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Ho 38 anni, sono un’infermiera e sono nata in Colombia. Di me dicono che ho un’energia che si sente subito, una di quelle presenze che non passano inosservate. Ho imparato a essere dolce quando serve, ma anche decisa quando la situazione lo richiede. Nel mio lavoro curo gli altri, ma nella vita mi piace anche farmi desiderare, giocare con gli sguardi, lasciare intuire più di quanto mostro. Ho un carattere passionale, lo so, e non ho paura di farlo vedere. Porto con me la mia storia, il mio temperamento latino e quel modo di essere che può sembrare tranquillo… finché non mostro quanto so essere intensa. Scrivetemi pure per il vostro parere alla mia mail karen90x@proton.me.

Sono i primi mesi come infermiera era iniziato come mi aspettavo: una divisa nuova, la tensione che mi stringeva lo stomaco e la sensazione che il mondo potesse vedermi tremare.
Tutto è iniziato nella stanza 18.
Roberto, 56 anni, ex costruttore, un toro di quasi due metri, mani da muratore, petto largo, voce bassa che ti fa tremare le cosce.
Era arrivato con una frattura scomposta di femore dopo una brutta caduta da un’impalcatura: chiodo endomidollare, tutore rigido alla gamba destra, catetere vescicale per i primi giorni, poi tolto.
Non c’era gesso che coprisse l’inguine, ma il tutore e il lenzuolo non nascondevano niente di quello che contava.
Ogni mattina entravo per la medicazione della ferita chirurgica e per il controllo del drenaggio. Li racconto anche come sono stati difficili questi tre anni di studi quasi senza vita sociale .
Ogni mattina abbassavo il lenzuolo fino al ginocchio e lì c’era lui: anche flaccido era impressionante, lungo, spesso, appoggiato sulla coscia sana come se fosse normale avere un cazzo così.
Passavo l’antisettico, sfioravo la pelle calda, e lui si induriva piano sotto i miei occhi, la cappella che si gonfiava, una goccia trasparente che spuntava in punta.
Stringeva i denti, mi guardava, ma non poteva muoversi troppo per la gamba.
«Scusa…» sussurravo ogni volta, ma non toglievo la mano subito.
«Non scusarti, bella» rispondeva lui, voce roca. «È la prima cosa bella che mi capita da quando sono qui dentro.»
L’ultimo giorno prima della dimissione, mentre gli controllavo la ferita, le mie dita si fermarono più del dovuto.
«Domani esco, Karen.»
«Lo so.»
«Allora domani sera non sarai più la mia infermiera.»
L’ultimo giorno prima della dimissione, mentre gli controllavo la ferita, le mie dita si fermarono più del dovuto.
«Domani esco, Karen.»
«Lo so.»
«Allora domani sera non sarai più la mia infermiera.»
Mi prese la mano, la strinse piano e mi chiese il numero.
Lo salvai come Roberto, solo il nome.
Lui sorrise: «Scrivi quando vuoi. Anche alle tre di notte. Io ci sono sempre.»
Da quel momento non abbiamo più smesso di scriverci.
Prima era un «come va la gamba?» che diventava subito «la gamba regge, ma c’è un altro muscolo che non si rilassa da quando ti vedo».
Poi «mi manca il tuo profumo in stanza» e io che rispondevo «tranquillo, te lo porto a casa».
Poi le foto: lui sdraiato sul fianco sinistro, tutore slacciato, il cazzo duro appoggiato sul cuscino.
Io che gli mandavo una foto del camice aperto in ascensore, niente sotto, solo la scritta «sto arrivando».
Lui che rispondeva con la cappella lucida di pre-sborra e la frase «porta spalancata, entra e inginocchiati».
Io che gli scrivevo «la gamba come la teniamo?» e lui «sul cuscino, tu sopra, io fermo… per ora».
Io che gli mandavo un audio ansimando «tra dieci minuti sono da te e ti cavalco finché non mi implori».
Lui che rispondeva con la voce bassa: «non implorerò mai, colombiana… ti sfondo appena cammino».
E poi, una sera qualunque, dopo giorni di messaggi che ci lasciavano entrambi bagnati e duri, è successo.
Porta socchiusa.
Entro, cappotto che cade a terra, nuda.
Roberto è sdraiato sul fianco sinistro, cuscino tra le ginocchia, tutore sul comodino, il cazzo enorme che pulsa nell’aria.
Mi avvicino, mi metto a quattro zampe sul letto, gli prendo quel cazzo con entrambe le mani e me lo infilo in bocca fino in gola.
«Cazzo, sì… succhialo tutto, troia… tre anni di fame li sento adesso.»
Dopo qualche minuto mi tira piano per i capelli.
«Sali sopra. Io non mi muovo, tu sì.»
Mi metto a cavalcioni, gli appoggio le mani sul petto, mi abbasso lenta.
La cappella spinge, entra, mi spacca in due.
Scendo piano, centimetro dopo centimetro, fino a sentirmi piena fino all’utero.
Comincio a muovermi, avanti e indietro, su e giù, sempre più veloce, sempre più forte.
Lui resta fermo per la gamba, ma le mani mi stringono i fianchi come morse, mi schiaffeggiano il culo, mi guidano.
«Cavalca, puttana… scopati il mio cazzo… fai tutto tu…»
Vengo la prima volta cavalcando come una pazza, la seconda quando mi piego in avanti e lui mi morde le tette.
Poi mi giro, gli do le spalle, mi rimetto a pecorina sopra di lui al contrario: io che mi muovo, lui che spinge da sotto senza sforzare la gamba.
«Così… usami… prenditelo tutto…»
Viene dentro di me con un ruggito lungo, mi riempie, mi inonda, sento i getti caldi uno dopo l’altro.
Crollo su di lui, ancora impalata, sudata, tremante.
Rimaniamo così, il suo cazzo che pulsa dentro di me, il suo respiro sul mio collo.
«La gamba ha retto» sussurra ridendo.
«Ma appena cammino bene ti prendo in piedi contro il muro e ti sfondo finché non cammini neanche tu.»
Io gli bacio il petto, ancora piena di lui.
«Allora guarisci presto, papi…
perché la tua infermiera ha ancora tanta riabilitazione da fare…
e non vede l’ora di farsi curare sul serio.»

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