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Diario di una Mistress – Giorno 3

By 27 Ottobre 2025No Comments

Lo spettacolo teatrale del dolore

Il teatro abbandonato è il luogo perfetto per ricordargli quanto sia fragile la sua dignità. L’ho fatto entrare con gli occhi bendati, costringendolo a inciampare sulle poltrone rotte e sulle assi sconnesse, fino a portarlo sul palco. Quando gli ho tolto la benda, la prima cosa che ha visto sono state le poltrone vuote che sembravano fissarlo.

“Questo è il tuo pubblico,” gli ho sussurrato. “E tu sei il protagonista del mio spettacolo.”

Ho frugato nei vecchi camerini e ho trovato un tutù logoro, pieno di strappi e polvere. Gliel’ho infilato addosso a forza, lasciandolo a metà corpo, ridicolo, con le gambe nude e il pene già in erezione che sbucava dal tessuto come una parodia oscena. Ho riso. Non c’era bisogno di dire nulla: il suo stesso riflesso negli specchi incrinati del camerino era una condanna.

Ho preso i miei trucchi dalla borsa e l ho truccato da clown. Volevo che ogni suo ansimare fosse ridicolo, che i suoi gemiti diventassero suoni grotteschi provenienti da una faccia deformata. L’ho incatenato al centro del palco, le braccia tese sopra la testa, i polsi che stridevano contro il metallo. Ogni suo respiro faceva ondeggiare il tutù sporco. La sua erezione, ostinata, si tendeva contro il tessuto, rovinando la scena come un dettaglio osceno in un balletto di farsa.

Ho iniziato con corde sfilacciate prese dal sipario: ruvide, graffianti. Ho iniziato a colpirlo, lasciando segni rossi sulle sue cosce, sul petto, sulle spalle… Ogni colpo risuonava amplificato dalla sala vuota, come un applauso distorto. Ho fatto scorrere una di quelle corde tra le sue gambe, stringendola poi proprio attorno ai testicoli, tirando fino a strappargli un gemito acuto che rimbombava come un grido lontano.

Poi ho preso un vecchio microfono. L’ho premuto sul suo petto, sul ventre, e infine contro il glande teso. Era freddo, metallico. Ho acceso la cassa collegata con fili arrugginiti, e il rumore del contatto si è trasformato in un gracchiare elettrico che riempiva l’intera sala. 

“Fai sentire come abbai al pubblico” gli ho ordinato. E lui ha obbedito, abbaiando dentro il microfono, trasformando il suo piacere in un suono sporco e umiliante che rimbalzava sulle pareti.

Non era sufficiente. Sono tornata nei camerini e ho preso un rossetto rosso quasi consumato. Gliel’ho passato sul petto scrivendo “ZERBINO” in lettere grandi, poi ho tracciato frecce che puntavano al suo cazzo, come se fosse l’attrazione principale di uno spettacolo. Ogni tratto era un marchio, un ricordo che non avrebbe potuto cancellare.  

Ma come ogni zerbino… si calpesta! E questo ho fatto. Ho iniziato lentamente passando vicino le palle il tacco 12, per fargli capire le mie intenzioni e intimorirlo… e quando meno se lo aspettava ho schiacciato le sue palle, proprio come si fa con un tappeto appena entrati in casa. Ho girato un po’ lo sguardo e ho trovato anche un paio di ballerine dimenticate in una scatola. Gliele ho infilate a forza, costringendolo a camminare sulle punte senza perdere l’equilibrio. L’ho fatto camminare goffamente da un lato all’altro del palco, mentre il pubblico immaginario rideva e applaudiva nella mia testa. 

Quando era esausto, ho deciso di colpirlo più in basso. Ho preso una canna di ferro arrugginita e l’ho fatta scivolare tra le cosce, spingendola piano fino a sfiorare il glande, tenendola lì a lungo. Il metallo era graffiante, e il suo cazzo pulsava disperato contro di esso. 

Gli ho ordinato di girarsi e piegarsi come una bimba in punizione. Poi, con un colpo secco, ho battuto la barra sul suo culo peloso, il rimbombo così forte da farlo sobbalzare come se il suolo stesso fosse vivo.

Ho usato anche le piume di un vecchio costume da spettacolo: le ho fissate con nastro adesivo sul suo corpo, sul petto, sulle cosce… e una di queste l ho usata per infastidire il suo buchino del pene.

Poi ho passato un bastone di legno lucido lungo il suo glande, dalle radici fino alla punta, sfiorandolo con pressione crescente ogni volta che il corpo cercava sollievo. Ho acceso un riflettore rimasto miracolosamente funzionante e l’ho puntato dritto su di lui. Nudo a metà, ridicolizzato, truccato e umiliato, era esposto alla luce come un trofeo. Ogni gemito era amplificato dai microfoni rotti, ogni movimento del tutù diventava farsa. Poi ho preso della polvere di gesso dal pavimento e gliel’ho strofinata sul ventre e sul membro, rendendo bianca e lucida la sua erezione: un segnale visibile, un marchio teatrale della mia proprietà.

Infine, ho ordinato al mio schiavo di inginocchiarsi sul centro del palco, le mani dietro la nuca, le ginocchia sui tacchi instabili. Il corpo tremava, le corde segnavano la pelle, il tutù era stropicciato e il pene pulsava forte. Sono scesa dal palco senza liberarlo. Non ho detto una parola.

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