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Racconti di Dominazione

(MICHELA) CON NON CON

By 20 Luglio 2024No Comments

Allora, un lettore mi dice ma dove sei stato tutto questo tempo, e io gli dico eh, ciccio, c’era traffico.

Allora, una persona mi dice eh, ma la mia fantasia è di essere oggetto di uno stupro, mi scrivi qualcosa.

E io però invece purtuttavia la fantasia dello stupratore non ce l’ho, senza contare che non so nemmeno se sia accettabile sul sito, quindi.

Quindi, dicevo, come da titolo questa è una storia “con-non-con”, cioè consensuale non consensuale, o viceversa, non consensuale consensuale, insomma avete capito, quella roba lì.

Come sempre, lenta, all’inizio, e non è che poi invece al galoppo, eh, che per carità, se avete fretta c’è sempre youporn, e naturalmente al momento di fare roba, finisce, che bisogna vedere se vi piace.

Poi oh, se volete parlarmi, oltre che del con-non-con, anche del di, a, da, in, su, per, tra, fra, o anche solo commenti e repliche, il caro vecchio scaaty @ gmx . com

***

(MICHELA) CON NON CON

Dovrebbe essere estate qui, nella grande città del nord, big city bright lights, in questa città che vorrebbe essere una piccola Londra e forse non è altro che una grande Villapizzone, è venerdì, e siamo seduti in un locale inutilmente pretenzioso e troppo “didesiiiiiiign”, da dire con tono semi-gay, e vergognosamente caro.

Siamo tutti qui perché dopo settimane di lavoro (lungo, noioso, stupido e spesso inutile) stamattina c’è stato il closing, che altro non è che la firma del contratto ma, si sa, nella big city bright light se non si usano termini inglesi anche quando andiamo al cesso, non siamo cool. Appunto.

E quindi siamo qui.
Contenti.
Finalmente rilassati.
Nessuno lo menziona, ma tutti hanno già fatto i conti e hanno pensato a come spenderanno il loro bonus per questa operazione.
E quindi beviamo, ridiamo, scherziamo, ci prendiamo in giro, beviamo, parliamo, beviamo, sospiriamo, beviamo.

Beviamo.

Uno dopo l’altro, vanno tutti via, chi ha famiglia, chi ha sonno, chi ha gli amici – quelli veri, non questi qui, quelli del lavoro – e restiamo in cinque, poi in tre, io e Ubaldo e Michela, un ultimo giro dice Ubaldo, e un ultimo giro sia, beviamo più piano, ridiamo meno, chiacchieriamo più lenti, e Ubaldo si alza, barcolla, saluta – ottimo lavoro, ragazzi, questo giro è mio -, passa alla cassa, un ultimo cenno, va.

Fuori è diventato scuro, guardo l’orologio, sono le nove.

Michela mi dice – mi gira un po’ la testa –
– Non dirlo a me – rispondo

Stiamo in silenzio, ma senza imbarazzi, sarà l’alcool, o la stanchezza.

– Io ho fame – dice lei
– Anche io – rispondo, e mi rendo conto che alla fin fine ho mangiato qualche oliva e delle patatine, avendo volutamente evitato tartine unte, le schifezze molli e le schifezze dure e le schifezze medie che erano arrivate come aperitivo.

– Sei libera per cena? –
– Sì, e tu? –
– Libero – rispondo – famiglia in montagna, la scuola è finita, e appena hanno potuto sono fuggiti… –
– Ma tua moglie, lei lavora, no? –
– Sì, ma questa settimana fa tutto in smart working. E tu? –
– Marito a Londra per tutto il mese, la banca ha i revisori e non lo mollano nemmeno per i week end… volevo andare su io, ma alla fine lavorerà anche sabato e domenica, e i voli costano una follia, quindi sì, sono anche io da sola –
– Io non ho voglia di cucinare –
– Io nemmeno –
– Sushi? –
– Sushi! –

Siamo sulla mia vespa, mentre filo nel traffico del venerdì sera, con Michela dietro di me, la sua gonna alta sulle gambe nude, le braccia attorno al mio petto.

A cena, finiamo a parlare dei pettegolezzi dell’ufficio.
In sostanza, chi ha scopato con chi, chi sta scopando con chi, chi forse potrebbe aver scopato, chi vorrebbe scopare, chi probabilmente scoperà.

E i nomi quelli un po’ così, il collega bruttarello che però, come dice Michela, “fa sangue” – ma dai! Beh come tizia o caia – rispondo io

– No dai, quelle due no – spalanca gli occhi Michela
– Certo che sì –
– Ma dai… ma tu davvero… le trovi attraenti? –
– Molto! –
– Ma cosa ci trovi…? –

Piego il tovagliolo, lo appoggio piano sul tavolo, poggio i gomiti sul tavolo e mi piego in avanti.

– Beh, come posso dire… diciamo che quando lascio libere le mie… fantasie, diciamo, più… –
– Più? –
– Non so se voglio andare avanti a parlare di certe cose… –
– Eh no caro, adesso non mi molli così –

Sospiro.

– Ok ok… le mie fantasie un po’ più… spinte… non convenzionali… –
– La tue perversioni – dice Michela, guardandomi diretta negli occchi
– Esatto –
– Bene. Vai avanti –
– Ecco, quando mi lascio andare a immaginare qualcuna come protagonista delle mie perversioni, diciamo che sono spesso loro, le protagoniste –
– Wow, questa sì che è grossa. E perché? –
– Perché… perché hanno… quell’attitudine, quello sguardo, quel… modo di muoversi, un po’ goffo, un po’… fuori posto, hai capito cosa intendo? –
– Sì, direi proprio di sì –
– Ecco, e le immagino con quel loro modo di fare, con quello sguardo, mentre… –
– Mentre fai tutte le tue cosacce perverse –
– Eh, più o meno… –
– E siccome non sono ancora abbastanza ubriaca – dice lei, sorridendo – non ti chiedo di raccontarmi nel dettaglio queste fantastiche fantasie… –
– Oh beh, rimediamo subito –

E con un cenno, ordino al cameriere un’altra bottiglia.

– E tu? – le chiedo
– Io cosa? –
– Non provarci – le rispondo, serio. Lei scuote la testa
– Ok ok, era per dire. Io… io… –

Senza dir nulla, le verso un bicchiere. Lei beve, sorride.

– Ok. Io in realtà ho qualche idea su qualcuno dell’ufficio, come tutte no? –
Annuisco.
– Ma non ti chiedo su chi… sono più curioso del cosa… –

Michela mi fissa.
Seria.
Non sembra più così brilla.

– Giurami che quello che ci diciamo resta confinato qui, stasera, e nessuno ne farà mai più parola –
– Giuro –
– Mi devo fidare? –

La fisso, serio anche io – sì –

Dopo un istante, ritorna a sorridere e ad avere l’aria sbarazzina e confusa di una donna che ha bevuto un paio di bicchieri di troppo.

– È sempre la stessa cosa… da quando ero ragazzina… per anni è stata l’unica fantasia con la quale riuscissi ad avere un orgasmo…problema che ho superato, brillantemente, da ormai alcuni anni –
– Sono felice per te –
– Anche io, non sai quanto – sorride, io prendo il bicchiere, brindiamo – agli orgasmi – dico, – agli orgasmi – risponde.

– E insomma, è anche piuttosto banale e scontato… –
– Questa attesa mi sta uccidendo… –

Ride.

– Ok ok… insomma… uno stupro –

La guardo.

– Cioè, per anni tu sei venuta solo quando immaginavi… –
– Di essere violentata. Sì –
– … –
– Cioè, no, alla fine, era uno stupro non stupro –
– In che senso? –
– Era come se… come se… come se in realtà fossi io, a controllare il tutto… una specie di film di uno stupro… in cui io ero anche la regista, e quindi in un certo modo ero io a… decidere… non che fosse finto eh… ma c’era sempre un elemento di… confort? Oddio, confort non proprio, perché in fondo sempre violenza era, eh, ma non so se hai capito –

Annuisco.

– Sì, credo di sì. Posso farti un paio di domande? –
Lei ride, beve un sorso – beh, ormai… –

– Questa fantasia, la… usi ancora? –

Mi guarda piegando la testa verso destra, si pulisce gli angoli delle labbra con i tovagliolo, lo ripoggia sulle gambe.

– Sì. Ma solo quando… insomma, la tengo per i momenti importanti. Tipo stasera per esempio –
– Stasera? –
– Sì. Per festeggiare il closing, il bonus, la fine di questo lavoro, mi sa che userò proprio quella fantasia –
– Per venire come si deve –
– Esatto, un cazzo di orgasmo, se mi perdoni l’inglese –
– No offence taken – sorrido
– La seconda domanda? –
– L’hai mai fatto? –
– Cosa? –
– Metterla in pratica, questa fantasia –
– In che senso? –
– Nel senso di farlo –
– Grazie del chiarimento – sorride – ma secondo te come cazzo, scusa l’inglese, si fa a mettere in atto la fantasia di uno stupro? –

Sospiro, mi chiedo per un secondo quanto posso rivelare di me, poi mi rendo conto di quanto si sia aperta lei, e continuo.

– Io, per esempio – mi fermo
– Tu? –
– Avevo questa fantasia… –
– Ora la cosa si fa interessante… – sorride lei, guardandomi negli occhi – la fantasia segreta… dimmi dimmi –
– Di dominazione – butto finalmente fuori, dopo un ultimo istante di dubbi
– Uff… e chissà che mi pensavo… dominazione attiva o passiva? –
– Attiva –
– Quindi manette, corde, bende… –

Sorrido, prendo un sorso di vino.

– Sì… ma più del genere collare e guinzaglio, sculacciate e frustate, umiliazione… –
– Non proprio my cup of tea, ma chi sono io per giudicare? Vabbè, e quindi? –
– E quindi per anni ho cercato di convincere le mie donne, fidanzate, compagne, moglie, ad assecondarmi, e qualcuna si è anche prestata a qualche cosa ma… –
– Ma? –
– Io volevo tutto, per bene… e senza coinvolgimenti sentimentali… insomma, immagina, frustare ed insultare la donna che ami, la madre dei tuoi figli, capisci –
– Oddio, mia madre se devo dirla tutta se qualche frustata se la meriterebbe anche… ma non è rilevante, quindi vai avanti –

Incrocio le braccia, mi appoggio allo schienale e continuo.

– E quindi un giorno, a Roma, per uno sciopero mi salta una serie di riunioni e non posso nemmeno tornare a casa, e insomma ho tutto un giorno e una notte da buttare… –
– E? –
– E quindi mi sono messo su internet, e alla fine ho trovato una cortese signorina, o meglio signora, che secondo me era più vicino ai quaranta che ai trenta, specializzata in quella roba lì –
– Una competenza verticale, direbbero gli analisti –
– Esatto. Quindi l’ho chiamata, lo ho spiegato in dettaglio, come dire, il cosa il come e tutto, abbiamo convenuto il prezzo, e ci sono andato –

Sorrido, e taccio.
Lei si protende in avanti.

– Vabbè, adesso devi raccontarmi, non puoi finirla così –

Rido, bevo.

– Senza entrare nei sordidi dettagli, che sono certo non ti interessano –
– No no, interessano!!! –
– Dicevo, senza entrare nei sordidi dettagli, ti assicuro che è stato il miglior sesso della mia vita. E non perché lei fosse brava a fare i pompini, o che so, si muovesse o facesse delle cose speciali, no, è che… come dire… –
– Eri libero di essere te stesso, in tutto e per tutto? –

La guardo, e capisco che ha capito.
Annuisco.

– Non mi sono nemmeno sentito in colpa, perché non l’ho vissuto come un tradimento, ma quasi come un passaggio sostanziale della mia vita, della mia crescita –
– E non ci sei mai più tornato, immagino –

Taccio.
Bevo.
Sospiro.
Sorrido.

– Un paio di volte all’anno, ogni anno, da allora –

Scoppia a ridere.

– Giura!! –
– Giuro. Ormai mi conosce, sa cosa mi piace, come, e tutto, e diventa sempre meglio. Ma non ci vado più di una o due volte all’anno. Un po’ come la tua fantasia, che tieni per le occasioni speciali –

Di nuovo mi osserva, e per qualche istante l’allegria e la leggerezza della sbronza svaniscono, come se fosse stata tutta una finta.

– Tutto molto interessante, e come dicono gli alcolizzati, come noi del resto – dice, prendendo l’ennesimo sorso dal suo bicchiere – grazie per averlo condiviso. Ma questo, cosa c’entrerebbe con me? –
– C’entra, perché sono sicuro che ti piacerebbe moltissimo, trasformare la tua fantasia in qualcosa di reale, e non intendo “piacere” solo in senso fisico… –
– Potrei anche essere d’accordo, sai. Però, converrai, non deve essere poi così difficile mettersi online e trovare una puttana che fa sessioni sadomaso, mentre non è che posso mettermi su google e cercare, chessò, stupratori a pagamento… –
– No, sono d’accordo che non sarebbe… igienico, diciamo –
– Ecco, e quindi siamo daccapo, tu con la tua troia, nel senso tecnico eh –
– Certo –
– Con la tua troia che ti fa realizzare i momenti catartici, e io che mi masturbo nel letto come una adolescente… –

Mi trattengo.
Non molto, un secondo o due.
Poi parlo.

– Devi solo trovare qualcuno di cui ti fidi, e di cui però allo stesso modo non te ne rfega niente –
– Non ho capito –
– Sì che hai capito. Ma facciamo finta di no. Trova una persona di cui ti fidi, che sai che non ti farebbe mai del male, né fisicamente né psicologicamente. Spiegagli tutto, e organizzati con lui perché ti violenti. Decidi quando, dove. Decidi i limiti, decidi cosa vuoi che faccia, come, cosa vuoi che dica, se vuoi essere legata o no, ammanettata, bendata, la luce accesa o spenta, se vuoi che ti picchi, appena un po’, uno o due schiaffi, che ti tiri i capelli, se vuoi vederlo in faccia o invece deve indossare un passamontagna, se magari deve avere un’arma, che so, un coltello… se deve avere l’accento italiano o straniero, se deve insultarti o stare zitto, cosa… cosa deve farti, o non farti… capisci cosa intendo, no? E come quando deve venire… e naturalmente la parola di sicurezza, tipo, che ne so, una parola che non c’entra nulla, “carciofo”, che quando dici carciofo, lui si deve fermare e finisce tutto, così puoi gridare, ribellarti, dire no, supplicare, anche piangere se ti viene, ma finchè non dici carciofo, lui va avanti… –

Mi guarda.

Deglutisce, beve un altro sorso.

All’improvviso, c’è una percepibile tensione sessuale che attraversa il tavolo.

– Mi stavo quasi eccitando, ma carciofo non si può proprio sentire!!! –

Scoppiamo a ridere, insieme.

– Ed è proprio questo il motivo per cui si deve scegliere una parola del genere, che è talmente fuori contesto che non può in nessun modo essere equivocata –
– E perché dovrebbe essere qualcuno di cui non me ne frega niente? –
– Perché non stiamo parlando di una scopata un po’, come dire, zozza, per la quale andrebbe benissimo anche il marito o, mal che vada, il classico amante o scopamico… qui serve qualcuno che non si faccia scrupoli a trattarti male e anche a farti male, anche se entro limiti precisi, e a te serve qualcuno del cui giudizio non ti interessa granchè… –
– Vabbè, diciamo che anche per colpa del vino, mi potresti anche aver incuriosita… ma c’è sempre il problema più grande…
– E cioè?
– A chi posso chiedere di… violentarmi? –
– Su questo, gentile collega, non posso proprio aiutarti –

Restiamo in silenzio un istante, e quando il cameriere appoggia il conto sul tavolo, ci accorgiamo che il ristorante è praticamente vuoto.

Pago, ci alziamo, barcolliamo appena, ci avviamo verso la mia vespa.

– Ti do un passaggio? –
– No, ho già chiamato il taxi con la app, arriva tra un minuto –

Aspettiamo, in silenzio.

Pochi istanti dopo, Michela sale sul taxi, le sfioro le guance con due baci di saluto, lei mi ringrazia per la cena, il taxi parte.

Infilo le airpods, metto un vecchio Pat Metheney, veleggio verso casa tra i lampioni gialli della notte.

Più tardi, come sempre, dopo essermi infilato a letto e aver spento la luce, controllo un’ultima volta le mail e i messaggi sul telefono.

C’è un whatsapp di Michela, inviato pochi minuti prima.

Dice solo “Voglio farlo. E che sia tu”.

Mi giro, e mi addormento.

Sono circa le dieci di sera.
Michela è appena rientrata nella camera dell’hotel.

Qualche anno fa adorava i viaggi di lavoro, star fuori di casa per una due o tre notti, passare la giornata con i clienti e le controparti, discutere fino a sera, poi uscire a cena con i colleghi, bere un bicchiere e poi andare in stanza, distrutta ma felice.

Ora ha meno entusiasmo, e se può cerca di evitare trasferte troppo lunghe, ma se serve prende e parte.

Come questa volta, in questa città tedesca, anonima e industriale, dove con un piccolo team è arrivata tre giorni fa.

Hanno lavorato a testa bassa, il cliente è contento.

Il team è partito oggi pomeriggio, lei è rimasta perché domani mattina c’è da rivedere un ultimo punto del contratto, ma in un’ora sarà tutto a posto e rientrerà in Italia in serata.

Ha cenato in hotel, da sola.
Con un buon libro, un’insalata, un antipasto leggero e un piccolo dolce al cioccolato, come premio per il buon lavoro che ha fatto.

Rientrata in stanza, ha acceso le luci, si è tolta le scarpe, ha acceso la televisione (non le piace il silenzio) e si è diretta in bagno.

Non sente la serratura scattare, il rumore è coperto dalla tv.
La porta non si apre immediatamente, come se la persona che ha fatto scattare la serratura stesse verificando se lei abbia sentito.

Dopo qualche secondo, la porta si apre di qualche centimetro, e di nuovo resta tutto fermo, di nuovo in attesa di scoprire se Michela abbia sentito.

Dal bagno, il suono dell’acqua del rubinetto.
La porta si apre, e dall’ombra del corridoio una figura entra nella stanza, appende il cartello “do not disturb” alla maniglia e con attenzione richiude.

L’uomo ha le spalle larghe, indossa una camicia azzurra, jeans e scarponcini neri.
Percorre lentamente e in silenzio il corridoio, attraversa la stanza e si appoggia con le spalle al muro, accanto alla porta del bagno.

Michela finisce quello che sta facendo, chiude l’acqua, si gira e torna verso la camera da letto.

Indossa un paio di pantaloni di cotone color crema, leggeri, chiusi in vita da una sottile cintura di pelle marrone chiaro e una camicetta di seta avorio, allacciata fino al collo.

È scalza.

Appena Michela passa la porta che dal bagno da sulla camera, l’uomo si muove e la colpisce con un pugno forte, violento, al plesso solare, proprio tra il petto e lo stomaco.

Michela si piega su se stessa e le cedono le gambe.
L’uomo le mette un braccio attorno al collo e la accompagna a terra.

Michela non riesce a respirare, tossisce e sente il vomito spingere in gola.
Teme di soffocare.

Finalmente prende fiato.
Subito l’uomo la afferra per il capelli, le alza la testa e le sbatte la fronte contro la moquette del pavimento.

Forte, una, due volte.
Michela sente le ossa della testa vibrare dopo ogni colpo, e malgrado il dolore e il terrore la parte razionale del suo cervello che ancora funziona la tranquillizza dicendole che no, la testa non si rompe così facilmente.

L’uomo si muove veloce ed efficiente, in silenzio.
Michela registra i suoi respiri, lunghi e profondi.

Tenendole la testa schiacciata a terra, le sale sulla schiena e le punta un ginocchio tra le scapole.

Lei apre gli occhi e la sua mente registra il colore delle fibre della moquette, l’odore del detersivo industriale che hanno usato per pulirla, il grumo di polvere nell’angolo sotto il mobile accostato alla parete.

Quando l’uomo si muove, spostando appena il ginocchio, una delle vertebre della schiena di Michela emette uno scricchiolio, e lei geme per la prima volta.

– Zitta, troia – le sussurra l’uomo all’orecchio, piegandosi sopra di lei e spingendole la testa contro il pavimento con ancora più forza.

Michela ne sente il fiato caldo che dall’orecchio scivola sulla guancia.

Appena l’uomo allenta la presa sui suoi capelli, Michela si ribella.

È istinto, non razionalità.
Se fosse razionale, starebbe ferma.
Ma l’istinto le dice di lottare, e Michela lotta.

Scalcia e si agita, cercando di girarsi e di far scivolare l’uomo dalla sua schiena.

L’uomo è sorpreso, per un attimo sembra cadere, molla la presa sui capelli.
Lei si gira su un fianco.

– Troia – ripete lui, mentre le afferra un polso e con un movimento rapido e fluido lo gira di novanta gradi e glielo porta dietro la schiena.

Una improvvisa scossa di dolore, dalla spalla fino al polso, percorse tutto il braccio di Michela, che grida.

– Zitta o ti spacco il braccio – dice calmo l’uomo, mentre a cavalcioni sopra di lei le piega ancor di più il polso.

Il dolore è forte, ma Michela riesce a controllarsi, e si limita a un gemito.

L’uomo prende qualcosa dalla tasca dei jeans, poi le afferra l’altro polso, tirandolo dietro la schiena.

Michela sente la forza dell’uomo sopra di lei, il peso con cui la tiene bloccata a terra, la forza nelle mani, nelle gambe, nelle braccia di lui.
Capisce che resistere è inutile.

In quel momento, l’uomo sovrappone i due polsi di lei e Michela sente qualcosa che stringe, e un rumore come di una cerniera.

“Una fascetta elastica”, si rende conto lei, come quelle che usa la polizia americana per bloccare gli arrestati; le aveva viste anni fa, in un documentario sugli abusi della polizia in USA.

Ha paura.
Prova di nuovo a ribellarsi, scalcia, agita il bacino cercando di far cadere l’uomo seduto sopra di lei.

Lui la afferra per i capelli e le sbatte ancora con forza una, due, tre volte la testa contro il pavimento.
Anche con la moquette ad attutire i colpi, Michela sente le ossa del cranio vibrare.
Un dolore sordo le esplode dietro gli occhi.
Si blocca.

L’uomo si piega sopra di lei.
Sente il suo peso spostarsi dalla parte bassa della schiena a dietro le spalle.
Le blocca con forza la testa, piegata di lato, a terra, poi le avvicina la bocca all’orecchio.

C’è un momento di calma, in cui Michela si rende conto che sta trattenendo il respiro, e il fiato dell’uomo è così caldo che sembra bruciare.

Poi lui sussurra, calmo – se non stai brava, ti sbatto la faccia a terra finchè non ti spacchi tutti i denti, il naso e gli zigomi –

E mentre lo dice, stringe ancora più forte i capelli di Michela, che grida dal dolore, le gira la testa con la faccia contro il pavimento e spingendo sempre più forte verso il basso.

Michela sente le ossa del naso scricchiolare, la mandibola incassarsi e le labbra schiacciate contro i denti, quasi a rompersi.

L’uomo allenta appena la pressione, si piega di nuovo e sussurra – hai capito? –

Michela non riesce a parlare, né a muovere la testa.
Dalla sua bocca esce un suono che ricorda a un rantolo, e Michela, inconsciamente, è terrorizzata dal pensiero che l’uomo non capisca che sta cercando di dire di sì.

L’uomo allenta appena la pressione, le gira di nuovo di lato la testa.

– Bene – e di nuovo le tira con forza i capelli, così forte che Michela teme che le si strappi la pelle dalla testa – adesso, se fai la brava, ti lascio i capelli e mi alzo. Vuoi che lo faccia? –

Di nuovo, Michela non parla.
Accenna appena un movimento con la testa.

– Adesso mi alzo – sussurra – e tu resti ferma, esattamente lì dove sei. Se provi appena a. muoverti, ti prendo a calci in faccia fino a quando non sputi sangue. Chiaro? –

Di nuovo, un piccolo movimento con la testa.

– Chiudi gli occhi –

Michela chiude gli occhi.
Dopo un attimo, l’uomo si muove, lento, e si alza.

Michela si rende improvvisamente conto del peso dell’uomo, che la schiacciava a terra, e riesce finalmente a prendere un respiro profondo.

– Ferma, zitta e con gli occhi chiusi – ripete l’uomo.

Michela obbedisce, lo sente allontanarsi, camminare per la stanza, controllare che le pesanti tende da notte siano ben accostate, ricontrollare che la porta sia chiusa, alzare il volume della televisione e cambiare canale. La BBC, pensa automaticamente Michela quando sente un uomo leggere le notizie con un palese accento britannico.

– Apri gli occhi –

Michela resta ferma.
Una specie di ribellione, o forse ha solo paura di quello che verrà dopo, e cerca di prolungare il momento il più possibile.

– Apri gli occhi – ripete l’uomo – non fartelo dire un’altra volta. Non voglio farti male – dice – non ancora – aggiunge, e Michela ha un brivido di puro terrore.

Apre gli occhi, tenendo la testa a terra, con la guancia destra appoggiata alla moquette.

L’uomo si mette di fronte a lei.
In piedi.
Vede solo le sue scarpe, nere, una specie di modello da trekking.
E il fondo dei pantaloni, i jeans.
L’inconscio di Michela nota l’orlo dei jeans, artificialmente consumato. Roba costosa, dice una voce, inutile, nella sua testa.

– Guardami – dice l’uomo

Michela scuote la testa, come per dire no.
Non vuole vederlo in faccia.
Vuole, razionalmente, poter dire che no, non ti ho visto, non so chi sei, puoi lasciarmi andare, non potrò mai riconoscerti.

– Guardami – ripete l’uomo, con voce dura.

Michela singhiozza di paura, ha le lacrime agli occhi ma alza lo sguardo.
Sopra la camicia azzurra, l’uomo indossa un passamontagna.

Nero, con una piccola fessura per gli occhi.

Michela è così felice che quasi sorride.

Lui si abbassa, piegandosi sulle ginocchia, davanti a lei.

– Puoi farmi una domanda, una sola – le dice, e lei vede nei suoi occhi, grigi e freddi, un accenno di sorriso.

– Lasciami andare – sussurra lei – lasciami andare, non so chi sei, non dirò nien –

L’uomo si piega appena, le afferra i capelli proprio sopra la fronte e le sbatte di nuovo la testa per terra.

– Cosa – e sbatte – cazzo – e sbatte – non – e sbatte – capisci? – e sbatte

– Cosa cazzo non capisci – ripete, questa volta tutto d’un fiato e senza sbatterle più la testa, che le rimbomba ed è attraversata da ondate di dolore – della parola “domanda”? –

– Ti ho detto che puoi farmi una domanda, e invece tu hai iniziato una cazzo di conferenza… ma allora non sei così intelligente come credevo… vogliamo riprovare? –

Michela annuisce appena.

– Bene… – sospira lui – puoi fami una domanda. Ma attenta a cosa decidi di fare – e le afferra di nuovo per i capelli.

Lei annuisce appena, per quel poco che può senza rischiare di strapparsi la testa.

L’uomo lascia la presa.

C’è un secondo di silenzio.
Michela respira forte, con il cuore che batte.
L’uomo è tranquillo e rilassato.

– Cosa… cosa vuoi? – sussurra Michela alla fine.

L’uomo annuisce – brava. Una domanda, semplice e diretta –

Si alza in piedi, si allontana ed esce dalla visione di Michela.

– E meriti una risposta –

Lei sente che l’uomo si è seduto sul letto.

– Voglio scoparti –

Michela si irrigidisce.
Istintivamente stringe le cosce.

– Voglio scoparti. Forte. Tanto, mentre ti ribelli e lotti. Voglio scoparti come non ti hanno mai scopato, e quando penserai che finalmente stia per finire, che ti abbia scopato in tutti i modi, e che debba solo venire, invece ricomincerò a scoparti ancora più forte di prima, ma questa volta nel culo –

Michela scatta in ginocchio, e poi si alza in piedi, anche con le mani bloccate dietro la schiena.

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