Katherine e Maria erano ripartite per Londra dove il loro padre aveva un lavoro promettente. Erano via ormai da una settimana. Mi avevano lasciato la casa, (anzi, se paragonata alla mia modesta abitazione sarebbe bene chiamarla “la reggia”). Tra quello e il cibo, bastante per un mese o più, avrei potuto dirmi soddisfatto.
Invece non lo ero.
Chiariamoci: non era una questione totalmente incentrata sul sesso. La notte in cui sono partite le ho riempite a morte. Seriamente: dopo avere preso da dietro e posseduto selvaggiamente Maria mentre eravamo in un bagno pubblico, mi ero dedicato a Katherine.
Erano le 21.31 e la bella nera si stava facendo una doccia.
Pur tentando di prenderla di sorpresa, lei si accorse del mio arrivo. Mise un piede sul bordo della vasca, un muto invito che non osai rifiutare, tant’era che il mio pene era già allo stato dell’acciaio. Entrai dentro il suo antro caldo e umido, iniziai a pomparla con foga. I suoi gemiti che si innalzavano nell’etere, l’appannamento sullo specchio, l’orgasmo finale che la fece urlare e che ci lasciò tanto scossi da farci quasi cadere. Ricordavo ogni singolo particolare e non era solo per quello che non ero soddisfatto.
La solitudine pesa, sempre. Anche in quel caso, pochi o nessun amico, i miei genitori lontani, le mie muse del sesso sfrenato partite e le mie amanti di riserva (Maiko e Yoshiko) lontane a miglia di distanza. Uscire era una possibile soluzione ma non ne avevo molta voglia. Così, quando fu ora di cena mi preparai una bistecca e archiviai la pratica, iniziando a riflettere su cosa significasse solitudine realmente.
Solitudine non è solo stare da solo, isolato o separato dal resto della comunità. Non è quello, è più spesso una scelta, una decisione, come per me lo fu quella sera. La decisione di rimanere soli coi propri pensieri.
Spesso la solitudine è vista male, negativamente, dalle persone che vedono un soggetto isolarsi. Da molto tempo avevo smesso di vederla così: la solitudine era, ed è per me ad oggi un modo per riflettere sulle cose, per arrestare il flusso dei pensieri. Una gradita pausa dal trantran continuo della civiltà occidentale…
Oggigiorno siamo talmente immersi nel flusso costante di cose da fare o da dire che smettiamo di esserne consapevoli e Buddha disse che un’uomo inconsapevole è un morto che cammina. Il paragone era calzante: spesso e volentieri dimenticavo cose relativamente importanti solo perché non ero presente con la testa. Una di queste dimenticanze avrebbe finito col costarmi cara…. La solitudine permette anche questo, il ritorno alla consapevolezza.
Ma per gradita che sia, la pausa deve finire, prima o dopo. Per me era appena cominciata e avrei dovuto venirci a patti. Mi sedetti a meditare per qualche minuto, approfittando del fatto che stessi da solo, senza casino intorno.
Quando uscii dalla meditazione, erano le 22.45. Decisi di andare a letto. L’indomani magari avrei cercato compagnia.
A giudicare dall’erezione che mi venne, spontaneamente, poco dopo essermi infilato sotto le coperte, avrebbe dovuto essere femminile, procace e particolarmente decisa a sacrificare qualche ora in mia compagnia.
Non era esattamente facile….
Stavo allegramente passeggiando per le vie del centro città quando presi a riflettere sulla solitudine.
Certo: l’assenza di Kath e Maria mi pesava, molto ma c’era un ma.
Spesso, la loro assenza mi permetteva di riflettere su quante cose non avevo ancora fatto con quelle due…. E più ci pensavo. più il mio sottoposto protestava, mostrando segni di insubordinazione crescente.
Tra quello e il fatto che stessi iniziando ad apprezzare la solitudine, stando alzato sino all’una a forza di film, libri, uscite al bar, appuntamenti con gli amici, cinema, fumetti e roba varia, si creava un divario notevole, un’abisso tra due necessità basilari della razza umana.
Il piacere o la libertà?
Esisteva un modo per averli entrambi?
E se la risposta era “no” come avrei potuto scegliere? Quale essere umano dotato di cervello e anima avrebbe potuto?
Dio, avevo bisogno di andare a bere qualcosa.
Quelle domande mi stavano uccidendo.
Mi ritrovai in un bar che non avevo mai frequentato. Luci psichedeliche, pista da ballo, tavoli appartati. Un posto leggermente troppo agitato per i miei gusti che in altre occasioni avrei disertato senza indugio.
Non quella sera.
Musica a palla, roba che spaziava dalla Techno al rock, passando per il pop. La mia testa gemette, bombardata dai suoni.
“Che ci sono venuto a fare qui?”, mi chiesi.
Mi sembrava tre volte peggio dell’inferno: rumore assurdo, i bassi che pompavano la musica, un caldo quasi afoso e l’acqua del mio bicchiere stava finendo.
Decisi che me ne sarei andato. Presto.
Dulcis in fundo, le cameriere erano tutte prese.
-E devo alzarmi…-, dissi tra me e me. Il mio buonumore se ne era andato almeno un paio di ore fa.
Mi trascinai sino al bancone dove un barista tatuato e muscoloso che avrebbe comodamente potuto anche essere un DJ mi riempì un secondo bicchiere.
Poi non so come o perché, mi voltai col bicchiere pieno in mano. Andai a sbattere sentendo una voce inequivocabilmente femminile che imprecava, un rumore di acqua versata e un sentore di bagnato all’altezza del petto.
-Porca vacca!-, sentii dire da una meravigliosa ragazza dai lineamenti indiani, la pelle scura, una treccia che arrivava sino a mezza schiena, vestiti casual e una meravigliosa seconda di seno inguainata in una maglietta e un reggiseno appena visibile….
“Se è un sogno non svegliatemi!”, pensai mentre mi uscivano delle scuse a valanga dalla bocca, così come sembrava uscissero anche dalla bocca della giovane. Infine, entrambi tacemmo, in piedi e paralizzati per un istante.
Poi scoppiammo a ridere.
Simultaneamente.
-Usciamo da qui.-, disse la bella indiana all’improvviso.
Ero più che d’accordo. Non capii subito verso cosa stavo andando, ero ancora troppo stupito per come si erano svolte le cose: un minuto prima ero lì da solo, a riflettere sulla mia solitudine. Il minuto dopo… Bang! L’intero universo era mutato, sconvolto dall’apparizione della magnifica femmina che mi ha trascinato fuori da quel locale terribile.
Che tra l’altro non si era ancora presentata.
Non che mi disturbasse: nemmeno io le avevo ancora detto il mio nome e mi andava bene così. Sapevo che dire banalità con una come sembra essere lei avrebbe potuto bruciarmi l’occasione.
Avevamo fatto totalmente silenzio e ora, passeggiando per le strade, stavo cercando le parole per iniziare una conversazione.
Ancora fu lei a sorprendermi.
-Quel posto era davvero insopportabile, vero?-, chiese con un sorriso. Tardai qualche secondo a reagire.
Lei sorrise ancora.
-Mica ti mangio se parli…-, disse. Era divertita dal mio improvviso… cosa? D’un tratto compresi.
Dannazione, mi stava bloccando psicologicamente, tutte le mie idee erano state annichilite, vaporizzate, disintegrate dalla sua apparizione nella mia vita.
Riuscii infine a rispondere.
-Il posto era terribile… e tu sei bellissima ma… chi sei?-. Le parole mi uscivano di bocca a gruppetti, come fossero anch’esse spaventate di manifestarsi.
Lei qui sembrò accigliarsi, come se la domanda l’avesse in qualche modo offesa.
Per qualche secondo non parlò e temetti davvero di essermela giocata.
“ma che cazzo mi succede?”, mi chiesi, “Possibile che io finisca con l’essere dipendente da una sconosciuta terribilmente sexy incontrata in un locale di sesta categoria?”.
La risposta era “Sì.”
-Sono solo un’anima persa che cerca compagnia… come mi sembrava fossi tu. Ti tenevo d’occhio da quando sei entrato nel locale.-, disse. Mi lasciò senza parole.
Aspettava ME?
-C’erano molti altri ragazzi là dentro.-, notai con sincera perplessità, -Perché io?-, chiesi.
Lei non ebbe neanche bisogno di pensare. -Perché sembri diverso dai bamboccioni di lì, tutti a provarci con me. Tu eri… lontano dal luogo in cui ti trovavi, perso nei tuoi pensieri, più simile a me. Per questo ti sono venuta addosso, o meglio, ho fatto sì di intrappolarti…-, disse sorridendo con qualcosa di simile alla ferocia.
Non ero spaventato. Se mai affascinato.
-E ora che mi hai dove volevi?-, chiesi, incuriosito.
-Possiamo parlare.-, fu la risposta.
Rimasi ancora spiazzato ma stavolta non per molto.
-Ok, parliamo. Cominciamo dal tuo nome.-, dissi.
Ancora quell’aria come offesa.
-Non ho un nome.-, ammise infine.
Curioso quanto preoccupante.
-Dovrò pur chiamarti in qualche modo.-, dissi io con un sorriso mentre passeggiavamo. Prendemmo la strada verso Ponte Chiasso.
-Che nome daresti a una donna apparsa come d’incanto in una notte così?-, chiese.
Non era ancora del tutto notte: il cielo manteneva parte del suo celestiale colore. Comunque incominciai a pensare a una risposta.
Dovevo darle un nome? Mi stava prendendo in giro?
Non lo sapevo e neanche mi interessava: avevo lasciato la zona delle persone normali andandomene dal bar con lei.
Infine decisi, ricordando un bel nome, preso da un libro letto anni prima.
-Maghera.-, dissi.
Lei sorrise, i bei denti bianchi che spiccavano sulla pelle bruna. Avvertii un inizio di erezione.
-Bel nome.-, disse prima di chiedermi come mi chiamassi io.
-Alessandro.-, dissi io con un sorriso. Senza pensarci le avevo rivelato il mio vero nome.
“Che diavolo ti passa per la testa?”, mi chiesi
Il mio vero nome era quello, non l’Alex o altri che avevo rifilato ad altre ragazze. Era una misura precauzionale nel caso che rompessimo prematuramente. Avrei potuto distaccarmi definitivamente da loro cambiando semplicemente numero telefonico.
“Cosa sta succedendo?”, per la prima volta ero spaventato.
Stavo perdendo il controllo…
-Bellissimo nome. Molto… virile.-, disse lei. Pausa, uno stasimo di quasi un minuto bloccò la nostra conversazione impedendoci di proseguire. Mi imposi di non forzarla.
Mi accorsi che il mio cuore batteva ad un ritmo anomalo, rapido, molto rapido, così come il suo.
Camminando camminando eravamo quasi arrivati a Ponte Chiasso, dalle parti di casa mia, la mia vecchia casa che ancora non avevo abbandonato.
-Qui vicino c’è casa mia.-, dissi. Esitai un istante: chiederle di salire sarebbe stato un’azzardo: nessuna donna avrebbe accettato.
Nessuna donna in condizioni normali, quantomeno.
-Davvero?-, chiese lei strappandomi dai miei pensieri.
Esitai un secondo prima di rispondere. -Sì.-, dissi, -Vuoi entrare?-, chiesi.
Mi si rivoltarono letteralmente le interiora e sentii il mio cuore saltare un battito e il mio membro divenire granitico quando Maghera (così mi stavo abituando a chiamarla) disse di sì.
“Devo star sognando…”, pensai dandomi un pizzicotto. Niente, era tutto vero.
Ed era comunque troppo bello per esserlo…
Entrò in casa mia con la grazia di una regina. Impossibile definirla in altri modi. Chiesi se volesse qualcosa da mangiare e al suo sì mi industriai nella preparazione di un piatto di riso in bianco, scusandomi per la banalità del menù. Lei sorrise, assumendo di ritenerlo un pasto sufficiente.
Servito il pasto, iniziai a chiedermi sempre più su di lei. Chi era questa ragazza senza un nome uscita dal nulla, che il Karma aveva voluto gettarmi tra le braccia. Per distrarmi accesi la TV. Sapevo che Kath e Maria sarebbero dovute tornare tra breve, forse già domattina le avrei trovate a casa loro.
La TV mi diede modo di comprendere che il Karma mi aveva tolto le mie amanti. Erano morte insieme ad altri settantacinque passeggeri in un esplosione in volo dell’aereo che avrebbe dovuto ricondurle tra le mie braccia. Non c’erano superstiti. Rimasi paralizzato. Al punto tale che Maghera mi chiese se non avessi avuto qualcuno su quell’aereo.
-C’era la mia ragazza e sua sorella.-, riuscì a rispondere prima di sentire le lacrime inondarmi il viso.
“Oddio che giornata!”, pensai sull’orlo del pianto
Sentii la mano dell’indiana passarmi sul volto, asciugarmi le lacrime.
-Non vorrebbero certo vederti piangere.-, disse, -Devi essere forte.-.
Quello, paradossalmente fu il momento in cui le domande che avevo dentro ebbero finalmente modo di uscire. Le chiesi a raffica chi fosse, perché avesse davvero scelto me tra tanti e quale realmente fosse il suo nome. Una parte di me si aspettava che mi mandasse al diavolo, forse lo speravo pure.
Avevo un po’ alzato il tono ma lei non si scompose, ne lo feci io.
Dopo qualche istante però la vidi tremare. Senza preavviso si mise a piangere.
L’abbracciai, sapendo che aveva fatto lo stesso per me. Il mio sottoposto in mezzo a tutto era tornato a riposo. Poco male: non prevedevo di fare sesso quella notte.
E finalmente, la giovane raccontò la sua storia.
-Mi chiamo Jaswindar. Ho ventisette anni, compiuti il tredici di gennaio. Sono nata in India ma cresciuta qui. Mio padre e mia madre volevano che sposassi un vecchio suo amico. Abbastanza ricco, di Roma. Aveva settant’anni! Ti rendi conto? Non volevo essere condannata a una vita del genere!-, raccontò con tono emozionato. Altre lacrime, altro pianto, altri silenzi avvolsero queste frasi.
-E quindi sei scappata.-, dedussi io con calma.
-Tutti i miei parenti dicevano che avrei vissuto bene, che non avrei dovuto fare sesso ma lui mi guardava…. come si guarda una puttana!-. La strinsi a me, sentendo le lacrime ritornare. Piangevamo entrambi, le nostre vite scosse nel giro di una notte.
-Sono scappata. Mia zia, poco più grande di me, mi ha vista, ha tentato di fermarmi. L’ho…-, si interruppe. Era chiaro cosa avesse fatto, -Ho bruciato i miei documenti, l’appartamento, tutto quanto. Sono giorni che cammino. Oggi tutte le provviste sono finite… ho trovato il modo di sopravvivere grazie a brave persone che hanno capito… ma ora… Ora è finita. Non ne posso più di fuggire. Non ci riesco, Ale… non ci riesco. Jaswindar è morta molto tempo fa. Devo rifarmi una nuova vita.-, piangeva ancora sulla mia spalla mentre io ascoltavo quella confessione appena sussurrata.
Cosa potevo fare? Le davo ragione ma uccidere non era la soluzione, scappare men che meno. Era vero che, se l’avessero ritrovata sarebbe stata punita. Non solo dalla polizia ma anche dai suoi. Le usanze indiane e pakistane erano… dure con le spose disobbedienti.
Per un istante, un immagine del suo volto sfigurato dall’acido mi attraversò la mente. Eravamo in Europa ma fin troppi fatti di cronaca avevano dimostrato che la geografia non contava quando si trattava di tradizioni e religioni.
-Ora sai tutto, tutta la verità.-, mi disse.
-Già.-, sussurrai al suo orecchio.
-Cosa farai di me, di Maghera?-, si era già adattata alla sua nuova identità.
Non lo sapevo. Non potevo andare contro il sistema. O sì?
Sentivo il suo corpo caldo contro il mio.
Potevo davvero infrangere la legge per lei?
Più importante ancora, era giusto metterla alla porta?
Sentivo il suo cuore battere forte. Era agitata, impaurita.
Il suo odore era diverso da qualunque altro. Spezie, un odore dolce. Era buona.
Ed era un’assassina.
Capii che condannandola sarei andato contro le mie stesse norme morali. La società aveva macinato già molti altri innocenti. A migliaia venivano calpestati, costretti a vite che non volevano. Jaswindar (anzi, Maghera) si era salvata perchè aveva deciso di ribellarsi. Uccidere era sbagliato ma non stava a me dannazione, non stava a me condannarla.
La guardai in faccia.
In moltissimi modi era già condannata. Vidi che soffriva già più di quanto qualunque pena giudiziaria avrebbe potuto farle patire.
Annuii.
-Cosa?-, chiese lei. Cadeva dalle nuvole, la sentii tendersi come la corda di un violino.
-Ti farò restare a casa mia e… domani decideremo.-, dissi.
Mi abbracciò, talmente forte da quasi farmi male.
-Grazie! Grazie, grazie, grazie… Mi sdebiterò, lo prometto…-, la fermai con una mano.
-Non mi devi nulla.-, dissi.
Il mio pene, improvvisamente rizzo, si mise a protestare.
Parte della mia mente era quasi d’accordo con lui.
-Ci sarà qualcosa che posso fare!-, esclamò lei.
-Sì.-, dissi io.
Migliaia di immagini, una più eccitante dell’altra mi attraversarono la mente. Solo a vederle rischiai di venire.
Riuscii a concentrarmi.
-Rasserenarti, tanto per cominciare.-, dissi, imponendo la mia volontà sulla libido. Se avesse voluto fare sesso sarebbe stata una sua scelta. Non l’avrei forzata. Non potevo.
Facendolo non sarei stato migliore di ciò da cui era fuggita. “Cosa ho fatto?”, “Cos’è successo?”.
Queste erano le due domande che mi avevano impedito di dormire la notte e che mi tenevano sveglio alle cinque e venti del mattino.
Oltre ovviamente alle immagini ad alto contenuto erotico che la mia mente continuava generosamente a partorire, tutte aventi come soggetto la bella indiana che dormiva al mio fianco.
Lei si era addormentata quasi subito, sfinita.
Aveva avuto appena la forza di togliersi i jeans. il maglione e il reggiseno, oltre a disfarsi la treccia che ora, simile a una colata d’inchiostro le avvolgeva le spalle…
Inutile dire che io le avevo dato tutta la privacy che necessitava, con enorme rimpianto del mio pene.
Io mi ero messo il pigiama e mi ero sdraiato a letto. Data l’assenza di un divano o di una brandina eravamo costretti a dividerci il mio letto da una piazza e mezza, cosa che la mia libido magnificò.
Come detto, lei si era addormentata subito. Io, complici le forti emozioni della giornata, avevo cominciato a pensare.
La morte di Kath e sua sorella passava in secondo piano in confronto al fatto che avevo accolto quell’indiana in casa mia.
Aveva ucciso sua zia, dato fuoco ad un appartamento, distrutto quasi ogni prova della sua identità.
Ed era nel mio letto…
Avevo passato buona parte della notte a riflettere sugli eventi accaduti. A rianalizzarli passo dopo passo. Perché? Perché sapevo bene che, pur avendole detto che poteva restare per una notte, Maghera si sarebbe fatta sentire nuovamente.
Sarei stato disposto a darle ciò che voleva?
E poi cosa voleva?
Un rifugio? Un ostaggio? Cibo?
Una parte di me avrebbe voluto sbatterla fuori a calci…
Un’altra provava un sentimento che avevo davvero imparato a temere.
Incapace di trovare risposte mi ero addormentato verso la mezzanotte. Mi ero svegliato alle cinque meno un quarto e da allora queste domande mi impedivano di dormire.
Oltre al quasi costante alzabandiera che mi ritrovavo…
D’un tratto la bella indiana si girò e, senza alcun motivo apparente, mi mise una mano sul petto. Inutile dire che mi attizzò solo di più.
Si strinse a me come avrebbe fatto con un amante, un marito, un rifugio dalla tempesta e dalle brutture del mondo.
Forse era quello che voleva.
Assurdamente mi ritrovai a pensare a tutte le storie d’amore della mia vita. Una finita peggio dell’altra e ora c’era quella sensazione, quel sentimento così noto nato in una notte priva di senso in cui mi era stata data la grazia e mi era stata tolta la certezza.
Non avevo la pretesa voler capire quale fosse il grande piano in tutta questa matassa di eventi ma le mie ultime ventiquattro ore circa erano state davvero al limite del paradossale.
Sentivo ancora una punta di rammarico per la fine di Kath e Maria e pregai qualunque dio in ascolto dopo tanto tempo, di assicurare loro un posto da qualche parte, una vita migliore in cui trovare la pace.
Alla fine mi ritrovavo esattamente dove non volevo essere: al punto di partenza che avevo tentato di evitare per tanto tempo, invischiato in una storia complicata oltremisura, ad ospitare una fuggitiva che avevo scoperto di amare.
Bell’affare.
L’insensatezza del tutto mi sfuggiva e mi avviluppava.
Tentacoli oscuri scaturiti dagli angoli più lontani della mia mente, laddove il raziocinio e la razionalità ancora devono arrivare.
Dove non si decide con l’intelletto ma con l’intuito, con il cuore.
Fu lì che decisi. Che capii cosa avrei fatto.
Ben lontano dal voler svegliare la bella indiana, rimasi immobile.
Maghera mugugnò qualcosa nel sonno.
Sperai per lei fossero bei sogni.
La realtà era ed è sempre più dura e impietosa del peggiore degli incubi. Proprio perché è realtà, non puoi schivarla o aprire gli occhi e vederla sparire, non funziona così. Non è per cattiveria ma per necessità. Per quanto ci piaccia immaginare un mondo totalmente buono, dobbiamo arrenderci alla verità: ingiusto o meno, il male in una certa misura mostra la sua necessità di esistere. Un mondo interamente buono in breve tempo cadrebbe nel caos.
Provate voi a togliere lo Yang o Yin dal simbolo ancestrale del Tao e ditemi cosa vedrete!
Logicamente vi apparirà incompleto e indegno del suo significato proprio perché sarà cambiato. La luce serve tanto quanto l’oscurità. Non c’è motivo di fare paragoni.
Ma quella ragazza era sempre lì e non se ne sarebbe andata a furia di riflessioni e concetti filosofici di milleottocento anni fa.
O non se ne sarebbe andata da sola almeno.
O così credevo.
Comunque non importava: avrei atteso che si svegliasse.
Paziente.
Come sempre…
Lentamente il sonno mi travolse. Come se fossi destinato alla veglia perenne, mi svegliai qualche ora dopo. Sapevo di avere una faccia veramente spaventosa, il volto sciupato dall’assenza di sonno di quella notte, in aggiunta agli orari da urlo che avevo preso a fare negli ultimi giorni…
L’indiana, Jaswindar o Maghera (come aveva chiesto che la battezzassi dopo aver dovuto scegliere un nome da darle su sua richiesta), dormiva placidamente. Sembrava una bambina… così indifesa e tenera da muovere a commozione.
Invece non era indifesa… proprio per niente.
Aveva ucciso qualcuno.
E dormiva.
A guardarla bene appariva quasi spaventata, come se svegliarsi l’avrebbe rigettata in un incubo, in un gorgo da cui aveva finalmente potuto sperare di liberarsi.
Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo svegliarla. Così mi alzai, nel modo più lento e furtivo possibile. Penso che neppure Diabolik sarebbe stato così dannatamente silenzioso!
Non feci subito colazione. Contrariamente alle mie abitudini mi portai verso il bagno. Avevo in previsione di farmi una doccia quando la mia vescica si fece sentire. Immediato cambio di piani…
Ovviamente, mentre ero impegnato a scaricare litri di urina nella tazza del WC le domande ripresero a scorrere nella mia mente. Un fiume in piena.
L’incertezza era travolgente quanto la Grande Onda di Kanagawa (famoso dipinto giapponese del Milleottocento). Non ero per niente certo di aver agito nel giusto modo e la parte razionale di me tornava alla carica con teorie, prove, ipotesi, supposizioni e quant’altro.
Inutile: la decisione era presa e non si tornava indietro.
Dovevo solo trovare un modo per dirla alla bellissima ragazza che giaceva nel mio letto. Mentre mi spogliavo per farmi la doccia sentii uno sbadiglio.
Evidentemente si era svegliata.
Quello che non potei prevedere in un milione di anni fu che entrò in bagno, trovandomi completamente nudo e col mio sottoposto (pene) che iniziava le esercitazioni mattutine…
L’imbarazzo ci colse entrambi per qualche secondo prima che lei blaterasse qualche scusa e uscisse.
Completamente dimentico della doccia realizzai che quell’incidente avrebbe potuto avere conseguenze devastanti, catastrofiche oltre ogni possibile dire.
Avrebbe potuto credermi un maniaco e scappare.
Avrebbe potuto ritenermi uno stupratore e aggredirmi.
O avrebbe potuto voler fare sesso e basta…
Difficile dire.
Comunque mi lanciai fuori dal bagno dopo essermi messo i boxer e una canottiera. Trovai la bella indiana sulla porta.
-Aspetta!-, esclamai.
-Non è giusto che rimanga, ho già approfittato sin troppo della tua ospitalità.-, disse.
Mi bloccai. Come rispondere a questa frase?
-Ma sono io a chiederti di stare! Non hai neppure fatto colazione!-, dissi infine. Banale ma efficace, la giovane tacque per qualche secondo, paralizzata e divisa tra gentilezza e necessità prima.
-Sarebbe…-, non riuscii a trovare un aggettivo calzante ma alla fine me ne uscì alla meno peggio, -… un dovere per me offrirti la colazione.-.
Lei titubò ancora ma alla fine annuì.
Davanti a una tazza di caffè e fette biscottate con marmellata per lei e succo d’arancia e cerali per me, tentai di fare breccia nella sua volontà.
-Sai già dove andrai?-, chiesi.
-Ho… No.-, ammise infine, -Me la sono cavata sino ad ora, non preoccuparti.-, cercava ancora di andarsene.
-Sarei lieto di ospitarti ancora se vorrai…-, dissi.
-No… sono già rimasta troppo.-, disse lei.
Dannazione! La stavo perdendo.
Mio malgrado mi ero affezionato a lei. Rimasto da solo a lungo, abituato a relazioni saltuarie, stavo riprendendo contatto con l’amore vero, quello che illumina la vita come una fiamma.
Aprii la bocca una volta, due, poi la richiusi, riempita di cereali per sopperire alla mancanza di parole.
Ma quella giovane scaturita dalle nebbie del destino doveva essersi resa conto che qualcosa non andava. Mi fissava, tentando come d’infondermi forza.
O forse di mostrarsi forte?
Le sorrisi, tentando di mostrare una sicurezza che non avevo.
-Ci rivedremo ancora?-, chiesi.
L’indiana sembrò improvvisamente rabbuiarsi come se l’idea di perdere l’unico amico che aveva l’avesse improvvisamente folgorata, anzi devastata.
-Non lo so.-, ammise.
Poi si alzò.
Non parlai, non c’erano parole grandi abbastanza.
Lei mi abbracciò di nuovo.
Probabilmente sentì anche la mia erezione ormai prepotente.
Sicuramente non gliene fregò nulla poiché l’abbraccio durò parecchio.
Quando ci staccammo guardai in faccia Maghera. Era bellissima, terribile e prossima a sparire dalla mia vita.
Un’altra donna che se ne andava.
Se ne andò con un cenno finale di commiato.
Un’altra!
Un’altra se ne era andata!
Un’altra!
La mia mente non smetteva di ripetermelo ma qualcos’altro, di più profondo mi fece decidere di seguirla. Scattai tentando di essere più dannatamente silenzioso che potevo. Lei, totalmente inconsapevole svoltò in un paio di vicoli e arrivò alla porta di una casa.
Non sentii tutto il dialogo che ebbe con un tizio grasso e trasandato ma capii che cercava aiuto per passare il confine con la Svizzera.
Sorrisi pensando che forse avrei dovuto lasciare perdere.
Cambiai idea quando sentii dire dal bastardo che gli avrebbe dovuto fare un favore.
Quale fosse il favore era chiaro.
“No. Questo non lo permetterò!”, giurai a me stesso,
Cercando di resistere, la giovane puntava i piedi, tentava di divincolarsi. Il bastardo le tirò un ceffone e la fece sdraiare nell’androne. Ero quasi certo che non ci fosse nessuno a quell’ora in giro, era domenica ed erano le ferie natalizie… erano tutti dai parenti.
Tranne me.
Decisi. Scattai in avanti.
Tutta la mia vita avevo vissuto nella merda, sentendomi sputare addosso quanto ero inutile da tutti. Estrassi il coltellino tascabile che mi portavo sempre dietro, poco meno di dieci centimetri di lama. Il grasso si era posizionato tra le cosce dell’indiana che ora piangeva sommessamente.
Era talmente impegnato a cercare il tesoro che non mi vide arrivare.
Senza una parola gli puntai il coltello alla gola.
Il significato di una tale minaccia é sempre chiaro.
Infatti il bastardo non disse nulla, si limitò ad alzare le mani, alzandosi dalla giovane che mi guardava stupita.
Ero venuto a salvarla.
Ero tornato per lei.
-Io non voglio problemi amico…-, disse tremebondo il gigante.
Non ero calmo: un fiume di adrenalina mi scorreva per le vene.
Ma mi controllai.
D’un tratto, tentando di girarsi il bastardo mi vide.
Cazzo!
Tentò di reagire. Pura follia: sin da quando facevo la prima media avevo imparato che un uomo con un coltello è più letale di due a mani nude, a meno che questi non facciano arti marziali di primo livello e siano maestri.
Il grasso non lo era.
Cercò di tirarmi un pugno che schivai abbastanza agevolmente.
Prima che potesse tentare qualcos’altro, Maghera lo atterrò prendendolo da dietro. Il bastardo si liberò dalla sua presa, centrando l’indiana al plesso solare con un pungo.
Lei si piegò in due.
Quella visione mi mandò su tutte le fottutissime furie.
Ero stanco di quel genere di cose. In Italia ne avvenivano fin troppe. Lo vedevo sempre al TG, al punto tale che avevo staccato la TV: bastardi che schiacciavano i deboli sotto le suole degli scarponi. E tutti o quasi restavano impuniti.
La polizia lì non c’era.
Non sarebbe arrivata in tempo.
E non aveva motivo di arrivare: io ero la soluzione.
Come animate di vita propria le mie mani presero a colpite punti vitali del grasso. Il mio coltello cadde in un punto imprecisato.
Atemi, pugni, colpi con le punte delle dita, manipolazioni delle articolazioni.
Tutte quelle letture sulle arti marziali erano servite.
Il Grasso, barcollando tentò di fuggire, scansando la giovane semi-svenuta a terra.
Lo raggiunsi in un garage.
Che fare? Se fuggiva mi denunciava, se mi denunciava avrebbero trovato Maghera e se l’avessero fatto….
L’alchimia delle possibilità ridusse rapidamente le alternative.
Presi una sparachiodi dal vicino scaffale.
Non avevo mai avuto una bella mira.
Per la seconda volta in un giorno pregai gli dei.
La mano tremò.
Pigiai il grilletto.
Senza voler pensare.
Il Grasso era arrivato poco lontano dalla porta del garage.
Il chiodo da sette cm gli trapassò il bulbo rachideo, inchiodandogli il cervelletto. Mi avvicinai mettendo una mano sulla giugulare del bastardo.
Morto.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Presi un flacone di liquido infiammabile. Sparsi tutto in giro. Estrassi un fiammifero e lo buttai dentro. Il fuoco divampò. Un rogo funebre che avrebbe potuto portare requie all’anima di quell’uomo.
In attesa della sua prossima nascita.
Avevo lasciato impronte? Difficile che le avrebbero trovate. Nel dubbio pulii tutto quanto con molta cura.
Tornando da Maghera la vidi ancora in stato vagamente confusionale. Sanguinava da un labbro e dal naso. La sollevai prendendola in braccio. Raccolsi anche il coltellino, badando a non toccare altro. Dietro di me ruggiva l’inferno.
MI ero dannato per lei.
Non c’era redenzione ma chi la voleva?
Avevo fatto ciò che era necessario. Forse non era giusto ma era necessario. C’era una differenza fondamentale.
Ma non cambiava quasi nulla: il senso di ipocrisia mi avvolse come un sudario. Avevo perso il mio Karma per una donna dopo aver avuto un chiaro segno…
Lacrime presero a sgorgare dai miei occhi.
Avevo spezzato una vita per salvare un’altra anima dall’inferno?
Chi accidenti credevo di essere?
Davvero non c’erano altre soluzioni?
In genere qui arriva la fase in cui si razionalizza, in cui si pensa a cosa sarebbe successo se non si fosse fatto nulla.
Con me non arrivò.
Avrei solo mentito a me stesso.
Preferii riconoscere di aver ucciso e accettare la punizione che il Karma mi avrebbe dato. Nel mentre avrei aiutato la giovane a riprendersi.
Poi, se avesse voluto andarsene…
Non lo sapevo. Non ancora.
Maghera riprese conoscenza qualche ora più tardi, sdraiata nel mio letto, un pezzo di ghiaccio sulla guancia leggermente più scura.
-Tutto bene?-, chiesi.
-Io… Sì, mi fa un po’ male la faccia ma…-, si guardò attorno, calmandosi dopo aver capito di essere ancora a casa mia.
-Che fine ha fatto Giuliano?-, chiese.
-è morto.-, riuscii a dire.
-L’hai ucciso?-.
Domanda diretta, inevitabile.
-Sì, non ti farà più male.-, dissi infine.
Solo allora mi accorsi che stavo ancora piangendo per quel che avevo fatto.
Dov’era finito il Dharma che avevo tentato di seguire sin da quando avevo scoperto la bellissima mistica orientale?
Era così che si era sentito Arjuna dei Pandava prima di ingaggiar battaglia a Kurukshetra con coloro che erano stati i suoi maestri sin dall’infanzia?
Così aveva compreso che avrebbe mutato il Dharma, messo fine ad un’era, dato inizio all’oscurità?
Lui perlomeno l’aveva fatto per una ragione più valida della mia… o no?
Maghera, comprendendo il mio tumulto interiore, restava in silenzio.
-Ho ucciso un uomo.-, dissi infine.
-L’hai fatto per salvare una vita, per impedire che la mia innocenza venisse profanata.-, disse l’indiana.
Questa non la sapevo. Davvero era vergine?
Non che cambiasse molto.
-Mi stavi seguendo…-, disse lei.
-Sì.-, dissi io.
In mezzo ai rimorsi, alla disperazione, all’oscurità una luce spazzò le tenebre della mia anima.
-Perchè?-, chiese lei
Domanda critica! Me l’avesse fatta prima del ciccione avrei potuto anche rispondere ora non sapevo cosa dire.
Le parole tuttavia uscirono da sole, senza che il mio cervello potesse fare alcunché per bloccarle.
-Non volevo… non volevo perderti.-, sussurrai.
-Hai perso molto di più…-, il tono della giovane era compassionevole ma sapevo di non meritare la sua pietà.
-Già.-, dissi.
Il silenzio calò su di noi.
Pesante come una cortina di piombo, assoluto.
-Non volevo uccidere mia zia tanto quanto tu non volevi uccidere quell’uomo… L’ho spinta giù dalle scale… è stato un incidente…-, ora piangeva anche lei. Mi sentii solo più in colpa.
-Portiamo il peso delle nostre azioni. Entrambi abbiamo commesso atti ingiusti per buoni fini… Ora io so che quello che ho fatto non era giusto ma come te so che se non l’avessi fatto ora sarebbe stato mille e mille volte peggio…-, feci una pausa. Il dolore sordo era ancora lì, -Mi sento comunque male, fa malissimo.-, conclusi.
-Anche io.-, disse lei, -E ora forse sei in fuga come me…-.
La sua osservazione aveva senso ma ora come ora non mi importava. In quel momento mi premeva solo lei…
-Ti porto altro ghiaccio per la guancia.-, dissi.
Le portai il ghiaccio e poi, improvvisamente la giovane mi fece una domanda alla quale ebbi difficoltà a rispondere.
-Hai mai… Hai mai visto il paradiso?-.
Paradiso, etimologicamente viene dal persiano Parai-Deiza, giardini pensili. Sì, proprio quelli di Babilonia.
L’avevo conosciuto?
Non in senso stretto.
La mia mente l’aveva percepito con l’assenza del pensiero e la coscienza.
Il mio corpo l’aveva conosciuto col sesso.
La mia anima l’aveva conosciuto?’
Ancora non lo sapevo.
Perché mi chiedeva questo?
Non ne avevo idea…
-Perché… io l’ho conosciuto…-, Maghera parlava piano, lentamente, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo.
-Era un posto caldo, piacevole, c’era un uomo…-, quella descrizione mi era familiare.
-… Era gentile e mi ha salvata… condannandosi al posto mio.-, quelle parole furono come un balsamo per la mia anima. Mi sentii trascinato in alto.
-Ma non potevo restare…-, disse lei allora, smontando tutte le mie illusioni, -Ero macchiata dal male.-.
Mi avvicinai a lei. Tutto o niente.
-Il male è solo l’altra faccia del bene.-, dissi aggrappandomi disperatamente alla semantica.
-Non qui, non ora. Siamo troppo diversi…-, le sue parole mi fecero capire che forse quel discorso stava deviando verso una conclusione più realistica.
-Non è vero.-, dissi io, deciso.
Fuori le sirene infuriavano. I notiziari avrebbero presto dato notizia dell’incendio e del cadavere.
Per la prima volta, non mi importava.
-Io sono indiana… tu… ci sono molte cose che non capiresti.-, si rifugiava nelle tradizioni. Voleva evitare di essere ferita.
-Io non appartengo più a una nazione.-, dissi, lasciando che i sottintesi parlassero per me.
-Non sono esattamente di gran compagnia… non mi interesso di molto al di fuori di me stessa.-, cercò di dissuadermi lei.
Era ormai chiaro che non era più un semplice discorsetto per tirare la giornata.
Era divenuto qualcos’altro.
Un tentativo di persuasione reciproca.
-Io rimango isolato qui quasi sempre. Tutti i miei compagni fanno sport, escono a ubriacarsi, mio fratello ha un paio di lavori in corso, io sono l’unico che…-, pausa studiata, -Non è come gli altri.-, dissi.
Un’ennesimo stasimo
-Sono in fuga da quasi tre mesi…-, disse.
-Io forse dovrò fuggire da oggi ma cosa faresti se ti dicessi che c’è una possibilità di rinascere da un altra parte?-, chiesi.
Silenzio. Evidentemente l’avevo stupita.
Era l’asse nella manica che non avevo calato.
Mi guardò, una domanda scolpita sul bel volto.
-Io ho la doppia nazionalità.-, dissi, -Una casa in svizzera e alcuni amici nel settore dell’immigrazione. Se vuoi posso procurarti documenti, autentici, che ti diano il nome che desideri. Una nuova vita.
Una vita per una vita.
In Svizzera nessuno ti conoscerebbe, tranne me. Saresti nuovamente pura, nuovamente pronta a rifarti una vita.
Con me, se lo vorrai.-.
Silenzio.
Stava seriamente riflettendo.
-Tra noi non funzionerà…-, disse lei, -Io sono abituata a guardarmi le spalle a ogni passo…-.
-Pensa me che sono cresciuto con film di guerra e Bushido…-, dissi.
-Hai appena perso un’amante.-, mi fece notare.
ECCO!
-Sì.-, ammisi, non senza dolore, -Ho perso un’amante ma il Karma me ne ha regalata un’altra.-. Mi aggrappai a quella speranza sentendo che mi tornavano le forze, non quelle fisiche, ma quelle emotive.
Le misi una mano sulla spalla.
-Vogliamo davvero buttare quest’occasione? Guardami e dimmi che vuoi andartene e non ti fermerò.-, bisbigliai.
O Tutto o Niente.
Luce o Buio.
Dharma o Adharma.
Yin o Yang.
E si giocava tutto nei due minuti che succedettero alle mie parole.
-Io…-, sussurrò lei, evidentemente confusa.
Io tacevo. Avevo detto tutto quel che dovevo e potevo dire.
Ora era in mano ad altri poteri, ad altre entità, più alte di me.
-Sì.-, disse lei infine.
-Sì. cosa?-, chiesi io tentando inutilmente di star calmo.
-Taci…-, disse lei afferrandomi la nuca e traendomi a sé.
-Prima le signore.-, dissi io attirando lei verso di me. Tutte le mie tensioni svanirono quando le sue labbra sfiorarono le mie.
Fu probabilmente il bacio più bello di tutta la mia dannata vita. Non fu frenetico, ma lento, sensuale, pieno.
Quel genere di bacio che uno può sognare per tutta una vita.
Le nostre labbra giocarono le une con le altre.
Le nostre lingue si intrecciarono lentamente. sensualmente.
Scivolai sdraiato accanto a lei.
Continuando a baciarla.
Quando ci staccammo sorridevamo entrambi.
Ed entrambi sapevamo perché.
-Sono innamorato.-, ammisi.
-Anche io.-, confessò Maghera.
C’era come del sacro nel nostro amore, del solenne. Non del cerimoniale, non servivano cerimonie, l’amore stesso era cerimonia.
-Non pensi che stiamo bruciando le tappe?-, chiesi, improvvisamente timoroso.
-No.-, rispose lei sorridendo, -Anzi…-, s’interruppe per un’istante.
-Cosa?-, chiesi.
-So che stiamo entrambi pensando al passo successivo…-, disse lei, un sorriso malizioso sulle labbra scure.
“Questa ragazza mi capisce!”, pensai euforico.
-E la faccia?-, chiesi.
-Sta bene, grazie a te.-, disse l’indù in risposta.
Stavo disperatamente tentando di ritrovare l’altro me, l’amante indiavolato che aveva fatto godere Katherine, Maria, Laura, Maiko e Yoshiko.
Senza riuscire.
Intanto l’indiana si era riposizionata, ora era sopra di me, ondeggiando il bacino contro il mio.
Il mio pene implorava clemenza.
Che chiaramente lei non mi concesse…
D’un tratto entrambi ci rendemmo conto di avere fame.
Più che fisico fu una sorta di contatto telepatico. Fatto sta che scendemmo dal letto e andammo a mangiare qualcosa.
Del prosciutto, un po’ di grana e pane, innaffiati con della Coca Cola furono sufficienti.
-Parlami della tua famiglia…-, disse Maghera con un sorriso.
Cominciai a raccontare dei miei, una famiglia svizzera come tante ma totalmente diversa da tutte. Della mia infanzia difficile tra gli scherzi dei compagni e i giudizi dei docenti.
Tutte cose che lei sembrava conoscere bene, stando alla sua storia.
Intanto la libido montava…
Sentivo il mio pene come una sbarra di ferro.
Anche l’indiana doveva essersene accorta poiché, dopo una parentesi di silenzio, disse: -Non ti ho ancora degnamente ringraziato…-.
E a quel punto rischiai davvero di venire come un ragazzino al primo appuntamento.
-Giusto.-, riuscii a dire, -andiamo di là.-.
La camera da letto ci accolse come l’avevamo lasciata, rifugio sicuro dagli sguardi del mondo.
Maghera si fermò giusto davanti al letto.
Mi fermai anche io. Non avevo più nessuna fretta. La mia eccitazione era a stento contenuta. Resistevo. A stento ma resistevo.
-Spogliami. Lentamente.-, mi ordinò l’indiana con un sorriso che quasi brillava di luce propria.
Eseguii partendo dalla maglietta. Lei assecondò i miei movimenti. In pochi istanti la maglietta è via, tolta, abbandonata sul pavimento.
I suoi seni, ancora inguainati nel reggipetto aspettavano me. Chi ero io per prolungare il loro tormento?
Perfettamente immobile, la bellissima giovane attendeva a sua volta che io terminassi l’opera.
Conoscevo il rito tantrico che aveva iniziato a celebrare e, pur non avendolo mai praticato, potevo dire di credere nei suoi effetti.
Quindi mi misi dietro di lei, le slacciai il gancio del reggiseno e abbassai le spalline.
I suoi seni erano liberi. Si girò, mostrandomeli. Sorrideva ancora.
Non erano giganteschi… sarà stata una seconda ma sicuramente erano più che sufficienti a divertirsi. Lottai contro la tentazione di sfiorarle i capezzoli sapendo che avrebbe strappato il velo di bellezza che quel rituale ci aveva drappeggiato addosso.
Mi dovevo ora dedicare a spogliarla dei jeans e degli slip… Dio, quanto mi costava mantenere il controllo…
Le tolsi i jeans e rimasi per qualche istante in contemplazione degli slip, chiedendomi se era rasata o no, stretta o larga. Mi ripresi e, afferrandole per le anche, abbassai anche quelle mutandine al livello delle caviglie dell’indiana.
rimasi attonito davanti al pube glabro della giovane, delle labbra vaginali scure e del suo antro.
-Lo sento,-, sussurrò lei.
Era il segnale con il quale comunicava che ora toccava a me essere denudato.
Contrariamente a me, Maghera fu ben più decisa e, pochi minuti dopo mi ritrovai in boxer. Anche lei tentennò qualche secondo e, dopo avermeli tolti, si trovò davanti una picca di carne che implorava per potersi infilare in un buco caldo, morbido e umido. -Lo sento.-, dissi io.
La prima fase era finita, lei si alzò e ci guardammo.
Dovetti fare uno sforzo enorme per evitare di balzarle addosso. Vederla nuda toglieva il fiato, era come un pugno allo stomaco.
E lei lo sapeva.
Fu un’avvicinamento lento ma alla fine fui vicino a sufficienza per incominciare la seconda fase: la presi per mano e ci sdraiammo sul letto.
In perfetto silenzio presi a percorrere delicatamente i tratti del suo volto con le dita. La sentii appena sussultare quando scesi sul collo. Evidentemente soffriva il solletico.
La gola, le clavicole, le spalle, lentamente scendevo verso i seni. Che raggiunsi poco dopo. La sentivo bisbigliare qualcosa, credevo fosse un mantra di consapevolezza ed effettivamente lo era. Presi a sfiorarle i seni. Ero tentatissimo di strizzarglieli ma mi contenni. limitandomi a fare giri concentrici. Quando arrivai ai capezzoli notai che si eressero quasi subito. Un gemito da parte di Maghera mi informò di quel che già avevo capito.
Aveva i seni molti sensibili…
Scesi lungo lo stomaco, notando anche quanto tutto il tempo passato a scappare l’avesse cambiata: era leggermente magra, più delle altre che avevo conosciuto. Comunque appariva anche più in forma di loro.
E più scendevo più era difficile controllarsi.
Arrivato al pube dovetti fermarmi a respirare poichè mi ero accorto di stare ansimando. Le mie dita dipinsero arabeschi su quella meravigliosa superficie color cuoio.
“Come diavolo fanno a controllarsi tanto, i cultisti del Tantra?”, mi chiesi mentre seguivo il profilo delle grandi labbra dell’indiana. La sentii gemere appena mentre passavo su quel punto così sensibile. Infine, passai sullo sfintere, e sulle gambe con ambo le mani, sino alle punte dei piedi.
Ora toccava a me. Mi distesi sulla schiena.
Lei mi disse qual’era il mantra della consapevolezza e prese a sfiorarmi il volto con le dita. Tra quelle, i suoi capelli che mi accarezzavano, e io che soffrivo il solletico, oltre all’eccitazione priapea che mi spuntava tra le gambe, fu un’avventura limitarsi alla consapevolezza.
Soprattutto quando passò il suo indice sul mio pene…
Finito quel rituale di controllo, lei si sdraiò su un fianco. Intuendo cosa volesse fare, mi sdraiai anch’io. Eravamo in una posizione di 69.
-Ora ci daremo piacere sino ad essere sull’orlo dell’orgasmo, poi ci fermeremo.-, disse Maghera. Niente avrebbe potuto essere più consono alle mie aspettative: immersi la testa tra le sue cosce, aiutandomi con le dita, sondando la sua intimità.
come sospettavo, era come assaggiare un nettare squisitamente dolce… Dannazione, dal sapore sembrava davvero esserci del fruttosio, da qualche parte lì dentro…
Comunque lei intanto aveva preso a farmi una pompa. Non troppo pratica, aveva cominciato col baciarmelo e leccarmelo e nonostante fosse ancora impacciata, aveva presto preso il ritmo.
Ora lo succhiava proprio.
Ero in paradiso.
La cosa più bella era sentire la mia lingua nella sua vulva umida e calda e le mie mani sul suo seno. Maghera aveva invece preso a stuzzicarmi i capezzoli con una mano. Non sapevo che potessero essere tanto sensibili. Tra quello e il pompino ormai perfezionato ero prossimo a venire e, a giudicare dalle contrazioni della vulva, anche lei.
Ci fermammo con un segnale: lei mi fece sentire appena i denti sul pene, io la pizzicai all’altezza dell’ombelico.
Ci alzammo, recitando il mantra del controllo. Una vera sfida.
L’avevo già fatto da solo, molte volte, quando ancora non avevo una ragazza. Ora era dieci volte più difficile.
Ricordai che l’energia sessuale che ora gravitava (secondo i testi tantrici) attorno al mio primo e secondo Chakra poteva essere usata, canalizzata verso i Chakra superiori. Mi sedetti il più dritto possibile fissando la punta del naso, dirigendo la mia attenzione tra le sopracciglia, verso quello che era il terzo occhio.
Funzionò: sentii la pressione defluire, appena un po’ ma sentii l’energia mutare, andare verso l’alto. La mia eccitazione non si era placata ma era divenuta parte naturale del contesto…
Tutti quei libri sulla mistica indiana erano serviti a qualcosa.
Notai che anche Maghera stava applicando una tecnica simile. Dopo qualche istante mi sorrise e io le sorrisi.
Scese dal letto frugando tra i nostri vestiti e trovò il mio telefonino. Cercò il conto alla rovescia (pur essendo un Nokia di quelli vecchi aveva tutto quello che serviva e anche di più), lo impostò e lo fece partire.
-è stato bello.-, dissi, -Ma so che il meglio deve ancora arrivare.-.
-Esatto.-, rispose lei, -Mi sembra che tu abbia già fatto cose del genere, quindi saprai che ora dobbiamo aspettare un’ora prima di ricominciare e godere.-.
Purtroppo lo sapevo. Era il prezzo da pagare per il lieto fine del coito.
Ciò nonostante mi avvicinai a baciarla. Lei indietreggiò.
-Nessun contatto fisico sino alla fine della pausa. è la regola. Non puoi neppure toccarti e lo stesso vale per me.- chiarì.
Facile a dirsi: il mio pene era una stanga di ferro…
-Dobbiamo anche restare nudi.-, ricordai.
-Vero.-, asserì l’indù annuendo.
-Faremo bene a trovare qualcosa da fare per ammazzare il tempo.-, dissi.
Lei annuì ancora, bellissima nonostante chiaramente stesse morendo di voglia e questa la rendeva solo più bella.
Breve pausa di silenzio.
-Sai giocare a Go?-, chiesi.
Il Go, un gioco da tavolo inventato dai cinesi nel 500 a.C, si gioca su una tabella di 18×18, due giocatori mettono una pedina a turno, cercando di creare aree di intersezioni in cui l’avversario non può entrare. Per catturare un gruppo di pedine bisogna togliere loro le libertà (ovvero occupare le intersezioni più vicine a loro corrispondenti ai punti cardinali, intersezioni in veduta diagonale non valgono come libertà).
Difficile giocare a un gioco che richiede il doppio della concentrazione degli scacchi quando la tua avversaria è nuda.
Vidi subito che a lei giochi del genere non piacevano molto: prendeva troppo tempo per pensare, si muoveva senza entusiasmo, accoglieva passivamente con sopportazione remissiva le mie mosse.
Tuttavia, dopo un po’ tentava di mettermi in difficoltà, divenne competitiva. Almeno a giudicare dallo sguardo.
Dopo quasi cinquantasette minuti di partita, vinsi con 13 spazi su due prigionieri.
Lei aveva 4 spazi e cinque prigionieri. (I prigionieri, le pedine catturate, riempiono gli spazi)
Mettemmo via con sollecitudine.
-Niente male.-, dissi, -è stata una bella partita.-. Le avrei anche teso la mano ma, proprio in quel momento, il cellulare vibrò, il cronometro aveva segnato l’ora.
-Grazie.-, disse lei stringendomi la mano. La attirai a me, senza troppi complimenti.
Ci fiondammo in camera da letto, baciandoci come ossessi.
Arrivammo al letto che quasi esplodevamo. Sentivo l’indiana ansimare come un mantice. Le infilai due dita nella vulva,
sentendo il suo imene, l’ultima barriera che avrei presto abbattuto.
Lei intanto aveva preso a segarmi. Ci buttammo sul letto a corpo morto.
In testa avevo solo l’idea di unirmi con quella meraviglia di ragazza, tutto il resto era divenuto insignificante. Contava solo l’adesso.
-Sopra o sotto?-, chiesi.
-Sotto.-, ansimò lei.
Strofinai il mio membro sulla sua vulva umida, per eccitarla di più. Volevo fosse indimenticabile, incancellabile.
-Penetra la mia yoni…-, sussurrò. (yoni è il vocabolo sanscrito che i tantristi usano per indicare la fica, per chi non lo sapesse).
Entrai un centimetro alla volta sino ad arrivare a toccare l’imene.
-Da qui, Jaswindar finisce e Maghera inizia.-, disse lei, trasognata.
-Sì.-, dissi io.
-Ti amo.-, disse lei.
-Lo so.-, risposi io.
Sorridemmo.
Presi la rincorsa col bacino.
Le accarezzai i seni, strizzandoglieli dolcemente.
Gemette piano.
Un secondo di pura estasi ci avvolse.
“Ora.”, mi urlò il mio istinto.
Spinsi.
La parete di carne che dovevo violare si tese, si tese e infine si strappò.
Maghera emise un singulto, il volto oscurato per un istante dal dolore.
Il mio pene entrò sino in fondo.
-ahhhhhhhhhhh….- un sospiro di puro godimento proruppe dalle nostre gole.
Mi chinai a baciarla. Fu solo un’istante poiché stavamo godendo entrambi, i nostri bacini lanciati in una danza folle. Sentivo la sua intimità caldissima e umida accogliermi.
Era fantastico…
Cambiammo posizione, lei si mise sopra di me, io ero seduto. Il ritmo aumentò mentre ci scambiavamo boccate di saliva.
-Vengo…-, dissi.
-anch’io…-, disse lei.
Ci fermammo un’istante.
Sincronizzammo il ritmo. Spinte profonde, i nostri corpi si fusero in uno, mi sentii appagato come non mai. Quando venimmo all’unisono, lei mi inzuppò il pube, probabilmente aveva pure squirtato, io la riempii notevolmente, furono almeno sette scariche di sperma incandescente.
All’apice del piacere entrambi ribaltammo la testa all’indietro emettendo un grido prima afflosciarci sul letto.
Privi di forze ma felici come non mai. Sdraiato, riemergevo dal dormiveglia.
Maghera dormiva ancora, avvinghiata a me, stava usando il mio braccio destro come cuscino.
Rivisitai per un istante il recente passato, la scopata a dir poco eccezionale che avevamo fatto.
Gettai uno sguardo all’orologio. Erano passate appena un paio d’ore.
Notai i nostri abiti sparpagliati per la camera.
Certo che anche durante un rito tantrico uno può perdere il controllo, in più modi.
Il mio letto era sfatto in una maniera bestiale. Nemmeno con Katherine avevo raggiunto un risultato tanto caotico.
Chiaramente però la cosa che mi colpiva maggiormente erano delle piccole macchie di sangue.
Sangue versato…
Il sangue che entrambi avevamo versato….
I ricordi mi aggredirono.
Il peso della vita che avevo reciso mi crollò addosso, singhiozzai, consapevole che nessuno, nessuno a parte quella giovane così bella, apparsa come da un sogno avrebbe mai potuto comprendere.
Sapevo che il Karma mi avrebbe presentato il conto, avrebbe fatto sì che io pagassi per i miei peccati. Se non in questa, nella mia prossima vita.
Ero pronto.
Non pretendevo redenzione, avrei voluto molto fosse possibile ma non la pretendevo.
Non più.
Avevo attraversato la linea, questa volta definitivamente.
Là fuori migliaia di persone si sarebbero svegliate, avrebbero rimesso in moto la ruota, ricominciando a lavorare, a vivere, a scopare, a fare tutto quello che facevano.
Io e Maghera invece eravamo incatenati al sangue che avevamo versato. Non importava quante identità lei o io avremmo cambiato. Il rimorso ci avrebbe sempre trovati.
Come avvertendo il mio turbamento, una sua mano mi accarezzò il petto, fermandosi in corrispondenza del cuore. Si strinse a me, avvinghiandosi ancor di più, come a volersi fondere con me, come se fosse stata convinta che io l’avrei protetta, difesa.
Sospirai. Neppure sapevo se ne sarei poi stato in grado. Ogni cosa stava slittando, scivolando verso il baratro.
Una cosa mi consolava, forse l’unica:
Se eravamo persi, se realmente non c’era redenzione, lo eravamo in due.
“Cosa posso fare per evitare la catastrofe?”, aveva domandato un tempo un re, venuto a conoscenza di una prossima catastrofe.
Il suo Guru gli disse che neppure immolandosi tra le fiamme del fuoco sacrificale gli sarebbe stato possibile evitare il disastro.
Solo sopravvivervi era possibile. Solo quello.
E io e quella giovane saremmo sopravvissuti. Se tutte le mie certezze erano state infrante, una sola restava:
Non l’avrei abbandonata. Mai.
Saremmo dovuti partire presto. Non subito, ma presto.
E avremmo abbandonato quel paese. La cosa non mi dispiaceva. Per certi versi, Como, Ponte Chiasso e tutta la provincia mi avrebbero solo fatto soffrire.
Avrei perennemente ricordato Katherine e Maria, senza mai poterle riavere.
La comparsa di Maghera aveva in quel senso un duplice significato. Era un segno, un invito a non darsi per vinto e la fine di tutte le mie illusioni.
Lo trovai buffo, quasi comico non fosse stato lordo del sangue.
Per tutta la vita avevo visto film di eroi che avevano combattuto il male. Ora ero uno di loro. E stavo di merda.
Non solo: avevo fatto la cosa giusta ma nessuno o quasi mi avrebbe dato ragione. C’erano delle attenuanti ma sicuramente nessun tribunale ne avrebbe tenuto conto.
In ultima analisi, se io potevo essere scarcerato dalla situazione, Maghera (o Jaswindar, qual’era il suo vecchio nome) avrebbe sicuramente avuto meno fortuna.
Nella remotissima e improbabile ipotesi che un tribunale la scagionasse, la sua famiglia non avrebbe avuto pietà.
Mi tornò in mente Vivi per un miracolo, dei Gemelli Diversi.
Io ce l’avevo avuto un attimo per lei. Avrei continuato ad averlo.
Perché se fare la cosa giusta era consegnarla, allora preferivo infrangere la legge e continuare a guardarmi allo specchio senza problemi.
Tutti gli anni in cui avevo subito offese, mi ero sentito dire ingiustizie da tutto e tutti, avevo accumulato tanta di quella rabbia che non ce n’è modo di descriverla. Eppure, avevo avuto la forza di decidere di non agire come coloro che mi insultavano. Avevo decido, scelto, di essere migliore.
Durante lo scontro con Giuliano o come cavolo si chiamava, tutta quell’energia era venuta fuori, spinta fuori dal solo ed innegabile sentimento che provavo per l’indiana stesa al mio fianco, quel legame affettivo che avevo tanto temuto.
L’amore.
Quello che mi aveva sempre dato buca, che avevo rinunciato a cercare e che alla fine mi aveva trovato.
Sorrisi. No, decisamente non tutto il male veniva per nuocere.
Senza una ragione presi ad accarezzare il fianco della giovane da sotto un seno sino alla natica. Un centimetro alla volta.
Non volevo svegliarla e allo stesso tempo volevo essere sicuro che fosse reale.
Quando fremette mi resi conto che forse avrei dovuto smettere. Contro ogni logica continuai.
Infatti, pochi istanti dopo si svegliò.
-Ho usato il tuo braccio come cuscino… Per…-, stava tentando di recuperare un minimo di cognizione del tempo.
Sorrisi.
-Per quella meravigliosa esperienza che abbiamo condiviso, avresti potuto usarlo molto più a lungo.-, dissi.
-è stato…. mi mancano ancora adesso le parole per descriverlo.- ammise dopo qualche istante.
-Pronta per il secondo round?-, chiesi con un sorriso accattivante.
Maghera sorrise.
Poi semplicemente mi baciò. Fu come il primo bacio, tutti dicevano che non era possibile che ne esistessero due uguali. Non era vero: quel bacio era emozionante, eccitante e bello come il primo.
Inconsciamente lei ora era sopra di me.
Dire che la posizione mi stava eccitando sarebbe stato un monumentale eufemismo: il mio pene prese a ergersi, contro di lei.
-Vuoi davvero farlo qui?-, mi chiese.
-Perchè no?-, chiesi io. Ero confuso: le sue parole e il suo corpo mi stavano telegrafando segnali totalmente diversi.
L’indù sorrise, un sorriso bellissimo, brillante nella pelle bruna.
-Credo che entrambi abbiamo bisogno di una doccia…-, disse, ammiccando.
Immediatamente realizzai quanto fosse dannatamente più avanti rispetto a me.
Ci mettemmo meno di tre secondi a fiondarci in doccia. Il box doccia era piccolo, forse scomodo ma fu essenzialmente perfetto: Maghera si avvinghiò al mio corpo come le Dakini nella tradizione tibetana.
-Prendimi…. fammi tua e diventa mio.-, disse baciandomi.
Entrai dentro di lei, usando la parete come appoggio. Sentivo il mio pene come una sbarra di ferro. Mi immersi dentro l’indiana. Ancora e ancora.
A ogni spinta sentivamo entrambi più vicino il piacere.
L’acqua flagellava ma aggiungeva solo atmosfera alla situazione.
Le baciai i seni. Maghera emise un gemito prolungato nel venire una prima volta.
Non mi fermai. Non ero ancora venuto e neanche lei era sazia.
Le mie mani la reggevano. La destra si avvicinò al retto, cercando lo sfintere.
Lei sorrise. -Lasciamo un po’ di magia per quando si tratterà di inaugurare il nuovo letto.-, disse.
Ero d’accordo e rinunciai al mio proposito. L’indiana prese ad andare su e giù, sfruttando la gravità per impalarsi meglio.
Il bagno si riempì di vapore acqueo mentre i nostri gemiti e lo scrosciare dell’acqua divennero i soli rumori di sottofondo.
“Grazie al cielo i miei vicini sono in vacanza…”, pensai.
Fu solo un istante. Mi svuotai nell’indù esattamente durante quel pensiero.
La sentii mordermi la spalla mentre godeva a sua volta.
Molli sulle gambe ci lavammo in silenzio e solo allora mi venne un dubbio.
-Maghera… tu hai intenzione di avere figli?-, chiesi, un (bel) po’ a disagio.
-Perchè questa domanda?-, chiese lei.
-Beh… ti sono venuto dentro due volte… non vorrei…-, dannazione, l’imbarazzo rischiava di bloccarmi. Quando si parlava di affrontare discussioni del genere con le donne il mio talento per l’eloquenza se ne andava.
Lei mi baciò, fugacemente stavolta, mentre uscivamo dalla vasca, dividendoci il telo per asciugarci.
-Io sono sterile dopo un incidente di un paio di anni fa.-, confessò. In quel momento mi chiesi se realmente il Karma mi stesse punendo o premiando. Non lo sapevo, non sapevo più nulla. Sapevo solo di amarla.
Ci abbracciamo, restando fermi per molto più tempo di quello che ci sarebbe voluto ad asciugarci.
Passammo la serata a prepararci, progettando la partenza. L’indomani comprai alcuni vestiti per lei in tre diversi negozi (seguendo le sue indicazioni).
Preparammo i bagagli e, la sera del giorno dopo, varcammo il confine con la svizzera.
La nostra avventura era appena iniziata.
Complimenti per la facile lettura e presa diretta
ciao cara,ho letto attentamente il tuo racconto ad alto contenuto erotico, e debbo dirti, per quanto possa sembrare raro, che…
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?