sbucare come un’ombra nera dalle rocce ricoperte di neve lieve e correre urlando verso di lui. Forse, era quella la perpetua dimora del suo spirito errante!
– Eccomi, sto venendo a te! – si sentì dire il cattivo.
La voce maledetta non rivolgeva al Malfattore delle Montagne che parole di morte.
Erano maledizioni, dalle quali neppure quel misero mortale poteva guardarsi.
Io rammento soltanto quelle due figure cupe, abbracciate nella nebbia, che lottavano, come due dannati’ Le loro voci diventavano rumori strani, sembravano plagiate dall’eco, sì.
Oh, voi non ci crederete, ma il guardiano era in carne ed ossa, no, non era morto, perché le membra sue potevano ancora stringere e forse uccidere!
Intorno ai due litiganti si radunò uno stormo di neri corvi di montagna, che gracchiavano e si beccavano a vicenda. Gli uccelli maledetti aspettavano di sapere chi fosse il perdente, onde divorare la sua carcassa.
La terra tremava, rocce fredde precipitavano sempre giù dai fianchi dei monti.
Poi, quel rumore di passi’
– In nome di Dio, non uccidete più!
Questo, il rimprovero mosso ai mortali, da parte di un’anima buona!
In quel mentre, i due si rotolavano sulla neve fredda, alla ricerca della morte. Oh!
– Mettius! Oh, Mettius, tu sei qui, nella cava!
Così disse Clarisse.
Cielo, io non so perché la giovane fosse andata lì! La sua averla doveva averle parlato, ma la sconsolata aveva giurato a se stessa di non ritornare mai più in un luogo simile.
– Vi prego, non uccidetevi per me! L’affetto non ha colpa! – gridò loro la bella.
Io non so che cosa volesse dire la poveretta, con le sue frasi’
Rammento soltanto il rumore triste dei sassi, che precipitavano giù, dal fianco della montagna, la polvere grigia si sollevava dal suolo e tutto confondeva, tutto smarriva, nella sua vaghezza.
Ahim&egrave!
Il volto di Clarisse si smarrì ed ella parve scomparire, forse, nella morte.
Fu come se, in quell’istante, il Cielo pietoso avesse deciso di prenderla, di portarla via con sé, per sempre, sì, per sempre.
Davvero, proprio come in un miracolo triste’
Non parliamo più di quel momento, ve ne prego!
Clarisse, però, andandosene, aveva promesso al guardiano di ritornare da lui, oh, sì, gli aveva promesso di riabbracciarlo!
E così’
Oh, ricordo che un giorno lei ed il Malfattore delle Montagne litigarono tanto ed aspramente!
Cielo!
Erano nello scantinato, nella stanza delle macchine, che allora funzionavano con tutta la loro forza, per produrre biglietti turchini, biglietti di banca.
Faceva freddo.
– Adesso tu aiuterai chi ti ha fatto da padre! Ora tu lo aiuterai’ – disse il cattivo, afferrando la bella per un braccio.
– Oh, no, ti prego, non costringermi a fare del male! – rispose lei.
– Di male ne farai disprezzando chi ti vuole bene, vipera! Ih ih ih’
– Io so che cosa vuoi farmi fare!
– E lo farai, te lo giuro!
– No! No, lo giuro davanti a Dio, non lo farò!
Il malvagio sogghignava rumorosamente, come un dannato; il suo riso malizioso riempiva la stanza, oh, sì, me lo ricordo, me lo ricordo’
Clarisse fu costretta ad ubbidire al cattivo, che aveva preso una frusta tutta nera, per minacciarla e ferirla!
Rammento che il giorno seguente la videro uscire di casa poco dopo il canto del gallo, con una gerla di vimini sulle spalle. Io so bene che cosa c’era in quel recipiente.
Ella saliva lungo le alte rocce della montagna, con un carico di refurtiva e di biglietti falsi sulla schiena. Doveva portarli oltre il confine, sì, oltre il confine.
Cielo, se l’avessero scoperta! Se avessero visto cosa c’era sotto la tovaglia a quadri rossi e bianchi che ricopriva la gerla!
Il vento ululava forte, tanto forte. E parve rapire così, nella sua bufera, quell’anima mortale che vagava sulla terra fredda.
Clarisse non obbedì all’iniquità.
Oh, no, non avrebbe mai potuto farlo!
Aveva imboccato il sentiero tortuoso che conduceva alla casa del guardiano, in mezzo alla selva. No, non voleva varcare le montagne maledette e i loro passi! Sarebbe stata la morte’ Una morte che lei aveva già sentito soffiare nel vento freddo, nell’ululato della bufera, sì.
– Chi, chi c’&egrave, a questo mondo, che mi possa salvare? Chi, se non lui? – mormorò la sventurata.
La gerla che portava sulle spalle le pesava tanto, che le sembrava di non farcela, di non farcela, di non farcela’ Oh, no!
– Dio mio, salvatemi!
Ella sussurrò questo, chiudendo gli occhi suoi. E sentì due braccia energiche che la soccorrevano, due braccia forti, che non avevano paura di niente e di nessuno, forse, neppure della morte.
– Clarisse’
– Sì? Oh, e tu chi sei? Non ti riconosco’
Era il suo Mettius, il guardiano, che la consolava sempre, sempre, sempre’ Grazie al Cielo l’aveva trovata! La stringeva forte a sé e sembrava che non volesse più lasciarla andare’
– Che cosa porti sulle spalle? – le chiese.
– Oh, amico mio! Volevano farmi commettere la morte! In quella risposta, data a fior di labbra, c’era tutta la malinconia di Clarisse.
Ella mostrò poi al suo amico la refurtiva e i bigliettoni che teneva nella gerla. Il Malfattore delle Montagne le aveva ordinato di portarli al di là del confine, dai suoi compari, dai suoi complici, ma lei non voleva! Glielo riferì con labbra tremanti.
– Io non lo voglio fare, Mettius! – disse la giovane.
Fu allora che il guardiano inveì contro il cattivo.
– Sì, amico mio – riprese Clarisse – oggi io ti racconterò tutta la verità!
E gliela disse.
– Egli stampa clandestinamente dei biglietti falsi, ruba ai ricchi come ai poveri, uccide gli innocenti per denaro! Va a fare le rapine, ha un gran numero di macchine, di cui ignoro il funzionamento, le tiene giù in cantina! E la notte si sentono scricchiolare, come mostri, sì, come mostri!
La bella singhiozzava, dicendo quelle parole.
Un rimorso segreto la divorava ed era come la peggiore delle paure.
Oh, forse, ella stava accusando chi le aveva fatto da padre!
Guardava la capanna di legno del guardiano, ammirava i suoi occhi e capiva che avrebbe comunque trovato una persona buona e caritatevole, disposta ad accoglierla, nel caso in cui’ Oh!
– Ti prego, amico mio, fammi uscire da quel nido di vipere! – gli sussurrò.
– Lo farò, sai? Lo farò! – le rispose il buon uomo.
– Lo crederesti? Avevo tanta paura che ti uccidesse! Sì, temevo di non ritrovarti più, di rivederti soltanto nel mondo felice che Dio ci riserva!
Allora, ella piangeva tranquilla sulla spalla di lui, dimentica del male che la affliggeva.
– Quel mascalzone la pagherà cara! – gridò il guardiano. – Gliela farò pagare! Ogni tua lacrima sarà un grido di dolore che sfuggirà alla bocca di quel dannato! Lo consegnerò alla legge!
– Oh, sì, sì’ Fallo, ma ti scongiuro, non permettergli di ucciderti!
– Che importa se vivrò? A nulla servirebbe vivere, se ti sapessi schiava di lui!
– Oh, Mettius, Mettius’
– Bambina mia, quello che farò sarà giusto!
Clarisse tremava. Aveva visto il guardiano porre mano al suo fucile da caccia, lo stesso che adoperava per spaventare i bracconieri.
– Oh, no, ti prego! In nome di Dio, non uccidere! – gli gridò l’innocente.
Ella aveva giunto le mani, ma a nulla valevano le sue suppliche: davanti a sé aveva un padre, infuriato perché gli avevano insultato la figlia.
Ricordo che la poveretta si era liberata della gerla, l’aveva capovolta ed il suo contenuto si era sparso sulla neve. Sembravano caramelle tristi!
Il vento le disperdeva in ogni dove.
Un fuoco leggero e malinconico sembrava divorare le carte, una ad una, una ad una, dolcemente, tristemente; le briciole furono rapite dalla brezza dei monti.
Sì, se le portò via lei’ Oh!
Il rumore del torrente si spargeva tutt’intorno, come una voce sconsolata, che chiamava qualcuno, nessuno’ Io non so, davvero’
Clarisse credette di sentirsi chiamare.
Chi mai poteva essere?
Si voltò.
Il mendicante cieco passava sulla neve, appoggiandosi al suo bastone di legno di quercia. Forse sapeva dove andava, forse no’ In ogni caso, egli aveva riconosciuto la sua amica e la chiamava, soltanto per salutarla. Oh, no, no, non era per chiederle la carità, non era per quello!
Clarisse, forse, cadde, vittima di un’illusione.
Ma che importava?
– Mendicante! Oh, mendicante, sei tu?
Così lo chiamò, per poi corrergli incontro. Lo salutò, allegramente, tanto, tanto allegramente, come se si fossero conosciuti da sempre e forse era vero, sì.
Egli s’appoggiava al bastone con un affanno inenarrabile. Clarisse, tutta commossa, fece presto a fargli scivolare in tasca quattro o cinque biglietti di banca.
Ma lo sconosciuto non era un mendicante come tutti gli altri. Era venuto apposta per vedere quella donna, che lo credeva Dio, sì, Dio stesso, venuto per consolarla dalla sue pene.
Io lo so, sì, poteva essere un’illusione, eppure, era assai bella.
Rammento quei due volti, tra le rocce fredde: quello di Clarisse, avvolto teneramente in un velo bianco, che la proteggeva dal freddo, e quello del mendicante, avvolto in un cappuccio marrone, che sembrava di juta ed assomigliava a quello di un eremita errante.
Fu allora che il miserabile le rivelò il nascondiglio di un tesoro.
Era un segreto!
Il vento rapì quella voce, affinché nessun altro sapesse, affinché nessuno potesse raccontare ad altri ciò che doveva rimanere inconoscibile.
L’averla parlante si avvicinò poi alla casa di Clarisse, sbattendo le sue ali leggere leggere. Oh, cosa vide! Io non ve lo posso dire, no’ So soltanto che se il misero uccello avesse potuto piangere, l’avrebbe fatto, perché di troppi eventi tristi gli occhi suoi erano divenuti spettatori!
L’uccellino amico corse da Clarisse, ma ormai era troppo tardi, sì, troppo tardi per piangere, vivere e soffrire!
Ricordo che era un giorno brumoso, pieno di nebbia, di grigiore, di figure di fantasmi!
Si udiva la campana della cattedrale gotica, che suonava a morto, don, don, don, oh, sì, suonava sempre, non faceva che diffondere tutt’intorno la sua lugubre voce!
Per gli abitanti del villaggio era un giorno maledetto, sì, un giorno che neppure si sarebbe potuto raccontare, tanto era il timore che incutevano le leggende popolari che si raccontavano.
Le vecchie si ricordavano di quello che era accaduto molti anni prima. Quel dì, ricorreva l’anniversario. Dicevano che la collera divina aveva fatto sciogliere tutte le nevi, sì, le nevi delle montagne, le nevi stregate dell’eternità! La Morte era scesa nel villaggio, vestita con il suo abito nero e tenendo in mano la sua falce.
Cielo!
Poi, aveva nevicato. L’indomani, al posto delle case, avevano trovato mille tombe grigie, nate dal nulla. Ognuna recava incise le parole QUI GIACE, insieme al nome del defunto.
Per questo, nel giorno dell’anniversario, dal portale ovest della cattedrale usciva sempre una lunga processione di vecchie, che tenevano in mano delle candele bianche ed accompagnavano la statua del patrono, santo anonimo e sconosciuto.
Sembrava uno scongiuro, diretto a fare sì che la collera divina non si ridestasse mai più.
Clarisse vide quella scena cupa’ Guardò gli abiti neri e lunghi delle vecchie, poi, gli occhi suoi si riempirono di lacrime. Poco dopo, si voltò e parve andarsene.
Dove?
Dio lo sa.
Tempo dopo, la nostra protagonista fece ritorno a casa con il cuore in gola; bussò forte, perché aveva tanta paura che il cattivo non volesse aprirle e fosse lì.
L’uscio di legno sembrava rotto a colpi di scure. Faceva freddo, tanto, tanto freddo. Il fuoco era acceso e le fiamme sembravano voler divorare anche la stanza. Un miserabile mortale rideva, rideva, ritto in piedi, come un’ombra della morte. Il suo sghignazzare riempiva il silenzio. Era il Malfattore delle Montagne.
– Ah ah ah! Clarisse, hai visto? – disse.
Egli lo aveva ucciso e questa volta sul serio.
Il povero guardiano giaceva sul pavimento, davanti al perfido, che teneva in mano un pugnale bagnato di sangue. Clarisse lo vide, si portò le mani al volto, gridò’ Sì, ella urlò forte, ma non c’era più niente da fare.
– Mascalzone, che hai fatto? – esclamò poi la giovane. – No, Iddio non resterà a guardare, egli non può permettere che un simile delitto resti impunito! No, non può essere!
Io so solo che’ Oh!
Clarisse si inginocchiò, ma il Malfattore delle Montagne la costrinse a fare una cosa terribile.
– No, ti giuro sul mio onore di donna che non farò una cosa simile! – gli gridò lei. – Te lo giuro su mia madre!
Ma egli la costrinse.
Ricordo che l’uscio era rimasto semiaperto e da esso entrava un vento gelido, di bufera, che faceva volare la polvere bianca, nella stanza.
Calava la notte, o forse era l’aurora, io non so. Ma si vedeva Clarisse, con le lacrime agli occhi, mentre ubbidiva ad una volontà di delitto.
Ella trascinava il cadavere del povero Mettius, il guardiano, sulla neve fresca’ Lo teneva per i capelli… Quel candore si macchiava di sangue scarlatto’
S’udivano le voci cupe dei corvi, che si radunavano là intorno, perché avevano avvertito un sentore vago di carne morta, della quale erano pronti a fare scempio.
Io vidi tutto questo attraverso i rami cupi e neri degli alberi. Un gelido vento di bufera soffiava in quegli istanti.
Clarisse supplicava Iddio di perdonarla, perché stava commettendo un orribile delitto, lo sentiva. Ed era il Malfattore delle Montagne a costringerla, sì, quel perfido, lui e soltanto lui!
Lei andò su, su, su’
Risalì l’erta, giunse sino alla montagna stregata, fino al Lago Maledetto, le Lac Maudit’
L’assassino la seguiva con la pistola. Era pronto a spararle, nel caso gli avesse disubbidito. Clarisse, poi, cominciò a scavare nella terra, a mani nude’ Scavava, scavava, per ricavare una fossa, in mezzo ai ghiacci.
Oh!
Cosa accadeva ed in quale luogo! Pensate che la sconsolata aveva giurato a se stessa di non ritornare mai più in quei paraggi!
– Vergognati, Rachel! – gridò Clarisse. – Vergognati, io ti accuserò, un giorno, davanti al Tribunale Eterno!
Queste, le ultime parole che io rammento, di quell’istante.
Egli portava quel nome’ Rachel’
Ma i tribunali del Cielo e di questo mondo dovevano tacerlo, perché neppure meritava di essere proferito. E se quella parola fosse stata pronunziata, le rocce sarebbero dovute andare in frantumi e le montagne sarebbero franate giù, a uccidere le tristi vite germogliate nella valle.
Clarisse era chiusa in casa, davanti a lui.
Egli l’aveva fatta sedere sulla sedia di legno e le aveva imposto il silenzio, dopo averla costretta a seppellire Mettius, lassù.
– Vergognati, Malfattore delle Montagne, criminale! Il tuo delitto grida vendetta al Cielo! Il mio migliore amico &egrave morto!
Così gli disse la giovane, mentre riempiva di lacrime il fazzoletto bianco, che le aveva regalato la sua casta madre.
Oh, sì, era lo stesso con cui le sue prime lacrime di fanciulla erano state asciugate! Io mi ricordo che il cattivo camminava sempre intorno a Clarisse, per farla piangere!
– Che cosa hai fatto? Uh’ Clarisse’ Clarisse’ Che cosa hai fatto?
Egli non faceva che sussurrarle queste parole, in un orecchio. E la voce sua pareva quella di un serpente, pronto a mordere e ad uccidere con il pianto.
– Clarisse? Mi rispondi? Che cosa hai appena commesso? Che cosa hai perpetrato? Dove sei andata? Cosa hai fatto? E perché le tue mani sono ancora lorde dell’altrui sangue? Perché? Clarisse? Oh!
Era vero, le mani della giovane erano bagnate di sangue. Oh, Cielo!
– Niente, non ho fatto niente – sussurrò lei.
– Perché mi rispondi così? – disse lui. – Lo sai’ Lo sai che non &egrave vero, ih ih ih!
– Sei perfido!
– Hai seppellito il tuo migliore amico’ Lo hai privato del diritto di avere un funerale, una benedizione, prima di toccare la madre terra! Nessuno ha benedetto la sua bara’ Lo sai che cosa hai fatto?
– Smettila! Accidenti, smettila!
– Hai commesso un male imperdonabile! Privare un uomo del diritto di essere sepolto in terra consacrata, privarlo di un funerale’ Ah, ti consegnerei al braccio secolare più crudele del Medioevo!
Clarisse tremava.
Oh, Cielo!
Di quale delitto atroce si era macchiata? Di quale colpa? Le parole sconsolate facevano il loro effetto’
– Sì, sì, sì! Meriti di essere incatenata e di morire mangiata viva dai sorci!
Il Malfattore delle Montagne non fece altro che torturarla e, dopo il rimorso, adoperò le maniere forti.
Io ricordo quel povero essere, vestito di bianco e legato con una catena di ferro arrugginito. Non poteva più spostarsi dalla sedia di legno, alla quale era condannato.
Poi il cattivo se ne andò.
Aveva uno zaino sulle spalle e il fucile da caccia a tracolla. Si dirigeva verso il confine, per compiere i suoi misfatti.
Clarisse chiuse gli occhi suoi. Allora, le sembrò di vedere stormi di neri corvi, che inseguivano il Malfattore delle Montagne, volando al di sopra delle nevi eterne. Udiva i loro versi’ Discerneva il perfido, che cercava di cacciare via quegli uccelli neri, adoperando il suo fucile, sparando’ Ma i corvi lo inseguivano, battendo le loro ali di pece. Oh, sembravano la sua maledizione!
C’era un lago, ghiacciato.
C’era un burrone.
S’udivano le grida delle guardie, grandi e forti, armate e crudeli, sì’ L’eco rapiva quelle voci, le faceva sembrare ciò che non erano’ Sì, ciò che non erano’
Un’aquila precipitava dal cielo.
E poi’ Oh, poi, si vedeva il Malfattore delle Montagne, avvolto nel suo cappotto nero, mentre cadeva giù dal burrone, gettando un grido che ben poco aveva di umano.
Il perfido precipitava dalle nevi’ Oh, possibile?
Di lui, più nulla sembrava restare’ Passava la Giustizia Divina, a disperdere le sue ultime, estreme ceneri, passava la bufera, a ricoprire ogni traccia con i suoi ghiacci.
Clarisse sperò segretamente in quella visione. Oh, ma forse era lei, lei, quella che Iddio doveva distruggere! Così si disse.
Ahim&egrave, sì!
Ella si alzò piano dalla sedia a dondolo. Oh, no, no, no, non spezzò la catena che la teneva prigioniera, perché non ci sarebbe mai riuscita!
Oh, che cosa fece mai?
S’affacciò alla finestra dal vetro infranto. Contemplò i ghiacci, le montagne, innevate in perpetuo, i laghi stregati e meravigliosi, incastonati tra le vette.
Altro non c’era intorno a lei.
Fu allora che disse malinconie!
– Oh, prendetevi me, la mia vita, eterne nevi! O ghiacciai delle montagne, dilagate e imprigionate nei vostri geli le mie misere spoglie mortali! O rocce maledette e senza vita, ignare dei piaceri e del dolore, staccatevi dalle chine innevate e precipitate su di me, a ricoprire la mia sventura, per sempre!
Venite, selvaggi avvoltoi della sventura! Venite e divorate ciò che resta di me! Perché più nulla posso concedere di gioioso a questa vita!
No, più nulla posso regalare alla primavera’ Più nulla donerò ai fiori di prato, agli alberi dai germogli pronti a sbocciare, agli uccelli allegri e festosi, ai luoghi ameni’ Soltanto lacrime, donatrici di morte!
Queste, le parole della giovane. Ella le regalò all’eco, tenendo le mani giunte, così, semplicemente.
Clarisse venne poi rapita dalle fantasticherie dell’amore. Erano fantasie indicibili, fatte di baci e sussurri ardenti, regalati negli orecchi; esse venivano dal passato, dall’illusione, forse, ma sembravano vere.
– Io non ho mai amato il Malfattore delle Montagne – disse. – Non l’ho mai amato, però, da giovinetta, mi innamorai segretamente di altri giovani! Se solo potessi fuggire nel passato e unirmi a loro!
Rammento che poi accadde una cosa malinconica e cupa, in un’osteria.
Io vidi con i miei occhi quanto avvenne, ma i miei ricordi diventano oscuri e tristi al solo pensarci. Il Malfattore delle Montagne aveva il suo zaino sulle spalle, che sembrava una sacca nera, come il carbone.
C’era uno sconosciuto, dai baffi lunghi e folti, seduto insieme a lui al tavolo.
Era un patto!
Si vedevano dei boccali di birra, vuoti e sudici, un sigaro fumante, stretto tra le labbra del Malfattore delle Montagne, nonché delle monete d’oro.
Io non so bene di che cosa si parlasse.
Oh, no, no, no!
Dovevano essere chiacchiere di donne, dai corpi sodi, meretrici pronte a vendere i propri petti muliebri, le proprie vulve, i propri triangoli ricciuti, sorridendo, mostrando a chiunque le proprie gambe con delle gonne che non coprivano le ginocchia e facendo l’occhiolino a tutti i maschi che incontravano. Avevano le scarpine bianche, i piedi grandi e robusti, le cosce nude.
Si discorreva altresì di montagne, di incontri segreti, di fucilate, di inseguimenti, di lotte con le guardie, lassù, tra i ghiacci, di denaro, di morti, di seppellimenti clandestini, nella neve.
Si narravano altresì delle lugubri storie di rapimenti, furti, ostaggi, grida sommesse fra i ghiacci, segnali fatti con la voce e rapiti dall’eco.
Altro non ricordo.
Oh, non chiedetemi altro di quel momento, ve ne prego! Mi ritorna in mente il volto tetro del Malfattore delle Montagne, quella guancia, solcata da una cicatrice orribile e profonda!
La visione mia svanisce, al canto cupo di una civetta, nascosta in mezzo alle rocce.
L’averla parlante corse a consolare Clarisse, in casa sua. Oh, la presenza di quell’essere era davvero tanto necessaria! Lo era a tal punto, che se il caro animale non fosse arrivato in tempo’ Non oso pensarci!
– Clarisse! Clarisse!
Rivedo quell’istante avvolto in una nebbia triste e turchina’ Oh, era la foschia dei ricordi e delle malinconie, sì! L’averla disse:
– Clarisse, no, non devi essere triste, né pentirti! Ma cosa ti hanno fatto? Perché porti una catena legata a te? Oh!
– Caro uccellino, ancora non sai? – gli rispose lei. – Mi hanno legata, imprigionata’ E Dio solo sa quando uscirò viva da questo luogo!
– Tu desideri l’oblio, non &egrave così?
– Sì ed &egrave perché sono colpevole!
– No, non devi pensare questo, tesoro, non puoi! Credimi, tu non hai commesso alcun delitto!
– Ho seppellito Mettius tra le nevi’ Era morto’ L’ho privato di un santo funerale’ &egrave colpa mia, soltanto l’inferno si addice a siffatti delitti!
– &egrave stato lui, sì, a farti credere questo! Ma credimi, amica mia, l’animo tuo &egrave candido come i petali di un fiore!
– Oh, davvero tu dici questo, averla? Averla? Averla? Dove sei andata? In nome del Cielo, dove sei?
La sua amica non le rispondeva più. Se n’era volata via e forse per sempre’ Torna da lei, piccola averla! Torna da lei!
Clarisse pensava a Dio, che non aveva visto mai e che tanto sperava di vedere un giorno.
– Oh, sì, io lo so, tu non ti sei dimenticato di me, non ti sei dimenticato della tua povera orfana, no, no, no! Io lo so!
Ella sussurrava così, nel suo silenzio.
Sentiva la fredda catena che le stringeva le caviglie, imprigionandola, immobilizzandola’ Oh, quant’erano crudeli quei ferri!
L’uscio di legno parve aprirsi da sé.
Oh, no, non era il cattivo, di ritorno dai suoi loschi affari. Non era lui, tornato soltanto per divertirsi a torturarla!
– Chi c’&egrave là?
Questo chiese Clarisse.
Ella vide il mendicante, quello a cui tanto voleva bene’ Era tutto vestito di grigio, i panni che gli coprivano le membra erano laceri, sì, laceri. Aveva un sasso appeso alla vita, nel quale teneva i pochi viveri che gli aveva regalato la pietà della gente dotata di buon cuore. Oh, era così misera la sua esistenza!
Io non so che cosa Clarisse credette di vedere, in quegli occhi. Io non lo so!
– Prenditi la mia vita, se ti serve per essere felice! – gli disse. – Prenditela, io te la offro!
Il mendicante la guardava, la guardava, come se davvero fosse stato Dio.
– Oh, sì, io so chi sei! – gli sussurrò la sventurata.
Egli era venuto per rallegrarla.
Le disse:
– Lo sai? Io ho la primavera, io la posseggo! E posso donarla a tutti coloro che mi amano!
Intanto, Clarisse cercava invano di sciogliersi dalla sua catena, che le faceva molto male.
– Io ho la primavera e te la offro! Sono venuto a portartela! – si sentiva dire la nostra protagonista.
Il mendicante fece una cosa straordinaria. Sì, fu come se le offrisse un fiore, germogliato in quell’istante dalla sua mano. Forse era una rosa o un giglio’ Io non lo so. Era sbocciato per lei, solo per lei. Era una piccola primavera, regalata ad un’anima imprigionata.
– Tu sei Dio, venuto qui per me!
Ma non appena Clarisse ebbe esclamato queste parole, il mendicante parve svanire ed il suo fiore, la piccola primavera che le aveva regalato, rimase a languire abbandonato sul pavimento desolato e cupo.
Era stato meraviglioso!
Clarisse restava sempre attaccata a quella maledetta catena’ Nessuno la poteva sciogliere e liberare’ Oh, forse, nemmeno gli spiriti delle montagne avrebbero potuto farlo!
Io non so’ Ricordo soltanto che, ad un tratto, alla bella parve di udire una voce strana e assai lontana.
– Chi sei? – chiese. – Chi mi chiama?
La giovane sussurrava così, quasi piangendo. Le era parso di udire la voce di Mettius, sì, il suo più caro amico, morto.
– Mettius’ Tu, oh!
Questo gridò Clarisse. Egli la chiamava, la chiamava, la chiamava, dall’eternità. Le diceva di stare attenta, di non farsi trovare in casa, al ritorno del Malfattore delle Montagne, perché sarebbe stato pericoloso, tanto, tanto pericoloso e’ Oh!
La voce del guardiano defunto era triste, quanto quella del vento, quando prediceva la bufera e veniva dalle grotte.
Clarisse chiuse gli occhi suoi, invano cercò di vedere il suo amico del cuore’ Una mano scese dal Cielo, perché ella aveva detto disperata:
– Ma come andrò? Come fuggirò, legata a questa catena di ferro?
Fu quella stessa mano a scioglierla, a liberarla, come per sempre, fatalmente.
– Corri, Clarisse, corri! Perché se ti troverà in casa, ti ucciderà! E bada di non incontrarlo, lungo la via! Bada!
Questo disse una voce dal Cielo.
Ella corse, corse e corse, per ubbidire a chi le aveva parlato, da lontano.
Ma dove poteva andare?
Io me la ricordo, mentre brancolava sulla neve, sui ghiacci, tanto, tanto freddi’ Andava lassù, lassù, verso il Passo della Morte.
Cielo!
Rammento i veli bianchi che le coprivano le membra, mentre ondeggiavano nei venti di bufera. Le sue labbra erano rosse e pallide, come bacche di pungitopo.
Oh, non c’era altro che candore e ghiaccio!
– Dove vado? – mormorò la fuggiasca. – Oh, buon Dio, dove sto andando? Dove sono capitata? Spero soltanto che il cattivo non mi incontri, non mi scopra’
Cielo!
Ella aveva risalito un sentiero fiancheggiato da rovi spogli, si arrampicava sulle rocce, ma s’era ferita! Il sangue suo macchiava le nevi e lei non poteva fermarsi, perché il cattivo la inseguiva o così le sembrava!
– L’amore sboccia dalle sorgenti delle montagne – disse la nostra protagonista. – Mi farà ricordare le mie vite passate, mi permetterà di capire il perché della mia reincarnazione! Vicissitudini affettuose, fidanzamenti, baci, amori consumati al chiaro di luna mi circondano, mentre cerco di ricordare chi ero prima di nascere, chi ero, prima di essere Clarisse! &egrave per imparare delle lezioni d’amore che sono al mondo!
Clarisse si fermò. Era quasi in vetta, dinanzi agli occhi suoi si apriva quel passaggio maledetto, donde nessuno mai era ritornato, stando a quel che si narrava.
Ella si guardò il polso, dal quale sgorgava sangue freddo e scarlatto, sì.
Una voce nera le disse:
– Ah, ormai sei morta!
La giovane si voltò, il velo candido che le cingeva il capo svanì nel vento. Fu allora che si vide dinanzi un volto arcigno, solcato da cento rughe, incorniciato da lunghi capelli canuti, che volavano nella bufera.
Cielo!
La Vedova delle Vette portava abiti scuri, era tutta parata a lutto, come per recarsi ad un funerale e s’appoggiava ad un bastone di quercia, perché era storpia.
– Sei venuta quassù! Ih ih ih! Quassù, sì, al Passo della Morte!
Così le disse quell’essere misterioso.
Clarisse indietreggiò. Ma dietro di lei, non c’era che il precipizio. Fece un altro passo indietro e cadde, ma rimase aggrappata ad una roccia. La vecchia fantasma, allora, parve tenderle la mano, forse, invano.
Gliela tendeva, sì, adagio adagio, mentre dalle nubi candide continuava a scendere della fredda neve.
– Allora’ Tu non vuoi la mia morte! – disse la nostra protagonista.
– Aggrappati’ Aggrappati, o morirai’ – si sentì rispondere.
– Io non so da dove vieni, se dal Cielo o dagli Inferi. Ma se mi salverai, avrai la mia riconoscenza eterna!
E la Vedova delle Vette la salvò. Ma forse, lo fece soltanto perché avesse tanti altri tormenti, in vita sua.
Clarisse cercò di parlare alla vecchia, ma questa non le rispondeva più, oh, no, non le rispondeva più. E svaniva davanti alle sue pupille, sogghignando!
– Addio!
Tale fu il saluto di Clarisse.
Tale fu l’ultima sua risposta a quel silenzio.
Visioni!
Poco dopo, ella riprese il suo cammino, ma voleva ascoltare quella voce, che le aveva raccomandato di allontanarsi dal Passo della Morte, perché chiunque osava’ Cielo!
Ricordo Clarisse, mentre fuggiva sulle nevi, come un fantasma bianco’ E un’ombra nera la inseguiva: era quella della fatal pace, che attendeva ogni mortale. La donna scivolava spesso, perché le rocce erano ripide ed il sentiero scosceso. La fine la sfiorava in ogni istante e le sembrava di avere sempre alle spalle il Malfattore delle Montagne.
– Clarisse, fuggi! Fuggi! Vattene, prima che sia troppo tardi o morirai!
Di tali, tragiche parole era foriero l’eco.
La fuggiasca ebbe la sensazione di vedere due giovani amanti, abbracciati in mezzo alle nevi’ Lei aveva dei lunghi capelli e teneva in mano un mazzo di fiori gialli, mentre era intenta a baciare il suo amato sulla bocca.
– Voleremo nell’erotismo per raggiungere l’estasi incantata della meraviglia – diceva la sconosciuta, che portava un lungo abito turchino, ornato da frange dorate. – L’estasi che non muore mai, l’estasi perpetua dei camosci e delle nevi perenni sarà al nostro fianco!
Clarisse era con loro, li guardava e li ammirava, tenendo le mani giunte.
– Promesse che muoiono nel sogno’ Abbracci che muoiono nei baci’
La nostra protagonista credette di udire queste parole. La giovane amante aveva le braccia nude e le sue belle mani sembravano degne della più bella delle statue, perché parevano fatte di marmo e di perla.
Lui era vestito come un alpino e faceva il cavaliere.
Poi, i due se ne andarono, davanti a quegli sguardi sorpresi e mesti.
Rammento una delle lugubri storie del villaggio. Sì, una di quelle storie che solevano raccontare le vedove vestite di nero, che ogni sabato pomeriggio, allorché il sole del tramonto si celava oltre le vette, si recavano al cimitero, per recitare tra le ombre il loro requiem aeternam.
Oh, follie!
Una voce mi riporta alla memoria quella favola: &egrave tetra, come l’eco, quando proviene dal cupo della montagna. La storia raccontava di un minatore, che lavorava nella cava, insieme ad altri.
Sì, un tempo, la cava maledetta, quella scavata in mezzo alle montagne, era aperta.
E una notte’
Oh, una notte, la moglie dello sciagurato venne colta da un presentimento e corse ad accendere poche candele bianche, nella chiesa del vicino villaggio. Lo fece inutilmente!
Ella aveva sognato una cosa nera’ Aveva sognato Madamigella Morte, accompagnata come una regina dai suoi cortigiani vestiti di cupo: l’Odio, la Maledizione, la Violenza e il Piacere.
All’alba, il minatore partì per la cava, con la sua piccozza.
Una voce dalla montagna gli aveva sussurrato di non andare, di non andare’ Forse, era quella della sconsolata premonitrice, oppure, quella della malinconia.
Un’altra voce aveva risposto.
– Papà, papà, voglio venire con te, questa mattina! Oh, papà, papà, perché non mi porti mai con te? Voglio venire anch’io!
Quella voce apparteneva a una fanciulla.
Cielo, la testa mi si confonde, raccontando! Non so più nulla, non voglio ricordarmi più nulla! La fanciulletta era vestita di bianco, portava un nastrino ed era così graziosa, che’ Oh!
– Papà! Papà!
Le sue parole morte risuonavano così, nel silenzio.
Ella raggiunse suo padre lungo il sentiero, l’uomo la condusse con sé, nella cava, da quel giorno, maledetta.
Le rocce precipitarono dal fianco della montagna. Una ad una, seppellirono la fanciulla, dinanzi agli occhi inconsolabili di chi le voleva bene.
Ma la disgrazia fu tanto più grande di come la si possa raccontare. L’incidente che avvenne fu gravissimo. Quasi tutti i minatori scomparvero nella polvere bianca e assassina, che li divorò.
Da quel giorno, nessuno più volle estrarre un solo blocco di marmo dalla cava, perché era maledetta!
Nessuno osò andare a cercare i minatori defunti; si sapeva, infatti, che i loro fantasmi infestavano quel luogo e appartenevano alla montagna, al pari dei corpi morti che nessuno avrebbe mai ritrovato.
La gente dei villaggi temeva quel luogo.
E le vedove piansero! Piansero, ricamando i pizzi neri, di cui ornarono se stesse e le loro biancherie
Il vento raccontò questa storia a Clarisse’ O forse, lo fece la cupa voce del torrente, al quale ella s’appressava allora.
La nostra protagonista passeggiava sui sassi bianchi e grigi, sperava di sfuggire all’odio e al destino crudele, sperava di essersi salvata, ma purtroppo’ Oh!
Si voltò. Fu allora che vide un uomo, vestito come un contrabbandiere e con uno zaino sulle spalle. Era ad un passo da lei. Portava il fucile e aveva una brutta cicatrice sul volto.
Cielo!
Era il Malfattore delle Montagne.
Clarisse sentì due mani che si posavano sulle sue spalle, poi qualcuno si mise a sghignazzare.
– Hai cercato di scappare ancora, ah ah! Adesso però dovrai fare qualcosa per sdebitarti, per riparare alle tue malefatte, sì!
Io so che cosa egli intendeva, con quelle parole.
Le mostrò il suo zaino, colmo di biglietti turchini, falsi. Aveva escogitato uno strano modo per inviarli ai suoi complici, al di là del confine e voleva che Clarisse lo aiutasse nelle sue imprese.
– Adesso ne prenderai a manciate e li getterai uno ad uno nell’acqua del torrente!
Questo l’ordine.
– No! No! – rispose la bella. – Io non sarò complice dei tuoi delitti! Piuttosto, restituisci la tua refurtiva, ripara al mal fatto, pentiti, finché sei in tempo! Bada, mascalzone: tu e le tue malefatte state stancando me come il buon Dio! Sei tu che devi perire, abbandonato alla corrente’
Ma l’altro’ Oh!
Io rammento soltanto un’immagine triste. Clarisse era china lungo il torrente e prendeva dei biglietti di banca falsi, da uno zaino scuro, aperto. Li regalava alla corrente, così’ Uno ad uno, quegli sporchi denari se ne andavano, lontano, lontano, rapiti dalle acque, come in un incantesimo.
Ogni tanto, una lacrima scendeva lungo la guancia di Clarisse. Solo una, sì!
L’acqua gorgogliava incessantemente, strani rumori salivano dal torrente e si diffondevano attraverso le montagne, così alte! Pareva che quegli istanti fossero maledetti.
Clarisse regalava i biglietti falsi alla corrente, sempre, sempre, sempre’
Altro non ricordo.
So soltanto che poi prese dei sassi, quasi furibonda e cominciò a gettarli nell’acqua, giù, giù, con tutta la sua forza.
E il cattivo, che stava alle sue spalle, si mise a ridere.
Io non so che cosa avesse escogitato.
Io non voglio saperlo!
Eppure, adesso ve lo narrerò. Adesso ve lo dirò; la vita, la sorte mi costringono, ahim&egrave!
Erano sempre lungo il torrente, egli teneva tra le braccia il suo fucile, ma usò un’arma tanto più terribile e crudele.
– Clarisse’
– Sì?
– Oh, lo sai? Lo sai cos’&egrave successo? Ti voglio fare i miei complimenti’
– E perché mai?
– Perché sei diventata mia complice, ih ih ih! Sì, sei diventata complice di un malfattore’ Oh, perché, perché scendere così in basso? Perché tanta bestialità?
Così si parlarono i due.
Ella rimase ad ascoltarlo tutta allibita.
Non aveva abbastanza occhi per piangere!
– Hai fatto del male’ – si sentì dire. – E adesso? Oh, e adesso? Cosa penserà di te il buon Dio? Hai aiutato un mascalzone a perpetrare i suoi delitti! Oh!
Clarisse si nascose il volto tra le mani.
Cielo, aveva sparso i biglietti falsi lungo il torrente, l’aveva fatto!
Io ricordo soltanto un’immagine malinconica’ Era il volto opaco di Clarisse, mentre fuggiva, fuggiva, fuggiva, chissà dove.
Poi, quello sparo, del fumo grigio, tra le fronde’ Ma non era la morte, no, no, no, soltanto un malvagio, che rideva della sua perfidia.
I biglietti falsi correvano lungo le acque, rapiti dalla corrente. No, non si fermavano sui sassi, nulla li arrestava, correvano via, verso il confine e nessun guardiano poteva trovarli. Nessuno’
I ghiacci delle montagne, dai lunghi tentacoli bianchi, li risparmiavano. Le vette, paurose come giganti, non potevano toccarli. Né lo potevano il vento e l’aurora’
Il torrente li conduceva oltre il confine’ E io ricordo uomini dalle lunghe barbe e dagli arcigni volti! Che spavento facevano! Rammento delle cicatrici profonde e delle parole cupe, come insulti.
– Li hai presi? Li hai presi?
– Li ho! Eh eh eh’
E ridevano, sghignazzavano’ A tracolla, i perfidi portavano dei fucili neri e dei pugnali spuntavano dalle loro tasche.
Sparavano alle colombe’
Io vidi tutto questo come in una visione. Sì, distinsi quei volti e ciò che accadeva in quell’istante riflesso negli occhi di Clarisse, che tremava di rimorsi!
Oh, Cielo!
Malinconie’
La nostra protagonista era ritornata in quella casa, suo malgrado’ Oh, sì, sì, sì, ella dovette ritornarvi, contro la sua volontà e con grande tristezza!
Il Malfattore delle Montagne non la uccise nel vero senso della parola, ma in un modo più profondo ed inenarrabile.
Ella era rimasta ancora una volta sola con lui, in quella dimora cupa e oscura’ Lo sentiva passeggiare su e giù per la stanza, ridere, scherzare, lugubremente.
Era un modo di torturarla.
Fuori faceva freddo, come accadeva sovente’ Arrivava la bufera: a poco a poco, passo dopo passo, quel tacito gigante si preparava a mietere vittime, da trasformare in ghiaccio.
In ghiaccio, sì!
Oh, nevi bianche e perenni! Laghi eternamente candidi di gelo, alberi senza vita! Portatevi via Clarisse, non lasciatela a languire! Portatela via con voi!
Ella sentì qualcuno bussare all’uscio.
– Va’ a vedere chi &egrave, ma non aprire! – le ordinò il Malfattore delle Montagne. – Che le tue mani non osino levare il catenaccio!
Questo fu l’ordine del cattivo.
Clarisse corse, vide’
Oh!
Era il suo amico mendicante, a bussare, sì, lui, lui, lui! Era tutto solo e senza un pezzo di pane, sì, tutto solo e triste, tanto triste, che’ Ahim&egrave!
– Apritemi, vi prego! Apritemi, pietà, in nome della carità!
Quella voce faceva compassione, soltanto compassione, ma nessuno si commuoveva, in quella casa, nessuno, fuorché Clarisse.
– Io so che qui abita qualcuno che mi amava! Ma la mia amica non mi accoglie – diceva la voce del misero.
Lei singhiozzava.
– No, non posso accoglierti! Non posso aprirti, sai? – gli disse la bella.
E gli ripeteva sempre:
– Non posso aprirti, buon Dio! Non posso aprirti, no, no, no’
Ella guardava attraverso il vetro infranto, oh, cosa dovettero sopportare gli occhi suoi! Cosa vide! Cosa ebbe la forza di discernere!
Il Malfattore delle Montagne, che la tormentava, era uscito e con un randello in mano si divertiva a picchiare il povero mendicante ammalato.
Sì, accadeva questo!
Il cattivo lo riempiva di insulti e gli diceva che non era il caso di scomodare la gente, di dare fastidio a tutti, era ora di finirla!
Nemmeno un pezzo di pane gli avevano dato’
Gli occhi di Clarisse videro tutto questo.
E cadeva tanta neve, sapete?
Cadeva giù dal cielo, bianca, pareva cancellare tutto, purificare tutto, tutto, tutto, tutto!
Oh!
– Quest’oggi ho chiuso il buon Dio fuori dalla mia casa!
La nostra protagonista sussurrò queste parole, tra i singhiozzi. Dimentico di dirvi che il perfido le aveva infilato sul capo un cappuccio del color della pece, con dei buchi all’altezza degli occhi e della bocca.
E fu gelido silenzio.
Trascorsero parecchi giorni, uno dietro l’altro, uno dietro l’altro, così, semplicemente, come una fila di cipressi che si specchiavano lungo il torrente’ Le ore se ne andavano via, volavano lontano, nella malinconia.
Ma poi’
Poi, venne l’ira!
La povera ragazza non sopportava più il Malfattore delle Montagne’ Quel perfido andava dicendo al mondo di volerle bene, ma non era vero, non era vero, no, non era vero!
E allora’
Allora, Clarisse, in un momento di collera profonda, andò a prendere tutti i biglietti e i contratti falsi che c’erano in casa, sì, quelli appena stampati, con le macchine. Li prese e’
Li bruciò!
Sì, li bruciò, tutti, tutti’ Voleva vedere le fiamme, mentre divoravano quella carta straccia! Voleva che di quel male non restasse che cenere! E diceva al cattivo:
– Guarda! Guarda che cosa farà il buon Dio dell’opera tua e di te stesso!
Le lacrime sue sembravano quelle della pietà.
Ma non bastavano a spegnere le fiamme, no, no, no!
Egli non s’infuriò. Si mise a sghignazzare.
Si vedeva il fuoco, mentre divorava uno ad uno quei biglietti e quei contratti falsi, si sentiva quel sogghignare cupo, che fa sempre venire i brividi mentre lo si racconta.
Clarisse riprese:
– Te lo giuro! Te lo giuro su queste montagne! Tu brucerai come questo denaro! Brucerai, un giorno, come tutta questa carta maledetta, che le fiamme divoravano e divorano ancora!
Ella era pazza, sì.
E gli diceva, giacendo sul pavimento davanti a lui, che stava ritto in piedi davanti alla sventurata:
– Diventerai cenere, cenere, cenere! E poi si alzerà il vento, a disperdere le ultime tue tracce! Le tracce di un essere pravo, destinato agli inferi!
Proferendo queste parole, Clarisse puntò il dito contro il perfido.
Egli non le fece male.
No, si può dire che non gliene fece, pensando a tutto ciò che avrebbe potuto farle. Ma le diede uno schiaffo crudele’ Perché secondo lui, l’onestà non valeva niente! Secondo lui, bisognava soltanto essere perfidi, bisognava non conoscere che la depravazione e la crudeltà, bisognava soltanto pensare a fare del male.
E le camminava intorno’
Non le diceva tante parole. Le sussurrava appena, sì, ma in un tono’ In un tono tale, che’ Oh!
Ripeteva queste parole:
– La mia amica non mi accoglie’ La mia amica non mi apre ed io muoio, qui, sulla neve’
Cielo!
Oh, che cosa ricordavano a Clarisse quelle espressioni! Per lei, non erano che una tortura!
Passò dell’altro tempo.
Davanti agli occhi miei compaiono delle immagini di giovani, dai corpi nudi, che consumavano degli amplessi feroci sulla neve. Sembravano bestie, che tenevano le lingue tra i denti, le donne avevano i piedi grandi e le gambe lunghe, non facevano che lamentarsi, per eccitare i loro maschi, che erano uomini dai lunghi falli. Sembrava che non li vedesse nessuno, che non li guardasse nessuno, invece’ I maschi appoggiavano le loro grandi mani tozze sulle schiene nude delle loro compagne, si aggrappavano alle loro belle spalle, mentre ruzzolavano insieme sulla neve. Le femmine tenevano tutte la lingua fuori della bocca, pensando al pelo, ai muscoli, alla forza selvaggia dei loro amanti.
Quelle immagini erano dei simboli di vanità, di sofferenza, vissuta in mezzo ai monti, presso le ombre lunghe delle chiesette tristi, i cimiteri dimenticati lungo i laghi, il sole rossastro del meriggio, che svaniva nei pendii.
Clarisse passeggiava nel piccolo giardino, intorno alla casa di legno. Il perfido la spiava da una delle finestre col vetro rotto e la teneva legata ad una corda, affinché non potesse sfuggirgli. Una staccionata divideva quel luogo dal resto del mondo e dalla libertà stessa.
– Averla’ Oh, averla, se ci fossi tu!
Così disse la giovane. La sua amica andò a trovarla’
Venne a posarsi su uno dei rami secchi dell’albero morto, che non dava più frutti, né fioriva, da oltre cento anni.
– Averla!
L’uccello parlante era ad un passo da lei e Clarisse cominciò a parlarle di tristezze e di morte, di malinconie e di destini.
– Noi siamo nati per morire, sì! Per morire e per soffrire! – disse la nostra protagonista.
– Oh, amica cara – le rispose l’averla – tu davvero credi questo?
– Io credo tutto’ E lo sai? Dio &egrave morto’ &egrave morto in me, così come in questa casa, fra queste montagne, in questi laghi alpini, dalle acque verdi e fredde’ Oh, forse, non esiste più’ Non esiste più, più, più’
– Io sono tutta triste, mentre ti ascolto’ Tu continui a dire tante malinconie, più grigie della vecchiaia’ Io lo so, ti sei ammalata e sei inconsolabile. &egrave una malattia crudele la tua, &egrave quella di voler morire!
Poi, la ragazza espresse un’un intenzione triste. Disse:
– Adesso io ti affiderò il mio fazzoletto più caro, quello con cui la mia cara madre asciugava le mie lacrime di fanciulla’
Oh, ma Clarisse aveva mai avuto una madre?
Io non so’
– Ora tu lo prenderai, lo porterai nel becco e volerai lontano’ Averla, averla cara, hai capito? – sussurrò la nostra protagonista.
L’uccello parlante fece segno di sì col becco.
– Averla – riprese la giovane – tu lo porterai con te nei paesi della felicità, che io non posso raggiungere! Lo mostrerai a tutte le persone che hanno il sorriso sulle labbra e la gioia nel cuore’ Lo mostrerai, bagnato delle mie lacrime’ Devono sapere che ciò che posseggono &egrave un tesoro’ Sì, sì, sì, un tesoro’
Non appena la sua amica glielo consegnò, l’averla prese il fazzoletto nel becco. Poi volò via.
Sì, volò, lontano, lontano, dove la sua povera amica non poteva arrivare!
Che episodio triste!
Che momento sconsolato!
Altro non ricordo di ciò che avvenne allora. Oh, credetemi, altro non ricordo!
Vi furono dei lunghi giorni di bufera, seguiti dall’apparizione di un pallido sole.
Clarisse stava chiusa nella sua prigione, contemplando nell’ombra il malinconico raggio di luce, che penetrava nella stanza.
Dio solo sapeva cosa fosse, pensava l’infelice.
Io non ricordo se ella avesse chiuso gli occhi suoi o meno. So soltanto che le parve di udire delle parole infauste, che predicevano la morte. Non v’era più amore, nella vita sua’ Forse, non c’era mai stato!
– Stai attenta, Clarisse! Presto verrà il momento in cui smetterai di piangere!
Nessuno avrebbe potuto dire se quella voce era buona o cattiva, nessuno, nessuno, nessuno’
Clarisse, sola nel suo silenzio, sussurrava:
– Oh, che cosa mai mi capiterà? Che cosa mi sta succedendo? Quale destino mi deve rapire?
Tremava.
Poi, vide cose tristi.
Io non so ben dire se avesse già vissuto quegli istanti o no’ So soltanto che’ Oh!
Le parve di essere scesa giù al villaggio, con un canestro di vimini sottobraccio, di trovarsi dinanzi alla cattedrale gotica, la cattedrale nera, sì!
Succedevano malinconie’
Clarisse sentiva le campane suonare a morto’ Annunziavano una sventura! Che cosa accadeva? C’erano delle persone, che scendevano dalla scalinata antistante quel monumento. Erano tutti vecchi, vestiti a lutto, canuti, che s’appoggiavano al bastone. Ma fra quei volti, ella non riconobbe nessuno che le volesse bene. C’era anche il nero prete, sì’
Clarisse piangeva.
Passavano tutti, tutti, uno per uno. Erano figure nere e senza affetto! Le sembrava di udire una musica tragica, di organo.
Veniva una bara, nera nera, ma la cosa che più sorprese la mesta spettatrice fu il fatto che era aperta e vuota, perché non conteneva alcun corpo.
Tutti quanti andavano verso il cimitero.
– Pregate per la povera morta! Pregate per un’anima che parte!
Così dicevano le voci malinconiche.
Poi, si levarono dei cori, che intonavano non so quali canti funebri, che narravano di montagne, di pastori ciechi, dai bastoni stregati, di orsi famelici, di gufi, di sentieri cupi, che conducevano nei burroni.
La bara era sempre vuota e aperta’
– Oh, che cosa sta succedendo? Che cosa vedono i miei sguardi? Che cosa significa tutto questo? Che cosa, buon Dio, che cosa?
Questo disse la bella, che non sapeva. Poi, si portò una mano davanti agli occhi, perché un bagliore venuto dal mistero quasi la accecava, mentre fendeva quella visione spettrale.
– Forse, sono perduta!
E diceva così, la protagonista del silenzio!
L’amore brillava oltre le montagne, abitate dai corvi e dai lunghi inverni freddi; a tratti, durante le notti fatate, guardando in direzione dei boschi, si discernevano delle luci di fiaccole o di lanterne, che prima apparivano, poi svanivano. Erano dei viandanti senza nome, che passavano lungo i sentieri del vino, dei bastoni e delle piccozze.
Clarisse sentì dei rumori tristi, gli stessi che si odono nel momento in cui si seppellisce qualcuno. Era la voce della terra, che si riprendeva il nulla.
Poi, tutto tacque.
La giovane dai capelli castano-rossicci vagava, errava alla ricerca di una spiegazione, che forse le avrebbero dato i monti, i laghi, gli alberi tristi e spogli.
Poi, però’ Oh!
Ella rivide la sua amica averla.
Accadde per un solo istante, sì.
– Clarisse, Clarisse, io vengo oggi per recarti una notizia alquanto struggente! – si sentì dire la bella.
– Parlami, amica averla! – esclamò la nostra protagonista. – Perché io ho visto tante cose e non ci capisco più nulla.
– Io so che cosa hai visto.
– Davvero? C’era una bara, aperta e vuota’ Una bara triste, averla cara’ Triste, come il morire!
Il caro volatile le disse allora che quel feretro era il suo, sì, sì, sì, gliel’aveva preparato il destino, prima che succedesse l’evento fatale.
– E quel funerale? – mormorò Clarisse. – Oh, averla, dimmi! Quel funerale?
– Era il tuo, ahim&egrave, sì! – rispose l’amica.
L’altra rimase muta.
Guardava quella tenera apportatrice di annunzi, mentre se ne andava, volando verso la valle dorata e il sole affettuoso. La salutò semplicemente, dicendole:
– Quest’oggi sei venuta per recarmi il tuo canto fatale, o averla! Chiunque lo ascolta, muore’
Forse, tutto ciò era vero.
Fu per questo che la bella prese un foglio e vi scrisse tutte le sue ultime volontà.
Era notte fonda e le erano venuti in mente tutti i pensieri più lugubri del mondo, dettati dalla fretta e dal rumore cupo del vento, che sibilava tra le rocce lontane.
La bella scrisse tristezze!
Scrisse che voleva essere seppellita nella nuda terra, senza ornamenti, senza fregi inutili, né tombe.
No, non voleva fiori’ Desiderava soltanto che ricoprissero quel piccolo angolo di mondo con della neve fresca e bianca come il candore e la purezza.
Scrisse che voleva una musica triste, suonata dai violini!
Non aveva beni, non aveva nulla, da regalare al mondo, nulla c’era, che fosse veramente suo o le appartenesse’ Neppure la baracca in cui viveva!
Nulla, fuorché una cosa: la libertà di fare il bene, che ella non aveva mai perduto e voleva regalare a chiunque la desiderasse.
Voleva essere dimenticata!
E per questo’ Oh, per questo, ahim&egrave!
Desiderava che dopo dieci anni dalla sua morte, i becchini rimuovessero dalla terra ogni traccia del suo passaggio.
Neppure una croce doveva restare, nulla’
Oh, nulla!
Avrebbero aperto la bara e gettato le sue ossa ai cani! E avrebbero nutrito degli orti con le sue spoglie’ Non fatemi dire altro, non fatemi dire altro!
Clarisse bagnò quel foglio con le sue lacrime.
Lo bagnò tanto, sapete?
Aveva sentito dei passi, il cattivo stava per tornare e lei non voleva che trovasse quello scritto, no, non voleva, ma l’uscio si aprì di colpo e’
Oh, no!
Il Malfattore delle Montagne le strappò quel biglietto con cattiveria, dicendole:
– Oh, vediamo un po’ che cosa scrive la signorina!
Egli prese a leggere ad alta voce le ultime preghiere di quella moribonda’ Oh, era come se fosse penetrato nel suo cuore e glielo strappasse dal seno, morso dopo morso, sì!
– Ma senti un po’! – gridò il perfido. – Se io muoio’ Uh, malinconia, generosità, bontà, perdono di Dio’ Abbiate cura di voi infelici’ Uh! Dimenticatemi! Che belle parole usa la signorina!
Clarisse cercò invano di strappargli il foglio.
Non c’era niente da fare.
Egli avvicinò quello scritto alla fiamma di una candela, dopo averla accesa. Fu così che le ultime volontà di Clarisse divennero cenere!
Furono divorate dalle fiamme, sì, sì, sì, dalle fiamme, che in pochi istanti distrussero le parole infelici di un animo ammalato e solo!
Era forse quello, il vero destino di quel testamento!
No, non era destinato a rimanere chiuso, sepolto in un cassetto, perché quelle parole erano destinate al Cielo ed era al Cielo che dovevano salire! No, esse non erano state dettate per la terra’
– E adesso che hai fatto quello che vuoi, vattene, mascalzone!
Clarisse gli disse così.
E contemplava sempre la cenere morta, che folate di vento, entrando nella stanza dalle mille crepe, dissolvevano.
Oh, cenere bigia!
Si alzava, si abbassava, svaniva, così semplicemente, tanto, tanto semplicemente se ne andava, proprio come la vita.
Poi, più nulla.
Clarisse avrebbe davvero voluto essere come quella cenere e pensava ai suoi mille giuramenti di fraternità, alla sua volontà di fare il bene, ai rimorsi’ Oh, i rimorsi!
Essi la divoravano, negli ultimi giorni della sua vana esistenza!
E rammento che’ Oh, venne un brutto giorno e la disgrazia accadde, sì, accadde!
C’era tanta neve, ne era caduta di fresca’ L’ estate sembrava non arrivare mai in quei luoghi, mai, mai, mai’
Il Malfattore delle Montagne correva per i boschi, sui ghiacci, tenendo Clarisse stretta per mano. Portava con sé i suoi feroci cani da guardia, che abbaiavano e ringhiavano forte, pronti a sbranare qualunque passante.
Oh, egli non la lasciava più!
La disgraziata gli diceva che le stava facendo male’ Non poteva trattarla in quel modo! Lei aveva tanta paura, perché era come se sentisse la morte che le accarezzava la pelle!
Il perfido rideva, pareva si divertisse, con quel suo zaino di juta sulle spalle, carico di refurtiva.
Oh, in realtà, le guardie lo inseguivano!
E non c’era scampo, sapete?
Perché i due sventurati lasciavano delle tracce visibili sulla neve, sì!
E non c’era tempo per cancellarle’ Si udivano le voci dei gendarmi di frontiera, che vagavano nel silenzio, come promesse di castighi!
– Corri! Corri, vipera! – gridò il Malfattore delle Montagne alla sua compagna.
– Le mia gambe si spezzano! – rispose lei, singhiozzando.
– Corri, se non vuoi che ti uccida!
Egli le promise di strapparle la vita e facendole molto male, nel caso in cui non si fosse decisa ad ubbidirgli. Ma Clarisse sanguinava!
E lo supplicava di lasciarla lì, a morire sulle nevi, che si erano tinte di rosso!
Il ghiaccio era tanto freddo, sapete? Ed il vento pareva voler portare tutti via con sé.
– Adesso andiamo su! Adesso andiamo su, ci arrampichiamo sulle rocce! – urlò il cattivo in uno degli orecchi della giovane donna dai capelli castano-rossicci.
– No! Abbi pietà! – gli disse lei.
– Zitta, vipera!
Clarisse sentì in cuor suo che era finita. Pensò che sarebbe diventata un’anima triste, destinata a vagabondare lungo i ghiacciai della montagna, lungo le valli e i torrenti, in eterno, senza sosta, senza sosta, sì, sì, sì.
Nessuno poteva salvarla!
Sarebbe vissuta cogliendo fiori di roccia, boccioli germogliati grazie all’acqua che precipitava a valle dal fianco della montagna, foriera di vita.
Avrebbe sussurrato al silenzio, perché nessuno mai le sarebbe stato compagno!
Si sarebbe rifugiata nelle grotte, durante le bufere, ma mai più il bisogno l’avrebbe costretta a cercare una casa, dove ripararsi, mai più avrebbe avuto veramente paura del vento. Mai più!
Ella desiderava tutto questo.
E qualcuno la stava per esaudire, sì!
Ricordo la giovane mentre saliva le rocce, arrampicandosi a mani nude dietro al Malfattore delle Montagne, quando la si sentì gridare piano:
– Arrivo, o morte!
Cielo, se fosse caduta di lassù!
Ella aveva chiuso gli occhi suoi, sentiva la brezza gelida carezzarle il volto, come un’ultima consolazione, prima della fine.
Era come se una mano le chiudesse gli occhi, sì!
Ma ella aveva già abbassato le sue palpebre per l’ultima volta. Perché neppure voleva sapere dove la conduceva il Malfattore delle Montagne!
Meglio così’ Voi potete saperlo: andavano verso il Passo della Morte!
Io non rammento quello che accadde in quegli istanti, la mente mia si offusca e non ci vedo più! Mi sembra come di rivedere i fiori tristi che germogliavano tra i ghiacci, i ruscelli imprigionati nella neve, i corvi neri, le aquile, che salutavano il Cielo. Tremo. Non so più neppur chi sono, il pensiero di quell’attimo mi tormenta!
Oh, Clarisse, Clarisse, Clarisse!
L’anima tua era ben lontana da quei luoghi, in quelle circostanze, eppure’ Oh! Ecco, un’immagine si disegna nitida davanti ai miei occhi, &egrave come se contemplassi quell’istante, fatalmente. Sì, ora ve ne narrerò’
Le guardie inseguivano il Malfattore delle Montagne attraverso il Passo della Morte. Clarisse, vestita di bianco, stava in braccio al perfido, con gli occhi chiusi, semisvenuta. I gelidi venti d’alta quota non bastavano a risvegliarla!
Le guardie avevano imbracciato i fucili e sparavano. Che schioppettate!
Il vestito candido della nostra protagonista si macchiò di sangue.
Dal fianco della montagna franavano le rocce, quasi a picco e nessuno le poteva fermare. La neve cadeva sempre, sempre, sempre’
Cielo!
E le labbra di Clarisse erano socchiuse. Da esse sgorgavano delle gocce di sangue, le ultime stille di vita che abitavano in quel misero corpo mortale.
Delle nuvole di biglietti falsi volavano al vento’ Erano turchini, il Malfattore delle Montagne li spargeva qua e là, al suo passaggio, senza curarsi di quel che faceva.
Clarisse moriva così.
– Per pietà, non cercare di salvarmi! – chiese, delirando. – Non tentare di prolungare crudelmente la malattia che da un’intera vita mi consuma e mi tormenta lentamente, morso dopo morso, frammento dopo frammento, sì!
Questa, l’ultima sua preghiera al cuore perfido.
Ma nessuno la ascoltò!
Ricordo poche altre cose.
Forse, la Divina Giustizia agiva in quegli istanti contro l’animo malvagio’ Forse fu Lei a far precipitare una frana tale, da bloccargli il passaggio e la via.
– Sono preso!
Il Malfattore delle Montagne gridò così.
E l’eco rapì quel suo grido, lo condusse via con sé, negli antri segreti della montagna, nelle grotte misteriose, dove mai anima di mortale aveva fatto ingresso.
E fu allora che il malvagio lasciò per sempre il corpo senza vita di Clarisse!
Ricordo che lo abbandonò al vuoto di un burrone e quelle misere spoglie, vestite di bianco, parvero volare, sì, volare via. Oh!
Tutto questo accadde lassù, al Passo della Morte.
Il sindaco del villaggio, vecchio dai lunghi baffi bianchi, pianse molto la scomparsa della povera Clarisse. Egli la conosceva da quando era bambina. Oh, sì, sì, sì, quand’ella era ancor fanciulla, soleva fargli visita, insieme agli altri compagni della sua classe, nel giorno della Festa dei Fiori, quando le nevi, sia pure per poco, sembravano sciogliersi! Clarisse, con un gran fiocco rosa che le ornava il colletto, andava a regalargli un mazzo di fiori in Municipio, con reverenza. Egli la salutava affettuosamente e le diceva che, man mano cresceva, diventava sempre più bella. Il buon sindaco non mancava di lodarla, perché tutti gli anni era la prima della classe.
Sì, soltanto l’alunna più brava della scuola rendeva omaggio al primo cittadino del comune. Poi, una volta trascorsi quegli anni, i due non si erano quasi mai più visti.
Dimentico di narrarvi che, nell’istante che seguì alla fine della sua vita mortale, la nostra protagonista ebbe modo di sapere dal suo profondo Io chi era stata prima di vivere quella vita e di nascere sulla terra.
– Ora lo so, sì! – mormorò il suo spirito, contemplando quella visione di vapore.
Ella vide tutto avvolto in una nube turchina, che ricordava i deva e gli infiniti nomi di Visnù.
Non era una notte di mezza estate, né di profondo inverno, ma una di quelle notti in cui vagano i fantasmi, le donne urlano tragicamente e accadono i delitti.
E il delitto si consumava nelle tenebre, lassù, nella vecchia torre, dalle cui grate trapelava una luce spettrale, misteriosa, fatale.
Tutti sapevano.
Tutti erano a conoscenza di quel segreto cupo, annidato nella torre.
Nessuno errava per i viottoli del borgo.
Gli abitanti della cittadina erano rinchiusi nelle loro case, le vecchie stamberghe grigie dalle finestre munite di sbarre, dalle imposte serrate, che le facevano assomigliare a delle prigioni. Era come se il presentimento di quel lugubre evento avesse già aggredito con angoscia le anime spaventate degli abitanti.
Ed ecco, nella torre, a mezzanotte (l’ora delle streghe), si consumava il terribile delitto. Una luce sinistra illuminava quella stanza, in apparenza vuota, ma nella quale due ombre lottavano come due giganti.
Forse, là dentro si celava uno spettro.
Forse, era una riunione misteriosa delle anime dei trapassati, le cui voci sembravano ululare nel vento.
No, niente di tutto questo.
Soltanto il delitto, il fatale delitto voluto dal destino, il crudele destino!
Un rumore secco, di sciabole, accompagnava la mezzanotte e risuonava nel silenzio. I due rivali si battevano nella torre. Nessuno li spiava; la morte era là, presente, pronta ad impossessarsi di colui che per primo avrebbe avuto il petto trapassato dal gelido ferro.
I loro volti erano pallidi e solcati da cicatrici macabre. Nell’ombra, le loro figure potevano sembrare infernali.
Ed ecco, il lugubre eco di bronzo, che annunziava le ore, accompagnava l’urlo, il decesso, tremendo, fatale.
Uno dei due rivali soccombeva, l’altro, ferito al braccio, cadeva al suolo, moribondo.
E lei, fatalmente, arrivava.
Lei saliva, uno dopo l’altro, gli scalini della torre, bramosa di contemplare il tragico frutto dell’opera sua. S’udì un rumore di catenacci, l’uscio, cigolante, venne aperto, lentamente’
Ginevra era il nome della donna.
Ginevra’ Ah! Dopo averla vista nascere, crescere, divenire colei che era allora, la sua insensata madre aveva tentato di annegarla, nel gelido fiume che bagnava quei luoghi non più ameni. Sì, la vecchia aveva tentato di sradicare la mala erba prima che fosse troppo tardi, prima che il perfido frutto delle sue viscere cominciasse a mostrare al mondo la sua crudeltà.
Ginevra li vide, sorrise.
Erano davanti a lei, accartocciati come carcasse senza vita, in un lago di polvere e sangue. Nessuno l’aveva potuta fermare. Nessuno aveva potuto svelare al mondo i suoi fatali inganni!
Era stata lei a provocare tutto.
Era stata lei a mentire, ad accusare un uomo di ciò che lei stessa aveva compiuto. Aveva raccontato al giovane sposo di come quello sconosciuto avesse voluto per sé la sua donna e l’avesse rapita, per puro fine di libidine. L’altra gli aveva resistito, aveva urlato. Ma lui l’aveva legata, maltrattata e condotta lontano, per poi approfittare di lei, fino alla fine. L’aveva rinchiusa in una segreta buia, abitata da serpi e scorpioni ed ogni notte aveva fatto di lei tutto ciò che gli era piaciuto.
Poi, quando si era stancato dell’infelice, l’aveva ceduta ai suoi servitori.
Alla fine, quando della giovane sposa bianca non era rimasto più che un corpo senz’anima, quell’uomo aveva deciso di disfarsene. Dopo il tormento, la sua sorte fu di essere defenestrata e uccisa, in una notte di lampi!
Ma questa era una menzogna.
Era stata Ginevra ad ordire tutto questo. Era stata lei!
Aveva inebriato Morgante, affinché le rivelasse il segreto. Glielo aveva strappato con i suoi artigli ed il suo sottile ingegno, nonché per mezzo di uno dei suoi fatali raggiri.
Sì, ella gli aveva propinato dell’oppio, lo aveva turpemente drogato, facendogli credere che fosse un elisir di lunga vita. E l’altro, rapito dal suo tranello, aveva risposto ad ogni sua domanda. Alla fine, lei aveva sorriso, maliziosamente. Aveva visto davanti a sé la vittoria. Il suo desiderio si avverava meravigliosamente!
I due si erano battuti all’ultimo sangue’
Avevano combattuto all’arma bianca, a causa di lei e per volontà sua, sua, sua!
Ginevra non si curava mai di occultare i cadaveri generati dai suoi delitti. Ella li abbandonava ai corvi e agli avvoltoi, fino a farli divenire scheletri, nel gelido luogo in cui aveva avuto luogo il misfatto.
Allora, la si sentiva sghignazzare. Aveva seminato la discordia in molte città e tutti avevano urlato per lo scandalo. Ognuno l’aveva temuta e la temeva, così come si può temere un vampiro, che s’aggira nella notte, lasciando dietro di sé la morte, il pianto, l’eterno sconforto.
E questo accadeva sempre!
Ginevra aveva ucciso per vendetta e disperazione, onde far sì che il crudele Morgante non soverchiasse il suo potere’ Ella già prendeva uno dei teschi ammonticchiati nella valle sinistra e lo teneva tra le sue mani. Con voce squallida, già proferiva il nome di colui che sarebbe stato la sua prossima vittima. Già lo condannava a morte, con le sue frasi, sussurrate al suono delle arpe maledette.
Tutti si erano chiesti chi fosse Ginevra. Per alcuni era una maga, per altri, una strega, un essere crudele proveniente dagli inferi, venuto a sedurre e tormentare gli esseri umani. Altri tacevano e non dicevano chi fosse.
Ad ogni modo, nessuno conosceva il grande mistero. Nessuno aveva vissuto la tragica notte, in cui ella era apparsa in città per la prima volta.
In quell’occasione, il cielo e i mulini s’erano tinti di fuoco, s’era udito un profondo tuono, simile a quello delle catapulte ad un assedio e lei, in sella ad un cavallo ornato con lo stemma del drago, era apparsa sulla strada alzaia, che conduceva al Maniero delle Idre.
Era stato come assistere all’apparizione di un fantasma.
Per alcuni, il cavallo in sella al quale l’avevano vista era un drago.
Per alcuni, ella era comparsa tra le fiamme di un incendio, il grande fuoco che quella notte aveva devastato la selva.
Ma queste erano soltanto voci popolari. Ella camminava ancora su e giù per la stanza, la stanza maledetta, come una strega quando recita le sue formule magiche.
Improvvisamente, l’uscio si aprì.
Era di nuovo l’alba.
Il tempo, che Ginevra sapeva controllare così bene, era sfuggito ai suoi comandi e l’aveva tradita.
Ormai, la sua ultima ora era scoccata!
Ella vide gli uomini, i soldati, distinse le alabarde, mentre tutti gridavano contro di lei:
– Vendetta!
– Chi mi ha tradita? – gridò la sventurata. – Chi mai?
Era caduta al suolo e si contorceva come se fosse stata ferita a morte, perché l’avevano colta, nel suo delitto.
– No! – gridava la vittima, mentre la catturavano. – No, pietà, per carità, non torturate l’innocente! Il fato mi ha condotta nel luogo sbagliato e nel tempo sbagliato’
Ma nessuno si curava delle sue grida.
– Tu hai commesso il delitto! Questo &egrave il settimo, che grava sulla tua testa! – tuonò uno dei giustizieri.
La incatenarono.
Invano lei li malediceva e gridava contro di loro minacce e ingiurie.
Tutti videro passare una carrozza. Era il carro dei prigionieri, nel quale viaggiava Ginevra, la terribile maga.
Aveva forse esaurito tutti i suoi malefici? Aveva forse dimenticato tutti i suoi incantesimi, per restare prigioniera?
Il rumore cupo della carrozza che correva si smarriva come un canto lugubre nella semioscurità. Era come se mostri ignoti e fantasmi occulti si nascondessero nelle tenebre infuocate.
E tutti la vedevano passare, discernevano il suo volto diafano, le sue mani, che stringevano le sbarre fredde, mentre quella sorta di carro fantasma imboccava la strada deserta e maledetta.
Poi la vettura, slanciata nella corsa, scomparve come una visione, in una nuvola di polvere, sollevata dal suo passaggio. Tutti avevano gridato contro di lei maledizioni. Tutti la odiavano, ma ben pochi, quel giorno, ebbero il coraggio di guardare i suoi occhi crudeli. In pochi osarono sfidarla.
– Io sono imprigionata! – gridava la sventurata al vento. – Ma resterò tale per poco tempo’ Nessuno mi può incatenare, nessuno!
E abbandonò la testa all’indietro, come rapita da un sonno misterioso e fatale, forse quanto la morte, perché era alla morte, che la conducevano.
– No, questo non sarà mai! – gridò Ginevra, come una fiera.
– Ricordati che &egrave stato il tuo ultimo delitto! – le dicevano tutti. – Sì, &egrave stato il tuo ultimo delitto! Tu non sei un essere umano e non ti &egrave dato il privilegio di morire nel sangue, sulla pubblica piazza. Tu sei una serpe!
Ella comprendeva così quanto la sua sorte dovesse essere tanto più crudele. Aveva sentito spesso parlare delle torture segrete che si infliggevano a certi condannati, particolarmente mal visti dal volgo e dalle turbe. Aveva udito di spilli avvelenati, che uccidevano lentamente, di spade arroventate’ Ma qualcosa di più crudele si preparava per lei.
Avevano deciso di seppellirla viva, tra i serpenti stregati. Per tutto il giorno, dall’alba al tramonto, si scavò la terribile fossa, in cui Ginevra doveva giacere. Uomini vestiti a lutto lavorarono con le vanghe, come figure oscure di carbonai.
– Muori, maga del mistero! – le dissero, in tono di scherno, nel momento fatale, allorché la gettarono nella fossa, legata mani e piedi, con la morte dipinta sul volto.
Ginevra doveva morire così, con mille persone intorno, come un gallo cedrone, al quale taglino la testa.
Tutto questo accadde in un giorno terribile, nel Medioevo, in un paese sperduto e lontano, mentre la neve, come una silenziosa purificatrice, ricopriva quel cupo sepolcro con il suo candore.
Il volgo racconta che ancora oggi le anime di coloro che morirono violentemente abitano quei luoghi, là dove un tempo sorgeva la vecchia torre. Si narra che la notte, gli abitanti di quel borgo non s’avventurino molto volentieri lungo il triste Viale delle Tamerici.
Due voci sopravvissero e allora confabulavano nel silenzio. Erano quelle di un uomo e di una donna, nel fiore delle loro vite amorose.
– Oh, tu non sai quanto ami questi istanti, che il piacere e la lussuria rubano al dolore! – mormorava la voce più appassionata.
– Tu sei mia, sarai mia ogni qualvolta ti vorrò. Possedere il tuo corpo &egrave possedere la tua anima!
– Ah, quanto piacere provo in questo luogo! Chi mai potrà scoprire il nostro clandestino sotterfugio?
– Il nostro amore segreto e profumato, vuoi dire’ Siamo due furtivi, che mormorano nella luce languida di una lucerna, che illumina un’alcova’
– Che importa, che importa se un uomo &egrave annegato, la morte ha riempito i sepolcri e la fanciulla ha pianto?
– Nessuno ha scoperto il fatale mistero!
– E nessuno potrà rivelarlo, perché chiunque oserà scoprire questa passione, subirà lo stesso maleficio, la maledizione rosa, a causa della quale gli sventurati furono rinchiusi nella prigione dell’abbazia e morirono dimenticati, ammirando languidamente il cielo perduto.
– Chi mai potrà trovare i due amanti? Tu sarai mia, al pari dei tuoi baci e dopo i supremi istanti ti rivelerò i desideri intimi degli angeli delle rocce, esseri paradisiaci e affettuosi’
Un verso secco, stridulo, risuonò come un’eco in quella dimora. Era il gheppio. I suoi lunghi artigli scintillarono nel grigiore del giorno, era come se fosse pronto, per catturare la sua preda.
In questa vicenda, in queste immagini di vite passate, che allora brillavano nel cielo stellato come astri immensi, era contenuta la memoria dell’esistenza precedente di Clarisse, che era stata Ginevra, la maga crudele e innamorata. Il Cielo l’aveva intenerita alquanto e resa assai più pietosa’
Le allodole dai canti flautati avrebbero intonato e ripetuto il suo caro nome, che era tenero e tranquillo, quanto le romanze dei pastori delle montagne e le loro greggi bianche. Forse, per l’afflizione, i fiori delle primavere venture si sarebbero rifiutati di sbocciare’ No, non poteva essere, era un’illusione! Un vapore rosa, fatto di baci e carezze, avrebbe rapito l’estasi e il tormento, languidi come l’affetto.
La bella errava tra le grotte.
Da quando, misera, aveva abbandonato il suo corpo mortale, non faceva altro.
E non aveva per compagno altri che il vento’ Non udiva voci malinconiche, se non quelle dell’amica bufera e dell’amico eco. Oh, se parlavate loro, vi rispondevano! Ma ella non discorreva mai con quegli esseri e sembrava prigioniera della montagna, chiusa com’era nelle sue malinconie.
Io la vidi un giorno, sapete?
Ero salito fin lassù’ Fin quasi al Passo della Morte, che non le faceva più paura. I pensieri miei mi avevano condotto sino alle estreme rocce, tappezzate di nevi eterne e muschi lievi. Una voce piangeva e diceva parole tristi’
Sì, sì, sì, con tali parole io vi narrerò quell’istante, voglio che sappiate che poi mi parve di vedere come un fantasma bianco, che si appoggiava a uno dei massi candidi, per guardare verso la valle.
– No, niente’ – sussurrò lei.
Freddi veli la riparavano dai ghiacci, ma a nulla potevano servire, perché ella non avvertiva più né il caldo, né il gelo.
No, no, no, né il caldo, né il gelo!
La defunta si nascose poi ai miei occhi. Si celò nelle sue grotte, per non mostrarsi più.
L’anima della mortale regalava al vento parole di sospiri. Diceva:
– Uomini cattivi! Forse, credevate di avermi uccisa, per sempre! Ma nessuno può fermare l’anima fugace! Oh, essa può errare in ogni dove, sì!
Clarisse aveva deciso di dimorare per sempre tra quelle rocce, che l’avevano vista nel momento in cui era stata toccata dalla morte.
– Sì, resterò per sempre qui, eternamente’ Eternamente’ Eternamente’
Ella ripeteva a lungo quella parola, colma di significato e di mistero, tanto amava regalarla all’eco, affinché cercasse di recarla ai vivi.
Ma tutto era inutile.
Un velo bianco separava la morta dai viventi.
E mi sembra di ricordare che’ Oh!
Di giorno, quando la luce del sole carezzava i ghiacci, ella usciva a toccare i muschi, con la sua mano invisibile e candida.
Soleva toccare con le immateriali sue labbra i fiori sbocciati fra le nevi’ Volle chiamare uno di essi con il proprio nome, tanto le parve grazioso.
– Clarisse! – esclamò. – Tu ti chiamerai Clarisse, d’ora innanzi, o unica primula che osi sfidare i ghiacci!
Follie!
Povera anima! Era commossa.
Guardava con occhi assorti e felici tutto ciò che le stava intorno: le nevi, i ghiacciai, i laghi gelati, i fiori incastonati tra le rocce bianche, gli uccelli d’alta montagna, che ripetevano i loro versi secchi e regolari.
Poi’ Oh, poverina! Si portava le mani al volto, quasi le fossero spuntate le lacrime.
Mormorava meravigliosamente:
– Oh, Dio’ Tutto &egrave così bello, qui! Tutto sembra incantato e vive di una vita meravigliosa e triste!
Io rammento che i ghiacci, malinconicamente, sfavillavano’
Sì, sì, sì, sembravano di cristallo, di perla, tanto erano puri e immacolati!
E non un’anima vivente, non un altro spirito turbava la quiete di Clarisse. Nessuno poteva molestare la sua pace, nessuno, nessuno, nessuno’
Ma un bel giorno’
Oh, un bel giorno, ella volle andare a fare una passeggiata sulle torri della cattedrale antica, la cattedrale nera, tutta rivestita di marmo, che da piccola le aveva fatto tanta paura!
E se ne volò giù, a valle, tutta vestita di perla’
Volava come un angelo e, se sussurrava, dalle labbra sue non uscivano che parole latine, che avevano la purezza dei Campi Elisi.
Oh, sì!
Clarisse passeggiava sulle alte torri della cattedrale, correva su quei tetti, leggera quanto una farfalla e il suono di una campana, assai regolare, suscitava in lei meravigliosa mestizia.
– Oh, sì, questa &egrave la casa di Dio, ma &egrave tanto triste, che’ Ahim&egrave! Quanti preti vestiti di nero vi abitano! Sembrano fantasmi! E dal campanile sembra levarsi una voce di morte! In verità, siamo tutti un po’ morti, sì’
Questo sussurrò.
E la stupiva e commoveva a un tempo il vedere come la gran croce di bronzo che stava in cima alla guglia maestra si spostasse a seconda di come soffiava il vento.
Lo sapete?
Quella volta, la neve ricopriva le torri e i tetti della cattedrale e delle altre case.
Clarisse cercò di parlare ai passanti.
Oh, avrebbe voluto dir loro che la vita era una cosa tanto bella e non dovevano sciuparla, piangendo, no, no, no, non dovevano!
Voleva sussurrare parole di conforto, desiderava esortare i suoi compagni a gioire, prima che arrivasse la morte, a portarli via con sé.
Ma le labbra sue non potevano parlare.
Oh, sì, erano congelate’ Pareva che le nevi eterne avessero rapito per sempre la voce di Clarisse, nel momento in cui la fine’ Oh!
Allora, ella risalì sulle sue montagne, sui suoi ghiacciai, verso le sue candide distese innevate e le sue rocce.
Fu in quelle circostanze che incontrò un altro spirito.
Accadde in una delle sue grotte, sì.
Chi mai poteva essere quell’anima? A chi apparteneva? Da dove veniva?
Era lo spirito di un fanciullo morto, lontano da sua madre, che veniva da un luogo bruttissimo, il mondo, dove gli uomini si uccidevano anche solo per una briciola di pane.
– Dove sei? Oh, dove, dove sei?
Clarisse lo chiamò così, prima che lui le si mostrasse.
Aveva i capelli rossi, ma gli occhi suoi non brillavano più. Era vestito di turchino, fra le mani teneva delle piccole perle bianche’ Oh, voi non sapete, ma erano le sue lacrime, sì, erano tutte quelle che aveva sparso durante la sua vita mortale!
– Oh, posso, posso restare qui? &egrave così bello, non c’&egrave nessun cattivo che mi possa fare del male! Nessuno, no, nessuno’ – disse il fanciullo morto.
– Da dove vieni? – gli chiese lei.
– Da un posto bruttissimo, la terra’ Ma qui ci sei solo tu, vero? Anima pacifica, non farmi del male!
– Oh, piccolo caro! Lo sai? Tu non puoi stare qui’
– E perché?
– Così vuole il destino, così vuole Iddio, tesoro’
– Oh, ti prego, non farmi andare lontano da queste rocce innevate’ Lo sai? Al Passo della morte ci sono gli spiriti dei briganti, che mi hanno fatto del male.
– Oh, non andare lassù! Non tornarci mai più!
– Ho paura, sai? Ho tanta paura’ Anche mia madre &egrave morta, ma non la trovo più.
Le due anime si consolarono a vicenda. Io ricordo soltanto questo, voglio tenermi a mente soltanto questo. Ma Clarisse non poteva consolare abbastanza il vagabondo solitario, no, no, no!
E s’alzava la bufera, si sentiva la sua voce, nella grotta, dove c’erano gli scheletri degli amanti!
– Oh, tu sai dov’&egrave mia madre? – chiese il fanciullo. – Tu lo sai?
Allora, Clarisse si fece assai buia in viso; io non so esprimere l’espressione che ebbe, in quegli istanti.
– Io lo so, sì.
Così ella gli rispose, tradendo l’accento della morte.
– Dove? – riprese l’altro spirito.
– Credimi, fratello mio, quel luogo non ha nome’ Esso &egrave più gelido delle nevi eterne, più cupo di una notte senza stelle’
Le parole di Clarisse morirono così’ Un’improvvisa folata di vento, che scosse gli abeti, parve congelarle e portarle via con sé. Oh, sì!
Altro non ricordo di quell’incontro.
Altro non ricordo.
Clarisse, dopo avere incontrato il miserabile sfortunato ed averlo congedato, corse via, quasi in pianto. Oh, cosa la costringeva a fare il destino! Cacciare via un’anima infelice, sconsolata’
Ella volle volare lontano.
La giovane, presa da pietà, volle andare a far visita a colui che era il suo vero assassino. Sì, andò accanto al Malfattore delle Montagne.
Lo sapete?
Egli non era morto, come la povera ragazza. Oh, ahim&egrave, l’estrema fine l’aveva risparmiato, ma soltanto perché venisse imprigionato e rattristato dalle mille infelicità dell’esistenza mortale.
Le guardie l’avevano portato in una prigione triste.
Gli avevano fatto salire uno ad uno cento gradini, scavati nella roccia, onde menarlo lassù, nella torre grande, ove venivano rinchiusi i prigionieri più crudeli.
Colà c’erano soltanto corvi.
Oh, quant’era triste ascoltare da mattina a sera i loro versi cupi, che promettevano sconsolatezza!
Attraverso la grata, si discerneva il fianco della montagna, in cui era costruita la prigione. Era una parete ammantata di rocce e di ghiacci.
Clarisse entrò senza bussare, sì, sì, sì.
E non chiese se poteva entrare, perché gli occhi del misero non la potevano vedere.
Egli stava lì, incatenato, seduto sulla branda, guardava i topi, che correvano su e giù per la stanza, e le serpi, che sibilavano cupe.
Il Malfattore delle Montagne piangeva, sì!
Chi mai lo poteva consolare?
Clarisse era velata di bianco, i capelli suoi spuntavano leggermente dalla cuffietta candida che le avvolgeva il capo e’ Si era vestita in un modo così bello e triste!
Povera defunta!
Quell’anima candida s’accostò piano piano all’infelice, che era mutilato’ Aveva perduto un braccio e portava una benda nera, onde coprire la menomazione sua.
Quei capelli erano così lunghi, quella barba, così incolta’
Clarisse volle baciare, per un istante, quegli occhi tristi, quelle membra consunte’ Ma le labbra sue non avevano consistenza e non potevano toccare.
– Ti voglio bene’
Ella gli sussurrò questo e nient’altro.
E il misero non sapeva nulla, oh, no, no, non sapeva di quella presenza e di quei baci!
Poi Clarisse parve andarsene via, sbattendo due ali caste e bianche’ Sì, caste e bianche’ Ella gli aveva promesso che sarebbe ritornata presto, tanto, tanto presto.
Malinconie!
Dove volavi, anima solitaria? Dove andavi, piccola, tenera colomba?
Io lo so.
Lei andava a fare visita ai suoi torrenti’ E aiutava i mendicanti ammalati, sì!
Li aiutava, senza che essi nemmeno potessero accorgersene, poiché un velo li separava e non si poteva oltrepassarlo.
Clarisse incontrava fanciulli ammalati, che si reggevano a stento sulle loro stampelle di legno’
E li aiutava, piano piano, a ritrovare la via di casa, perché i poverini si erano perduti, sì!
Se non avessero incontrato lei, i miserabili sarebbero stati tutti divorati dalla morte, ma per fortuna questo non succedeva.
Clarisse incontrava madri sconsolate, che portavano il figlio dal dottore, nell’inutile speranza di salvarlo, oh, molto spesso, non si poteva fare niente per rendere la vita ai due sventurati!
E così’
Oh, Clarisse prendeva l’anima del moribondo con sé e dava un bacio triste alla donna infelice, affinché fosse consolata!
Perché non c’era niente da fare, in quelle circostanze, no, no, no!
A volte’ Oh, a volte, l’anima della giovane dai capelli castano-rossicci incontrava torme di giovinetti allegri, che giocavano su un bel prato, ricoperto di neve bianca. Lei era così felice, in quegli istanti! Scendeva accanto a loro e li baciava sulla fronte, uno a uno, senza che essi potessero accorgersene.
Era il suo modo di augurare loro una vita piena di contentezza e di candore, una vita felice, sì, lieta e senza tristezze.
E sussurrava sempre:
– Vi prego, siate buoni! Non fate come quelli che uccidono e si macchiano di sangue innocente! Siate buoni, vi scongiuro!
Poi, Clarisse li lasciava ai loro giochi.
E a volte vedeva un cacciatore, con il suo fucile, pronto a uccidere dei poveri animali, dei quali faceva inutile scempio.
Oh, perfido!
Se quell’uomo abbatteva una povera allodola, subito l’anima buona si precipitava a curarla, a consolare il povero animale innocente, ferito. La seppelliva lei, con le sue mani, nella neve’
Era il suo modo di onorare la tristezza, sì!
Io vi sto narrando la vita della dolce anima della defunta. Forse, voi non mi credete, ma gli occhi miei ebbero modo di vedere tutte queste cose.
Quell’essere bianco volava sopra i ghiacci immacolati del Lago Maledetto e accadevano tante altre vicende, davvero’
Un brutto giorno, dall’alto della sua grotta, la tenera Clarisse vide una scena molto triste, perché una guardia dai lunghi baffi neri e dalla divisa grigia era entrata nella cella in cui tenevano prigioniero il Malfattore delle Montagne.
L’aveva sciolto dalle catene, quasi con violenza e poi gli aveva detto di sbrigarsi, di fare presto, poiché non avevano tempo da perdere.
Clarisse fu spettatrice di tutto questo.
Esclamò:
– Oh, Cielo! Lo conducono alla morte!
Invece’
Oh, poteva non essere vero’ Ma lei sentì i corvi che cantavano lugubremente in cima alla torre, quel giorno c’era la bufera giù a valle e tutto prometteva malinconia!
– Buon Dio, risparmialo! Non lasciare precipitare la tua collera su di lui’ Io lo perdono’
Clarisse ripeteva sempre queste parole, nel suo silenzio magico.
Poi’ Oh, poi, ella s’accorse che accadeva il contrario di quanto aveva pensato!
Infatti, avevano portato il prigioniero in un bosco, bendato e incatenato, ma poi l’avevano sciolto, dicendogli con voce terribile e lugubre:
– Vai! Sei libero!
Voi non sapete che nebbia densa c’era in quel luogo, in quelle circostanze’ Sembrava di trovarsi in un cimitero e i versi cupi delle civette facevano credere di essere finiti giù all’inferno.
– Oh, no, no, no! Quest’oggi lo libereranno! Ma essi non sanno che non &egrave pentito e stanno restituendo la libertà ad un criminale!
L’anima sconsolata disse così.
Ah, ve lo giuro: ella aveva già visto tutte le cose orribili che il mascalzone stava per compiere. Avrebbe tormentato, fatto piangere, rubato, ucciso’
E tutto questo doveva accadere sotto gli sguardi della povera defunta!
– No’ Oh, no, no, no, io non posso permetterlo, mai!
Clarisse tremava, sapete?
Il Malfattore delle Montagne fece ritorno nella sua casa, dopo aver vagato per la foresta ammantata di neve bianca. Si tolse i panni logori e tagliò della legna con la scure, poi accese un bel fuoco’ Le fiamme ardevano nel camino, riscaldavano, divorando i ceppi uno ad uno, scoppiettando e’
A quel rumore, si mescolava la voce del perfido, che sussurrava nel silenzio i suoi disegni di vendetta, i suoi piani malvagi.
Oh, no!
Eppure, accadeva questo.
Le macchine ripresero a funzionare.
I biglietti falsi uscivano da quelle bocche di ferro e finivano nei cesti. I vecchi marchingegni arrugginiti si divoravano sempre nuova carta e bevevano inchiostro. Una luce turchina e quasi innaturale illuminava l’artefice di tutto, che sghignazzava nell’ombra, contemplando l’opera sua.
Era un criminale.
– Oh, io non posso permettere che egli commetta altre malefatte! Io non posso permetterlo, no, no e poi no!
Clarisse, povera morta, sussurrò questo.
Ella vide il Malfattore delle Montagne incamminarsi nella foresta e spargere lungo i torrenti i suoi biglietti falsi, per mandarli ai suoi complici.
E un brutto giorno’
Oh, accadde che in quei lugubri luoghi passasse una bella giovane, tutta sola e senza colpa alcuna sulla coscienza. Aveva un corpo venusto e dei seni grandi e turgidi, che quasi sporgevano dalla sua veste, ma queste non erano colpe. La sconosciuta non aveva mai fatto male a nessuno, ma il Malfattore delle Montagne la aggredì, dicendole:
– Dove vai, bella solitaria? Lo sai? Nel bosco c’&egrave il pericolo di perdersi!
– Oh, spero tanto che non sia capitato a me! – gli rispose l’ingenua.
– E se così fosse? Hai paura, eh? Sì?
– La prego, signore, non mi faccia del male’
– Ma io non sono un signore! Io sono un malfattore!
Io non voglio raccontarvi ciò che avvenne poi, perché &egrave troppo triste, tanto che neppure si può narrare.
Clarisse vide, invece’ Oh, sì, lei vide!
E c’era una bufera bianca, che, giungendo, nascondeva tutte le cose agli infelici sguardi della morta. Davvero, accadeva questo’
Tutto era capitato sotto un gran noce spoglio.
Da quel giorno, il Malfattore delle Montagne parve essere diventato cento volte più cattivo di prima.
Ahim&egrave, sì!
Egli passò davanti alla cattedrale nera, vide un povero mendicante, che chiedeva la carità, tenendo in mano il cappello, ma il perfido non si fermò, non lo aiutò, no, anzi’
Il miserabile mortale che chiedeva pietà pareva sapere tutto, tanto che gli disse:
– Io so quale cuore insensibile pulsa in te’ Stai attento, perché presto verrà la tua ora e cesserai di fare del male ai tuoi fratelli!
Questo aveva gridato il povero misterioso, appoggiandosi al suo bastone. Il Malfattore delle Montagne gli rivolse mille insulti e minacciò di prenderlo per le orecchie e di gettarlo in un burrone. Una volta lo incontrò di nuovo in un posto solitario e gli fece tanto male’
Cielo, lo uccise!
Le labbra che l’avevano accusato tacquero per sempre, ma un rimorso cupo s’accese nel farabutto. Egli sapeva che tutto il mondo lo odiava; per questo si rifugiò in una caverna, nei pressi della cava abbandonata, affinché gli altri mortali non osassero perseguitarlo.
Quel luogo era la patria dell’aquila e della maledizione eterna. Il misero trascorreva il tempo immaginando delle truffe e abbattendo gli alberi che crescevano intorno, uno ad uno.
Uccideva gli animali, sì!
E lo faceva per il solo piacere di ammazzare.
Un giorno, però, qualcuno lo scoprì. Cielo, cosa accadde!
Il perfido abitatore delle nevi abbracciava forte la povera viandante che già aveva avuto la sventura di incontrarlo’ Oh, infelice innocente! Era passata con la gerla sulle spalle, andava a casa, a portare la medicina al figliolo ammalato, che non l’avrebbe rivista mai più!
– Sì! Hai incontrato il fantasma dei ghiacci, ih ih!
Il Malfattore delle Montagne le disse queste parole e poi’
Egli decise di trarre da quel giovane corpo tutto il piacere che era possibile carpire da esso. La donna aveva un bel seno e non era reticente, poiché ricordava il piacere e la sofferenza che aveva provato l’ultima volta. Le sue belle gambe nude spuntavano da una gonna mal coprente e vellutata. Aveva delle ginocchia dolci, che sembravano fatte di marzapane, tanto era affettuosa la forma di quelle ossa, al pari delle sue languide tibie, delle sue cosce e dei suoi polpacci.
Il cattivo la tenne per un braccio, mentre iniziava il corteggiamento, fatto di chiacchiere basate sul tempo e le montagne, sulla primavera che non arrivava mai e sugli allegri fringuelli del bosco. La femmina guardava il maschio negli occhi, tutta estasiata, perché le sue parole la eccitavano alquanto e le facevano dimenticare il pericolo. Si lasciava stringere tutte e due le mani, mentre passavano di chiacchiera in chiacchiera, al pari di come un ingenuo uccello può saltare di ramo in ramo. Lei, di tanto in tanto, sorrideva. Le piacevano quelle sperticate lodi del sesso femminile, quell’elogio della giovane donna e della femminilità, fatto da un affascinante maschio, che, a suo dire, aveva sempre amato profondamente le donne, tanto da desiderare di essere una di loro. Nel caso in cui quel suo desiderio impossibile fosse stato esaudito dal destino, egli sarebbe stato ancora attratto sessualmente dal meraviglioso sesso femminile.
Dopo che ebbe finito di stuzzicare quella bella donna con le parole, il Malfattore delle Montagne prese ad eccitarla con le mani e con le labbra, che le passò sulle guance, sul lungo collo di cigno, sulle spalle, che volle nude, onde godere della femminilità e della giovinezza di quella pelle. Lei allora prese ad ansimare, sorridendo, per poi guidare quelle mani dove volevano i suoi centri nervosi, le parti del suo cervello femminile che per natura erano dedicate al sesso e a tutti i suoi piaceri. Poi si spinse oltre, fino a chiedere a quel maschio quanto ce l’avesse lungo. Decise di mordicchiargli un orecchio con i denti, che erano bianchi, puliti e grandi. Poi alzò le braccia e si appoggiò entrambe le mani sulla nuca, per mostrargli le sue belle ascelle scolpite e depilate. Era una femmina profumata’
I due esemplari di homo sapiens si erano incontrati, provavano eccitazione e fermento e presto sarebbe iniziato il loro coito. Quel chiacchierio tra maschio e femmina riprese vagamente, come un fuoco che avvampava, alimentato dalla civetteria di lei, che provava piacere nell’essere toccata e stuzzicata sul pube, sulle natiche, sulle braccia rimaste nude.
– Avanti, dimostrami che sei un maschio! – disse poi la giovane, che ansimava sempre.
Poche donne al mondo dovevano essere pulite e profumate come quella, che sapeva di lavanda ed aveva una pelle così vellutata e brillante, che sembrava d’ambra. Ad ogni modo, ciò che più sorprese il maschio fu il suo triangolo ricciuto, pieno di fragranze e di dolcezza, nonché di inenarrabile femminilità, al pari di quei piedi degni di una statua e dalle unghie dipinte d’argento o di porpora, non ricordo.
L’organo sessuale del Malfattore delle Montagne avrebbe suscitato la curiosità di chiunque, perché era curvo, sembrava storto e finiva in punta. Una simile forma non avrebbe fatto altro che permettere alla femmina di scoppiare di piacere, durante le innumerevoli scosse che sarebbero seguite alla penetrazione. Così, infatti, sarebbe accaduto di lì a pochi attimi. Non sembrava affatto impossibile, né illusorio ed invero non lo era.
Lei già scoppiava d’eccitazione; egli le disse e le fece comprendere di avere le vescicole seminali colme e questo la eccitò ancor più, tanto da strapparle delle grida acute, che tradivano il godimento più estremo e si mescolarono ai suoi respiri affannosi, incessanti, che tradivano tutta la sofferenza ed il piacere del suo corpo muliebre. Ma non bastava più dirle ‘evviva le donne’, ‘evviva il sesso femminile’, poiché la bella voleva accoppiarsi come una farfalla innamorata. Il maschio volle godere dei suoi calcagni, delle lunghe dita dei suoi piedi, che sembravano di marmo, delle sue caviglie, che parevano ricavate nella roccia. In quel mentre, lei lo implorò di far presto e di sbrigarsi a penetrarla. Purtroppo il perfido non lo fece, perché si divertiva a tormentarla, a farla godere di quella sofferenza carnale violenta, di quelle mani intrecciate ed aspre nella passione.
Alla fine, la fece accomodare su una roccia, le alzò le gambe e i piedi al cielo, le strappò via le mutande e glielo ficcò dentro come avrebbe fatto un giovinetto dal pene robusto, giunto alla sua prima esperienza erotica con una donna.
A lei sembrava di amare, di avere una meravigliosa chioma sciolta che carezzava il corpo vano del suo amato, ma si sbagliava!
– Su, su, ancora, ancora, non smettere, no – rantolava la femmina, mentre si sentiva lacerare, strappare, contorcere, spezzare e qualcosa si strofinava senza sosta in lei.
Non c’era tempo per parlare e le parole morivano nei versi e nel respiro affannoso di lei, che era assai più forte e udibile di quello di lui.
– Femmina &egrave bello, femmina &egrave meraviglioso, &egrave piacevole e sublime – mormorava la giovane, nel suo godimento affannoso. – Tutti dovremmo nascere femmine, nessuno escluso, per provare maggiore godimento dalla vita presente!
Le sembrava che quella fosse la posizione più piacevole per lei e non le interessava se il maschio doveva faticare di più’ Le piaceva restare piegata in due, con i piedi all’insù, nuda, senza mutande, ma si sbagliava, pensando che il Malfattore delle Montagne avesse accettato di faticare per dare piacere a lei.
– Fallo durare ancora! – disse la donna, cercando di stringere qualcosa, perché si avvicinava la fine.
Ma l’altro non la ascoltava, non la ascoltava’
Ella afferrò affannosamente un ramo secco, come può fare il paziente che sente in bocca le tenaglie del cavadenti, la preda che si accorge delle zanne del suo predatore, mentre la sta divorando.
E pensare’ Oh, e pensare che sembrava di udire il canto degli uccelli del bosco, delle nocciolaie romantiche, dalle ali grandi, che volavano sui noccioli verdastri, dei crocieri, dai piumaggi spesso rossastri e dai becchi grandi, dei picchi dai mille colori. Sembrava di distinguere altresì il verso armonioso di un cuculo, che ripeteva il suo cucù, ma era un’illusione, nient’altro che un’illusione’ Dovevano esservi altresì delle passere scopaiole, che emettevano i loro forti tsiip, nonché dei gorgheggi vani, simili a quelli degli scriccioli, ma meno intensi. Si distinguevano pure le voci dei sordoni, solitari pennuti di montagna, dai canti simili a quelli delle passere ma meno potenti e più melodiosi, che ricordavano vagamente i cori armoniosi delle allodole.
Fu in quella sorta di ambiente incantato e incastonato nei monti che i due esemplari di homo sapiens raggiunsero le cime infuocate del piacere carnale, con lei che aumentava volutamente il ritmo del coito e si sfregava a propria volta. Sembrava che la femmina si stesse mangiando il maschio, respirando forte e affannosamente, ma non era vero. Poi, sia il maschio che la femmina emisero delle grida acute e vaghe, che si persero nei boschi e tra le vette.
Dopo quell’estremo istante, la giovane baciò il Malfattore delle Montagne sulla bocca e con trasporto, ma non sapeva che la vita sua era finita. Poco dopo, si sentì afferrare violentemente per il collo e’
– Ora io ti prenderò, sì! – le disse il Malfattore delle Montagne, sogghignando ed astergendo le bave che gli scendevano dalla bocca con una mano. – Chissà che ne farò di te! Non piangere, non gridare, mio bel piccione viaggiatore sconsolato!
Oh, davvero io non so se ella trovò delle forze per urlare, per lanciare il suo estremo grido disperato, prima di lasciare il mondo! Per lei, le allodole non avrebbero cantato mai più.
Cielo!
Io ricordo solo che la povera donna precipitava giù, dal burrone, per sempre. Nessuno poteva salvarla, ormai, no, nessuno mai.
Non c’erano ali che bastassero!
– Hai scoperto il mio segreto, morirai!
Così aveva sibilato quella serpe, prima di avvincere la sua vittima nelle sue spire fatali.
Clarisse vide tutto questo. Ella riempì di lacrime la grotta che il destino aveva voluto assegnarle.
– Oh, io non posso permettere che accada questo! Io non posso, non posso, non posso’ – ripeteva sempre.
Ricordo che passeggiava sulla neve, verso il nido di quella serpe. La sconsolata sapeva che non le era consentito decidere della sorte altrui. No, non le era permesso avvicinarsi ai mortali e punirli, ma lei non poteva, no, non poteva permettere che’ Oh!
Lo sapete?
Il perfido aveva commesso mille crimini atroci, nel frattempo’ E la Montagna Grande aveva lasciato cadere una frana da uno dei suoi fianchi, perché persino gli esseri inanimati erano pieni d’ira a causa di quel malvagio.
Ma egli non era morto.
E se incontrava una cerva col suo piccolo, la uccideva, per venderne la pelle, incurante dei lamenti del cerbiatto innocente che aveva perduto la madre.
Clarisse, dal suo silenzio, sussurrò:
– Oh, basta, basta! Davvero grande &egrave la tua crudeltà! Io la punirò!
Povera anima triste!
Oh, cosa aveva deciso!
Ella prese il perfido per mano, senza che questi neppure se ne accorgesse. Gli aveva mostrato, in sogno, tanto denaro, tanti biglietti di banca, tanta ricchezza, chiusa in un forziere, che solo lui poteva aprire. Oh, perché non andava a prenderselo, quel forziere? Era tutto per lui.
Rammento il volto arcigno del Malfattore delle Montagne, mentre risaliva la china, fregandosi le mani. C’era vento, pareva che la montagna, quel giorno, avesse voluto divorarselo.
E sarebbe stato giusto!
L’invisibile anima di Clarisse aveva preso possesso della volontà del malvagio. Ella era l’angelo, incaricato dalla Divina Giustizia di portarlo alla perdizione.
Così, passo dopo passo’ Oh, non fatemici pensare!
Clarisse non era triste, non piangeva, in quegli istanti’
Ma in cuor suo, avvertiva un gelo mortale, sì!
– &egrave giusto’ Sì, &egrave giusto che io infranga le regole e faccia quello che devo fare!
Così sussurrava, nel suo silenzio eterno, che però sembrava di baci. Sussurrava così, sì’
La giovane anima non pianse. Era vestita di bianco, sapete? Il colore delle rose della purezza’ Un velo d’egual colore riparava il volto suo dalle folate di gelo, ma che importava? Il vento scompigliava i capelli suoi, povera anima colpevole!
Sì, colpevole, perché quel giorno ella aveva osato commettere il proibito e Iddio, certamente, avrebbe punito la sua libertà. Lei aveva deciso di strappare la vita ad un crudele, senza il pieno consenso divino.
Eppure, era giusto, sì!
Clarisse alzava gli occhi al Cielo. Un opaco raggio di luce illuminò il suo volto, mentre correva disperata in mezzo ai ghiacci.
– No! No! Buon Dio, risparmiami, benché abbia scatenato la tua collera!
Ella si riparava il viso con la mano, perché quella luce vendicativa era troppo forte, troppo forte, troppo’ Oh! Clarisse cadde, sulla neve fredda.
– Pietà!
Gridò questo, ma nessuno le diede ascolto. L’anima miserabile aveva disobbedito. Clarisse conosceva il suo destino. Fu in quegli istanti che di Lassù venne pronunziata la condanna.
Ella si era messa in ginocchio, invano!
– Va bene, &egrave giusto – sussurrò alla fine.
Aveva chinato il capo; lacrime tristi toccavano allora le sue guance di velluto, per poi scendere come una rugiada di paradiso da quegli occhi spenti e contornati da occhiaie.
Ella si ritirò nella sua grotta.
La condanna fu semplice e terribile.
Il suo destino, uno solo.
Sarebbe rimasta chiusa nella grotta per il resto dell’eternità, senza che nessuno mai le parlasse, le sussurrasse, la liberasse.
Un silenzio triste doveva esserle compagno.
Una catena invisibile l’avrebbe legata a quelle rocce, a quelle nevi’ Una debole luce soltanto era destinata a penetrare laggiù, Clarisse era condannata a non vederne altre, per sempre.
Per sempre!
Lei avrebbe regalato la sua voce all’eco’
Perché aveva voluto uccidere un crudele.
Perché aveva desiderato il bene.
Oh, chissà! Chissà quale era la sua vera colpa! Neppure io la conosco e non oso affermare quale fosse.
– Il castigo delle montagne &egrave sopra di me, eterno e triste’ Allontanatevi, mortali, fuggite da quest’anima condannata! Dimenticatela per sempre!
Questo, l’estremo sussurro di Clarisse.
Era lei la vera vedova delle vette, soltanto lei.

FINE

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