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Erotici Racconti

Lontano dal trambusto

By 14 Ottobre 2016Gennaio 30th, 2023No Comments

‘Questa sera passerò per le nove da te. Hai voglia di fare qualcosa in particolare?’. In particolare, nello specifico lei aveva voglia di vederlo e di stare appositamente con lui.

‘Ben volentieri, t’aspetterò’.

‘Preparati, perché ci vedremo dopo’. Sarebbe stata effettivamente una bellissima sorpresa, una di quelle gite notturne, segrete e per di più speciali.

‘Mi piace andare in giro di notte, mi piace guidare e possedere la strada, immergermi nel buio, ascoltare della bella musica e stare con te’ – lo diceva sempre.

Di frequente Osvalda non sapeva rispondergli, non sapeva dire quanto trovasse piacevole stare in sua compagnia e quanto fosse importante per lei quella sera, come tutte le sere che le regalava, però cercava soltanto d’esprimerglielo, eppure lui lo sapeva. In macchina si perdeva, mentre gli teneva la mano e guardava incantata la bella forma che l’intreccio delle loro dita formava, per il fatto che le sue mani erano come delle strane entità. Erano leggere come farfalle, eleganti, d’una forma nervosa e nobile, flessibili come quelle di un musicista, giacché pareva che avessero una vita propria e non che rispondessero ai comandi d’un sistema centrale. Erano davvero speciali, perché nella cura con cui maneggiavano ogni cosa avessero la fortuna d’entrare in contatto con loro, dalla più comune e insignificante, per esempio una forchetta, una matita, i suoi fragilissimi strumenti di lavoro, una lettera, il corpo d’una donna e quant’altro, lasciavano di gran lunga spiccatamente il segno. Nel buio il suo viso era illuminato dalla luce bluastra della luna, in quanto splendeva come s’immagina possa risplendere soltanto un cristallo, giacché le sembrava d’avere davanti un quadro dipinto a colori puri in contrasto, poi la strada e quel panorama spettacolare mentre lui era perfettamente immerso, custode e sorvegliante dell’ambiente boscoso in cui i pini ritagliavano i contorni netti, contro quel cielo illuminato dalle poche nubi con la luce della luna.

‘Scendiamo? Che cosa ne pensi?’.

All’aperto si stava molto bene, in quanto una brezza fresca di fine agosto solleticava la pelle scoperta, il paesaggio di montagna assumeva un aspetto scenografico, spettacolare e quasi tenebroso, mentre si stringeva grandiosamente per proteggere la riservatezza di quell’eremo in rovina, dal momento che spargeva intorno un alone sacro, chiaramente percepibile come un sussurro, a dire il vero non le era infatti mai capitato di vedere quel castello di notte, perché era davvero sorprendente. Attualmente procedevano mano nella mano, con prudenza, attenti a causa dell’asperità del posto e della scarsa visibilità, perché avrebbero dovuto arrampicarsi su d’una parete di roccia, come in quelle storie preromantiche con i personaggi in fuga nel buio tra i ruderi, la polvere assieme a quegli indescrivibili e ineffabili fantasmi.

Entrambi conversavano sommessamente, a bassa voce, quasi per non disturbare il sonno di quelle pietre secolari, giacche quelle rovine rivelavano la loro anima e nel silenzio lei diveniva la musica d’un respiro regolare che li accoglieva in un caldo e insolito benvenuto. Camminavano avventurandosi tra gli alberi che crescevano fra le zolle dissestate, l’erba gialla e alta che copriva i basamenti incerti e le mura crollate, visto che tutto il paesaggio diffondeva quell’aureola magica e suggestiva come le pietre di Stonehenge o i verdi rifugi, dove gli antichi abitanti conversavano con le forze della natura. Chi poteva aver visto quelle pietre? Di quali esistenze ignote e inesplorate erano vestigia accorte? Religiosi? Cavalieri? Scudieri, inservienti, bambini? I due passeggiavano in soprappensiero tra le rovine, meditabondi, in un atteggiamento rispettoso e di raccoglimento, perché la solennità di quel luogo li dominava catturandoli, dato che ogni suono era emesso sottovoce, inframmezzato da lunghe pause. Arrivati sul ciglio di un muro di cinta si fermarono a osservare giù il paese alla base d’una parete rocciosa, dove era costruito l’eremo che cadeva verso il precipizio. La vista falciava enormemente il fiato, dal momento che il paese apparendo in prospettiva sporgendosi dallo strapiombo sembrava un presepe dalla pianta rotonda e dalle luci lontane. Il margine della parete era lungo, alto ma accessibile, abbracciando al suo interno un paesaggio antico, deserto, separato e lontano dal resto del mondo volgendo lo sguardo in su verso i monti, mentre gli alberi lucidi s’innalzavano come lance ed era realmente incantevole. La grave atmosfera s’arricchiva d’impulsi sempre più intensi e la suggestione diveniva quasi un’allucinazione evidente, perché contro quelle rocce ruvide il rumore dei passi emanava il mistero dell’antico splendore.

Osvalda aveva voglia di dirgli quanto tutto fosse bello, ma non trovò modo più adatto che attraverso un bacio, lei desiderava un contatto profondo, una forma di comunicazione corporea, diversa dalle parole che avrebbe rotto un silenzio così immenso e indescrivibile, cosicché si voltò con le labbra socchiuse e posò delicatamente la bocca su quella di lui. Tra le labbra bagnate la lingua scorreva umida e liscia, il cavaliere rispose pronto al bacio restituendo sensualmente la propria in un incontro elettrizzante nella sua lentezza, con la punta s’addentrò curioso nella cedevole bocca di lei stuzzicandola con dei piccoli colpi, perché accarezzava le labbra con le labbra per poi affondare all’interno donandole un bacio appassionato. Schiacciata contro una parete Osvalda gli confidava segretamente attraverso quel contatto così intimo il proprio trasporto, che iniziava a divenire deciso, laddove il silenzio era rotto soltanto dai sospiri che si facevano più profondi e che malamente nascondevano una tensione crescente, da quelle parole illogiche ed esclamazioni incontrollate fino al mormorio delle labbra a contatto. Osvalda sentiva contro il proprio corpo, il suo fisico che intero la scaldava, la massaggiava, dato che riusciva a percepirne ogni forma, avvertiva il peso del cavaliere che si stringeva contro il suo seno, lo sentiva mentre strofinava la propria parte più sensibile, di cui percepiva la tensione sempre più poderosa contro il suo inguine. Attualmente vedeva le proprie mani come dall’esterno volare sulla grande schiena di lui e percorrerla interamente, per poi posarsi inquiete sulle natiche rotonde, afferrarle e spingerle contro di sé per diminuire uno spazio già inesistente.

Un piccolo gemito fuoriuscì sennonché dalla sua gola e la proiettò in una condizione d’eccitazione ancora più forte. I suoi sospiri nell’orecchio, l’alito tiepido e profumato sul collo le fecero salire un desiderio incontrollabile che s’impadronì lentamente di lei e la spinse protendendosi contro la sua rigidità. All’improvviso lui si distaccò e le denudò il seno, adesso ambedue in piedi, impazienti, incapaci di fermarsi da quella corsa precipitosa s’aggrappavano l’uno all’altra in una ricerca avida e insaziabile. Osvalda stringeva la testa adorata del cavaliere contro il suo seno, mentre lui lo succhiava e lo tormentava con piccoli colpi di lingua e con delicati assalti dei denti. Che inedita sensazione di comunione con l’esterno trovarsi lì, nudi in mezzo a quella natura accogliente, stretti in un abbraccio spasmodico, inghiottiti nel buio l’uno nell’altra, impazientemente tesi a sciogliersi focosamente nel loro impellente amplesso. Osvalda si chinò, s’adagiò sulle ginocchia, denudando il suo uomo e guardandolo alla luce della luna, perché era bellissimo con le ombre che giocavano sui rilievi del suo corpo, ridisegnandolo in originali chiaroscuri. Adesso la sommità della sua eccitazione brillava di una candida luce riflessa e piccole gocce di rugiada ne arricchivano la pelle sottile, lei era visibilmente tremante al contatto del suo respiro sul pene, segno condiviso d’un bacio prossimo per realizzarsi, dato che lo sentiva attendere, immobile e muto, appoggiato lì in piedi contro il muro, nell’attimo in cui le labbra si sarebbero posate sul suo cazzo.

Lei lo baciava sempre prima d’impadronirsene, visto che con tutta la bocca ne percorreva tutta la lunghezza con le labbra socchiuse e asciutte, poi iniziava a inumidirlo con la lingua, come se gustasse un cibo goloso, in realtà era goloso e profumato d’essenza di pulito, dal sapore denso e sapido, dalla consistenza elastica, liscia, mentre lo accoglieva nella bocca a succhiarne il primo frutto generoso. Nel frattempo lo accarezzava con le mani, nell’atto d’un possesso assoluto, gesto d’una premurosa cura, allo stesso tempo verso un oggetto prezioso nel suo magnetico mistero, ascoltando attenta e diligente le variazioni che la gola dell’uomo lasciava fuggire, che scendevano per accarezzare il suo orecchio e la sua eccitazione. Nel silenzio, infatti, un solo unico sincrono canto si spandeva ad accompagnare la musica dell’antico, un canto di sensi che vinti s’abbandonava alla loro danza primitiva, infine riempivano la solitudine in un’armonia di sensazioni che si spargevano in un sacro rispetto e chiedevano timidamente di realizzarsi in quel magico luogo isolato e protetto.

‘Vieni, baciami, perché ti voglio’.

Il cavaliere gustò il proprio sapore attraverso la sua bocca, mescolato al sapore della saliva, della caramella e della cipria per il viso, spinse la lingua dentro di lei fino alla radice, le aprì completamente la bocca mordendola e succhiandola, mentre la liberava dai jeans scomodi offrendo la sua pelle alla vista della luna. Le mani le accarezzavano le natiche, la schiena e le avvinghiavano i fianchi morbidi per tenerli fermi al suo contatto vigoroso, in seguito si chinò all’altezza del ventre, le divaricò le gambe e scese con una mano a sondare una piega nascosta, avida e viva di carezze. Lei era completamente palpitante, lucida e densa di fluidi, incredibilmente liscia, carezzevole, invitante e scivolosa. Lui la guardava con occhi quasi duri, assenti, impenetrabili nel colore e nell’espressione, in esclusiva comunicazione con le profondità dei propri sensi affogati nel piacere, alla vista d’una donna a lui abbandonata. La mano era delicata ed esperta, perché insisteva e solleticava, poi distraeva l’attenzione dai punti roventi, guidato dai suggerimenti che i gorgheggi incontrollati della gola elargivano inconsapevolmente, dai monosillabi strozzati, dall’arpionare delle mani convulse. Guardava le proprie dita affondare in una morbida e calda carne, che vorace risucchiava la sua attenzione. Il cavaliere giocava con lei, in un movimento di mani e di occhi che correvano tra la cornice dell’inguine pelosissimo e scuro fino al viso dai lineamenti abbandonati e modellati in un’espressione d’estasi, squadrandolo rapita in modo fisso. L’orgasmo la colse di sorpresa, scorrendo dall’ombelico in giù, verso il centro della propria femminilità e poi dentro, scuotendola dalle radici e andando a liquefarsi tra le sue mani.

Con le gambe tremanti e i glutei tesi, Osvalda assaporava attraverso le ultime contrazioni della fica le dita che ancora riposavano dentro di lei. Il cavaliere se le portò alla bocca e le leccò ghiottamente, ripulendosi la mano e guardandola s’avvicinò a lei eccitato dalla visione dell’orgasmo che l’aveva scossa e si schiacciò contro di lei. Lui la baciò a lungo tenendola contro di sé, visto che imponente le tornò la sua voglia, risvegliata dal contatto con il suo torace liscio e nudo, dall’odore accattivante e virile che emanava il calore del suo corpo. Osvalda bramava che si spingesse dentro di lei, che la penetrasse in un colpo unico e iniziasse a dondolare piano, scivolando dentro e fuori in un’onda dolcissima, che sarebbe cresciuta trasformandosi in un vortice impetuoso. Voleva che la riempisse di sé, che colmasse la distanza che separava i loro corpi attraverso il fondersi dei loro piaceri, in tal modo lo arpionò alle natiche, aggrappandosi a lui come verso un appiglio che la sostenesse in quella vertigine, poi un gemito e il cavaliere capì che lei era pronta di nuovo:

‘Voltati’.

Un sussurro caldo e rauco, un ordine perentorio, lei obbedì arrendevole, perché con le gambe divaricate gli mostrò le natiche appoggiandosi al muro e apprezzando la roccia ruvida e tiepida sotto le mani. Lui la brandì così, tremante di desiderio e voltata di spalle, offrendole la schiena nuda e i fianchi rotondi, esaltando la propria femminilità, accogliendo quel cazzo irrigidito, oramai ansiosa d’annegare interamente quel membro dentro di lei. Il cavaliere la teneva stretta, le muoveva i fianchi accordandoli al proprio ritmo profondo e veloce, squassandola con dei colpi poderosi, che la strappavano dalla propria coscienza, sospingendola in definitiva verso un sentiero in cui ogni passo era nuovo, diverso e meraviglioso. Osvalda non poteva resistere al contatto con il suo cazzo che spingeva, poiché sentiva l’orgasmo avvicinarsi, salire da un profondo non individuabile, fino a travolgerla sconquassandola interamente.

Lei chiamava il suo uomo, il suo cavaliere, giacché gli chiedeva d’accompagnarla in quel viaggio, lo pregava di raggiungerla, di fuggire insieme con lei. Lui aumentò la velocità e la potenza nel tentativo di raggiungere all’unisono l’ultimo appagante brivido, la conclusiva pioggia di sospiri, l’ultimo grido strozzato nella gola. Ben presto la raggiunse, esplodendo in conclusione vari fiotti di quel liquido di piacere che stillava ripetutamente, accompagnato da contrazioni violente, ognuna delle quali era scortata da gemiti selvaggi. Lui riempì di gusto la pelosissima fica della donna cospargendola con il suo denso nettare vitale, perché questa era in sintesi la conclusiva e pura realizzazione, tra l’altro la golosa materia del loro inconsueto incontro.

Alla fine dell’amplesso, abbandonati e perduti si guardarono, in quanto erano tornati incarnandosi nei loro rispettivi corpi, tuttavia ancora confusi e disorientati si strinsero l’uno all’altra per ritrovarsi insieme. La luna brillava, le cime si sporgevano indiscrete, accompagnate dalle carezze del vento leggere e un pochino pungenti, con amorevolezza il cavaliere l’aiutò per rivestirsi, l’afferrò per mano e la guidò sul muro di cinta:

‘Ci sediamo un poco quassù?’ – mentre abbracciati, circondati dai monti e dal cielo il cui buio profondo era colpito dalle penombre dei raggi lunari, lanciavano sassi di sotto lungo la parete a strapiombo verso il paese in lontananza.

‘E’ come se fossimo in volo, perché tutto sembra insignificante e piccolo da quassù. Ci vuole poco per allontanarsi dal chiasso, per trovare un rifugio dal mondo. Bada bene dove siamo’. Infine lei gli dona un bacio lieve sulla guancia:

‘E’ proporzionato, però è magnifico. Che meraviglioso spettacolo’.

{Idraulico anno 1999} 

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