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Erotici Racconti

Azteca Bar

By 6 Ottobre 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

 

Azteca Bar

 

Sapevamo entrambi come sarebbe finita, sin dal primo giorno, salendo sulla sua macchina dopo che lei si era offerta di accompagnarmi a casa per la prima volta. Sarebbe finita con le accuse, con i suoi pianti, violente scopate. Dopo diversi mesi lei sarebbe scappata a Cipro. Io avrei cambiato lavoro per evitare di incontrarla ancora.

Erano le sei di sera, uscivamo dallo studio sul cantiere e c’era molto traffico sulla M4 che porta dall’aeroporto al centro città, e poi a casa mia. Lasciata giù la macchina davanti il portone avevamo camminato verso Beaufort Street, per fermarci in quel posto che ora non esiste più, l’Azteca Bar, all’angolo con Kings Road. C’erano dei divani di pelle consumati, pochi tavolini, una bella ragazza dietro al banco che ci serviva rum con la menta.

***

E pensare che tutto era nato per provocazione. Intensa provocazione. Erezioni improvvise, scambi di occhiate, sussulti; in una occasione ero anche venuto nelle mutande dall’eccitazione. C’erano giorni in studio che non riuscivo a fare niente, tanto era la mia voglia di averla. Ci eravamo conosciuti a pranzo, attraverso un amico e collega in comune. Era un ragazzo un po’ distratto, un omosessuale sui 37 che non faceva altro che raccontare di inculate tra lui ed il suo attuale marito. Lei andava in calore ascoltando le sue storie. A me veniva duro sapendo quanto lei fosse incuriosita da tutto questo. Non ci conoscevamo ancora, piuttosto era l’intuito che aveva già detto tutto dell’uno e dell’altra.

Da quel giorno avevo iniziato a frequentare assiduamente lo stesso ristorantino per pranzo. La mia giornata era scandita dagli unici momenti in cui sapevo di poterla vedere. Anche per lei era così. Le nostre chiacchiere, i discorsi, le battute, giravano tutte attorno al sesso, incuranti di chi ascoltava al tavolo vicino al nostro. Era palpabile il desiderio di arrivare proprio a quella parte di noi, quella che si riesce a mostrare solo a poche persone, quella che ha bisogno di essere simile e familiare per poter essere eventualmente compresa. E’ come voler farsi riconoscere da qualcuno, per intenderci, perché sappiamo che dall’altra parte c’è una persona che può e sa parlare la stessa lingua.

In quel periodo io facevo sesso con un’altra donna, l’assistente del mio dentista. Ero decisamente più vecchio di lei ma non riusciva a smettere di strusciarsi appena poteva e di mostrarmi il culo perfetto che nascondeva sotto il camice bianco, abbottonato fin sotto il collo. Era un frutto che profumava ancora di verde, appena maturato. Un frutto nuovo e senza macchie, un po’ asprigno ma già così pieno di zuccheri che enormi sciami di insetti gli giravano costantemente attorno. La prima volta lei aveva 17 anni, io 30 più o meno. Sudava come una matta quando mi parlava e non faceva altro che fissare gli appuntamenti prima della chiusura dello studio dentistico per potermi seguire fuori poco dopo. Nella mia testa, la possibilità di scopare dopo una seduta di fastidio e dolore, aveva raggiunto un significato di ricompensa. Non solo. Era come tornare ragazzino, quando le coetanee guardavano i ragazzi più adulti ed io lì ad accusare e dispiacermi per non poter farle mie. Ora era il mio turno, ora era tutto molto più semplice e chiaro. Non soffrirò mai per te, non mi serve più il tuo stupido amore, è infantile, non so cosa farmene. Volevo farmela senza rispetto e in fretta. Non avevo tempo per lei. Giusto quello per venirle addosso e poi svanire senza lasciar traccia, come l’effetto dell’anestetico. Si presentava nella mia macchina con il camice ancora addosso e le mutandine in tasca. Le lasciava sul sedile apposta perché voleva che le tenessi io, che le lavassi e riportassi la volta successiva. Segnava il territorio come una cagna. Si dava tutta. Io avevo la testa altrove, anche quando la vedevo stringere i denti mentre glielo infilavo dietro e mi guardava con quell’aria da ragazzina che vuole far vedere di essere già cresciuta. Chissà che cosa pensasse veramente di me. Me lo sono chiesto una volta. Che cosa potesse capire della mia persona e perché mai fosse pronta a fare di se stessa solo il mio passatempo post otturazione. “Vuoi far la grande?” ripetevo in testa tra me e me, “ e allora da grande si soffre, bella” continuando a spingere il mio cazzo più in fondo che potevo.

Lei invece era più vecchia di me di qualche anno, viveva con un inglese da diverso tempo ormai e avevo capito che con lui a letto le cose non andavano poi tanto bene. Non erano mai andate bene. Soprattutto era il letto che non le piaceva, ma questo si palesò solo nei mesi che seguirono. Il suo compagno era un uomo in gamba, affidabile, onesto. Lo avevo conosciuto nel periodo in cui io già possedevo la sua donna. Non scopavamo ancora ma provavo vergogna. Ero dispiaciuto in fondo, almeno quanto la cosa mi piacesse per contro. Forse era un po’ rigido come tutti gli inglesi, con poca fantasia e a dir di lei un po’ incline a fare sesso con misura, a viverlo quasi con pudore. L’idea che mi ero fatto io invece era tutt’altra e sotto sotto potevo anche capirlo, l’inglese.

Una sera, in occasione della festa di saluto per un collega che lasciava il lavoro, ci eravamo ritrovati un po’ tutti in un locale a Hoxton Square. Io ero da solo, lei con il suo compagno. Che triste spettacolo deve essere stato per lui. Vedere come la sua donna voltasse gli occhi per seguire ogni mio passaggio. Quei brevi istanti in cui mi avvicinavo per scambiare due parole, la mia presenza lo metteva in imbarazzo, misurava la sua impotenza davanti a qualcosa che non poteva capire. E che sottile piacere invece era per me, sapere che avrei potuto scoparla anche lì tra la gente, sui tavolini, nel cesso, in pista, dappertutto. E lei…lei moriva dall’invidia. Invidia, certo. Non gelosia.

Nel vedermi fare il filo ad una ragazza indiana con la pelle olivastra, mi aveva infine seguito nel bagno per spiarmi, magari sperando o forse pensando di poter assistere mentre me la facevo. Invidiava la mia libertà dopotutto, e l’indiana che poteva prendersi quello che a lei non era ancora stato concesso. L’inglese, come un poveraccio disperso in un mare troppo profondo e fortemente mosso, consumava le scarpe alla ricerca della sua donna: “You want to drive me nuts, don’t you! Where the hell have you been darling! I was looking for you”.   Era esuberante, incontenibile. Un animo semplice e discreto non avrebbe potuto reggerla. Leggevo bene la sua natura, il suo mondo. Il desiderio per me, come per lei, non poteva che essere figlio di una situazione, di una fantasia. Non è passione, non è amore, non è un dono. Il desiderio non può che stare all’estremità, mai al centro. Non ci può essere equilibrio. Il sangue per arrivare alla testa e poi al cazzo deve subire una spinta forte, prima verso l’alto e poi verso il basso.

***

Arrivati all’Azteca, rimanemmo seduti tre ore suppergiù. Molto rum e qualche pezzo di frutta fresca. Non ci eravamo mai toccati, nemmeno sfiorati e ci si conosceva forse da tre o quattro mesi.

Feci caso a come lei tenesse le gambe accavallate e come facesse dondolare quella sinistra ritmicamente. Qualche settimana dopo mi avrebbe confessato che si stava stimolando delicatamente, con quel piccolo movimento ondulatorio che trasmetteva un lieve sfregamento al clitoride e faceva aumentare la salivazione e la voglia che aveva di prenderlo in bocca. Non ricordo bene di che cosa avevamo parlato perché eravamo molto ubriachi e l’intesa e il desiderio di andare oltre mortificava ogni plausibile conversazione. Eravamo in attesa ed eccitati.

Continuavo ad avere momenti di erezione, lei se ne accorgeva perché era così evidente che non tentavo nemmeno di nascondere il mio uccello, stendendo le gambe aperte. Quando tolsi la cravatta prima di alzarmi per uscire dall’Azteca e apersi i primi bottoni della camicia, lei si bloccò a fissarmi. Strinse le gambe ancora di più e notai il petto ed il collo diventare tutto rosso all’improvviso. Si mordicchiò le labbra velocemente, erano diventate così secche che dovette bagnarle con la lingua. Aveva gli occhi lucidi e spalancati, le guance rosse infuocate e lasciò fuggire una risatina di circostanza. Si schiarì la voce ed uscimmo.

La strada era bagnata, scivolosa, umidiccia. Erano già le nove di sera, ma la luce ancora tardava a calare. Una pioggerellina fitta e nebulosa che dava solo noia. La vedevo consultare il telefono di tanto in tanto e pigiare qualcosa sul tastierino. “Sono con colleghi, arrivo per cena fra poco”, stava scrivendo. Casa mia non era distante, coscienti che il tempo a disposizione era da lì alla sua macchina. Tenevo la mano destra in tasca, avevo il cazzo duro e lo stringevo in punta pizzicando il frenulo tra il pollice e l’indice. Lei lo sapeva. Avevo perso qualche goccia che aveva attraversato le mutande e avevo portato le dita al naso un paio di volte per annusare l’odore del mio sesso. Perdevo la ragione, come un pescecane seguivo la scia di sangue. Ciecamente.

Svoltammo dentro Cranley Gardens.  “Come facciamo adesso?” disse lei senza guardarmi e aggiustando i capelli biondi dietro l’orecchio. Rividi tutti gli orecchini, ne aveva forse quattro o cinque su quello destro e un bellissimo pendente lungo e dorato. Camminavamo tra le macchine parcheggiate e le case vittoriane, incrociando di tanto in tanto qualche passante. La presi per un braccio, la sentii fremere d’un tratto. Sulla destra c’era l’ingresso di una delle case ottocentesche tutte in fila ed uguali. Pochi gradini che salivano portavano ad una porta nera e lucida, con un grande anello di ferro proprio al centro. Per terra, il pavimento era a scacchi bianchi e neri, brillanti e riflettenti con un velo d’acqua sopra. 

La strattonai e scendemmo invece i gradini che portavano all’ingresso del seminterrato. La grande bow-window traspariva luce dietro la tenda bianca. C’era qualcuno dentro e lampi colorati creavano un effetto surreale attraversando la stoffa tesa. Guardavano la tv. La sbattei forte contro il muro. Non ci baciammo. Lei si abbassò velocemente sedendosi sui talloni e aprendo le gambe come fanno le donne cinesi per le strade di Pechino. Aprì il cappottino di pelle marrone ed io con uno strappo deciso liberai la mia verga dalla morsa dei pantaloni. Era piena di sangue e rigida. Un filo di sperma si allungava verso il basso e lei lo colse con la lingua per assaggiare. Glielo feci annusare e schiaffeggiai le sue guance con una mano. Lei rantolava, aveva già una mano tra le gambe e si stringeva la fica premendo forte. Lo voleva in bocca. Non ce la faceva più. E lo prese. Durai pochi secondi per poi venire prepotentemente sulla sua faccia, in bocca, sui capelli, sul cappottino, sulle scarpe. Lei continuava ad ansimare e a premere sulla fica, con la lingua ancora fuori. Io feci un urlo, menai il cazzo forte e lo spremetti dall’attaccatura fino alla punta per farle avere tutto il mio latte. Odore di sperma. Avevo appoggiato la fronte contro il muro e anch’io adesso ansimavo con lei.  Poi silenzio. E il rumore di macchine che transitavano a pochi metri.

Ci sistemammo in fretta perché qualcuno si stava avvicinando. Ci avevano visto perciò avevamo preso a camminare con passo deciso in direzione opposta, verso casa mia. In pochi minuti eravamo arrivati alla macchina, senza dire una parola e con il cuore che pompava ancora forte. Salì in macchina e abbassò il finestrino: “Ci sentiamo domani”, disse.  Si mise a ridere ed io con lei. Ci baciammo e apprezzai il gusto del mio sperma sulla sua lingua. Entrai a casa. Corsi al bagno e mi masturbai ancora.

Era solo l’inizio di un’altra mia nuova ossessione.

 

scritto il 28/09/2011

 

 

 

 

 

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