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Erotici Racconti

Come un’ombra

By 21 Aprile 2017Febbraio 2nd, 2023No Comments

Io rientro a casa da un viaggio e ritrovo le ombre di sempre, i dettagli, le sfumature, gli spigoli e le tonalità familiari, generalmente incoraggianti e rassicuranti. Poso frattanto la borsa e mi godo il ritorno del pomeriggio piovoso che m’ha accolto con la solitudine che mi circonda dove mi bisbiglia voci che ho lasciato da poche ore, in quanto è un’amica affezionata, fedele e veritiera. Sono serena e soddisfatta, tutto mi sembra nuovo, giacché l’incanto dell’avventura, la scoperta dell’aspetto pirata che dormiva in me m’hanno modificato, oserei dire pressoché trasformato. Mi guardo allo specchio, senza però trovare nulla di diverso nel viso che mi fissa, eppure alle spalle del mio riflesso c’è un alone, l’abbraccio e la stretta d’un fantasma, la presenza d’un ricordo.

La mia pelle attualmente è più luminosa, poiché la doccia e il sapone non possono portar via molto di più della stanchezza di tante giornate intense e di nottate calde, però adesso mentre l’acqua scivola sulle spalle sento altre carezze e sorrido bonariamente con gli occhi chiusi, perché mi ritorna in mente l’incontro quasi disinteressato e impersonale con quell’uomo che m’ha agguantato la valigia dal nastro trasportatore, m’ha chiamato un taxi e m’ha fatto accomodare dentro con la sicurezza fiduciosa e tranquilla di chi sa qual è la cosa migliore, mentre io donna del ventunesimo secolo non riuscivo a fare altro che fissarlo cercando di ribattere a tanta buona creanza e deferenza. Dico la verità, credetemi, dal momento che m’aspettavo un approccio, un primo contatto, però è sparito prima che potessi trovarmi nell’imbarazzo di dire al conducente dove andare, così ho iniziato a sorridere fino al centro di Londra, adagiata su quella vecchia Bentley nera e dignitosa come una dama del periodo della belle époque. L’autista è anche simpatico, infatti si parla di tutto un po’, adora la sua auto e mi pare un gigante buono. Io sono arrivata all’hotel e ho iniziato l’abituale danza dell’apertura della valigia, mangiando dell’uva e controllando lo scorrere del Tamigi, sempre irresistibile. Chi mi conosce, pensa a me come a una donna metodica e ordinata, però la stanza rifiuta l’idea, mentre la mia testa sbugiarda smentendo le consuetudini fantasticando sullo sconosciuto che non avrei ovviamente più visto. Che diamine, soltanto cinque minuti e tutto ritrova il suo ritmo, per l’ora di cena scendo con l’ascensore con una voglia che non è dovuta alla fame, penso alla valigia senza nessun’identificazione che non siano le due sigle e mi ritrovo in camera a stendere la camicia da notte di pizzo blu che non indosso mai, ma che porto sempre in viaggio. 

In quel momento mi sento chiaramente sdoppiata, mi vedo adagiata sul letto, infagottata da quella ragnatela di seta che si solleva poco a poco sotto la sua bocca, ma che cosa mi succede? Forse dovrei prendere del bromuro, come al college, eppure mi viene da ridere, chissà come dopo tanti anni ci ripenso, sennonché m’addormento con la televisione accesa e i giorni a seguire passano nell’abitudine del congresso e nel piacere di lunghe passeggiate nel mio parco preferito, dove ritrovo a volte il simpatico autista nei pressi dell’hotel, giacché dev’essere la sua zona. Resta il fine settimana e decido di prendere il traghetto, risalire il fiume da Westminster fino a Hampton Court, il palazzo dei re, delle regine, dei piaceri e degli intrighi e delle passioni. Di tanto in tanto la sensazione d’essere osservata mi scalda la pelle e mi fa tornare in mente lo sconosciuto, mettendo a fuoco il ricordo della sua mano che stringeva la mia nel congedo, il suo calore, la sua ferma pressione sulle mie dita, il suo dopobarba amaro, la linea decisa e piena della sua bocca. 

Il sole al presente è mio complice, mentre sono immersa da questi pensieri che non seguono alcuna logica, un po’ come i gabbiani che ci seguono nella navigazione indecisi su dove andare, se verso la foce o sulla scia di questo battello. Ecco finalmente la reggia, dal colore rosso di mattoni e d’emozioni forse rubate, circondata di comignoli e di creste in mezzo a giardini di rose e piante rare, perché s’apre intorno a me con i suoi tappeti verdi e mi trascina verso il labirinto che si è ripreso dalla potatura ed è nel suo pieno fulgore. Io passeggio senza meta, toccando le foglie e i rami spuntati, però non riesco a vedere il proprietario della mano che mi sfiora il fianco, prima di sparire dietro un’ansa del labirinto. Io lo inseguo, tuttavia sono più curiosa che indignata e quindi sbaglio a svoltare, così l’ho perduto. Meglio visitare il palazzo, il Mantegna con i Trionfi di Cesare m’aspettano e sono la mia tappa culturale in questa gita di piacere, anche le cucine Tudor m’incantano con le loro immense cappe, per il fatto che reprimo a stento la tentazione d’infilarmi, però la fuliggine mi fa starnutire: un biglietto appare insieme al fazzoletto, oh Dio. Che cos’è? Uno scherzo? No, un luogo, un’ora. So all’improvviso di chi si tratta, anche se sfida le leggi della ragione, perché so anche che è qui da qualche parte, a parte ciò non provo inquietudine, solamente una sensazione d’attesa perché andrò all’appuntamento e mi pare naturale, in fin dei conti manca un’ora e ho il tempo di scoprire dove si trovi il vigneto, eppure mi rendo conto che la reggia si sta svuotando ed è quasi tempo di chiusura. 

Lui però dovè? E se mi fossi sbagliata? Mi guardo nel vetro della finestra e vedo un corpo sottile teso sotto la stoffa, uno sguardo che cerca risposte, le viti s’intrecciano creando strane figure intorno a me mentre scende la sera, credo che prenderò un taxi per tornare, magari sarà questione di pochi minuti, perché non sono il tipo che si fa prendere da una finta per quanto sia attraente. E’ dietro di me, lo sento prima che mi sfiori la spalla leggermente, è il mio nome quello che pronuncia e questo mi rende vulnerabile, sorpresa, vorrei dire qualcosa di sensato che mi dia il vantaggio in questa situazione, però m’afferra le mani e le bacia una per volta, mi parla d’amori consumati in questo vigneto, nelle stanze, persino nella siepe del labirinto, perché sembra aver letto le mie fantasie o pare conoscermi da sempre. Io mi chiedo che altro conosce di me per travolgermi in questa suggestione, ha un viso simpatico, i capelli scuri e mossi, lo sguardo caldo e sicuro di chi ritira un premio atteso a lungo, ma accattivante, gradevole e propiziante. Non c’è boria né tracotanza in lui, soltanto un gran calore che emana dal suo corpo robusto contro il mio. Io non mi riconosco nella sconosciuta che gli allenta i bottoni della camicia, mentre lui commenta la propria fortuna nell’accertare che non vesto come una dama elisabettiana, visto che nemmeno il suo abbigliamento offre complicazioni, perché la camicia è l’unica barriera alle mani del mio doppio. Com’è possibile? Questo bucaniere mi cerca la bocca, io non riesco a far altro se non schiuderla per assaggiare la sua lingua, il suo sapore pulito di whisky, poiché mi spinge in una cavità della siepe e inizia ad adorare il mio corpo come fosse quello di una statua viva.

Una parte minima della mente mi ripete che non so nulla di lui, che potrebbe essere un pazzo, un maniaco, però il mio istinto e il calore che sento dentro vincono agevolmente la battaglia con la ragione e insegnano alle mie mani di liberarsi dei vestiti. Lui affonda il viso nel mio seno prima di passare un dito dove più ho bisogno, lentamente, tormentosamente, giocando a evitare l’umido che si sta formando al centro delle mutandine di raso, io avverto le foglie dietro la schiena e la sua lingua sulla pancia, affondo le mani nei suoi capelli e non so più se lo respingo o se lo attiro a me. Sento la mia gola tendersi per soffocare un gemito che sgorga come il mio piacere più in basso, le sue mani strofinano le mie cosce nel tempo in cui estrae il miele dal mio corpo, come se non avesse fatto altro nella sua vita, in seguito divide il suo bottino con le mie labbra, il suo duro desiderio che preme contro di me. E’ una pazzia questa, però la prudenza è finita a terra con le mie mutandine, lui m’incita con due dita nodose, in quanto potrebbe prendermi in qualsiasi momento, invece si ferma dopo avermi travolta una seconda volta a tal punto da non essermi quasi resa conto del fatto che ha sborrato silenziosamente pure lui sulle mie gambe, io non capisco, malgrado ciò m’aiuta a rivestirmi e m’accarezza il viso con tenerezza:

‘Capirai, tornerò allora’ – dice, con la voce che ho sognato numerose volte.

Io ritorno all’hotel vagamente demotivata, frustrata e scoraggiata, perché la netta sensazione di familiarità che ho provato con lui mi ritorna alla coscienza e so che è quanto lui s’aspetta. Dove? In quale luogo e tempo della mia vita ci siamo incontrati? E se fosse stato in un’altra? Magari in questa stessa vigna? Io sono visibilmente confusa e disorientata e vado a letto senza un’idea, il sonno allontana smuovendo i veli del tempo, poiché mi ritrovo una diciassettenne alle prese con le prime emozioni in un college inglese con dei ragazzi più grandi, mi trovo seduta sul letto con la mano sulla bocca e il respiro corto. La notte fuori è buia, senza una stella e non so come ritrovarlo, poi penso come lui possa aver trovato me e so che ci rivedremo. Oggi è sabato sera e sto per avventurarmi nell’ultima giornata, non ho appetito e guardo le coppie che s’abbracciano in un tardivo picnic, un’automobile accosta al marciapiede mentre torno all’albergo, è una Bentley e il sorriso dell’autista mi fa capire molte cose, allora salgo: 

‘T’avrei riconosciuto dovunque, sai’.

‘Non m’hai detto nulla’.

‘Non so, mi sembrava di sciupare qualcosa. Sei sempre così impulsiva?’.

Il suo scherzo lieve mi porta a riconsiderare ciò che è accaduto, quello che avrei voluto nel chiedermi che cosa accadrà attualmente in questa macchina dai sedili in pelle, dai vetri scuri e perfino discreti:

‘Non so, forse in fondo lo sapevo’.

Di nuovo la carezza, di nuovo quel calore insinuante e quell’intimità crescente fatta di silenzi e di desiderio, un sussurro in cui ritrovo la dolcezza della passione della prima volta e l’ansia di chi vuole vivere il presente. Al momento lo sento pulsare contro la mia mano, lo stringo in una lenta spirale con le dita prima di liberarlo per un istante, soltanto per catturarlo tra le labbra, in ginocchio tra le sue gambe, lui sussulta al tocco della mia lingua abbandonandosi contro il sedile con un sospiro. Io voglio creare nuovi ricordi per quando lui tornerà alla sua vita, io di rimando alla mia, dato che voglio captare il suo vigore sciogliersi nella mia bocca, però non ho il tempo. Non è mai stato un ragazzino inesperto con me e come un’ombra dal mio passato ritorna a mostrarmi il suo desiderio, sdraiandomi in modo d’avermi aperta sotto di lui, finché la mia bocca lo accoglie ancora una volta, la sua lingua gioca nel mio ventre fino a farmi implorare, però è tanto dolce quanto impietoso, deciso quanto ardente. 

Sono quasi inanimata, irriflessiva e scriteriata quando finalmente mi prende riempiendo le mie carni con la sua durezza, possedendomi di nuovo e ancora una volta lasciandosi avvolgere dalle ondate del mio piacere rinnovato. Dopo un tempo che non abbiamo diviso insieme, un istante di fusione totale, di due corpi che s’appartengono, di due ritmi che diventano uno soltanto, di due respiri che annebbiano i vetri velandoli con la stessa umida estasi. La notte fuori è fresca, però l’aria è limpida, chissà dov’è l’autista. Gesti, parole, risate, perché tutto si dissolve nelle ore successive a quest’alba ancora incerta che mi vede chiudere la valigia e risalire su d’un aereo. Tuttavia non so come qualificare questo momento, comunque lasciarlo addormentato mi è sembrato come una porta aperta sul realizzabile, non l’ho baciato perché è un gesto netto che comporta presupponendo un domani, non gli ho lasciato scritto nulla perché non ha senso né significato, allora sono partita. Al momento sono qui tra le mie cose, tra le faccende e le situazioni di sempre, per menzionare, per ricordare e per guardare fuori dalla finestra. 

Nello stesso momento è già sera, dal momento che le prime ombre scivolano diligenti, indiscrete, mute e inavvertibili nel mio giardino, così come quelle dei miei amichevoli, benevoli e indulgenti spettri. 

{Idraulico anno 1999} 

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