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Racconti Erotici Etero

Beyond the White: Indian Target

By 14 Settembre 2021No Comments

L’elicottero virò verso est.
-Missione compiuta.-, disse l’uomo. Patil sorrise. Gli occhi dell’indiano non sorrisero, rimasero fissi come quelli di una vipera. Immoti, privi di emozioni o umanità.
-Bel lavoro. Ora… il prossimo bersaglio.-, disse l’indù facendosi dare una cartelletta da Jhon.
La aprì. Foto e file stampati. Una donna. Incarnato chiaro, occhi marroni, capelli raccolti in uno chignon, figura dai tratti nobili, sebbene i segni del tempo e della tensione fossero evidenti sul viso. Seno piacevole ma non eccessivo. Avvolta in un sari che lasciava scoperto il viso, era comunque una bella donna da vedere.
-Shira Panchari.-, disse Patil, -Una politica di spicco del partito laburista indiano. Una donna che ha le mani in pasta in diversi ambiti.-.
-E come ci avvicineremo a una così?-, chiese James Crowain che controllava ferite e medicazioni non solo su di sé ma su tutti. Patil sorrise.
-Una cosa per volta. Siamo diretti a Delhi.-, disse, -Una volta lì, Dalima ci raggiungerà e organizzeremo il piano.-.

La testimone aveva parlato. Chiaro, nulla deponeva a favore del morto, ma almeno ora la donna aveva qualche elemento in più.
Rivolse un occhio al corpo che, coperto da un telo bianco, gli uomini della polizia stavano portando via. Scosse il capo. Sapeva che i politici erano marci, ma essere lì, vederlo…
Era ben altra cosa. Doveva riconoscere che parte di lei era convinta che quella sentenza fosse stata meritata. Si rivolse ad Arjun.
-Apri il collegamento.-. L’uomo annuì. Eseguì rapidamente.
-Scrambler attivo. In linea.-, riferì dopo pochi minuti passandole un telefono.
-Rapporto.-, disse la voce del capo dall’altra parte della linea. Pacata, anche se la donna sapeva, non era certo privo di tensione. Iniziò a parlare.
-Il V.I.P. è morto?-, chiese l’uomo. Ancora nessuna sfuriata. Nessun accenno di rabbia.
-Sono stati gli occidentali che dicevo, signore.-, rispose la donna, -Ho una testimone.-.
-E non abbiamo nessuna idea di dove siano diretti, dico bene?-, chiese l’uomo.
-Con loro c’era Patil Rabhoungham.-, rispose la donna, -Lavorano sicuramente per Dalima Kothil. Non capisco il perché di questo attacco però, né il legame con la morte di Tah.-.
-Avrai delle idee, agente. Esponile.-, disse perentorio l’uomo all’altro capo della linea.
-Qualche ipotesi, signore. Ipotesi uno: era un piano di Dalima e loro c’erano dentro sin dall’inizio. Ma non credo. Perché l’ipotesi due, supportata dal fatto che i dacoit di Dalima siano intervenuti a estrarli, sarebbe che gli occidentali non sono sgherri a contratto di Kothil, ma solo agenti esterni, finiti in mezzo a un casino scatenato da Dalima, o da altri. Dalima li estrae e li costringe a lavorare per lei, notando quanto siano bene addestrati.-, parlò con calma, esponendo il tutto con assoluta chiarezza. E più parlava, più pensava che l’ipotesi due fosse effettivamente vera. La domanda che lei aveva era un’altra:
“Perché erano lì? Per chi lavorano quei tizi?”, si chiese.
-È tutto?-, chiese l’uomo. Lei annuì al nulla mentre gli agenti si preparavano a sbaraccare.
-Non proprio.-, ammise la donna, -Hanno preso l’USB e il bracciale del V.I.P.-.
Dall’altra parte della linea vi fu silenzio. Un silenzio immane.
-Agente. Lei e la sua squadra preparatevi a lasciare Mumbai. Ora. Dobbiamo ritrovarli. Ricerca ad ampio spettro, massima priorità.-, fu la sentenza. La donna confermò. Chiuse la chiamata.
-È brutta come temo, vero?-, chiese Arjun. La donna quasi non si accorse della mano che l’uomo le aveva messo sulla spalla. Annuì.
Perché quell’assassinio da solo era puro caos, ma quelle informazioni.
Potevano concretamente annichilire ogni speranza di normalità e pace.
-La testimone?-, chiese un agente della polizia. La giovane tremava in un angolo, ammanettata.
La donna non degnò l’agente di uno sguardo. –La portiamo con noi.-, decretò.

Shaibat arcuò la schiena, tendendosi in un tentativo di lenire il disturbo dovuto alle cinque ore in furgone. Ultima fase di un calvario iniziato al villaggio di Harfasi, abbandonato a dorso di cammello con il beneplacito di Harif e accompagnati da una guida locale. Armi nascoste.
Prima fermata a Rhemad, un villaggio appena accettabile al limitare delle Aree Tribali di Confine. Passaggi di rupie. Un pasto rapido, fornitura d’acqua e un’ancor più rapido cambio di armi. I pezzi grossi spariscono. Horst e Neroko cambiano armi con roba più compatta e occultabile. Il loro contatto, un ex militare dei servizi pakistani non fa domande. Accetta i soldi e via. Neanche due ore di riposo, per poi riprendere su ruote. Con un 4×4 sgangherato fino a Quetta. Pieno e un pasto rapido. E poi un’altra 4×4. Frank Horst alla guida, fino a Bahāwalpur.
Fermata, tre ore di riposo neanche troppo ristoratrici. Cibo a malapena digerito e partenza di nuovo, stavolta a bordo di un furgone. Cambio finale a Lahore. Viaggio massacrante.
Doccia lampo, un pasto finalmente decente, presa di contatto con il loro ufficiale doganale che, in cambio di una mazzetta non si fa problemi a far loro oltrepassare il confine. Un carico di M4 Armlite e relative munizioni, insieme a un’altra mazzetta convince i soldati indiani a desistere da perquisizioni. Arrivano ad Amristar dopo l’ennesima tratta in furgone.
Shaibat cercò di lenire il dolore. Troppo tempo seduta, troppi scossoni, troppe piste che parevano dimenticate dagli dei e dagli uomini. Troppe buche, troppo poco cibo e troppi sedili risalenti ad epoche in cui la parola comfort appariva blasfema o trascurabile.
In una parola: dolore. Gettò un occhio agli altri. Parevano altrettanto stanchi.
-Per oggi ci fermiamo.-, decretò Shaibat.
-Dove?-, chiese Neroko. Lo chiese di malumore. Era evidente la sua preoccupazione.
-Ho un posto. Cerchiamo di riposare. Arrivare dai nostri compagni in pessima forma non gioverà a nessuno.-, disse la thai. Neroko annuì, pur apparendo contrariato.
Horst gli mise una mano su una spalla. Miryam Goldmann, altra donna della squadra, si guardava intorno. Annuì dopo qualche minuto. Nessuna minaccia. Per ora.
-Non mi dispiacerebbe togliermi questi…-, disse alludendo agli abiti islamici che aveva vestito sin dal loro arrivo in Pakistan. Shaibat le sorrise appena.

La stanchezza era un nemico che Frank Horst conosceva bene. L’arrivo all’hotel fu ben gradito. Armi nascoste in borse e zaini, smontate. Prese possesso della sua camera.
Doccia, lunga. Due fottute ore per tentare di ripulirsi dall’assurdo tour de force che l’aveva visto al volante per ore, parecchie. Crampi? Sì. E forse un blocco muscolare.
Bestemmiò in olandese. “Cazzo, proprio adesso? Proprio qui?”
Si stese sul letto dopo essersi rimesso i boxer. Se solo avesse avuto con sé del balsamo tigre…
-È permesso?-, chiese una voce femminile. Inglese e accento ebraico appena percettibile. Miryam Goldmann. Horst si alzò si infilò i calzoni. Jeans da turista olandese. Nessuna maglietta. Il caldo aveva già parzialmente vanificato la doccia.
Aprì. Miryam teneva i capelli sciolti sulla schiena, una colata scura che avvolgeva un viso tutt’altro che spiacevole. Maglietta a maniche corte khaki e pantaloni in tela. Sneakers ai piedi.
Anche lei non scherzava a livello di cambio d’abito, ma Horst, guardandola, pensò che sotto quei vestiti doveva esserci un corpo stupendo. Lo stupore rischiò di paralizzarlo.
-L’albergo è sicuro. Gente che Shaibat ha già pagato mentre arrivavamo. Quella ragazza sa il fatto suo.-, disse l’israeliana. Horst annuì. Non aveva mai legato molto con lei. Con nessuno, in realtà. L’avevano tirato fuori da una prigione su un isola dimenticata, un buco d’inferno, per un solo motivo: vendetta. Giustizia. E quello scopo era stato raggiunto. Era ancora con loro.
E gli andava bene. Ma essere sempre l’emarginato… di quello ne aveva abbastanza.
-Tutto bene?-, chiese con tono incerto.
-Abbastanza. Qualche crampo. E una stanchezza non indifferente. Ma pensavo potessi gradire la cena.-, disse la donna porgendogli un piatto in alluminio in cui faceva bella mostra di sé uno spezzatino in salsa curry con riso. Frank sorrise.
-Gradisco assolutamente. Resti a farmi compagnia?-, chiese. Pregò che la donna dicesse sì.
Quando annuì sentì un principio di erezione sfidare la stanchezza.

Neroko Tsubikome meditava. Lo Zazen tuttavia non faceva che acuire il suo timore.
Aveva giurato di proteggere Nô. Di essere il suo braccio destro, di dare la sua vita per lei.
E ora, il suo giuramento rischiava concretamente di venire infranto a causa dei piani di terzi.
Dentro di sé, giurò di vendicare Nô, se fosse morta.

Shaibat navigava in rete. Connessione remota, scrambler portatile, massimo grado di riservatezza e protezione. Vedendo le notizie notò la morte di un importante politico.
Cercò notizie. Scavò nel web, estraendovi persino un filmato.
Remota, malmessa, la lente crepata, l’ignota telecamera aveva però ripreso il gruppo di occidentali e l’indiano seduti a un tavolo, il loro gruppo. Shaibat sorride.
Erano vivi! Ma quel politico… Il filmato proseguì. Irruzione della polizia, sparatoria. Il bar-bordello clandestino diventa la Alamo indiana. Spari e morti, un mattatoio. Scontro demente.
E in mezzo al caos, pochi elementi che sanno muoversi, che sanno reagire. La thailandese vede l’uomo, il Giustiziere, salire la scala. Lo vede svanire dall’inquadratura. E vede il resto.
Il gruppo dell’uomo sale le scale. E qualcosa viene lanciato dentro. Granate Flashbang. Il bagliore bianco acceca tutto, telecamera inclusa. Quando però la visuale ritorna, Shaibat vede.
Uniformi nere, mimetiche da ambiente urbano. Armi corte, mitra MP5.
Commando. No, forze speciali indiane. I Gatti Neri. Unità d’elité, addestrata quasi al livello del Special Air Service britannico.
Shaibat cerca dati. Nomi. Niente. Gli spettri in nero non hanno nomi, non hanno volto. La telecamera riprende ancora. Spari. Uno dei commando, in testa al gruppo, si vede il passamontagna sfiorato da un proiettile. Salgono le scale. Due di loro scendono poco dopo.
Agenti della polizia in khaki entrano dalla porta. Armi spianate, imprecazioni. Vincitori di una battaglia non combattuta da loro. In realtà, la polizia le ha prese non poco. I due Gatti Neri scortano una ragazza avvolta in un telo. Giovane. Meno di vent’anni, bella. E sotto shock.
Shaibat non sa chi sia, ma sa perché la guardano, perché non lasciano che nessuno si avvicini.
È una testimone. Lo capisce. E capisce anche altro. Cerca tra i volti dei commando. Nessuno toglie il mephisto. Tranne una.
Una donna. Carnagione leggermente scura. Viso armonioso, occhi furenti. Shaibat blocca.
Shaibat isola. Lavora di tastiera. Il tablet non sarebbe adatto a fare ciò e darebbe la sua gamba destra per aver lì il suo computer. Ma invia ugualmente il tutto a Marco Poretti con una richiesta. Dopodiché, spegne il tablet.
Si scosse e guardò l’ora. Tarda… Sbadigliò. Aveva già mangiato e si era lavata. Si stese a letto dopo alcuni esercizi ginnici, cercando di riposare.

Frank Horst e Miryam avevano parlato mentre mangiavano seduti a bordo del letto. Inizialmente di cibo. L’israeliana aveva rivelato che aveva già condotto una missione in Pakistan. L’India non pareva troppo diversa. Almeno a livello di cibo era messa meglio, a detta sua. Frank no.
Lui aveva raccontato di qualche incarico di protezione V.I.P. in Arabia Saudita e di un compito nient’affatto gradevole in Sudan. Miryam pareva intuire il suo disagio. Frank spostò la conversazione su altro.
-Perché il Mossad?-, chiese. Lei sorrise.
-Beh, sono stati loro a cercarmi. Ma dopo una faccenda avvenuta qualche anno fa… Diciamo che mi sono resa conto della falsità del mito del Popolo Eletto.-, disse.
-Quel roveto ardente non mi pareva troppo d’accordo…-, commentò Frank con un ghigno.
-Beh, all’epoca forse c’era speranza.-, ammise Miryam con un sorriso complice.
Quanto complice? Era complicità circoscritta alla conversazione? Frank si scoprì a desiderare che non fosse così. Quella donna gli piaceva. Era tosta. E se la sarebbe fatta volentieri.
-E tu? Perché questo lavoro?-, chiese l’israeliana al termine di un boccone di riso.
-Mi annoiavo. La scuola mi strozzava. E anche l’esercito non mi andava a genio. Troppi fottuti ordini.-, rispose lui. Miryam sorrise.
-Un ribelle…-, disse. Lui scosse il capo.
-Mi fai sembrare uno di quegli anarchici del cazzo che odiavo quando andavo a scuola. Preferisco pensare di voler essere il capo di me stesso.-, disse.
-Però sei qui, anche se potevi andartene. Ci accompagni in questa missione.-, notò lei.
-Sì. Per mia scelta. Come anche tutti gli altri, no? Non mi sembra che ci siano vincoli.-, replicò lui. Miryam parve annuire. Stare in silenzio.
-Non hai mai parlato molto.-, disse infine, -Ma posso dire di essere giunta a una conclusione.-.
-Ossia?-, chiese lui dando il colpo di grazia allo spezzatino.
-Sei un po’ come noi. Un altro povero bastardo che ha deciso di non essere schiavo.-, disse lei.
Frank Horst sorrise. Sì, quello era sicuramente vero. Il sorriso divenne un riso. E le risate divennero due quando Miryam rise con lui.
-Sono uno spaccateste.-, ridacchiò Frank. Miryam sorrise.
-Lo siamo tutti. Per motivi vari. Alcuni non sanno fare altro, altri hanno capito che questa è l’unica via per ottenere qualcosa, per cambiare le cose…-, disse lei.
-Già. Ora…-, Frank si alzò ma il movimento si congelò a metà dell’azione, bloccato da un dolore acuto. Un crampo? Sicuramente qualcosa di pesante. Miryam si alzò rapidamente, sostenendolo. Lo aiutò a mettersi seduto.
-Merda. Sarà stato il viaggio… Tu non hai dolore?-, chiese il biondo.
-Non molto. Avevo portato con me un po’ di medicina. Una crema per casi come questi.-, rispose lei, -Ho voluto essere previdente. Vado a prenderla.-.
Frank Horst non obiettò. In quel momento tutto ciò che voleva era tornare al pieno della forma, conscio che, nel momento critico, gli sarebbero servite tutte le sue forze e non avrebbe potuto permettersi debolezze di sorta. Si accorse che Miryam era tornata.
-Mettiti sulla schiena. È lì che fa male, no?-, chiese. Frank annuì e si girò prono.
Sentì la mano di Miryam, calda, avvolta in qualcosa di gelido. Trattenne un verso di…
Fastidio? Sorpresa? Un mix tra i due. L’israeliana prese a spalmare la crema con movimenti rotatori, rapidi e vigorosi. Frank iniziò a trovare persino piacevole il trattamento. Si lasciò sfuggire un gemito di gradimento. E il suo pene iniziava a essere pericolosamente turgido.
Nessun rischio che Miryam Goldmann se ne rendesse conto, per ora, nondimeno…
Il massaggio continuò per minuti con la donna che ora usava entrambe le mani.
-Meglio?-, chiese all’improvviso l’israeliana. Frank riemerse dal piacevolissimo torpore in cui il massaggio l’aveva immerso e tentò di muovere la schiena.
-Sì. Meglio… Grazie.-, disse. Si voltò. Incrociò lo sguardo di Miryam.
-Prego.-, rispose lei senza smettere di fissarlo. Lui improvvisamente si accorse dell’erezione che tendeva i pantaloni. Merda, che figura…
Eppure l’ebrea non pareva minimamente interessata a distogliere lo sguardo dal suo viso.
-Io…-, iniziò lui. Lei sorrise. E solo allora, Frank si accorse che probabilmente era perfettamente conscia del suo stato.
-Trovo che fare sesso ora sarebbe controproducente.-, disse Miryam con un sorriso.
-Ah. Nessun’apertura?-, chiese lui con un doppio senso che l’israeliana parve ignorare.
-Non al momento. Tu devi riposare, e noi dobbiamo essere pronti per entrare in azione. La situazione si scalderà presto.-, il viso di Miryam Goldmann assunse un’espressione dura, -Più di quanto sia considerato gradevole.-. Si alzò e uscì, lasciando Frank Horst ai suoi pensieri.

In realtà, la tenuta di Dalima Kothil era ufficialmente sotto falso nome. Niente più dacoit straccioni, solo mercenari, gente in gamba. L’uomo notò il cambiamento. Metamorfosi dovuta a nuovi sviluppi di… cosa? Piani? Sicuramente l’uomo sapeva, l’uomo intuiva, qualcosa si muoveva sotto la superficie di acqua già torbide di loro.
La villa era stata di un possedente inglese del 1800. Ufficialmente era proprietà di Bhanar Kah, un religioso sikh. Peccato che Kah fosse morto. Da parecchio. Patil aveva rivelato loro che la villa aveva da tempo cambiato proprietario e che Kah, ufficialmente all’estero per curare un cancro all’esofago, era il solo a figurare proprietario presso eventuali registri.
Copertura perfetta, finché reggeva. E l’uomo non intendeva dare per scontato quel fattore.
Ma per ora, pareva che Dalima Kothil avesse tutto sotto controllo, incluso lui e i suoi amici.
Il colonnato della villa delimitava un patio che dava sull’interno. L’uomo non aveva difficoltà a immaginarsi il colono inglese che vi aveva abitato sorseggiare il thé al fresco.
-Venite. Dalima ci aspetta.-, disse Patil.

Dalima Kothil era anche più bella di come James Crowain l’aveva inizialmente valutata. Complice l’abito, un sari bianco che valorizzava enormemente le sue forme, pareva uscita da un film di Bollywood, o da qualche romanzo erotico d’appendice. L’inglese comunque notò che nella sala c’erano quattro mercenari, ai quattro angoli. In attesa di un loro errore?
-Avete svolto un buon lavoro.-, disse Dalima, -Immagino abbiate preso la chiavetta USB e il bracciale.-, aggiunse fissandoli uno ad uno. L’uomo si mosse calmo, fluido.
Appoggiò sul tavolo in cipresso i due oggetti. Dalima sorrise.
-Sapevo che non mi avreste deluso.-, disse.
-A che è servito?-, chiese Jhon Kingsword. James sorrise: l’arroganza di Jhon era nota, ma in quel momento poteva rivelarsi un’ottima cosa. Il giovane era per natura orgoglioso e non amava essere manipolato. Dalima era una manipolatrice e altrettanto arrogante.
Jhon poteva fungere da provocatore. In modo che qualcun altro ponesse le giuste domande.
Gli occhi verdi della donna inchiodarono Jhon, che senza alcun timore continuò a fissarla.
-Ciò che il mio collega vuol dire…-, interloquì James, -è che non capiamo esattamente il motivo di quest’azione. E a cosa serva la chiavetta recuperata.-.
-Uccidendo quell’uomo abbiamo eliminato un traditore del popolo indiano. La chiavetta contiene dei dati che, una volta resi pubblici, ci assicureranno che non possa divenire un martire per la sua causa.-, spiegò Patil. James annuì.
-Quindi, il prossimo bersaglio è una donna.-, disse Nô. L’attenzione fu rivolta verso Dalima che improvvisamente mutò la sua espressione in serietà assoluta.
-Sì. Shira Panchari è nota per le sue posizioni contro il Pakistan. Soprattutto, ha finanziato numerose operazioni negabili tramite traffici vari. La sua morte ridurrebbe maggiormente le possibilità di una risposta armata da parte dell’India.-, confermò la donna.
-Affascinante.-, disse Jhon Kingsword con assoluto menefreghismo. Aveva poggiato i pieni sul tavolo e fumava una sigaretta inglese nonostante il tacito divieto di fumare.
-Sia più chiaro.-, lo esortò Dalima. Se c’era tolleranza nel suo sguardo o nel suo tono, era certamente a breve termine e James Crowain lo notò presto.
-Fin qui abbiamo operato per rimuovere elementi che spingono per una guerra contro il Pakistan dalla parte indiana.-, James notò che il viso di Jhon, pur rilassato, in realtà tradiva una reale curiosità, una reale domanda, -Perché allora non stiamo facendo nulla per quanto riguarda la parte pakistana del problema?-.
James notò che il successivo sorriso di Dalima conteneva un accenno di veleno.
-È una buona domanda. Ma a quello stanno pensando altri miei contatti. -, rispose la donna.
-E immagino che non ci dirà altro al riguardo.-, disse Jhon. Ora, non è più un accenno di veleno.
Ora il sorriso è al veleno. Ma sorprendentemente, l’interruzione di quel duello venne da un’altra direzione. L’uomo, il Giustiziere, si mosse con rapida calma. Tutti i mercenari inquadrarono il movimento. Lui, calmissimo, ghermì una bottiglietta d’acqua e bevve svuotandone metà in una sola passata.
-Penso che per ora, sia nell’interesse di tutti, intendo proprio di tutti,-, gli occhi dell’uomo si posarono su ognuno dei suoi compagni e su Patil e Dalima mentre scandiva ogni parola con calma, -mantenere un certo grado di calma e di reciproca fiducia.-.
-Non sia mai che qualcuno rimanga offeso…-, disse Patil. L’uomo lo fissò.
James Crowain intuì, percepì. Inutile negare. No: Patil, o qualunque fosse il suo nome, non era decisamente concorde. Un problema da risolvere. Uno dei tanti. Dei troppi. Missione iniziata male, continuata peggio. “Resta da vedere come finirà.”, e alla fine era ciò che contava di più.
-Concordo.-, il successivo sorriso di Dalima era decisamente meno avvelenato, -E penso che sia ora, per tutti, di riposare e prendersi una pausa. Andate a riposarvi. Avete le prossime otto ore per riposarvi. Vi farò avvisare per il prossimo briefing operativo.-.

L’uomo espirò. Le stanze della villa erano ben arredate, non per questo però meno opprimenti di quelle della villa precedente. Erano una prigione dorata, l’ennesima.
L’uomo cercò le cimici. Ce n’era una. La lasciò dov’era. Altre? Non sembrava.
Ottimo. La fiducia regnava sovrana… Ma se lo aspettava.
Il problema era il resto. Si spogliò ed entrò in doccia. Acqua fredda, calda e di nuovo fredda.
Lavò via tutto quanto. Aveva già controllato per eventuali ferite. Nulla.
Restava solo da attendere. Da aspettare. Fece i suoi esercizi, addominali, flessioni, stretching.
Doccia numero due. Poi, finalmente, sonno. Letto. A dispetto dell’adrenalina, scivolò in un sonno senza sogni.

Nô Mitsutune si concesse una doccia molto lunga, prendendosi il tempo dopo alcuni esercizi.
Ovviamente le stanze erano ancora sorvegliate. Cimici? Ce n’erano almeno due nella sua.
Telecamere? Non sembrava. Almeno le lasciavano un minimo di privacy.
Meglio. Gettò un occhio fuori dalla finestra. Il cortile della villa era recintato da un muro. C’erano guardie nel cortile. Dacoit? No. Erano diversi. Troppo attenti, troppo professionali.
Vestiti come dei sikh, ma indubbiamente altro.
Gran brutta situazione. Erano ancora ostaggi. Nessun margine di manovra.
Nô decise: avrebbero dovuto cercare di ribaltare la situazione, anche perché non si fidava neanche un po’ di Dalima Kothil. La donna poteva anche star facendo realmente la sua parte per disinnescare il possibile conflitto ma la giapponese sapeva che, al termine della faccenda, il Governo Indiano non avrebbe soprasseduto sulle loro azioni, neanche per idea.
E Dalima Kothil non pareva particolarmente propensa a tollerare l’insubordinazione.
Il tutto richiedeva di tenere la guardia alta e di prepararsi a sfruttare qualunque occasione per ribaltare la situazione o riallacciare i contatti con i loro alleati. Il pensiero della giapponese si volse a Neroko Tsubikome. Fedele com’era, non sarebbe certo rimasto in disparte.
Stendendosi sul letto, Nô espirò piano. Inspirò ed espirò ancora. Rilassò il corpo.
E scivolò nel sonno.

James Crowain non perse tempo a perquisire la stanza. Controllò la medicazione. Tutto bene.
L’avevano rattoppato per bene. Di fare esercizi però non se ne parlava.
Cercò una posizione decente sul letto e, prima di dormire, si chiese se i loro alleati stessero cercandoli. Che domanda: ovvio che lo stessero facendo! C’erano protocolli ben precisi da rispettare e loro avevano mancato. Ergo, sicuramente Shaibat e Poretti avevano attivato una ricerca su vasta scala. La domanda era: sarebbero riusciti a trovarli e a liberarli?
Ma quella domanda perdeva d’importanza: il problema principale ora era evitare una guerra col Pakistan. A qualunque costo. E ovviamente, cercare di restare vivi. Era dura…

Jhon Kingsword mise in pausa il film. Era un altro porno locale. Sospirò: non era nulla di nuovo o di particolarmente eccelso. Era annoiato, ma la noia era una parte del problema.
Erano passate due ore e dopo una dormita di tale durata si sentiva rimbambito e di malumore.
Pessima combinazione considerando la situazione. Il film, iniziato da cinque minuti buoni non era stato di particolare aiuto, non l’aveva sollevato delle domande e dei dubbi, né gli aveva grantito relax. Jhon prese quindi a guardarsi attorno. Stanza con televisione vecchia ma pur sempre notevole per gli standard a cui l’indiano medio doveva essere abituato, letto king size e un mobiletto con dei libri, scaffali pieni di titoli di narrativa inglese. E un frustino da cavalleria appoggiato sui sopporti in legno d’acero. Una verga da cavallerizzo, tipica della nobiltà inglese. Unico particolare degno di nota. Finestre? Una sola. Cimici? Due.
Una dietro un libro, l’altra sotto il letto. Forse ce n’erano altre ma Jhon Kingsword non era intenzionato a cercarle. Non serviva. Dalla finestra vedeva il cortile. C’era un bel giardino sotto. Palme e piante ben curate. Stupendo. E guardie. In vesti bianche, con pettini e pugnali da Sikh parevano proprio quello: militanti sikh. In realtà, Jhon ne era certo, non lo erano.
La qual cosa rendeva quella casa un nascondiglio sicuro, per ora.
Sospirò, ridistendendosi sul letto. Chiuse appena gli occhi.
Qualcuno bussò alla porta. Sul momento, Jhon ponderò di non rispondere. Ma decise presto.
-Avanti.-, disse. Inutile chiedere chi fosse: poteva solo essere uno dei suoi amici.
Invece la sorpresa fu assoluta: a fare il suo ingresso fu Dalima Kothil. Capelli neri raccolti in una crocchia con uno spillone a tenerla unita e occhi verdi penetranti come spade.
La donna, avvolta nel sari, parve non curarsi del fatto che Jhon fosse sdraiato sul letto.
-Penso sia il caso di scambiare quattro chiacchere.-, disse.
-Un tempismo alquanto singolare.-, rispose il giovane, -Sai, ora come ora sono molto, molto stanco. E molto frustrato.-.
-Penso di poterti dare alcune risposte. Ma solo se tu ne dai alcune a me. Tu sei Jhon Kingsword, cittadino statunitense con cittadinanza britannica aggiuntiva. Indagato per traffico di smeraldi e contrabbando da Delhi. Ma mai condannato.-, disse Dalima.
Jhon Kingsword si rizzò a sedere. Merda, avevano davvero avuto modo di recuperare quei dati? Era accaduto una vita fa ma… Il sonno ora era lontanissimo.
-Immagino che non ti aspettassi di venire riconosciuto.-, Dalima pareva a suo agio, appoggiata allo stipite della porta. Jhon la fissava, in attesa che dicesse altro.
-Il tuo temperamento é… fastidioso. Ma immagino che tu sia un frutto del tuo vissuto, come me.-, Dalima fece pochi, misurati passi verso il centro della stanza. Jhon si alzò dal letto.
-E questo dovrebbe portarci a…?-, chiese. Dalima lo fissò, contemplando i muscoli del giovane a torso nudo. Sorrise. Poi volse lo sguardo verso la TV. La scena del porno era ancora lì.
La giovane indiana lo stava prendendo da dietro da un tizio dalla pelle scura. Bloccata in fermo immagine pareva in bilico tra piacere e sofferenza.
-A te, signor Kingsword. E al tuo… ruolo. I tuoi amici sono professionali. Soldati o ex soldati di qualche forza speciale. Ma tu no. Tu sei, o eri, un criminale. E quindi penso che tu possa capire.-, Dalima sorrise di nuovo, regina in pieno gambetto, -Penso tu possa intendere che la situazione richiede un certo grado di segretezza. E che ci sono risposte che non posso darti.-.
-Peccato che io le voglia, quelle risposte. E detesterei dovermele prendere.-, il viso di Jhon si sciolse in un sorriso, -Anche se potrei decidere che ne valga la pena…-.
-Adoro gli uomini che non si rifugiano dietro ai privilegi di essere uomini, Jhon.-, il viso di Dalima mutò in un ghigno allusivo. Il giovane sentì l’eccitazione gonfiare i calzoni, -Ma quelle risposte sono complicate… E spiacevoli.-.
-Come molto in questi ultimi giorni. Evitiamo l’ipocrisia, Dalima.-, Jhon fece un passo verso di lei. La donna annuì, indietreggiando di un passo e girandosi verso il mobiletto col frustino.
-Allora evitiamo l’ipocrisia. Il Pakistan non è un nemico facile. Lo stallo in Kashmir dura da parecchio. La spinta per la ripresa dell’ostilità è più da parte indiana che da parte loro. Ed è per questo che voi state agendo da questo lato. La cosa crea problemi, Jhon?-, il viso di Dalima Kothil ora esponeva altro. Sfida? Brama? Improvvisamente, Jhon capì. La verità era lì.
-Il Pakistan non ha agenti infiltrati, vero?-, chiese di punto in bianco. Dalima non rispose.
-Temo che questa informazione sia off-limits. Ma posso dirti che noi abbiamo agenti in Pakistan. Agenti che stanno evitando che la situazione prenda brutte pieghe.-, replicò infine.
-Quanta segretezza, miss Kothil. Quanta riservatezza…-, Kingsword chiuse la distanza, avvicinandosi di un passo ancora. Ora l’eccitazione si mischiava ad altro.
-Temo sia tipico di una donna, volere riservatezza.-, rispose Dalima Kothil.
-Anche di un’ex attrice porno?-, chiese Jhon a bruciapelo. Nessuna sorpresa dalla donna.
-Pensavo che il trucco e le inquadrature mi avrebbero evitato questa notorietà.-, ammise.
-Magari avrebbero evitato che gli spettatori distratti si accorgessero ma io… presto attenzione.-, rispose il giovane. Dalima si voltò, movimento rapido, il frustino impugnato nella sinistra a vibrare una scudisciata al viso di Jhon Kingsword. L’uomo la bloccò, afferrandole il polso. Erano vicinissimi. I loro fiati si mescolavano. La donna profumava di essenze sicuramente costose che lui non seppe identificare. Sorrise con crudeltà.
-Penso sia ora di rinegoziare i nostri rapporti, miss Kothil.-, la baciò con irruenza. L’altra mano di Dalima scese ad accarezzare il petto, i capezzoli, verso il membro del giovane.
-Concordo.-, rispose lei. Desiderio? Oh sì, in quegli occhi ce n’era da bruciare un brahamino.

Patil osservava e ascoltava. La stazione d’ascolto sentiva e all’occorrenza vedeva tutto quel che succedeva nelle varie camere. I rumori da quella in cui Dalima era entrata lo spinsero ad attivare la minuscola telecamera multi direzionale.
E vide. Il tizio biondo, Jhon Kingsword, baciava Dalima!
Sentì uno spasmo di desiderio. Si sorprese a pregare che finisse lì. Doveva! Dalima non avrebbe mai concesso a quel bastardo la somma grazia del suo corpo!
Patil stesso era un privilegiato a poterla omaggiare oralmente…
Peccato che le immagini non dessero quest’idea.

Il bacio successivo fu ben più aggressivo: lingue in bocca e bocche intente a divorarsi quasi più che a sfiorarsi. Con ancora in pugno il frustino, Dalima Kothil morse il labbro di Jhon. L’uomo interruppe il bacio. Il ceffone partì automatico. La donna incassò rispondendo a sua volta con una sberla. Sorrise. Anche lui sorrideva. Puro delirio sadomasochistico.
Il sesso di lui era un pilastro come pochi altri. L’indiana si sorprese al sentirsi così eccitata da quell’uomo che ora, era sceso a mordere e leccarle i capezzoli dopo averle aperto l’abito.
Veli e vestiti venivano rapidamente abbandonati sul pavimento. Con una sola mano libera per entrambi era difficile, ma lasciare la presa era per entrambi impensabile.
Avrebbe significato cedere. E nessuno dei due intendeva farlo. Per adesso.
La mano libera di Dalima stringeva il sesso di lui, quella di Jhon aveva preso a scendere, a scostare strati. Trovò il modo di sciogliere il sarì. Diede la strappata incurante della possibilità di lacerare il tessuto, esponendo l’intimo cache-sexe che celava la vulva dell’indiana. Dalima rise deliziata. Che foga! Quel tizio non doveva scopare da parecchio. E a lei non dispiaceva l’idea. Ma solo se fosse stata lei a comandare. La seconda passata strappò il cache-sexe.
Dalima alzò i piedi uno alla volta. Stesso fece Jhon. Via i sandali e liberi dai vestiti caduti.
I loro respiri si mescolarono ancora. Occhi negli occhi. Una sfida, ancora. Suo malgrado, Dalima ne era affascinata. Quell’uomo esigeva il controllo! Mai!
-Allora, bastardo?-, chiese lei. Lui sorrise. E agì. La percezione di Dalima slittò, così come anche lei. Jhon Kingsword andò in presa sul braccio della giovane. La sbilanciò facendola cadere sul letto. Le strappò il frustino di mano. Dalima imprecò. Non era previsto, e non intendeva permetterlo! Era lei che comandava!
-Figlio di…-, iniziò. Cercò di colpirlo ma lui la girò, senza badare ai suoi attacchi. Troneggiò sopra di lei, immobilizzandola sul letto. Recuperò qualcosa da terra, allungandosi.
Dalima sentì il suo sesso contro di sé. Si divincolò. Lo voleva, ma non così!
-Adesso t’insegno le buone maniere, stronza.-, la voce dell’uomo tradiva l’eccitazione ma nient’altro. Lei tentò ancora di divincolarsi. Lui le bloccò un polso. Annodò qualcosa al polso.
Dalima capì, il cache-sexe. Jhon Kingsword la legò una delle zampe del massiccio letto vittoriano. Dopo pochi minuti di lotta legò anche l’altra mano. Dalima imprecò.
-Liberami, stronzo! Liberami o ti faccio scuoiare!-, ringhiò.

-Interveniamo.-, disse uno degli uomini di Patil. Lui e il collega assistevano loro malgrado a quella scena. Patil non si mosse, suo malgrado ipnotizzato dalle immagini hard sullo schermo.

-Non sprecare fiato. Tempo di rinegoziare, miss Kothil.-, Jhon Kingsword afferrò il frustino.
-Figlio di puttana!-, ringhiò Dalima con voce che tradiva qualcosa in più oltre al fastidio.
Jhon fletté il polso, andando a colpire le natiche di Dalima Kothil con una scudisciata.
Il verso della donna fu un gemito di misto piacere e dolore.

Patil sentì i pugni chiudersi. Mai, mai, mai avrebbe creduto di assistere a una cosa simile!
Dalima stava venendo seviziata e, dal tono non esattamente interamente dispiaciuto, pareva che un po’ le piacesse. Patil sentì un’erezione potente. Avrebbe dovuto essere lui!
Avrebbe dovuto essere lui a farle questo!

Terza scudisciata. Dalima gemette ancora. Merda, come poteva piacerle? Quel bastardo la stava frustando col frustino che lei stessa aveva usato su un trafficante d’armi bengalese in quello stesso letto! Eppure, la donna non poteva negare la sensazione.
La quarta frustata le arrivò sulla schiena. S’inarcò contro il materasso, esalando un grido.
-Presumo che possa bastare, non crede, miss Kothil?-, chiese Jhon.
-Presumi… bastardo… ti faccio castrare! Ti strappo il cazzo a morsi!-, ringhiò lei a fatica.
Una mano di Jhon le affondò tra le natiche e le cosce. Trovò il suo sesso. Oltraggio? No, scoperta estrema, ultima finale verità. Jhon invase. Dalima gemette. Due dita dentro l’abisso bollente e liquido. Due dita dentro di lei. Senza il suo permesso. Inconsciamente si mosse contro le dita, s’inarcò contro le dita. Cercò di farle affondare di più, di più!, sino in fondo.
-Continua!-, ringhiò insoddisfatta. Le dita si tolsero, uscendo con un rumore umido che le lasciò un senso di mancanza insopportabile.
-Bastardo!-, lo insultò lei. Jhon ridacchiò.
-Quanto poco controllo da parte tua. E dire che stai colando miele, troia.-, la voce di Jhon arrivò al suo orecchio poco prima che le dita le arrivassero sulle labbra. Le dita che erano state dentro di lei. Dalima avrebbe dovuto mordere, rifiutare, opporsi.
Non lo fece: aprì la bocca e succhiò voracemente mimando una pompa. Lui tolse le dita.
-Allora? La nostra rinegoziazione può iniziare?-, chiese Jhon. Il sesso dell’uomo era ancora duro, forse anche più di prima. Dalima Kothil lo fissò, occhi brucianti di desiderio.
-Pensavo fosse iniziata.-, disse con un tono lamentoso.
-No. Era solo la fase… conoscitiva. La prossima sarà più intima.-, Jhon si mise in posizione dietro di lei, ficcandole un paio di cuscini sotto l’addome al fine di sollevarla decentemente.
-Ficcamelo dentro, brutto stronzo!-, sussurrò.
-Chiedi “per favore”, donna.-, rispose lui.
-Nei tuoi sogni!-, ringhiò Dalima, insoddisfatta. Cercò di torcere un polso, vedendo di liberarsi.
-E nei tuoi incubi…-, mormorò lui. Altra scudisciata sul culo. Dalima inghiottì lacrime e saliva.
-Allora?-, chiese Jhon. L’indiana ringhiò incoerentemente qualcosa.
-Più chiaramente?-, domandò l’uomo. Accarezzò con la punta del frustino la spina dorsale di Dalima, seguendola sino alle reni offese.
-Per piacere, brutto pezzo di merda, fottimi come una troia.-, disse. Qualcosa cadde a terra. Il frustino. Mani si affardellarono sul nodo, sciolsero. Dalima aveva le mani libere. Si massaggiò i polsi. Guardò Jhon con puro desiderio di… cosa? Ucciderlo? Farlo soffrire? Godere?
Occhi negli occhi, di nuovo. Jhon sorrise. Dalima si rannicchiò. Le natiche e la schiena dolevano. Oltraggio. Ma oltraggio gradito, anche se mai nessuno avrebbe dovuto saperlo, a parte lei. Il membro di Jhon si ergeva granitico.
-Avevamo un programma, Dalima. Sarebbe ingiusto non onorarlo.-, disse l’uomo.
Lei si lanciò su di lui. Lo bloccò sotto di sé. Fanculo il resto. Fanculo tutto.
Quello stronzo voleva giocare? E che si giocasse, allora!
Afferrò il suo pene introducendoselo nella vulva aperta e umida. Affondò sino in fondo senza curarsi di niente. Inarcò la schiena. Sentì Kingsword stringerle i seni con foga.

Dalima aumentò il ritmo, piantando le unghie nel petto dell’uomo come a volerlo sventrare.
Jhon le fece perdere la presa. Lei ringhiò qualcosa in hindi. Lui sorrise. Lei gli tirò un ceffone, lui ribatté con un suo. Lei sfilò lo spillone. Lo chignon si sfaldò, i capelli neri come una colata d’inchiostro improvvisamente liberi lungo la schiena. Lo spillone calò. Jhon intercettò.
-Continua stronzo! Se vieni prima che io abbia goduto ti ammazzo!-, esclamò Dalima.
Continuavano a contendersi lo spillone mentre le mani afferravano, graffiavano, i sessi si avvicinavano e allontanavano e i respiri divenivano ansiti ai limiti dell’apnea.

Patil, inchiodato allo schermo, si alzò. Era troppo. Troppo!
Lei non l’aveva mai fatto con lui! Non gliel’aveva mai permesso! E quel bastardo americano ora poteva averla? Così come se nulla fosse? Non lo poteva tollerare.
-Che faccio capo?-, chiese il collega. Patil cercò di ritornare lucido.
-Niente.-, sibilò. L’altro annuì. Uscì per andare in bagno. Patil espirò. Spense il monitor.
Non voleva vedere il resto. Aveva visto abbastanza.
-Me ne occuperò io.-, disse a sé stesso.

La cavalcata di Dalima l’aveva portata già a godere due orgasmi che, sommati a quello di poco prima l’avevano fatta sentire in estasi. Decise: Jhon Kingsword aveva superato la prova.
Lo spillone cadde. Lo lasciò cadere senza sforzo. E fu allora che l’uomo fece la sua mossa: la rovesciò sotto di sé, possedendola con foga. A Dalima Kothil non importava più: voleva godere. Il torace di Jhon era pieno graffi. I seni di lei dolevano a causa delle attenzioni dell’uomo. Un ennesimo orgasmo la scosse, proprio mentre lui, sfilatosi in extremis, eiaculava a grandi fiotti sul suo pube. Crollò accanto a lei. Rimasero fermi respirando, riprendendo fiato.
Il tempo parve allungarsi, come un nastro di Moebius per entrambi.
Poi, Dalima si alzò. Recuperò gli abiti, ma non li mise. Non subito.
-E ora, la parte difficile.-, disse Jhon.
-Le risposte.-, nessun’esitazione da Dalima Kothil.
-Concise e incisive-, condizione non negoziabile da parte di Jhon Kingsword.
-Molto brevemente, eliminerete gli agenti indiani che vorrebbero un conflitto. Una cosa semplice, no?-, chiese l’indiana. Frugò negli abiti. Trovò il pacchetto, estrasse e accese una sigaretta. Ne offrì una al suo nuovo amante. Era stato bravo, l’aveva fatta godere come nessuno aveva saputo fare da molto tempo. Fumarono piano, poi lei si stese a letto.
-Elementare, ma lacunoso. Il Pakistan?-, ancora domande da Jhon. Ancora interrogativi.
-Il pakistan niente. Non ha avuto praticamente alcuna perdita reale.-, disse Dalima.

Un nuovo livello di verità stava venendo svelato. James si alzò, avvicinandosi su gambe incerte al mobile bar. Trovò la bottiglia. Scotch inglese. Verso due dita. Bevve. Offrì a Dalima. Rifiutò.
-Mi stai dicendo che a far fuori Tah non sono stati i Pakistani?-, chiese l’uomo.
-No. Persino loro sanno che non sarebbe una buona idea. Ma incolparli è stato facile. I servizi indiani volevano questo.-, Dalima sorrise, -I loro servizi allo stesso modo ma l’Afghanistan non è un vicino tranquillo.-.
Jhon annuì. Fece connessioni, si ridistese. La testa macinava dati.
-Pensaci, Jhon. I politici indiani sono un gioco al massacro alcune volte. Voi volevate rimuovere Tah, no?-, chiese Dalima Kothil.
-Lui voleva la guerra. Tu no? Eri sua moglie.-, rispose lui con un’ennesima domanda.
-Sì. Ma non sono cieca. L’India non può permettersi il conflitto a dispetto delle opinioni dei più facinorosi.-, ribatté la donna. L’uomo rifletté.
Elementi andavano al loro posto. Pian piano, il mosaico prendeva forma.
-I tuoi amici capirebbero, Jhon? È nel mio interesse che i miei piani procedano senza intoppi. È nell’interesse dell’India, del Pakistan.-, Dalima si protese. Lo baciò. Una mano scivolò al sesso ormai molle, adagiato sulla coscia di Jhon, -E ora è anche nel tuo interesse.-. Carezzò appena.
-Farò sì che capiscano.-, disse Jhon Kingsword. Di rado aveva fatto sesso con una simile foga.
E dopo il sesso, quelle rivelazioni gli impedivano di pensare lucidamente. Doveva riposare, o provarci, almeno, ma scoprì di non sentirsi in grado di farlo.
Troppe rivelazioni, e troppa adrenalina, le endorfine rilasciate non placavano interamente i processi mentali. Carezzò distrattamente il viso e il collo della sua nuova amante.
-Pensaci, Jhon. Pensaci bene. Qui…-, la mano che carezzava il pene dell’uomo scese a stringere, -Rischiamo tutti moltissimo.-. Lui annuì. “Alcuni più di altri, sicuro.”, pensò.
La mano prese nuovamente a carezzarlo, strinse e lasciò i testicoli un paio di volte, arrivando sino al perineo in una carezza tutt’altro che innocente.
-I rischi sono il mio pane quotidiano. Da quando ho memoria.-, rispose Jhon. Scese verso il seno di Dalima. Strinse il capezzolo. Lei gemette.
-Vedo.-, disse soltanto. La carezza stava diventando una masturbazione in piena regola.
E Jhon non si sorprese ad aver già un principio di erezione. Scese con la mano. La donna era altrettanto eccitata a giudicare dai capezzoli irti e dalla vulva che pareva ancora dilatata.
I ragionamenti potevano aspettare. La baciò e iniziarono il secondo round.

L’uomo fu svegliato da un rumore. Bussavano alla sua porta, strappandolo al sogno.
Non che fosse poi granché di sogno. Stette ad ascoltare. Due colpi, silenzio, due colpi.
Andò ad aprire. Nô entrò, avvolta in un sari indiano.
-Decisamente bellissimo.-, disse l’uomo con un sorriso. La giapponese sorrise di rimando.
Gli occhi di lei però erano intenti sulle videocamere, cercavano, studiavano, elaboravano.
Lo abbracciò, stringendolo. Lui ricambiò. Sentiva di volerla. Lo scontro a fuoco, l’assassinio…
Baratri. Baratri noti e sempre diversi, orrori conosciuti ma incisivi. Per esorcizzarli, c’erano pochi modi e uno di questi era quello che Nô proponeva implicitamente.

Rumori umidi. Patil si costrinse ad accendere gli schermi.
Dalima e l’occidentale stavano riprendendo a fottere. S’impose di ignorare. Sorvegliare. Doveva sorvegliare. Altri rumori umidi. Da un’altra stanza.
Patil accese la telecamera. Il bacio tra l’uomo e la giapponese pareva tratto da un film.
L’indiano sorrise. L’aveva capito subito che c’era qualcosa tra loro. Non rischi la testa per gente di cui non ti fidi, ed è chiaro che sotto il piombo i legami si rafforzano, sino quasi a divenire questo. Magari non era nemmeno amore, solo desiderio.
In ogni caso, era evidente l’intento: le carezze dell’uomo scivolavano tra la seta, quelle della giovane accarezzavano il petto come ali di farfalla. Suo malgrado, Patil fu affascinato.

L’uomo accarezzava appena, sfiorava, come timoroso di spezzare un tacito patto.
Nô faceva lo stesso, lasciando che il desiderio si manifestasse a suo tempo e suo modo.
Si abbracciarono di nuovo, poi l’uomo sentì la voce di Nô, sussurrata e in giapponese.
-Karera wa watashitachi o mimamotte imasu.-. Tradotto: ci sorvegliano. Lui annuì.
-Doko kara?-, chiese lui. “Da che punto?”. Due baci sul collo, delicati. Ricambiò, tastando piano la schiena della giovane. Lei sorrise, alzando la testa, lui baciò ancora il collo. Mossa tattica. L’uomo capì, assecondò non senza godere di quel momento di tregua, preludio ad altro.
-Shanderia.-, rispose lei tornata a sussurrare al suo orecchio. Il lampadario. Brutto affare.
Continuarono ad accarezzarsi mentre l’uomo la spogliava piano e lei faceva lo stesso con lui.

L’attenzione di Nô era divisa tra il desiderio e l’attenzione ai dintorni. Cercava di non dare nell’occhio mentre spogliava l’uomo dandosi furtivamente rapide occhiate intorno.
C’erano altre telecamere? La sua domanda era quella. Non sembrava, ma non poteva dare per scontato. Il lampadario era in stile inglese, un po’ impolverato ma perfetto per una telecamera.
Altri posti tuttavia erano meno indicati. Nô notò che ora sia lei che l’uomo erano nudi.
Il desiderio montava. Nô lasciò che salisse, che l’uomo l’accarezzasse piano, che il piacere crescesse piano mentre disegnava sottili carezze sul petto e sul ventre del suo compagno e scendeva a sfiorarne il sesso.
In ogni altro contesto, si sarebbe lasciata andare, ma non lì, non subito, non senza essere sicura di potergli dire ciò che aveva notato.

Il cuore accelerato, Nô sa di dover restare concentrata. Sussurra in giapponese poche parole, l’uomo annuisce. Barcollando abbracciati, raggiungono il letto.
L’uomo le bacia i seni, il ventre, le cosce, lecca il sesso della giovane che geme sotto quella lingua sapiente. Geme, occhi socchiusi ma mai veramente chiusi, mai completamente ciechi.

Patil osservò l’amplesso. L’uomo baciò piano la giapponese, che parve gradire sublimemente le attenzioni, mentre la bocca di lui scendeva sui seni, sul ventre, sul pube, poi sulle cosce.
Si attardò tra le gambe della giovane. Questa cominciò a gemere, sempre più forte, sempre meno pacatamente, sempre più bramosa.
Patil si accorse di avere un’erezione. Merda, tra le acrobazie amorose di quei due e la scena torrida di poco prima, non c’era di che stupirsi.
Osservò la coppia abbracciarsi, accarezzarsi, lei scendere lungo il suo corpo, cercare il suo sesso. Corrispondeva all’idea della geisha giapponese che procedeva leggiadra nella sua opera.
Patil si accarezzò distrattamente il pene. Il suo assistente era poco distante, intento a fumare una fetentissima sigaretta. Se fosse stato solo, magari avrebbe potuto darsi soddisfazione, almeno marginalmente, oppure avrebbe contattato una puttana d’alto bordo di cui aveva il contatto e che, a suo tempo, gli aveva permesso di dimenticare il mondo esterno al letto king-size per qualche ora. Ma purtroppo non era da solo e quella scena continuava.
Prese un sorso d’acqua, cercando di dominarsi.

Fotocamere? L’uomo ne vedeva due, rivolte verso altri punti, una sola su di loro.
“Difficile che ci sia un punto che non hanno coperto”, pensò mentre Nô s’impalava sul suo sesso eretto e turgido. La giovane scese, accogliendolo dentro di sé piano, con lentezza esasperante. Si baciarono. Lei mormorò una parola in giapponese, che era una domanda.
Telecamere? Lui rispose. Una. Su di loro. Lei sorrise. Lo baciò
La giovane prese a dettare il ritmo, ansimando. Il caldo e i movimenti sempre più rapidi ma leggeri li resero presto madidi di sudore. Particolare trascurabile. L’uomo prese il predominio.
Nô si distese sul letto. L’uomo si inginocchiò tra le sue cosce e la penetrò.
Lei lo avvinghiò con le gambe, lo strinse tra le braccia. Gli morse appena il collo, baciandolo con leggerezza. L’uomo sentiva prossimo il piacere. La contrazione della vulva della giovane gli segnalò che Nô aveva goduto.
-Qi…-, sussurrò lei. L’uomo sorrise. Non era il suo nome, ma che importava. Andava bene.
-Sono qui.-, mormorò lui, -E non vorrei essere da nessun’altra parte.-.
Era vero. Anche perché quel punto non era interamente coperto dalle telecamere.
Si lasciò andare, lasciando che tutto fosse, che il presente occupasse l’interezza dei suoi pensieri e dei suoi atti. Lasciò che i loro battiti diventassero uno, come i loro corpi, come le loro anime. Un momento di assoluta, totale perfezione, completa armonia.
Un riparo dalla tempesta incombente, anche se solo per poco.
L’uomo affondò sino in fondo, lasciando libero il suo piacere, sentendosi risucchiato, assorbito avvolto dalle carni della giapponese. Nô salutò quell’orgasmo con un gemito lungo, modulato.
Giacquero immobili per lunghi minuti, nel silenzio rotto solo dai respiri, i loro umori e odori mischiati, la stanza stessa partecipe dell’amplesso. I tatuaggi stessi sul corpo di Nô e sul suo parevano inspirare autonomamente. Poi lei iniziò a parlare, piano. Lui sorrise. Annuì. Sentì la mano di lei cercare il suo sesso, stringerlo a dispetto del fatto che fosse flaccido. Ciò che Nô stava dicendo però non aveva nulla a che vedere con promesse di altro godimento o esigenze da donna bramosa di altro piacere.
No: la giovane stava parlando di ben altro. L’uomo capiva, accettava. La ricreazione era finita.

-Che si staranno dicendo?-, Patil lo domandava a tutti e a nessuno.
-Non so. Non credo parlino inglese. Posso provare a ripulirlo, ma penso sia giapponese.-, disse il suo sottoposto, un giovane soldato ex-esercito indiano chiamato Jhasir.
Figlio di genitori pakistani, era uno dei suoi migliori elementi.
-Credo che lei voglia che continuino a scopare. Guarda: lo sta pure segando. Che troietta vogliosa!-, l’apprezzamento non fu raccolto da Patil che, a dispetto di tutti i pregi di Jhasir sapeva che quando vedeva una donna tendeva a perdere la concentrazione.
D’altronde, la giapponese pareva davvero interessata a riprendere la maratona erotica e aveva preso a masturbarsi lentamente, succhiandosi le dita sporche degli umori misti dei due amanti. L’uomo giaceva sulla schiena, apparentemente soddisfatto. Il suo membro, nella mano della giovane non pareva intenzionato a rimettersi al lavoro molto presto.
-Probabilmente è solo qualche idiozia da bordello. Tutto da copione.-, concluse Jhasir con un ghigno lascivo che evidenziava la sua eccitazione. Probabilmente.
Patil ne era praticamente sicuro. Lasciò che Jhasir uscisse.
Nel dubbio però avrebbe provveduto a chiedere una traduzione. Ci sarebbe voluto tempo, ma avrebbe avuto la verità.

Shaibat aveva gli occhi cerchiati, arrossati. Pessimo binomio computer-lavoro notturno.
Tuttavia, Neroko Tsubikome lo vide subito, il suo sorriso pareva raggiante.
-Ho un’idea su come recuperare i nostri e chiudere la questione prima che vada tutto in vacca.-, esordì la thai durante la colazione. Tutti si volsero verso di lei, in attesa.
-Che ti serve?-, a parlare era stato Frank Horst. L’hacker thailandese sorrise.
-Un telefono vecchio stile. Tracciabile.-, disse.
-Lo avrai. Ma perché non contattare chi dobbiamo attraverso altri mezzi?-, chiese Miryam Goldmann tra un sorso di thé e l’altro. Shaibat scosse il capo.
-Troppo rischioso. Per quello che devo fare occorre un certo grado di esposizione.-, spiegò.
-E immagino occorra al più presto.-, disse Neroko alzandosi. Non aveva quasi toccato cibo.
-Sì.-, ammise Shaibat, -Non vi nego che non sarà facile ma l’unico modo per salvare i nostri… alleati, è questo. Ora lasciate che vi spieghi…-, iniziò a spiegare. Nessuno parve particolarmente stupito.

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