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Racconti Erotici Etero

All’improvviso

By 15 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Ci sono accadimenti che razionalmente non avevi previsto, che derivano da sollecitazioni inattese, subitanee, involontarie, istintive, che, sì, erano possibili, ma non probabili, e ti sorprendono.

A SUDDEN BANG!

Meg desiderava da sempre trascorrere una estate al sole caldo del Mediterraneo, in tutta libertà.
La spiaggia di Brighton era ben attrezzata, ma non assicurava nulla di quello che lei vagheggiava: c’era poca privacy, e un sole troppo debole per abbronzare la sua pelle dorata, per sentirsi completamente avvolta de raggi carezzevoli e ritempranti. Voleva crogiolarsi lentamente, pigramente, lontana da sguardi indiscreti, completamente naked, senza nulla addosso, per sentire le sue tettine rosee e il suo grembo dorato sfiorati dal leggero tocco del sole.
Non era più giovanissima, Meg, ma si manteneva abbastanza bene.
Finalmente il suo sogno si avverava.
Il charter l’aveva scodellata nell’assolato aeroporto della grande isola e un altro aereo l’avrebbe portata in quella, più piccola, vulcanica, rocciosa, con sabbie nere, dove avrebbe trascorso una settimana.
Piccola casetta di pescatori.
Un simpatico arrangiamento a diretto contatto con la natura aspra e infuocata, non lontana dall’Africa.
Unica pensionante.
Più con la mimica che con le parole, si erano perfettamente intesi: una settimana di vita isolana e isolata. Niente porridge, uova senza bacon, ma pasta alle sarde e pesce in quantità! Vinello bianco, fresco di cantina scavata nella pietra.
Dalla casa si staccava un viottolo, stretto, che conduceva a una piccola baia, isolata, con una striscia di sabbia scura e un mare limpido, trasparente.
Tutta l’attrezzatura di Meg era il pareo sul bikini, una paglia per cappello, un grosso ombrello per ripararla dal sole, un telo a spugna, un termos con acqua appena aromatizzata con anice, l’olio solare.
La mattina, dopo caff&egrave con latte di capra, e biscotti fatti in casa, imboccava la stradina e andava sulla riva.
Le era stato assicurato che nessuno l’avrebbe disturbata, per raggiungerla avrebbero dovuto in ogni caso passare davanti la casetta, dove stava sempre qualcuno, e dal mare era difficile giungere data la corona di scogli che circondava la baia.
Famiglia simpatica, quella che la ospitava.
Gnà Pina, la mamma, di circa quaranta anni, e quindi più giovane di lei; padron Toni, il pescatore, sulla cinquantina; Saro, il figlio ventenne, quello che era andato a prenderla all’aeroporto, con la piccola ape tuttofare.
Saro l’aveva squadrata da capo a piedi, scotendo la testa in segno di scarsa approvazione.
L’aveva ben guardata a tavola, col pareo sul costume.
Le gambe erano discrete, lunghe e ben modellate, ma le zinne erano scarse.
Si era avviato alla baietta, Saro, distrattamente, in attesa che tutto fosse pronto per la cena.
Meg desiderava che fossero tutti insieme a mangiare, per imparare qualche parola, che poi era dialettale, e fare tante risate, per la difficoltà di capirsi, favorite dal vinello che andava giù gradevolmente.
Meg aveva disteso il telo bianco, e vi si era sdraiata sopra, bocconi, nuda, a prendere il sole.
Il pranzo, il vinello, la pigrizia, l’avevano fatta assopire.
Saro la guardava attentamente, nulla di eccezionale, ma l’età, l’ora, lo spettacolo, avevano provocato una improvvisa e naturale reazione.
Indossava solo un paio di brache tipo bermuda, larghe.
Si avvicinò lentamente alla donna.
Dormiva beatamente.
Lasciò cadere i pantaloni sulla rena ghiaiosa e scura.
Si inginocchiò tra le gambe di Meg, posizionò la sua poderosa minchia tra le rotonde natiche della femmina, la spostò in basso, vicino all’ingresso della vagina, che sentiva rorido di recenti secrezioni, e spinse abbastanza decisamente, penetrandola fino in fondo.
Meg s’era certamente svegliata, ma non voleva interrompere, per nessuna ragione al mondo, quell’inaspettato dono. Alzò il bacino, lo spinse verso lui, avrebbe voluto riceverne ancora di più, ma la delicata fichetta albionica, pur golosa e avida, non poteva contenerne più di tanto.
Saro pompava con calma determinazione, la sua ‘fungiazza’ la passava e ripassava, e lei era sempre più coinvolta. Mugolava, muoveva la testa a destra e manca, il suo bel culetto non aveva pace, lo stringeva in lei.
Si sentì precipitare deliziosamente, voluttuosamente, in quello che mentalmente registrò come uno splendido mediterranean orgasm, e volle subito raggiungerne one more, e poi ancora un altro, another one, prima di giacere sfinita, spossata, con la vagina palpitante, le chiappe frementi, e il seme di Saro che si spandeva sul telo.
Saro dette un altro colpetto, come di commiato.
Lo sfilò lentamente, si asciugò al lenzuolo, mise di nuovo le brache, dette una vigorosa pacca sul sedere di Meg, che era con gli occhi chiusi e il volto estasiato, e si avviò verso casa.
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EX ABRUPTO!

La calura aveva scacciato dalla città assolata chi se ne poteva allontanare, chi aveva una casa per l’estate.
I primi a raggiungere la domus feriarum erano le donne e i fanciulli, arma et impedimenta, accompagnati da nutrici, ancelle, schiave e schiavi.
Il viaggio era spesso lungo, anche se interrotto da soste ristoratrici, specie presso le fonti o i boschetti che accoglievano i necessari appartarsi soprattutto della domina.
Una volta giunti, però, la splendida villa premiava i disagi della strada, e il panorama meraviglioso deliziava la vista, accompagnava il riposo.
Peccato, però, che il padrone di casa fosse ancora trattenuto nell’Urbe, Almeno fino ai giorni detti delle ferie di Augusto.
Ozio, cibo prelibato, natura incantevole, tutto gradevole, ma sarebbe stato bello, però, completare il piacere nell’alcova. Tutto intorno, invece, erano solo i sempre sudati schiavi, e i rozzi abitatori del luogo.
Lucilla si aggirava, annoiata, per il giardino, andava bighellonando fino alla riva, tornava indietro.
In una specie di grotta scavata nel tufo, proprio sotto il terrazzo della villa, si conservavano le reti e gli altri strumenti per la pesca.
Era abbastanza buio, ma l’aria era fresca.
Lucilla si avvicinò, pigramente. Vi gettò lo sguardo.
Un uomo, nudo, le volgeva le spalle. Era intento a fare qualcosa.
Lucilla, curiosa, avanzò cautamente, senza fare rumore.
L’uomo, certamente un africano, alto e grosso, aveva appena finito di ‘spandere acqua’ e stava scrollando vigorosamente il suo smisurato batacchio.
Lucilla lo guardava, affascinata.
Un gigante, di colore, con un attrezzo di quel genere!
Non riusciva ad allontanarsi, era paralizzata.
Sapeva che doveva fuggire, tornare di corsa nelle sue camere, ma qualcosa la tratteneva, immobilizzava.
Sentì un formicolio percorrerle tutto il corpo, il grembo fremerle, la vagina palpitare e stillare la testimonianza del desiderio.
Si sorprese a rabbrividire al pensiero che un palo del genere potesse penetrarla. L’avrebbe sventrata!
Nel contempo, ne era ossessivamente attratta.
Numo, l’uomo, s’era voltato ed era rimasto impietrito.
La domina l’aveva visto in quello stato.
Era terrorizzato dalla punizione che ne sarebbe derivata.
Certo, non era colpa sua, lui era nel ripostiglio delle reti, e sapeva di essere solo, di dover riordinare tutto. Il caldo gli aveva suggerito di denudarsi, il bisogno di liberare la vescica.
Ora era lì, sbigottito, col suo manganello in mano, di fronte alla padrona.
Ma quello che stava per accadere non lo aveva neppure osato sognare.
Lucilla era invasa da una smania irrefrenabile.
Quel monumento di carne l’attraeva come la fiamma attira la falena, con la stessa incoscienza distruttiva.
Lo voleva, assolutamente, in sé.
La terrorizzava, però, il pensiero che da pochi attimi di voluttà potessero derivare conseguenze tragiche; non avrebbe mai potuto attribuire al marito la paternità di un eventuale colorato frutto di quell’incontro.
Pater sempre incertus, vero, ma se il figlio era nero le cose cambiavano.
La fregola non le dava pace.
Quell’enorme piolo color ebano l’ammaliava.
Doveva goderlo, ad ogni costo.
Comunque.
Lasciò cadere per terra la leggera tunica che indossava. Unico vestimento in quella calura.
Numo sbarrò gli occhi,
Una femmina bianca. No, la sua domina, era di fronte a lui, nuda.
Malgrado lo sgomento, il suo fallò divenne più possente che mai.
Lucilla tese la mano, lo toccò, lo strinse, per quanto poteva.
Era più duro d’una pertica lignea ricoperta di robusto pellame.
Ma pulsava.
Si chinò.
Lo portò alla bocca, lo cosparse abbondantemente della saliva che le colava dalle labbra golose.
L’uomo era immobile, statuario,
Senza lasciare quel pilone di carne, Lucilla si voltò, si curvò in avanti.
Con una mano portò il grosso glande sul suo buchetto fremente e con l’altra dilatò le natiche.
Si spinse indietro.
Numo perse ogni controllo, fu sommerso da un’improvvisa foia, incontenibile, prese la donna per i fianchi e con una forza erculea, vincendo ogni naturale resistenza, per la sproporzione delle dimensioni, lo immerse in lei che non riuscì a frenare un grido, di dolore e piacere.
Si acquietò subito.
I colpi vigorosi dell’uomo la scuotevano.
Gli prese una mano, se la portò tra le gambe dischiuse.
Le grosse dita le tormentavano il clitoride, la vagina.
Se lui non l’avesse sorretta sarebbe stramazzata al suolo.
Stava godendo come mai in precedenza, malgrado si sentisse invasa, come se il fallo del maschio le dovesse uscire dalla bocca.
Gemeva in continuazione, travolta da una voluttà che, era certa, sarebbe stata l’ultima: ne sarebbe morta.
Era inesauribile, instancabile, Numo.
Aumentò il ritmo, divenne vorticoso, travolgente, spinse fino in fondo, si fermò un istante, scaricò in lei il torrente del suo seme, sostenendola, stringendola a sé.
Quando riuscì a staccarsi, riluttante, Lucilla si sentì svuotare.
L’orifizio, forzato, bruciava, ma nel suo interno il balsamo versato da Numo la deliziava. Usciva lentamente da lei, e dolcemente, con le sue piccole dita, lo andava cospargendo sullo sfintere così duramente ma voluttuosamente provato.
Durante tutto il tempo, non avevano parlato.
Il silenzio era stato rotto dal suo piccolo grido di dolore, dai suoi gemiti prolungati, dal rumore della carne che s’incontrava, dal basso e strano suono che accompagnava ogni spinta di lui.
Lucilla, indossò di nuovo la tunica.
Uscì.
Camminava come una sonnambula.
La sua ancella la stava cercando.
Le lesse nel volto qualcosa di nuovo, quasi di estatico.
‘Signora, sembra che tu abbia sia ebbra.’
‘Si. Improvvisamente!’
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UNVERSEHENS

Il trainer aveva voluto assolutamente che fosse sottoposto ad accertamenti medici.
La prestazione di Hans era stata eccezionale.
Primo, e con un certo distacco.
Un crescendo che aveva galvanizzato lo stadio, e lo aveva fatto esplodere in urla di gioia quando aveva tagliato il traguardo, con le braccia alzate.
Poi, d’un tratto, era caduto per terra, un po’ stordito, e non era riuscito a rialzarsi. Le gambe non lo sostenevano.
Barella, roulotte medica, visita accurata.
Niente di obiettivo.
Anche i riflessi erano buoni. Reagiva alla puntura, al lieve graffiare sotto la pianta del piede.
Era tornato lucidissimo.
Però non si reggeva in piedi, le gambe si afflosciavano.
Fu deciso il trasporto in clinica, quella col reparto specializzato in medicina dello sport.
Lo avrebbero sottoposto a TAC, Risonanza magnetica, elettrostimolazione e quanto altro fosse ritenuto necessario.
Camera ariosa, luminosa, accogliente.
Schwester Greta fu professionalmente premurosa.
Il solito sorriso stereotipato sulle labbra, modi precisi, perfetti.
Era la capo infermiera, ma aveva stabilito di assistere personalmente quel giovane atleta che, forse, aveva soprattutto un ancora incomprensibile blocco psichico.
Lo aiutò a spogliarsi, a indossare il regolamentare camiciotto allacciato sulla schiena, a sedere sul letto, a sdraiarsi.
Gli sollevò le gambe, le sistemò, lo ricoprì.
Un ragazzone, Hans, alto, atletico, ben proporzionato.
Bruno, con occhi grigi e un volto cordiale.
Pensò al suo Peter, al suo unico figliolo, più o meno della stessa età, che frequentava l’Università di Heidelberg.
Schwestwr Greta, che qualcuno credeva essere una religiosa, una suora, anche per il suo austero modo di vestire, aveva sempre vissuto per la medicina, per la faticosa strada dei paramedici, e si era dedicata all’assistenza dei malati fin dai primi anni dei corsi infermieristici.
Poi aveva creduto di aver incontrato il grande amore.
Il giovane aiuto ortopedico.
Lui era sposato, e lei lo sapeva, ma ciò non impedì a Peter di nascere, venti anni prima.
L’ortopedico era partito per gli Stati Uniti.
Lei allevò il ragazzo, con ogni cura, e divise la sua vita tra corsia e figlio, senza consentirsi distrazioni di sorta, né sentimentali né meramente fisiologiche. Non era facile stabilirne l’età, ed ancor meno distinguerne le forme nella sua divisa che sembrava fatta apposta per mortificare ogni eventuale armoniosità.
Chi, però, aveva potuto vederla nella piscina della clinica, affermava che portava magnificamente i suoi quarantacinque, ed era una abile nuotatrice, con un corpo ben proporzionato, tenuto ancora meglio dallo sport. Gambe diritte, un sedere da manuale e tette sode e prepotenti, senza essere esuberanti.
Il colore dei capelli, e lo si vedeva anche da quelli che più o meno spontaneamente si scorgevano dalla cuffia di servizio, tendeva al castano scuro.
In venticinque anni di servizio non un solo rimprovero, una osservazione negativa.
Sembrava addirittura inumana, si badi bene non disumana, per la sua tecnica comportamentale, sempre uguale e che, almeno esteriormente, non lasciava trapelare alcun coinvolgimento emotivo nelle sofferenze cui doveva assistere ogni giorno. E le notti.
Anche quella volta seppe mantenere freddo il suo sguardo, e badò bene di non lasciarsi vincere dalla tenerezza per quel bel ragazzo che giaceva nel letto con la parte inferiore del corpo misteriosamente paralizzata.
Non era facile dal trattenersi dal carezzarlo quel volto fresco, semplice, sorpreso da quanto stava accadendogli.
Il primario disse che il paziente doveva essere continuamente sorvegliato per scorgere ogni eventuale risveglio della parte insensibile.
Le gambe furono collegate al monitor, così le attività cardiocircolatorie e respiratorie.
Doveva bere solo a richiesta.
Vitto normale.
Nessuna cateterizzazione, per accertarsi della spontaneità delle funzioni.
Quella sera Schwester Greta decise di rimanere lei di guardia.

La clinica era avvolta nella penombra e nel silenzio.
La maggior parte dei pazienti riposava.
Greta entrò nella camera di Hans, appena illuminata.
Lui dormiva, supino.
Guardò il monitor. Nessuna irregolarità.
Scoprì le gambe.
Prese una lancetta, e punzecchiò sotto al piede, sul polpaccio, sulle cosce.
Lei vedeva tutti i momenti uomini nudi. E quasi sempre bei campioni del genere umano. Era abituata a ciò.
Nessun segno di aver percepito quelle leggeri punture.
Il sesso di Hans era tranquillo.
Greta si sorprese che lo stava guardando in modo particolare, strano.
Le interessava.
Quel particolare anatomico, per lei sempre e comunque irrilevante, la attirava, assumeva importanza.
Quella specie di blocco evidentemente interessava anche il sesso.
Lo punse cautamente.
Nessun segnale.
Lei, però, desiderava, voleva, toccarlo.
Lo circondò con la mano.
Sentiva il pulsare lento delle vene.
Lo carezzò dolcemente.
Non rimase inerte.
Dette segno di gonfiarsi, appena.
Nello stesso momento, improvvisamente, imprevedibilmente, unversehes, qualcosa di mosse anche in lei, nel grembo, nel seno.
La vagina si contrasse in maniera del tutto desueta, il seno si gonfiava, i capezzoli si inturgidivano.
La mano cessò di essere esclusivamente professionale, stringeva e carezzava decisamente il fallo che si andava sempre più ingrossando, ed ormai era prepotentemente eretto.
La testa di Greta di avvicinò a quel monumento alla virilità e gli rese omaggio.
Hans restava immobile, ma il monitor indicava un’accelerazione delle pulsazioni e della respirazione.
Greta allungò una mano, staccò l’alimentazione elettrica dal monitor.
La sua eccitazione era, ormai, divenuta frenesia.
Non voleva, però, che quella incantevole erezione fosse utilizzata solo per una sia pur piacevole ma per lei poco soddisfacente fellatio.
Si staccò un momento, andò a chiudere la porta.
Mentre tornava vicino al letto, sbottonò il suo lungo camice, quasi strappò reggiseno e mutandine.
Tornò vicino ad Hans che dissimulava benissimo la sua attesa.
Le gambe seguitavano a non muoversi, ma il resto palpitava visibilmente.
Adesso erano le belle tette di Greta ad avvolgere quel turgido pisellone.
Non era possibile resistere a quella tentazione.
Ormai era completamente nuda, e sentiva contrarsi il grembo, quasi dolorosamente, implorando una appagante e liberatoria penetrazione che potesse placare la sua smania, la necessità di sentirlo in lei, perché desiderava strapparglielo, svellerlo, serbarlo nella sua indemoniata vagina.
Si accosciò su di lui, vi si impalò lentissimamente, e le sembrava di venir meno, che le forze l’abbandonassero.
Hans restava ad occhi chiusi, ma non riusciva a controllare i movimenti del bacino, specie per il dondolio incantevole e crescente della donna che era completamente inebriata, estatica.
Stringeva le gambe, Greta, e si sollevava quasi a volerlo staccare dalla radice, si abbassava di nuovo, accogliendolo quanto più poteva, sempre golosamente, avidamente.
Lo sentiva entrare e uscire, occuparla tutta, invaderla, dilatarla, conquistarla, lisciarle le crespe della vagina, stenderle, stirarle, incantevolmente. Nessuno e nulla l’avrebbe potuta fermare, era lanciata in un vorticoso e travolgente galoppo finale, accompagnato dal suo gemito che andava salendo di tono, fino a quando non gettò un grido, come di vittoria, di conquista,e si riversò su lui che le palpava il seno, le strizzava i capezzoli, perché le mani le muoveva, e come! Ed anche le gambe!
Greta aveva raggiunto, superato, la vetta della sconvolgente voluttà che la faceva vibrare come le corde d’una arpa.
Rimase così, a lungo.
La distensione della vagina tornava ad essere contrazione, e poi ancora distensione, piacevole, dolcissima, favorita dal tepore che l’aveva invasa e s’era sparso dappertutto, in lei.
Un bacio frenetico, furioso, imprigionò le labbra di Hans.
Si levò lentamente, Greta, a malincuore.
Così, nuda, con le belle tette al vento, prese un grosso batuffolo di cotone e se lo mise tra le gambe.
Poi, con consumata professionalità, asciugò il sesso del ragazzo, il pube.
Lo lavò accuratamente, lo asciugò.
Lo carezzò, baciò delicatamente.
Rimise a posto la camiciola ospitaliera.
Si rivestì.
Controllò il monitor, riaccese la macchina, tolse la registrazione che aveva riportato le reazione del suo primitivo omaggio orale.
Si curvò su Hans.
‘Still, mein Kind…Fermo, bambino mio. Ancora non devi muovere le gambe.
E’ solo la prima seduta della ficaterapia che ti riporterà ci riporterà alla vita!’
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NENADAN

Piero gironzolava pigramente nella hall dell’albergo, guardando distrattamente le vetrine.
Andò nel bar, si avvicinò al banco, ordinò un drink, una spona, una grappa. Il cameriere gli suggerì una slivovitza speciale. Lui accettò.
Si guardò intorno.
Poca gente
Al tavolo in angolo, presso la vetrata che dava sulla strada, ormai deserta, una ragazza, tutta sola, intenta a sfogliare una rivista, e con un bicchierino vuoto davanti.
Piero chiese al barman se fosse una ‘professionista’.
‘No, signore, &egrave una giovane advokat che viene spesso, a motivo della sua professione.’
Piero fece altre domande.
‘E’ sempre sola, signore, non mi risulta che abbia conoscenze. So che parla bene l’italiano.’
Piero si avvicinò al tavolo della ragazza.
Lei alzò la testa, lo guardò, dapprima con aria annoiata, ma poi il volto si distese in un sorriso gentile.
‘Visto che siamo entrambi soli, posso sedermi?’
Lo squadrò da capo a piedi.
Un bell’uomo, abbastanza giovane, doveva essere intorno ai trentacinque stimò lei. Abbastanza elegante ma non affettato, e dal volto aperto.
‘Prego, si accomodi.’
‘Possiamo prendere un drink, signorina’.? Scusi, io sono Piero Moretti.’
‘Io Lenka Gulich. Cosa propone?’
‘Cocktail champagne?’
‘Non sarà un po’ forte?’
‘Tutt’altro.’
‘OK!’
Piero guardò verso il banco del bar, il cameriere si avvicinò, ordinò cosa avevano scelto.
‘Io sono qui per lavoro, signorina Lenka, ogni tanto ci devo venire.’
‘Di cosa si interessa?’
‘Di problemi inerenti acque industriali, alla raffineria.’
‘Ingegnere?’
‘Si. E lei?’
‘Sono legale in uno studio della Capitale, e qui mi interesso delle questioni collegate alla contrattualistica internazionale per conto di una import-expot.’
Erano giunte le due coppe.
Piero ne porse una alla ragazza.
Alzò la sua, guardandola negli occhi.
La ragazza gli sorrise.
‘Prosit!’
‘Prosit!’
Era una bella giovane, con capelli biondi, abbastanza lunghi, occhi azzurri e, per quel che si vedeva, un corpicino piacevolissimo.
Parlarono un po’ del più e del meno.
Decisero di chiamarsi per nome, omettendo l’inutilità dei convenevoli.
Trovarono che su molte cose la pensavano nello stesso modo.
Piero non comprese il perché, ma d’un tratto si sentì attirato, affascinato, ammaliato, da quella donnina che mostrava certamente meno anni di quanto in effetti doveva avere.
Attrazione soprattutto erotica.
La spogliava con gli occhi.
Ne vedeva le belle tette, le gambe, le natiche sode e tonde.
E non si fermava qui.
Mentre si andava sempre più eccitando.
Più la guardava e più la desiderava!
L’avrebbe rovesciata sul tavolino e posseduta sul momento, fremente.
Forse quel suo modo di divorarla con gli occhi le aveva comunicato il suo desiderio perché Lenka apparve confusa. Arrossì improvvisamente e poi impallidì, sempre senza staccargli gli occhi da dosso.
Lei le prese la mano.
‘Qualcosa che non va?’
Quel contatto fece avere la pelle d’oca ad entrambi.
Le nari di Lenka erano vibranti, si sentiva che tremava.
La voce era bassa, quasi roca.
‘Non so’ una strana sensazione’ forse &egrave stato il cocktail, ma mi sento come ubriaca’ No, qualcosa di diverso’ non so come spiegarmelo”
Le strinse la mano.
‘Il cocktail non c’entra, ma anche io sento invadermi da una strana e improvvisa eccitazione”
” come me’, un repentino calore’ in tutto il corpo”
‘Come quello che spinge prepotentemente a fare l’amore”
‘Sì’ &egrave così’ incredibile’ mai provato prima d’ora”
Lui era spinto a dire cose che non avrebbe mai detto in quella situazione, in quel posto, con una sconosciuta.
‘Vorrei averti qui’ subito’ in questo momento”
‘Ci hanno drogato’ certo ci hanno drogato’ devo andar via’ salire’ nella mia camera”
‘Ti accompagno.’
Lenka si alzò, lo guardò con gli occhi dilatati.
‘No!’ No!’ Si’ vieni.’
Così, tenendosi per mano, andarono all’ascensore, salirono al piano.
La camera di Lenka era la seconda, a destra. Vi si fermò dinanzi, tremante, pallida.
‘Ti aspetto”
Entrò, chiuse la porta, ma non a chiave.
Piero proseguì, andò nella sua camera, si spogliò, si mise in vestaglia, tornò all’uscio di Lenka. Abbassò la maniglia, entrò, chiuse a chiave, si voltò.
Nella penombra, Lenka era sul letto, nuda, con le mani sotto il seno, e un volto trasognato, quasi in trance.
Un corpo meraviglioso.
Bellissime tette, volto angelico, capelli d’oro, fianchi meravigliosi, pube con radi riccioli che lo impreziosivano.
Lasciò cadere la vestaglia, si sdraiò a fianco a lei.
La baciò sulla bocca, sui capezzoli, le lambì il ventre piatto, s’intrufolò tra le gambe.
Lei lasciava fare, quasi inerte,
Poi, piano piano, il suo corpo prese a vibrare, palpitare, sobbalzare.
Le sue dita gli carezzavano i capelli, indirizzavano la testa dove più ardente era il desiderio di baci.
Poi gli afferrò il fallo, lo carezzò, quasi lo soppesò, ne valutava dimensione e consistenza.
Lo sospinse dolcemente, facendolo sdraiare, supino.
Si sollevò sulle gambe, sempre volgendogli la schiena.
Il suo bacino era all’altezza del pube di Piero.
Si sollevò ancora, prese il glande e lo portò all’ingresso della sua rorida vagina che vi si impalò lentamente, voluttuosamente.
Piero la sosteneva per le natiche, ne ammirava la perfezione della schiena.
E Lenka iniziò una specie di altalena lasciva e inebriante, che accompagnava con mugolii di piacere.
Intensificò il suo strano cavalcare, il suo culetto batteva sul corpo di lui come su una sella vivente, e il fallo era il pomo dell’arcione che la penetrava voluttuosamente, che la fece gridare di piacere, la travolse in un orgasmo incontenibile, meraviglioso, e giacque su lui, con le belle chiappette che cercavano di favorire l’ingurgitamento di quel meraviglioso strumento di piacere che, intanto, l’aspergeva di tiepido e mieloso seme. Stupendamente.
Non era capitato spesso a Piero, che una donna avesse voluto scopare in quel modo, e subito. Di solito era una variante successiva, raffinata.
Ma dopo essersi a sua volta sdraiata, alzate le gambe e invitato a penetrarla in quel modo, volle di nuovo tornare in quella che Piero battezzò la posizione dell’amazzone di schiena, che evidentemente le piaceva in maniera particolare.
Quando si raggomitolò tra le sue braccia, lo guardò con infinita tenerezza.
‘E’ stato così tutto all’improvviso, tesoro, drag moj, inatteso’ nenadan, vrlo bajan, incantevole.’
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TOUT A’ COUP

Una giornata in mare può essere piacevole, se non si ha fretta.
Allontanarsi lentamente dalla terra, e poi ravvicinarvisi.
Magari cambiando completamente il panorama.
Il dondolio della nave.
Il pigro bighellonare, a bordo.
In genere una cucina accurata.
Una giornata di relax!
Fu questa la ragione che indusse Pierre a preferire la nave, per andare ad Orano.
Una nave moderna, abbastanza veloce, accogliente.
Partiva da Marsiglia alle undici del mattino.
Arrivava ad Orano, alle undici del mattino successivo.
Caricava auto e passeggeri.
In genere africani.
Qualcuno prendeva solo il passaggio ponte, senza la cabina.
Pierre prenotò una delle migliori, sul ‘D.Casanova’, e alle dieci era già a bordo, sul ponte più alto, ad osservare gli imbarchi, il tramestio sempre più spedito a mano a mano che si avvicinava l’ora della partenza.
Un lungo fischio di sirena.
Chiusura del portellone.
Vibrare dello scafo.
Lento allontanarsi dalla banchina.
Lento avvio verso l’uscita del porto.
A terra, in alto, ‘Notre Dame de la Guarde’ dall’alto del colle che domina la città, sembrava salutare i partenti, e qualcuno, infatti agitava la mano.
Poco distante da Pierre, una donna si fece il segno della croce, e seguitò a fissare la grande Chiesa che si impiccioliva.
Era appoggiata al parapetto, col sedere sporgente.
Fu quel sedere che attirò l’attenzione di Pierre.
Era bello, tondo, e sembrava ondeggiare lentamente seguendo il movimento della nave.
Una gonna abbastanza lunga, scura, lasciava vedere solo una parte della gamba, ben tornita, e il piede che calzava una strana scarpa, una specie di sandalo, quasi senza tacchi.
Pierre si spostò di poco, per osservarla meglio, per cercare di accertare anche le altri particolarità anatomiche, soprattutto le tette, per vedere se fossero dello stesso livello di quel bel deretano appetitoso.
Non era certamente ‘a caccia’, come suo dirsi, ma se capitava l’occasione non avrebbe commesso l’errore di lasciarsela sfuggire.
La donna si alzò, diritta.
Il taglio della blusa, non molto elegante, non era il più adatto a valorizzarne le forme, ma si vedeva bene che doveva avere un petto rigoglioso.
L’età non era facilmente decifrabile.
Un foulard, attorno al volto, esaltava un ovale perfetto, e lasciava scorgere qualche capello.
Niente trucco: acqua e sapone.
Pierre lo imputò al vibrare della nave, ma quella figura di donna, pur non impressionandolo particolarmente, gli stava trasmettendo un segnale che lui conosceva benissimo. Era una specie di alerte che entrava dagli occhi, giungeva al cervello, si diffondeva per tutta la persona, con particolare destinazione ‘sesso’. Se il sesso non rimaneva inerte significava che ‘quella’ lo eccitava, lo ‘metteva in tensione’ .
Era tutto un rimestare, un risentimento totale, uno stato d’allarme generale.
Lo risentiva nei testicoli. Le natiche gli si stringevano.
Ma che strano.
Quella non era una figura particolarmente arrapate.
Eppure!
Chissà se lontana dagli occhi cessava l’allarme.
Pierre decise di scendere in cabina.
Prima, però, si fermò al bar per una spremuta d’arancia.
Scese al ponte inferiore.
Nel corridoio, dinanzi a lui, c’era ‘le derri&egravere aimant’, il sedere calamita che, in movimento era più allappante che mai. Le chiappe si muovevano deliziosamente, e gli facevano agitare la ‘coda’ nei pantaloni.
La donna, evidentemente, andava nella sua cabina.
Proprio di fronte a quella di Pierre.
Vi si fermò davanti e a Pierre riuscì agevolmente, accingendosi ad aprire la sua, di accertarsi della saldezza di quel portentoso deretano.
Duro come la pietra.
E dire che la donna non doveva essere giovanissima.
Pensiero immediato: erano ugualmente sode le tette?
Pierre salutò gentilmente, lei gli sorrise.
Mancavano ventitré ore all’arrivo ad Orano.
Era l’ora del déjeuner.

Non appena sentì aprirsi l’uscio della cabina di fronte Pierre si affrettò ad uscire.
La femme au cul séduisant, era la.
Vestita come prima, senza foulard, e con la camicetta un po’ nella gonna, per cui il petto era di più bella presenza.
Altro sorriso.
Si avviarono verso l’ascensore. La donna avanti, gli occhi di Pierre sulle chiappe di lei.
All’ascensore, Pierre le cedette il passo.
Non sapeva come attaccare.
‘Ora di pranzo, eh?’
Lei sorrise ancora. Era un sorriso pulito, schietto.
Tanto per dire qualcosa, gli rispose che era il momento del pane quotidiano.
Quando furono all’ingresso della salle à manger, lo sguardo di Pierre fu colto dal Maitre.
Stesso tavolo, uno dei piccoli, per due, vicino alla vetrata.
Pierre attese che la donna sedesse.
‘Permette, sono Pierre Duval.’
Lei gli tese la mano.
Piccola, curata, senza smalto alle unghie, però, affusolata.
‘Marie Cunial.’
Disse che non beveva vino, solitamente, ma si fece convincere a sorseggiare un po’ di bianco dorato che legava benissimo con le sogliole alla mugnaia.
Andava a Orano, ma avrebbe proseguito per l’interno.
Insegnava in una scuola, non disse quale.
Pierre accennò appena alla sua attività.
Più la osservava e più il suo pisellone lo sollecitava ad una azione concreta e non troppo dilatoria.
Per quel che si vedeva, le prosperose tette dovevano essere un vero promontorio delizioso, in armonico contrappeso col posteriore.
Marie, cordiale conversatrice, accettò di prendere un caff&egrave al belvedere.
Parlavano di cose senza importanza, di Marsiglia, del problema dell’Algeria, senza approfondire nulla.
Quando le propose di andare al cine, Marie restò perplessa. Aggrottò la fronte. Non rispose subito.
Pierre le spiegò che era per passare il tempo, il film era una delle tante edizioni sulla guerra del Vietnam.
Alla fine accettò. Ma non era entusiasta.
Il fallo di Pierre, invece, era esultante, sperava in qualche sia pur fugace carezza nel buio della sala.
Pochissima gente, al cine, quasi nessuno.
Strategica occupazione, da parte di Pierre, del bracciolo, con relativo allungamento delle dita verso la tetta di Marie,
Marie si irrigidì, sembrò volersi allontanare, poi restò ferma, col volto rivolto allo schermo.
Quella mano la turbava.
Non doveva andare al cine con quello sconosciuto.
Non riusciva, però, ad allontanarsi da lui.
Quando lui divenne più audace, sentì che le stava accadendo qualcosa di insolito. Le piaceva!
La gamba di lui s’accostò a quella di lei.
Le prese la mano, se la portò sui pantaloni, vicino alla patta che stava per esplodere.
La mano rimase inerte.
Lui, piano, la spostò, la mise sulla grossa gobba che aveva tra le gambe.
Marie sussultò, quasi balzò sulla poltroncina.
Poi, con timida riluttanza, combattuta tra il farlo e non farlo, gli strinse il sesso.
Da quanto tempo non le capitava una cosa del genere.
Da prima della morte di Guy, tanti anni prima, proprio in Algeria. Dopo di lui non c’era stato più nessuno, ma quella carne palpitante le ricordava le ore di passione trascorse insieme. Troppo poche, troppo brevi.
Una lacrima le scendeva lungo la gota.
Pierre non si rendeva conto di cosa stesse accadendo alla donna.
Piangeva!
Se non voleva poteva discostarsi da lui!
Invece no, aveva cominciato a carezzarlo teneramente.
Era il momento di procedere oltre, di accertarsi se si stava delineando la voie au lit, la strada per il letto.
Mano sotto la gonna, decisamente, scostamento delle mutandine, non troppo leggere, risoluta carezza nel bosco riccioluto tra le gambe che tardavano a dischiudersi, poi cedettero, e le grandi labbra si protesero, il clitoride si inturgidì.
Pierre si avvicinò al piccolo orecchio di Marie.
‘Andiamo in cabina?’
Lei non rispose, stava assaporando quella mano che le rinnovava ricordi sbiaditi.
D’un tratto, improvvisamente, tout à coup, lo guardò e assentì.
Non precipitosamente, ma con una certa impazienza, furono nel corridoio.
Lei aprì la cabina, il volto avvampava, entrò, si avviò verso il bagno.
Pierre la seguì, chiuse la porta.
Non c’era bisogno di parlare.
Lui si spogliò in un attimo.
Lei riapparve, meravigliosamente nuda.
Si avvicinò al letto, si accinse a mettersi bocconi.
Un culetto meraviglioso, spettacolare.
Pierre era titubante.
Doveva interpretarlo come un invito a’ fruirne? Come l’inizio di un ‘ campionario?
Le andò vicino, lei si voltò, lentamente.
Tette spettacolari, tonde e sostenute.
No, non era giovanissima, ma era scultorea.
Linee perfette, invidiabili.
Pierre cominciò a carezzarla, quasi timidamente, e lei lasciava fare, apparentemente passiva, ma la sua pelle testimoniava quanto, invece, non fosse insensibile.
La mano erano sui riccioli scuri del pube, che andavano increspandosi, avevano una loro vita propria, si muovevano.
Anche le grandi labbra si inturgidivano.
Si dischiudevano lentamente, come se avessero il sopravvento sul controllo che andava sfuggendole sempre più.
Le mise la testa tra le gambe, cominciò a lambirla delicatamente, a titillare il clitoride che s’ergeva vibrante, a intrufolarsi tra le piccole labbra, ad esplorarla internamente, alla ricerca del punto che maggiormente la facesse fremere.
Lo trovò.
Insist&egrave.
Le mani palpavano le tette, le dita strizzavano i capezzoli.
Il bacino di Marie tumultuava.
Le sue mani dietro la nuca, la testa che andava di qua e di la, le labbra che lasciavano sfuggire un rantolo montante, roco, incontrollabile, come incontrollabile fu l’orgasmo che la sconvolse, la squassò.
Poi, sempre lentamente, si rilassò, la bella avida femmina, mentre la eccitazione di Pierre era divenuta quasi dolorosa.
Le mise le mani sotto il bacino, la sollevò, restando tra le gambe di lei, divaricate che gli aveva intrecciato sul dorso.
Il sesso splendido di quella magnifica femmina era spalancato, quasi implorante di essere penetrato, e la palpitante verga di Pierre, incominciò ad entrare in lei, che lo accolse mugolando di piacere, di voluttà.
Le pareti della vagina lo avvolgevano, stringevano, mungevano, il sobbalzare dei fianchi era sempre più incalzante, e tra il sordo rumore del motore, il lento dondolio della nave, un nuovo e più impetuoso orgasmo la sconvolse, mentre il caldo seme di lui straripava deliziosamente.
Era affranta, Marie, ormai in balia di un piacere che assaporava avidamente, e del quale non voleva fare a meno, dal quale non voleva staccarsi.
Erano anni che non stava con un uomo.
Del resto, il suo solo uomo era stato Guy, e non ricordava di aver vissuto tali sensazioni durante i purtroppo pochi momenti di appassionato amore.
Credeva che per lei il sesso sarebbe rimasto per sempre il dolce ricordo di Guy, e basta.
Per questo aveva deciso di intraprendere una nuova vita, e di dedicarla agli altri.
Poi quell’improvvisa decisione di raggiungere Orano via mare.
Quando si era imbarcata aveva letto il nome della nave: ‘Casanova’.
Aveva sorriso, il nome di un leggendario conquistatore di donne, di un mitico distributore e incettatore di sesso.
Tutte cose che non la sfioravano.
Nel corridoio della nave, mentre era vicina alla cabina, aveva sentito una mano sfiorarle il sedere. Non casualmente.
Era stato un messaggio forte e chiaro, ed era stato esplicitamente ricevuto, non solo, ma accolto.
Un brivido per tutto il corpo.
Inatteso, inusuale.
Poi il nuovo incontro, quindi al restaurant, l’invito a cinema che non aveva saputo rifiutare, ancora quelle deliziose mani, l’andare in cabina, quasi precipitosamente, ineluttabilmente, fatalmente, il piacere di spogliarsi, di sentirsi baciare, lambire, l’incanto di essere penetrata, posseduta, invasa, inondata, riempita. Il languore di tutto ciò.
E ancora.
Il palpito delle sue natiche.
Lo strano, incredibile desiderio, smania, di riceverlo ancora, dovunque e comunque.
L’attesa di ancora qualcosa-
Finalmente!
Lui le alzò le gambe, se le mise sulle spalle, le divaricò le natiche e col fallo rugiadoso di linfa e di seme, bussò a quel roseo buchetto.
Si, il desiderio di qualcosa che fino ad allora non aveva mai cercato.
Essere sodomizzata.
Adesso, subito.
E stava avvenendo, meravigliosamente, a completamento di qualcosa di già scritto, di inevitabile.
Che bello!
Non lo avrebbe mai creduto!
Che bello!
Sentiva i crespi peli del pube di lui sfregarle le chiappe, i testicoli battere, e quella lunga lancia, infinita, alesarle deliziosamente le budella.
Incantevole.
Insuperabile la sensazione del seme che si spargeva nuovamente in lei, come un lenitivo, il dolce finale, il miele che avrebbe voluto leccare.
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Erano sul ponte, verso prua, si avvicinavano rapidamente al porto dove avrebbero attraccato. Avevano trascorso una travolgente notte di passione.
Inesauribili, instancabili.
Orano li attendeva.
Non si erano chiesti se, come e quando si sarebbero incontrati di nuovo
Marie dava l’impressione di volersi costituire una provvista di sesso che doveva bastarle chissà per quanto tempo.
Nel suo pensiero diceva che era per sempre!
Avevano preparato i bagagli.
Fra poco sarebbero scesi.
Pierre avrebbe voluto rivedere quella bellissima femmina nel pieno della sua maturità esuberante.
Marie si passava le mani sul corpo, quasi a imprimere nella sua carne il ricordo di dove lo aveva sentito.
Dappertutto.
Pierre si decise a rompere il silenzio.
‘Resterai molto in Algeria?’
Lei lo guardò incantevolmente, come in preda all’estasi, ma con qualcosa di enigmatico nel volto.
‘Chissà! Sento che tornerò in Francia tra non molto.’
‘Una promozione?’
Lei sobbalzò. Lo guardò fissamente.
Scosse il capo, dolcemente, teneramente.
‘Può darsi.’
‘Cosa diverresti?’
‘Madre!’
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Decisero di non scambiarsi gli indirizzi.
Il nastro trasportatore scaricava a terra i bagagli.
Pierre si avvicinò.
Quella era la sua valigia.
Subito dopo un’altra, più modesta, con una targhetta: ‘Suor Marie Cunial’.
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