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Erotici Racconti

Elettra

By 10 Settembre 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

E’ martedì mattina, sono le 8.45 e io da quindici minuti sono seduta alla mia scrivania. Indosso una normale gonna al ginocchio e una camicetta bianca con i bottoni. La Signora Paola arriva, in tailleur.
“Buongiorno Signora Paola” dico io un po’ titubante.
“Buongiorno elettra” risponde “Vieni nell’ufficio di là che dobbiamo parlare.”
La signora Paola entra nell’ufficio e io la seguo a ruota. Lei si siede dietro alla sua scrivania. Qualcosa di enorme dal mio punto di vista. Legno laccato nero e vetro su cui stanno un computer i telefoni e verie cartelle in assoluto ordine.
“Per ora ti puoi mettere seduta sulla sedia di fronte a me” dice con tono quasi gentile.
“Grazie” rispondo io educatamente e mi siedo.
“Bene elettra, parliamo un po’. Facciamo conto che tutto inizi da ora, perché in effetti nulla è ancora successo.”
La Signora Paola fa una pausa e mi guarda dritta negli occhi. Io istintivamente abbasso lo sguardo.
“E’ un po’ come sostenere un colloquio di lavoro, non devi avere paura. Già che tu non hai nemmeno fatto il colloquio per entrare qua dentro, lo avevo proprio dimenticato.” Ora è ironica e vuole farmi pesare il fatto che sono entrata nell’azienda dietro una solida raccomandazione.
“Allora, a quanto pare, dicono che i tuoi abbiano insistito molto perché tu avessi questo lavoro. Tu che dici?”
“E’ vero, Signora. Loro hanno insistito molto anche con me.”
“Immagino quindi che ci tengano particolarmente al fatto che tu stia qui, in quest’azienda.”
“Sì, Signora. Ma vede non è per me…”
“Sì, capisco. E’ per la loro buona nomea. E dimmi, che succederebbe se un puro caso, un’ipotesi si intende, tu venissi licenziata da quest’azienda?”
“Non ho il coraggio di pensarci solamente.”
“Pensi quindi che sarebbero dispiaciuti?”
“Più che dispiacuti, Signora.”
“Infuriati? E con chi se la potrebbero prendere?”
Io esito un atimo prima di dare la risposta, non riesco a guardarla negli occhi e non capisco se la cosa le fa piacere o meno. Poi alla fine mi faccio coraggio e alzo un po’ la testa.
“Se la prenderebbero con me, Signora.”
Il suo sorriso mi cattura, ma non ha niente di benevolo.
“Povera piccola. Allora ho l’impressione che tu abbia tutta la convenienza a rispettare quel contratto privato di cui abbiamo parlato l’altra volta. O no?”
“Sì, Signora”, rispondo senza nemmeno ragionare.
La Signora Paola sembra contente di questa mia risposta veloce e immediata.
“Alzati e metti pure la sedia in quell’angolo” dice, indicando un angolo vicino a una piccola porta.
Mi alzo, prendo la sedia e la metto dove mi è stato chiesto.
“Vieni qua, davanti alla scrivania”
Cammino lentamente fino ad arrivare davanti alla scrivania della Signora Paola.
“Bene, ora non parlare, non rispondere nemmeno se ti faccio domande. Quando vorrò una risposta te la chiederò io.”
Io annuisco solo leggemente con la testa.
“Prima cosa, quando sei con me devi sempre guardarmi con la coda dell’occhio e non direttamente negli occhi, ma non voglio assolutamente che tu guardi per terra. Non sta bene. Inoltre svolgi un’incarico all’interno di un ufficio e non puoi perennemente guardare il pavimento. Tu stai iniziando un addestramento per l’obbedienza, ricorda che ogni tua mancanza sarà annotata. Vorrai sapere cosa succede quando sbagli qualcosa. Sarai punita. Sarai punita secondo il mio metro. Non è detto che ad una mancanza segua un’immediata punizione, potrei decidere di fare il cumulo. Ma ricorda, se mi confessi di aver commesso una mancanza e chiederai di essere punita per questa lascerò la punizione di base invariata. Se a una tua mancanza non seguirà la tua confessione e relativa richiesta di punizione, allora potrà aumentare a seconda di quanto io ritenga tu sappia di aver sbagliato. Questa cosa è chiara?”
La Signora Paola si alza in silenzio e cammina fino alle mie spalle.
“Direi che la cosa è chiara. La seconda cosa è questa: ha relativa importanza il modo in cui mi chiami, questo Signora Paola, mi suona male, non mi va e poi qui si chiamano tutti per nome. Mi chiamerai semplicemente Paola, ma continuerai a darmi del lei.
“Ora guardiamo le cose principali su cui cominciare.”
Paola mi gira attorno e sembra guardarmi ai raggi x.
“Queste scarpe non vanno bene. Indosserai sempre, e per sempre intendo sempre, delle scarpe con i tacchi alti e possibilmente sottili. Sette centimetri per iniziare possono andar bene. Vedo poi che porti il reggiseno.” mi si avvicina e sbottona un paio di bottoni “Per essere bello è bello, ma da adesso indosserai reggiseni a balconcino che lascino scoperta la parte superiore dei seni, oppure niente. Beh siccome qua un reggiseno a balconcino non lo hai…levati quello che indossi.”
Io rimango un po’ stupita. Tanti discorsi sul fatto che siamo in un ufficio e poi mi fa togliere il reggiseno, avendo peraltro visto benissimo che indosso una camicetta pittosto sottile. In ogni caso io non fiato e comincio a sfilarmi il reggiseno.
“Ecco, ora andiamo meglio, così capisco anche di che materiale sei fatta”
Scosta il lembo della camicia per osservare meglio i miei seni.
“Non male” aggiunge poi.
“Voglio che tu indossi lingerie sexy, quindi reggiseno a balconcino, calze autoreggenti e mutandine di seta, se sono ridotte è meglio. Per meglio intendo che per ora puoi scegliere quali indossare, ma tu sai già cosa preferisco io. La gonna la desidero leggermente più corta, ma non una mini. La camicetta va bene per ora. Beh, che ne dici allora, ti sta bene? Rispondi adesso.”
Incredula, un po’ spaventata e con la bocca asciutta, faccio uscire due parole.
“Sì Paola.”
“Oh, vedi che non c’è niente di cui spaventarsi? Ora visto che siamo sole e che ritengo tu sia in grado di svolgere il tuo lavoro nelle ore pomeridiane, potresti prima lucidarmi le scarpe, dare una lavata al pavimento e quando avrai finito ti potrai accomodare in ginocchio sulla sedia nell’angolo, guardando il muro. Il lucido, le spazzole e il necessario per lavare li trovi nello sgabuzzino. La porta è quella vicino alla sedia. Sei d’accordo? Rispondi.”
“Sì, Paola. Sono d’accordo.” Venerdì mattina, piove a dirotto. Sono le nove e quindici e io sto finendo di pulire il piano di vetro della scrivania di Paola. Lei arriva, apre e chiude immediatamente la porta dietro di sé, io mi giro a gurdarla. Il suo impermeabile nero gocciola abbondantemente sul pavimento. Lo leva e lo scrolla, incurante della pozza che si sta formando.
E’ elegante, vestita di nero e porta un paio di bellisime scarpe che noto purtroppo bagnate e sporche di fango. Si siede senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.
-Hai finito con questa scrivania?- mi chiede, nervosamente.
-Sì,Paola, ho finito.
-Vieni qua.
Mi avvicino alla scivania. Le sono di fronte.
-Ho le scarpe bagnate fradice e involontariamente sono passata nell’aiuola. Era un banco di fango mobile. Puliscimele.
Rimango sbigottita. Capisco subito che quell’involontariamente, pronunciato così pesantemente, voleva sottolineare al contrario la volontarietà di quell’azione. La guardo, anche se non dovrei, ma lei forse capisce che la mia è una muta domanda.
-Vuoi che ti spieghi?
Io faccio un cenno d’assenso con la mia testa, mentre un ricciolo stupido esce dall’elastico nero e largo, che mi tiene i capelli legati dietro la testa.
-Ti inginocchi, vieni sotto la scrivania e mi pulisci le scarpe.
Io eseguo senza pensare, ma quando mi trovo la sotto, non so come fare, cosa usare.
-Paola, mi perdoni. Come pulisco le scarpe?
Domanda stupida quanto inopportuna, penso immediatamente. Lei sospira, come a significare che sono proprio un’imbranata, ma non dice questo.
-Ti levi le mutande e usi quelle.
Non replico, ma faccio un passo indietro, se si può chiamare un passo, una movimento indietro stando su quattro zampe.
-Fermati lì.
Io mi blocco.
-Vorrei capire se tu, Elettra, sei proprio così scema o la fai, la scema.
Si ferma, forse crede che io risponda. Oppure no, forse si ferma proprio per darmi l’opportunità di sbagliare, di rispondere, ma io sto zitta. E’ solo il mio respiro affannato a parlare per me.
-Te le levi lì sotto le mutande.
Capisco. Porto le braccia indietro, sollevo la gonna e sfilo le mutande bianche. Ora devo sfilarle anche dalle gambe e l’impresa è difficile. Con qualche equilibrismo e stando attenta a non sfiorare nemmeno le gambe di Paola, alla fine ci riesco. Ho le mutande in mano.
-Ho fatto, Paola.
Il suo piede destro si allunga verso di me. Uso le mutande per asciugare e pulire delicatamente, ma molto accuratamente la scarpa.
-Anche sotto la suola.
Il suo tono è perentorio ed io obbedisco. Il fango è dovunque e le mutande sono già zuppe e sporche quando ho pinito di pulire la scarpa destra. Anche con la scarpa sinistra, comincio diligentemente dalla tomaia, asciugo e pulisco il tacco e per ultima la suola, anch’essa in condizioni pietose.
-Ho finito.- sussurro a bassa voce.
-Bene. Guarda che là per terra c’è bagnato. Usa lo stesso straccio.
“Usa lo stesso straccio”. E’ umiliante. E’ una parte del mio vestiario e lei lo chiama straccio. Esco da sotto la scrivania e senza mettermi in piedi, per paura di essere ripresa, mi avvicino alla pozza e ci ficco le mutande dentro. Le faccio inzuppare nell’acqua per tirarla su il più velocemente possibile. Poi strofino il pavimento. Non è prefettamente asciutto, ma a Paola non sembra interessare.
-Brava, Elettra. Ora ti puoi alzare.
Io mi alzo e aspetto che mi venga detto cosa fare.
-Beh, che aspetti? Rimettiti le mutande.
Questa non me l’aspettavo. Credo di diventare rossa come un peperone. Mi vergogno solo a pensare che mi abbia detto di rimettermi quelle che ora sono davvero diventate uno straccio. Fradicie di pioggia e inverosimilmente sporche di fango, dentro e fuori. Mi sento umiliata nel mio intimo, nella mia anima. So che se compio quel gesto sarà la mia sottomissione completa ed è per questo che lei mi da il tempo di pensare. Il tempo di farmi male con i miei pensieri, un fuoco sottile che mi brucia la mente e che lei sa si può spegnere solo con l’esecuzione di quel gesto. Con l’obbedienza.
Mi abbasso e infilo le mutande. Prima un piede e poi l’altro, nello stesso ordine in cui ho pulito le sue scarpe. Prima il destro e poi il sinistro. E subito l’umido mi tocca le caviglie e le gambe e poco dopo le cosce e il fango sudicio e pregno d’acqua mi sporca. Infine tutto lambisce il mio sesso e mi sento ora davvero e schifosamente umiliata.
-Sei comoda, Elettra?
-No, scomodissima. Non è una bella sensazione.
-Bene. Molto bene.
Questa mattina Paola è già arrivata.
Quando entro nel suo ufficio mi fa cenno di avvicinarmi alla scrivania e mi porge un pacchettino. Ha la carta rossa e un nastrino dorato. Io non credo ai mei occhi. Un regalo.
-E’ per te. Aprilo.
Io, titubante, con le dita che se ne vanno ognuna dove vuole, riesco con un po’ di difficoltà ad aprire il pacchetto. E’ un ciondolo con catenina il tutto in argento, ma la forma del ciondolo mi lascia perplessa. Un rasoio d’argento, non grande, ma nemmeno piccolo.
-Devo metterlo?- chiedo, senza avere il coraggio di guardarla negli occhi.
Paola sorride appena, ma di un sorriso che potrebbe significare: “ma guarda questa ingenua”.
-Sì devi metterlo tutti i giorni. Prima però devi usarlo. Vedi dentro c’è quella bella scatolina con le lamette vere. Voglio che ti rasi completamente tra le gambe e che così resti finché non ti chiederò il contrario.
Io rimango quasi scioccata. Perché rasarsi il pube? Il mio sguardo vago probabilmente la lascia divertita, perché Paola continua a sorridere.
-Fallo ora. Vai in bagno e ti rasi.
Io non so come reagire. Anche se il primo istinto sarebbe quello di appoggiare il rasoio d’argento sulla scrivania e uscire da quell’ufficio, penso alle eventuali conseguenze, mi volto e mi avvio verso il bagno privato del suo ufficio a passo lento.
-Sbrigati, Elettra. Hai dieci minuti di tempo.
Affretto il passo. Ora mi da anche un limite di tempo. Apro la porta del bagno, entro e faccio per chiudere la porta.
-Puoi usare la saponetta per insaponarti.
La voce di Paola mi raggiunge mentre la mia mano sta abbassando la maniglia della porta.
-…e lascia aperto.
Dentro di me sento un’impeto, che mi direbbe di mandarla a quel paese. Ma la posta in gioco è troppo alta. Mi dico che sarà meglio imparare a trattenere questi improvvisi momenti di rabbia interiore, anche solo per non vivere male questa cosa. Devo abituarmi a fare tutto ciò che mi viene chiesto, senza discutere, così come da accordi.
-Sì, mi scusi Paola. Come desidera.- dico, guardando le pietruzze che formano il pavimento alla veneziana.
Lascio la porta aperta, alzo il coperchio della tazza e apro le gambe. Cosa indispensabile per fare ciò che devo fare. Mi guardo e penso che la mia peluria pubica sia bella. Grossi riccioli neri, nemmeno troppo folti. Apro l’acqua del bidet, accanto alla tazza del water, bagno la saponetta e comincio a insaponarmi abbondantemente. Faccio un sacco di schiuma, per rendere la cosa meno spiacevole. Apro la scatolina e inserisco la lametta vera, dopo aver rimosso quella senza filo, da usare quando userò il rasoio come ciondolo.
Mi guardo e mi sento esposta. Guardo fuori della porta e mi sento ancora più esposta. Chiunque potrebbe entrare nell’ufficio di Paola, in qualsiasi momento e avrebbe un’ottime visuale su di me. La cosa non mi lascia tranquilla e soprattutto mi lascia dentro un sottofondo di vergogna tremenda.
Avvicino il rasoio e comincio a depilarmi. E’ facile, anche se devo fare molta attenzione. La lametta è taglientissima e un minimo tremolio potrebbe portarmi a ferirmi. Non ci metto molto. La sensazione di esposizione, mentre la lama scivola e taglia i peli è enorme e ora che sono così, mi sento messa veramente a nudo. Mi siedo sul bidet e mi sciacquo via gli ultimi residui di peli tagliati e di sapone, lavo il rasoio, lo asciugo e cambio la lametta, prima di allacciarlo al collo. Poi mi alzo e mi presento davanti a Paola.
-Fa vedere.- mi dice per prima cosa, non appena s’accorge della mia presenza.
-Cioè, scusi?
-Non fare la finta tonta. Alza la gonna e sposta le mutandine.
Istintivamente il mio sguardo va alla porta del suo ufficio.
-Eh no, carina. Chiudere la porta sarebbe troppo facile.
Mi rassegno. Alzo la gonna e sposto le mutandine di lato, per mettermi completamente a nudo. Paola si alza, mi viene vicino.
-Divarica un po’ ste gambe, che non vedo niente.
Eseguo.
Paola mi guarda e io credo di arrossire. Lei sorride. Mi gira intorno e si ferma dietro di me.
-Chiudi gli occhi, adesso.
Lo faccio, ma non mi aspetto niente di particolare. Invece, all’improvviso, la mano di Paola mi colpisce tra le gambe. Uno schiaffo sonoro e forte. Non è piacevole. Un’altro schiaffo più forte mi fa sussultare, anzi, saltare. Lei mi dice di stare ferma. Non mi devo muovere. Una terza volta la sua mano si abbatte ancora più forte.
-Bene. Ora puoi aprire gli occhi e mettere a posto le mutandine…e la gonna, ovviamente.
-Sì
Paola torna alla sua potrona.
-Oggi, quando uscirai dall’ufficio andrai a casa, prenderai delle scatole di cartone e infilerai lì tutti i tuoi vestiti, intimo compreso. Tutto tranne quello che indossi. Maglie magliette, scarpe…tutto. Intesi? I tuoi armadi devono essere vuoti. Domattina porterai tutto qui. Ah dimenticavo. Voglio anche tutti gli ammenicoli vari, braccialetti collanine. In poche parole, Elettra, a parte ciò che stai indossando ora, mi porterai ogni cosa.
Questa richiesta mi lascia più stupita del solito e sinceramente non ho idea di cosa abbia intenzione di fare con le mie cose.
-Come desidera lei, Paola
Mi lascia andare e io proseguo il mio lavoro.

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