Skip to main content
Racconti Erotici Etero

Beyond the White: Indian Target. Finale.

By 29 Maggio 2023No Comments

Dalima Kothil arricciò le labbra in un sorriso.
Entrare era stato facile: era bastato far leva sull’avidità dell’ufficiale, che peraltro continuava a parlare di dati, di routine, di armamento.
Tutta roba già nota. La donna scambiò uno sguardo con Patil Rabhoungham.
L’uomo annuì appena. Tutta quella farsa stava solo rallentandoli.
L’ufficiale terminò d’illustrare le posizioni e le routine del caso al gruppo, senza notare apparentemente che i mercenari di Dalima si erano spostati in posizioni di vantaggio rispetto ai suoi uomini.

L’uomo espirò appena. Avrebbe voluto dormire, dare una sepoltura degna a Nô, informarsi riguardo a Jhon Kingsword e visitarlo, se era ancora vivo.
Invece era lì, in quella sala riunioni approntata grazie a Shaibat e alla sua collaborazione con le Forze Speciali indiane.
-Jahaghanath nasce come progetto difensivo estremo. Un installazione missilistica segreta, costruita in Kashmir. Predisposta per il lancio di missili Agni-5.-, spiegò Turama.
-ICBM?-, chiese James Crowain. La ferita al fianco non gli aveva impedito di partecipare al briefing, né l’aveva impedito agli altri. Di restare in panchina, l’inglese manco ne voleva sapere. Non era entrato nell’SAS ma non aveva nulla da invidiare ai neri araldi della morte di Sua Maestà. Anche lui ora esigeva di essere presente all’atto finale.
Turama annuì. Fece un cenno a Shaibat. La Thai mostrò le planimetria di Jahaghanath.
-La struttura sfrutta un dedalo di caverne naturali allargate e rinforzate. È impossibile rilevarla dall’alto e la posizione garantisce che un assalto frontale possa essere trattenuto con un margine minimo di uomini e munizioni. Gli interni sono un labirinto di strettoie e porte blindate, in larga parte a chiusura automatica. I generatori della base sono autonomi da quelli del circondario e ce ne sono ben due di scorta. È indipendente e autonoma, in tutto e per tutto.-, concluse l’indiana. L’uomo annuì.
-Dalima Kothil sapeva di Jahaghanath.-, disse Frank Horst anticipando il Giustiziere.
-Sì. Ha infiltrato i servizi indiani. Molto in profondità. L’ha fatto tre anni fa. Poi ha fatto sparire le proprie tracce. È ricomparsa come Prya Rani, pornostar di dubbia categoria.-, Turama elencò i fatti inpersonalmente, quasi la cosa non le importasse.
-E così ha sposato Sanjar Tah.-, concluse l’uomo. Diede il colpo di grazia al thé.
La bella moglie tro(ia)feo che aveva fregato alla grande il marito e i suoi.
-Tah e il suo gruppetto facevano parte dell’ala estremista del partito nazionalista. Loro la volevano, la guerra col Pakistan. Volevano che l’India tornasse com’era nei tempi antichi. Un’impero con un ruolo di primo piano in tutta l’Asia.-, s’inserì Arjun.
-Il che spiega i bonifici. Milioni di rupie in entrata e uscita.-, commentò Shaibat.
-Sì. È difficile dire sin dove arrivi la cospirazione. E Dalima ne ha approfittato. Ha infiltrato Tah e i suoi sfruttandone risorse e conoscenze, per poi portargli via i codici di Jahaghanath sotto il naso.-, Turama sapeva di avere un’aria sconsolata. I loro nemici erano avanti a loro e non di poco. L’uomo posò il bicchiere sul tavolo.
-Quanto tempo ti serve per organizzare un gruppo d’attacco?-, chiese.
-Solo due ore.-, disse Turama.
-Fallo.-, ribatté l’uomo, -Noialtri ci equipaggiamo. Notizie di Jhon?-, chiese.
-Sì. È sotto i ferri. I medici stanno lavorando da due ore. E prevedono di non terminare prima delle otto. Un proiettile ha sfiorato un rene. Non è messo bene.-, rispose Turama.
-Il corpo della vostra compagna è all’obitorio. Non ci sarà la burocrazia a fermarvi dal reclamarlo.-, promise Arjun. Neroko annuì appena.
-Armi?-, chiese Myriam Goldmann. Indossava una mimetica a strisce di tigre urban.
-Israeliane. Tar 21 della IWI prodotti sotto licenza. Adatti al combattimento urbano.-, rispose l’indiano. L’uomo vide Myriam annuire, non senza compiacimento.
-Due ore.-, riepilogò. Due ore per medicarsi, mangiare, riposare e riequipaggiarsi.
Poco, troppo poco. Ma doveva bastare. Scambiò uno sguardo con Turama. L’indiana chiuse la chiamata al cellulare rugged dopo una breve conversazione in Hindi.
-Abbiamo visite.-, disse.
Neanche due secondi dopo entrarono. Agenti in uniformi kaki. Polizia militare.
Armi puntate e ultimatum alla resa in inglese. Da manuale.
-Jindal! Questa è l’ultima goccia!-, ringhiò la voce da fuori. L’uomo annuì.
Doveva accadere. E ora, era accaduto. Il sistema li aveva raggiunti di nuovo.
L’uomo che entrò era basso, ma piantato e tracotante. I capelli parevano pettinati con lo sputo.
A vederlo sarebbe sembrato solo un impiegatuccio dappoco. Nulla di più lontano dalla verità.
Quell’uomo era Ravi Jitarshinkal. Controterrorismo interno. Uno dei pezzi più grossi.
E non pareva venire esattamente in pace.
-Mi dica, tenente, nella proverbiale scala da uno a dieci, quanto ci tiene a finire a darla via in qualche sordida baraccopoli di Mumbai?-, chiese con rabbia il nuovo venuto mentre i suoi, armi in pugno, tenevano sotto tiro il Giustiziere e i suoi.
-Stando a quanto mi risulta, mi pare che il risultato sia un piacevolissimo otto, vista la presenza sul territorio indiano di elementi deviati qui presenti, tra i quali nientemeno che Shaibat, una famosa terrorista e hacker.-, continuò Ravi mentre gettava un’occhiata furente alla thai che, malgrado tutto, pareva assolutamente tranquilla.
-O forse, dovrei aggiungere qualche punto. Vediamo: nessun rapporto per più di quarantott’ore. Nessuna presa di contatto, totale menefreghismo delle procedure…-, l’uomo vide Turama irrigidire la gola, il collo.
-Signore, potremmo essere seriamente compromessi…-, iniziò lei.
-Taccia! Taccia o commuterò la sentenza nei suoi confronti a un esecuzione bella e buona. Una di quelle belle esecuzioni all’inglese, muro bianco di sfondo e fila di fucilieri doppia, le garba?-, chiese Ravi. Si fermò davanti all’uomo, a Myriam e i suoi.
-I famosi occidentali! Ce n’è abbastanza per un bel soggiorno in qualche carcere duro. E non crediate: due assassini politici sono già a vostro carico. Anche quello di Shira Panchari è opera vostra. Con le prove che ho potete scordarvi di invocare ambasciate o servizi.-, continuò l’indiano. L’uomo sospirò.
-Sa, vorrei capire quanto valore attribuite a questi politici: un agitatore di folle, un puttaniere e una corrotta….-, disse.
-Stia zitto! Non s’illuda: non siamo stati in grado di risalire al suo vero nome, ma non abbia paura: le tombe senza nome vanno molto di moda.-, gli intimò Ravi.
-Prima o dopo di lei?-, chiese l’uomo con un ringhio.
Quell’ometto stava a mostrare i muscoli mentre il suo paese era sull’orlo dell’Armageddon. Era questo che il Giusitziere trovava insopportabile.
-Osi minacciarmi, figlio di una puttana impestata?-, chiese con ira l’indiano.
-Oh, lui forse no.-, rispose Shaibat con un sorriso, -Sa, noi siamo colpevoli, e così anche Ms. Jindal e il suo commando. Ma… nell’ottica di un’ultima collaborazione tra noi e voi… Potrei concludere la presentazione del sito di Jahaghanath?-, chiese.
L’uomo notò Ravi guardare la thailandese come se avesse voluto spararle.
-Quei dati non dovrebbero neppure essere in suo possesso. Ma se proprio ci tiene a farsi fucilare, prego!-, esclamò l’indiano. Shaibat pigiò il tasto del mouse.
La voce di Ravi e un’altra voce, femminile, si fecero udire nella stanza.
“Allora, siamo d’accordo?”, la voce di Dalima Kothil. Sguardi s’incorciarono.
“Sì. Terrò i miei al guinzaglio. Tu intanto lavorati Tah e i suoi.”, la voce di Ravi.
Nella sala ci fu un cambiamento. Subitaneo quanto rapido. Le armi puntate su Turama, i Gatti Neri, l’uomo e i suoi cambiarono di botto bersaglio. Inquadrarono Ravi Jitarshinkal.
-No! È follia! È un trucco di quella puttanella thai!-, ringhiò l’uomo. Turama agì, rapida. Gli piegò un braccio dietro la schiena, obbligandolo a piegarsi.
-Troppo gentile, signore. Immagino sia sempre un mio sordido trucco questo bellissimo saldo del suo conto bancario in Svizzera. Guardi lei: cinque milioni di dollari! Peccato che la Svizzera non sia più troppo affidabile come paradiso fiscale… Ma veniamo alle Cayman! Oh, solo due milioni e settecentomila dollari? Che disdetta… Ma cosa ne penserà sua moglie? Ah, ma non ne sa nulla! Come non sa nulla della sua amante, la modella Jane Bishop, australiana, di soli diciannove anni…. Molto, molto interessante il suo elenco di amicizie. Shira Panchari, Sanjar Tah… Oh, ma che meraviglia questa sua capacità di cambiare fronte così! Prima per Shira e i suoi, poi per Dalima e Patil… Notevole!-, le parole di Shaibat erano una serie di chiodi nella bara. Turama strinse la manetta. Clack!
-Io… io… Non capite! Ero sotto copertura!-, esclamò Ravi. I visi degli uomini erano inespressivi. Per loro quell’uomo era divenuto meno di un insetto.
-E che lavoro ecomiabile! Sicuramente quel festino a base di cocaina e alcool è stato un vero orrore! Che sacrificio nobile! Un vero eroe!-, esclamò Shaibat in tono ironico e acido.
Il sorriso si spense sul viso della thailandese quando avanzò sino a Ravi.
-Quelli come te mi fanno schifo. Sono così marci che solo a guardarli ci si sente laidi.-, sibilò.
Sputò in faccia al funzionario prima di voltargli le spalle.
-Sergente Arvidarham. Arresta questo miserabile traditore.-, ordinò Turama.
-Sissignora.-, il sergente scattò sugli attenti trascinando fuori il prigioniero.
-Arjun. Massimo allarme. Tutti gli altri fuori da qui: abbiamo un operazione da preparare.-.

La base dei Gatti Neri in Rajastan era Camp Bhima. Ufficialmente inesistente.
I soldati là erano già pronti. Due ore, aveva detto Turama.
La forza d’attacco era composta da una quarantina di elemnti, più il gruppo dell’uomo.
Armamento: fucili Tar-21, CTAR e versioni da tiro a lunga gittata. Fucili di precisione SAKO.
Armi da pugno e da taglio, granate flashbang e antiuomo.
Un’ora più tardi, Turama, l’uomo e i loro compagni erano a Camp Bhima.
Lo squadrone dei Gatti neri c’avrebbe messo poco ad adunarsi: il riposo era semplicemente ridotto. Ma andava bene. Nessuno di loro sarebbe stato in grado di dormire. Non con un simile fardello sulle spalle. Mangiarono però, un rancio rapido e breve. Sussistenza.
James Crowain annuì. La ferita al fianco gli faceva ancora male, ma non significava nulla: non si sarebbe perso la fine di quella storia per niente al mondo!
Richiese formalmente a Turama e al suo ufficiale comandante di potersi aggregare come sniper. Ai test si era posizionato secondo del suo corso, come tiratore scelto. Andava bene.

L’ufficiale sorrise, sornione. Dalima desiderò ardentemente sparargli.
-Dunque è tutto. Vorrei vedere il pagamento, ora.-, disse.
Dalima annuì. Estrasse i diamanti in bustina. Li gettò all’uomo. Lui incespicò, affardellato dal gibernaggio per prenderli. E non notò il resto.
Patil chinò il capo trasmettendo un ordine al laringofono.
I mercenari agirono. Dalima sparò due colpi con la pistola mitragliatrice. L’ufficiale, colto di sorpresa, non ebbe modo di reagire. Fu schiantato dai proiettili contro la parete di fondo della sala. Il personale a difesa della base oppose un tentativo di resistenza, ma erano disorientati, privi di ordini. Il loro nemico invece era armato, pronto e soprattutto determinato e deciso.
Non fu una battaglia: fu uno sterminio. Con lame e proiettili, i mercenari di Dalima e Patil massacrarono il personale della base. Niente crudeltà inutili, massima economia. Nessuno spreco di colpi o di sforzi. In meno di cinque minuti l’intera guarnigione era stata cancellata.
Jahaghanath era caduta.
-Bruciate i corpi, alla svelta. Chiunque non sia indispensabile a questo compito, posizionarsi alle postazioni difensive. Jamal, quanto ci vorrà perché il sistema sia operativo?-, chiese Patil all’indirizzo del milite pakistano, unico tecnico informatico di alto livello del loro gruppo.
-Almeno due ore. I codici ci danno accesso alla sala controlli, ma per attivare i protocolli di sicurezza e avviare i protocolli di lancio senza…-, la frase di Jamal fu tagliata da un imprecazione di Dalima Kothil. La donna ringhiò di rabbia.
-Non abbiamo tutto questo tempo! Se qualcuno dei nostri nemici è ancora vivo, e lo sono sicuramente, di certo staranno preparando una controffensiva!-, esclamò.
-Io… posso creare un diverso protocollo di lancio. Occorrerrà il bypass della sicurezza, ma posso farlo! Mi serve solo un po’ di tempo!-, propose Jamal, terreo.
Patil sorrise, ferocemente. -Ma certo, Jamal. Tutto quello che vuoi!-, disse con cortesia.
Appoggiò la canna della pistola al collo dell’uomo, in corrispondenza della giugulare.
-Sono assolutamente convinto che tu farai questa cosa, in un’ora e mezza? Perché è per questo che ti paghiamo, Jamal. È per questo che la tua fetente famigliola a Islamabad non è ancora divenuta concime ed è per questo che il tuo piccolissimo peccato non è stato rivelato…-, sussurrò all’orecchio del pakistano.
-Io… Io farò tutto quello che potrò…-, riuscì a balbettare l’uomo.
Non aveva nessuna voglia di morire, ma sapeva che se non avesse accontentato i suoi ricattatori, anche la sua famiglia ne avrebbe fatto le spese. Avrebbero ucciso tutti loro e poi avrebbero diffuso la verità su di lui, sulla sua dipendenza dall’oppio di Herat.
Cose del genere non erano da buoni musulmani, né da buoni funzionari statali.
-Bene. Ora, in questo impianto c’è una piattaforma d’atterraggio interna. Elicotteri Viper, almeno tre. Aisha, penso che tu ti possa occupare di controlli pre-volo e tutto il pacchetto?-, chiese Dalima. Aveva assistito allo scambio tra Patil e Jamal senza interesse.
La donna, un’agente dei Servizi Pakistani e segretamente talpa della rete di Dalima nell’intelligence di Islamabad sorrise. Grazie al balaclava e al colorito appariva simile a un’indiana salvo per il tono di voce e le proporzioni del corpo.
-Sissignora.-, disse facendo un saluto militare.
-Voglio quei Viper pronti al decollo. Muoversi.-, sibilò Dalima.
Entrò nella sala comando. Gli schermi delle console erano intatti. I suoi mercenari erano intenti a trascinare fuori i corpi dei difensori morti.
Jamal incominciò a lavorare freneticamente sulle tastiere. Dalima non se ne curò.
Incedette oltre. Verso i silos dei missili.
Potere della distruzione allo stato puro, quello erano.
Al momento, nel sito ce n’erano due, operativi. Agni-5. Armi terminali. Il fuoco dal cielo, il Narayanastra di Kuhurukshetra, l’arma di sterminio definitiva.
Dalima accarezzò appena la parete del silos. Il freddo le trasmise un brivido che la donna sentì come qualcosa di eccitante, di velatamente sensuale.
-Affasciananti, vero?-, chiese Patil. Era arrivato sin lì senza un suono. Dalima annuì.
-Presto faremo sì che tutto questo abbia fine. L’ipocrisia dei nostri tempi, l’idiozia dell’occidente, la cecità di leader compiacenti, tutto si sgretolerà davanti al potere di Agni…-, mormorò l’uomo. Aveva il viso illuminato da una gioia folle.
-Sì. Finalmente avranno ciò che meritano… tutti loro.-, sussurrò Dalima. Erano vicini.
-Dobbiamo pensare anche agli altri. Aisha e Jamal sono pakistani. Non prenderanno bene gli eventi successivi.-, disse Patil.
-La famiglia di Jamal è in Bangladesh, sotto attenta osservazione. Quanto ad Aisha è orfana e odia il governo di Islamabad per la sua corruzione tanto quanto noi odiamo il nostro per la propria indolenza.-, il viso dell’indiana si aprì in un ghigno, -Li abbiamo in pugno.-.
-Sì. Ma credo sia molto meglio se, una volta terminata questa fase, loro non ci seguano.-, suggerì l’uomo. La donna annuì. Capiva.
-Noi invece ripiegheremo in Nepal e poi verso la Corea del Nord. I nostri contatti ci aiuteranno ad arriva sin là. Il Generale Sho Hi ha già assicurato la sua cooperazione. Potremo vedere la fine di questo patetico stallo da lontano. Poi quando le ceneri saranno finalmente estinte…-, Dalima si accorse di sentire il cuore battere forte.
-Torneremo. Grazie ai nostri agganci saremo in grado di imporre la nostra leadership. In fin dei conti, indipendentemente da come andrà il conflitto, l’ONU non rimarrà a guardare. Avranno bisogno di stabilità e noi la garantiremo.-, anche la voce di Patil tradiva l’aspettativa.
-Tutto grazie al nostro piccolo accordo con le Triadi cinesi e con i servizi di Pyongyang… Ah, il non così indiscreto potere dei fondi neri…-.
Dalima annuì. Ansimava leggermente. Attirò a sé Patil prendendolo per il giubbotto in kevlar.
L’uomo non fece resistenza. La baciò ferocemente, palpeggiandola brutalmente.
Dalima ansimò. Si sentiva eccitata come non le era mai capitato.
Era da diverso tempo che pianificavano quel colpo. Patil era un ex militare indiano disilluso mentre lei… lei era stata moltissime cose. Ma ora era solo una donna che voleva scopare.
Prima era stata un’agente di polizia, un’agente dei Servizi Indiani, poi una pornostar e infine era ricaduta nell’oblio, creandosi diverse “leggende” in tutta l’Asia.
Travestimenti e schemi dentro schemi per portare a termine il piano finale.
Patil le abbassò di forza i pantaloni dopo aver slacciato il cinturone. Dalima miagolò.
Il giubbotto in kevlar le schiacciava i seni, ma andava anche a premere contro i capezzoli già turgidi. Afferrò il sesso del partner sopra i calzoni prima di aprirli ed estrarlo.
Il pene dell’uomo era grosso e duro. Lo manipolò piano, con consumata abilità.
Era stata la sua totale assenza di ritrosie o scrupoli morali e renderla ciò che era. A differenza di molti altri, lei non aveva mai giustificato le iniquità del mondo, decidendo invece per spazzare via gli ipocriti e i deboli. Da quell’olocausto, l’India sarebbe uscita più forte.
Patil non aveva una storia troppo diversa: aveva obbedito a un’ordine dietro l’altro, senza farsi domande, sino a un singolo momento di assoluta, lapidaria chiarezza.
Aveva intuito che il sistema era marcio e che giocare secondo le regole non serviva.
Bisognava giocare più sporco, dunque, essere più spietati.
Patil e Dalima si erano incontrati per caso. Lui era passato al settore privato, lei all’epoca aveva abbandonato la divisa e viveva di lavoretti tutt’altro che puliti.
Il loro incontro aveva avuto il sentore di un atto scritto per loro, di un destino manifesto.
L’indiana gemette quando sentì le dita di Patil saggiare la sua intimità. Era bagnata e lo sapeva. Si bagnava in fretta, era anche questo ad averla resa un astro fulgente del porno indiano. Gemette quando l’uomo le girò le dita dentro.
-Troia…-, alitò Patil. Lei lo baciò mordendogli il labbro.
-La tua troia.-, sibilò staccandosi, -E ora scopami.-. L’uomo la girò brutalmente portandola a piegarsi. Fu dentro di lei pochi secondi dopo. Dalima s’inarcò contro l’erezione del suo compagno. Schiacciata contro la parete del silos, presa ferocemente da quell’uomo che come lei non conosceva rimorso o paura, provò un orgasmo così intenso da non riuscire quasi a stare in piedi. Lui continuò a pompare, ancora e ancora, fino a che Dalima non lo sentì godere brutalmente dentro di sé.

Turama lo trovò intento a osservare il paesaggio. Nella frenetica preparazione del campo, l’uomo era un solitario punto fisso. Normalmente, anche lei lo avrebbe ignorato.
Ma non poteva, non intendeva farlo. Si avvicinò, incerta su come iniziare. Decise.
-Va tutto bene?-, chiese. Si morse le labbra: sapeva che questo era indelicato, indiscreto.
-No.-, mormorò l’uomo. Indossava occhiali che ne coprivano gli occhi, li tolse con un gesto rabbioso. Aveva gli occhi rossi. Pianto. Lacrime di un uomo per un’altra morte.
-Mi dispiace…-, mormorò Turama, -Io… non ti conosco e non conoscevo lei… Forse non ho diritto a dire nulla… Forse…-, fece per andarsene, -Forse dovrei andare…-.
-O forse no. Forse dovresti sapere.-, disse l’uomo.
-Per non dimenticare.-, aggiunse, -Per non lasciar svanire il ricordo di chi eravamo…-.
-Shaibat… mi ha detto qualcosa. Poco. Non rispondete a nessun governo.-, disse Turama.
-I governi sono fatti da persone che vogliono il potere. E il potere corrompe, anche quando inizialmente lo brami per fini nobili.-, spiegò l’uomo, -Nô era così. Una guerriera. Non aveva interesse nel potere, sebbene ne avesse ottenuto, suo malgrado.-.
-Siamo venuti in India per scongiurare una guerra, con la morte di Tah. Ma alla fine abbiamo peggiorato le cose.-, disse l’uomo. Turama scosse il capo.
-No. Le cose andavano già male. Il marcio c’era già. Almeno ora, un po’ del marcio è stato lavato. Ma ora dobbiamo finire. Dobbiamo porre fine.-, disse.

L’uomo annuì. Sì, avrebbero posto fine a quell’ennesima macchinazione, poi…
Poi avrebbe riportato Nô in Giappone, affinché fossero celebrati i riti funebri come lei avrebbe voluto, a casa. Poi… Poi non lo sapeva.
-Tu credi che sia possibile che finisca?-, chiese Turama. L’uomo la guardò, in attesa di altro.
-La corruzione. Il voler sopraffarre e predare i deboli. L’odio… Il male.-, spiegò lei.
-No. Prima dovremo morire. Tutti loro… E tutti noi.-, disse l’uomo.
-È questo che fate… Rimuovete la metastasi…-, dedusse l’indiana.
L’uomo annuì. Anche lei sembrava stanca della corruzione, del marcio. Si capiva.
-Il problema è che lo facciamo con i loro metodi. Molti di quelli che vengono arrestati se la cavano. Giudici corruttibili, pene commutabili, cauzioni pagabili grazie ai fondi neri o a qualche intrallazzo con qualche altrimenti immarcescibile politicante da operetta…-, l’uomo fece un sorriso, cattivo, -Tutti festeggiano il brutto e il cattivo dietro le sbarre e nessuno si preoccupa di capire se effettivamente ci sia stato qualche cambiamento. Sorpresa! Nessun cambiamento. Non dirmi che non è vero, Turama.-.
-Non lo dirò. Ma… sovvertire l’ordine costituito…-, mormorò lei.
-Non sovvertire: purgare.-, corresse l’uomo. Fissò di nuovo l’indiana. Era bella.
Ed era in bilico. Credeva ancora nelle bandiere, nei sistemi, nelle organizzazioni. Le mancava l’ultima spinta per varcare la linea. Ma non era sicuro che stesse a lui dargliela.
-Non siamo assassini. Siamo Giustizieri. E lo siamo perché ci siamo stancati di subire. Io ero un relitto in una città marcia, in America. Ho ucciso molte persone, anche in alto, anche dentro il sistema. L’ho fatto perché non c’era altro modo. James? Era un commando inglese, prima di rendersi conto che i nemici, quelli veri, sono dietro le nostre linee. Jhon? Un marcio che si è ripulito. Altri che non conosci hanno storie simili. Non siamo puri, ma abbiamo scelto da che parte stare e perché batterci.-, l’uomo la fissò, -E arriverà un momento in cui anche tu farai questa scelta, Turama.-. Lei scosse il capo. Fu un movimento lento, rigido.
-Io sono un soldato. Sono un commando, faccio parte delle Forze Armate Indiane. Non posso oltrepassare certi limiti. Questa missione è stata comunicata al mio governo, che l’ha approvata. Ma la vostra presenza… quella è problematica. Il mio comando ha determinato un fermo. Vi tratterranno per capire come e cosa fare di voi.-, rispose l’indiana.
-Capisco.-, annuì l’uomo. Conosceva abbastanza l’India e l’Asia per capire che la cosa non si metteva necessariamente bene. La presenza di Shaibat non avrebbe aiutato: l’hacker thailandese aveva combinato qualcosa laggiù. Più che comprensibile che il governo indiano volesse trattenere lei e anche loro. Avrebbero potuto farli sparire nel nulla.
-Non ti forzerò a tradire il tuo paese, Turama. Ti chiedo solo di lasciar andre almeno Neroko. Lui riporterà Nô in Giappone, affinché…-, la voce dell’uomo si spezzò.
L’indiana annuì. C’era comprensione su quel volto. Lui fu grato. Parlare era ancora così difficile. Nô… morta. Era come se una lama fredda gli scavasse dentro, strappando il calore.
“Tutte le cose nascono dalla vacuità e ad essa fanno ritorno”, pensò l’uomo.
E per l’ennesima volta, quel mantra, seme incorrotto della filosofia orientale, non lo aiutò.
Vendicare Nô non avrebbe messo fine al dolore, ma lo avrebbe attutito, almeno così voleva credere. Annuì: sì. Sarebbe stato così.
-Nô… lei ha dato tutto. È stata un’alleata in tutto questo tempo. Ora la onoreremo, portando a termine ciò che hai iniziato.-, disse l’uomo. Turama annuì.
-Anche gli altri dovranno sapere. Ti posso promettere che io non tenterò di fuggire.-, aggiunse lui. L’indiana annuì. Glielo avrebbe detto lui stesso. Non le avrebbe delegato quel dovere.
-Andiamo a prepararci.-, disse la donna, -Briefing tra dieci minuti.-.
L’uomo annuì appena. La guardò andarsene, maledicendo il fato. Turama era una donna ferma, di principi, un soldato abile e fedele. Lui sapeva che realisticamente i suoi compagni non sarebbero stati propensi a farsi arrestare. Quell’alleanza non sarebbe durata.
A meno che l’indiana non decidesse di ignorare gli ordini, ma era pressoché impossibile.

-Consegnarci?-, chiese James. L’uomo annuì. L’inglese annuì. Capiva anche troppo.
-Per te non è un’opzione, vero?-, chiese l’uomo, a bruciapelo. James sospirò.
Aveva quarant’anni, quarantasei, per l’esattezza. Era vecchio per lo standard del loro mondo, ma la verità era che l’età non dimostrava niente. La gente credeva che da una certa età semplicemente ci si facesse da parte, a vivere una vecchiaia meritatamente pacifica.
Stronzate. Nel loro mondo non esisteva. I vecchi squali venivano divorati dai giovani.
-Chi vuol vivere in eterno, uomo?-, chiese James con un ghigno da incosciente.
-Le prigioni indiane sono un pessimo posto per la pensione.-, osservò l’altro.
-Non è detto che ci sbattano dentro. Dopo tutto gli stiamo dando una mano, no?-, chiese James.
-Già. Ma da quando questo conta qualcosa?-, domandò l’uomo. L’inglese non rispose.
Non aveva una reale risposta. Sospirò. Preparò l’equipaggiamento.
In un modo o nell’altro, avrebbero chiuso i conti con Dalima Kothil e i suoi scagnozzi.

-Jahaghanath.-, la voce di Lahim Kahamindhar, ufficiale comandante del campo, era stentorea. Al suo fianco, Turama Jindal attendeva, in mimetica nera con striature grige, multicam urban.
-Base segreta, le cui planimetrie sono attualmente desecretate per ragioni di emergenza.-, disse procedendo ad indicare con la bacchetta una serie di immagini. Corridoi e spazi stretti.
Un vero incubo di tattica.
-È stata progettata per garantire possibilità difensive di ampio respiro anche da parte di un numero minimo di occupanti. Attualmente il Maggiore Brisham, al comando della base, non risponde alle comunicazioni. L’ordine viene dal Ministro degli Interni: non indugiare. Riprendere il controllo di Jahaghanath con qualunque mezzo.-, l’ufficiale cedette la parola a Turama. Myriam Goldmann fu impressionata dalla sua capacità di non mostrare emozioni.
Sapeva che la sua presenza e quella dei suoi compagni non era graditissima, non avrebbero dovuto trovarsi lì.
-Grazie, signore.-, Turama indicò con la bacchetta due foto. Segnaletiche.
-Dalima Kothil e Patil Rabhoungham. Bersagli d’alto profilo. Sono i capi di questo complotto. Hanno assassinato o fatto assassinare numerose personalità di spicco. È sicuro che il silenzio radio di Jahaghanath sia opera loro.-, Turama intercettò con un occhiata un braccio alzato.
-Sergente Gurdesh?-, chiese. L’uomo, un indiano dalla pelle chiara, viso cotto dal sole e capelli tagliati corti, si alzò.
-Esattamente, signora, cosa c’entrerebbero gli occidentali presenti qui?-, chiese.
-La loro presenza sul campo e la loro collaborazione attiva ha permesso di determinare con esattezza il piano di questi terroristi. Se a ciò aggiungiamo che hanno l’addestramento quasi pari al nostro e che richiamare altri uomini richiederebbe troppo tempo, penso che la risposta sia palese.-, rispose la donna. Gurdesh si sedette.
-Obiettivo primario: riconquistare il complesso, assicurare le armi custodite e terminare gli ostili. Obiettivo secondario, ma non meno importante: terminazione con estremo pregiudizio di Dalima Kothil e Patil Rabhoungham. La cattura è opzionale.-, continuò Turama.
Myriam colse una mano alzarsi. Quella di James Crowain.
-Cosa sappiamo di eventuali contatti esterni alleati a Dalima Kothil?-, chiese. L’indiana esitò.
-I nostri Servizi stanno procedendo a identificare l’estensione della cospirazione mentre parliamo. Vista l’inaffidabilità di alcuni elementi interni, stimiamo che la cosa richiederà diverso tempo. Ci stiamo affidando anche a collaboratori esteri per procedere.-, rispose.
“E brava Turama…”, pensò Myriam, “Come nascondere il ruolo di Shaibat senza mentire.”.
Non che avessero scelta. Le massime autorità indiane erano bellamente all’oscuro della situazione, solo il ministro dell’Interno aveva avuto modo di venire a conoscenza della situazione e neppure a lui era stato detto tutto. Lahim Kahamindhar aveva attuato una spietata selezione su chi informare e chi non. Myriam non si faceva illusioni: alla fine di tutto ciò, quell’uomo avrebbe avuto un sacco di grane. Magari, se la missione avesse avuto successo, forse i suoi superiori sarebbero stati tolleranti. Magnanimi. Ma ne dubitava.
La domanda di James aveva impedito ad altri di sollevare quel pericoloso dubbio.
-Numero di ostili, sconosciuto. Si stima dai venti ai quaranta operatori, anche se potrebbero essere di più. Armamento, sconosciuto. Sicuramente armi ed equipaggiamenti di livello militare, oltre a un addestramento di tutto rispetto.-, continuò Turama.
-E questo come lo sappiamo?-, domandò un soldato.
-Grazie a noi.-, rispose la voce di Neroko Tsubikome.
Nella sala briefing, l’aria parve divenire pesantissima.
-Io e i miei collaboratori abbiamo infiltrato l’operazione di Dalima Kothil, vista la sua pericolosità non solo per l’India ma per tutto lo scacchiere orientale.. La nostra infiltrazione non ci ha permesso di decapitarla, ma abbiamo potuto raccogliere diversi dati.-, il giapponese avanzò sino alla prima linea dei commando, seduti su sedie scomodissime in quella sala dove pareva fare un caldo infernale.
-Questi dati non sono stati recuperati senza perdite. Sia tra di noi che tra di voi ci sono state vittime. Non possiamo permettere che siano state vane.-, concluse Neroko sedendo su una sedia libera. Turama s’inserì.
-Esattamente. Veniamo alle modalità d’azione.-, ingiunse.
-Il maggiore Mahlhit e la sua squadriglia ci porteranno dentro. Useremo i Viper. Penetrazione aggressiva, doppio vettore.-, Turama disegnò linee d’attacco lungo la planimetria.
-Difese antiaeree?-, chiese Mahlhit, preoccupato. L’indiano era piccolo e scuro, ma pareva tutto muscoli.
-Ancora inattive, stando all’ultima perlustrazione da parte di un drone. Ma non possiamo esserne sicuri. Non si può escludere la presenza di antiaerea portatile.-, rispose Lahim.
-In virtù di ciò dovremmo richiedere…-, iniziò Mahlhit.
-Non abbiamo il tempo per richiedere alcunché, maggiore. Lei ha venti minuti da ora per preparare i Viper al decollo.-, tagliò corto l’ufficiale.
-Signore, lei non può…-, la blanda protesta dell’uomo fu interrotta dalla manata che Lahim tirò contro la scrivania. Il silenzio calò, subito.
-Quale parte di “non abbiamo il tempo” non le è chiara, maggiore? Quanto ci tiene a finire davanti alla corte marziale?-, chiese freddamente l’ufficiale. Myriam notò che Turama stessa era impressionata. Lahim Kahamindhar non era un ufficialetto da scrivania.
-Voglio essere cristallino con voi: l’India è sull’orlo della guerra col Pakistan e questa mossa di Kothil potrebbe scatenare un nuovo conflitto con il nostro vicino. Il comando ha approvato la missione ma non possiamo richiedere rinforzi o mezzi aggiuntivi. Sta a noi riuscire o fallire. Al momento il Ministro degli Esteri sta tentando di disinnescare la tensione tra noi e i pakistani ma non c’è alcuna garanzia di successo e se quei pazzi scaglieranno un missile su Islamabad non ci sarà niente in grado di impedire un’escalation. Gli occidentali qui hanno offerto il loro contributo e noi lo accetteremo perché di fatto non c’è possibilità di rifiutarlo.
Qualunque altra rimostranza da ora in avanti verrà considerata come un atto di insubordinazione e punita con la massima severità.-, dopo quella tirata, fu il silenzio. I quaranta uomini presenti nella sala tacquero, in attesa di altre informazioni.
-Procedura d’attacco: team 1, gruppo ricognitivo, tre elementi con James Crowain come aggregato. Ingaggio a lunga distanza, identificazione bersagli. Prenderete terra prima di entrare nella zona critica e lo farete cinque minuti prima dell’arrivo del resto della forza d’attacco. Il team 2 del Sergente Maggiore Dhara procederà alla medesima misisone nella seconda zona d’incursione. Il primo team d’inserzione conterà quindici uomini oltre agli aggregati occidentali. Il secondo team conterà i restanti quindici uomini. Il comando del primo team è affidato al Capitano Mohar, mentre io comanderò il secondo. Attacco simultaneo. Penetrazione aggressiva. L’obiettivo di entrambi i team è la sala di controllo dei missili.
Il nostro supporto informatico procederà a contrastare eventuali tentativi di hacking dei sistemi missilistici e a impedire l’attuazione di protocolli di blocco d’emergenza.-.
-Ci sono domande?-, chiese il comandante. Sguardi tra i soldati. Silenzio.
-Rompere le righe. Munizioni al massimo, cariche da irruzione e granate. Avete cinque minuti.-, concluse l’uomo.
C’erano volute meno di due ore per organizzare tutto. Myriam Goldmann aveva la netta sensazione che ci sarebbe voluto molto meno per vedere la fine di quella missione., in un modo o nell’altro.

L’uomo impugnò il Tavor. Il Tar-21, detto anche Tavor era l’avanguardia dei fucili per il combattimento in ambienti urbani e ristretti. Corto e compatto non aveva nulla da invidiare ad armi come l’HK416 o l’M4, vantando la medesima tipologia di caricatori e un invidiabile compattezza per un arma di un calibro simile.
Il contro di quell’arma era ovviamente la disposizione del caricatore: essendo un bullpup, il caricatore era agganciato dietro l’impugnatura ed il grilletto e l’intero gruppo di sparo (camera di scoppio, otturatore, ecc) era collocato nel retro dell’arma, rendendolo vagamente sbilanciato. Ma tale svantaggio era trascurabile: l’uomo era ben conscio delle potenzialità di quell’arma. Passò al giubbotto in kevlar. Prese caricatori, sei. Pistola? Trovò una G17, fornitura austriaca e tre caricatori. Arma da taglio? Ne prese due: il Tantō che aveva recuperato e il Karambit che aveva portato con sé. Completò il tutto con due granate flashbang e due granate a frammentazione. Era pronto. La mimetica digitale urban lo rendeva indistinguibile dal resto dei commando dei Gatti Neri.
Scambiò uno sguardo con Neroko Tsubikome. Il giapponese gli rese uno sguardo impenetrabile. Il dolore dell’uomo era seppellito sotto il peso del fallimento, la volontà di redenzione. Per lo yakuza non c’era altra possibilità: vendicare Nô o morire provandoci.
Per l’uomo… era lo stesso. Annuì a Neroko. Erano anime affini, in fin dei conti.
Sarebbero andati sino in fondo, tutti loro.

Myriam Goldmann annuì a sé stessa mentre impugnava con dimestichezza il Tar-21, l’arma bullpup dell’esercito israeliano. Di tutte le armi che aveva maneggiato le pareva la più ergonomica. Fece scorta di caricatori e ricaricò anche la pistola. Andava bene. Era pronta.
Scambiò uno sguardo con Frank Horst. L’olandese aveva preferito un corto MP5K con tutti i caricatori del caso. Come arma primaria si era tenuto un CTAVOR, versione più compatta dell’arma di Myriam.
-Da matti…-, mormorò l’olandese, -Stiamo andando ad attaccare un installazione indiana segreta con forze speciali indiane contro elementi divergenti… Da matti!-.
-Già. Incredibile quanto tutto sia andato splendidamente a troie, sin qui…-, disse Myriam.
Notò l’occhiata di Frank. Sentì i passi. L’olandese era accanto a lei. Le mise una mano sulla spalla, fissandola negli occhi.
-Non provarci: non dirmi che siamo nella merda. Non cedere, ok? È così che si comincia a perdere tutto. Non possiamo, non dobbiamo cedere.-, disse l’uomo.
Myriam sorrise appena. Frank Horst le piaceva, inutile girarci intorno.
-Frank, io apprezzo, ma penso che questo discorso tu lo debba fare ad altri.-, disse.
-A Neroko ho già provato a farlo. Quel giapponese mi risponde per monosillabi. Il Giustiziere, invece…-, lo sguardo di Frank si diresse verso il cemento armato del soffitto.
-Dannazione, la morte di Nô l’ha davvero scosso.-, mormorò Myriam.
-Speravi non fosse così? Era pur sempre una della squadra, indipendentemente da quanto lui ci tenesse. In più non mi parevano esattamente distanti-, osservò l’olandese.
-Già. Ma sai, il fatto è che anche Nô… sembrava invincibile, come in possesso di quel sacro fuoco che ti permette di attraversare l’inferno senza bruciarti. E alla fine…-, i pugni di Myriam si aprirono e chiusero spasmodicamente, -Siamo tutti fumo nel vento.-.
-Forse. O forse ciò che conta è quel che ci lasciamo dietro. Nô è morta com’è vissuta. Facendo il suo meglio.-, ragionò Frank. Myriam notò che aveva ancora la sua mano sulla spalla.
-Merda, non immaginavo tu fossi un simile filosofo!-, esclamò l’israeliana con un ghigno.
-Che posso dire: a scuola leggevo Kant.-, disse Frank con un sorriso.
Poi, improvvisamente, attirò a sé Myriam. L’ebrea non fece resistenza. A che pro poi?
Forse domani sarebbero morti. Le loro labbra si sfiorarono, per poi aprirsi. Le lingue danzarono nel breve, quanto breve!, tempo loro concesso mentre le bocche si cercavano e assaporavano e infine separavano. Quando si staccarono, Myriam si accorse di ansimare appena. Notò un rigonfiamento nei calzoni combat di Horst.
-Dopo questo casino, almeno una cena da Rotary.-, disse con un sogghigno.
-Più probabile un panino da Subway.-, rispose Frank con un sorriso arrogante, -O un burger da Burger King.-, aggiunse. Myriam scoppiò a ridere.
-Meno male che mangio maiale!-, esclamò. Le loro risate durarono qualche minuto.
Un fioco bagliore di allegria dinnanzi all’imminente scontro.

James Crowain annuì appena. Il fucile era un M89SR, un’ennesima cortesia israeliana alle Forze Speciali Indiane. Un bullpup capace di sparare colpi 7.62 NATO. Arma ottima anche grazie al peso contenuto. James contava anche su questo. La sua ferita era stata medicata sommariamente e sapeva che se avesse mostrato debolezze lo avrebbero tagliato fuori.
Non lo avrebbe permesso. Non si trattava solo di Nô Mitsutune, o del destino dell’India.
James non intendeva restare in panchina mentre si giocava la partita decisiva: non essere al fianco dei suoi compagni gli pareva solo un vile tradimento.
Scelse un corto MP5K con tre caricatori come arma secondaria. Valutò se prendere con sé una pistola. Decise di no. Realisticamente non avrebbe avuto modo o motivo di avvicinarsi oltre la sua distanza di tiro ideale. Prese tuttavia un coltello, un K-Bar statunitense fornito in blocco alle truppe indiane. Poteva sempre servire.
Fece scorta di caricatori e fu pronto.

Shaibat annuì appena. Sapeva di essere tenuta sotto tiro da almeno un uomo.
L’hacker al suo fianco era un giovane proveniente dal Punjab. Aveva studiato negli Stati Uniti, era bravo, lo vedeva da come muoveva le dita rapide sulla tastiera.
Ma per quell’operazione, poco ma sicuro, avevano bisogno di lei. Hackerare il complesso era improbabile, ma Turama e i suoi superiori avevano dato ordine di non lasciare nulla d’intentato.
L’equipaggiamento era il non plus-ultra della tecnologia informatica. Shaibat annuì nuovamente. Si accorse di sudare. Era tesa. La posta in gioco era altissima.
Non sapeva come sarebbe finita, non sapeva neppure se avrebbe avuto modo di trovare una via per evitare il carcere duro che sicuramente le era stato solo posticipato.
Per la prima volta si sentiva spalle al muro. Ma scacciò quei pensieri.
Era in situazioni simili che l’ingegno le veniva in aiuto. Stavolta non sarebbe stato diverso.
Iniziò a digitare.

Patil Rabhoungham non era uno sprovveduto. Sapeva che qualcuno sarebbe presto o tardi giunto a cercare di fermarli. Probabilmente gli stessi Gatti Neri, commando indiani, o altre forze speciali del caso.
Aveva schierato i suoi uomini sul perimetro esterno della base, lasciando all’interno delle pattuglie in grado di rallentare il nemico in arrivo. Sapeva bene però che, se i nemici avessero attaccato in forze, l’esito sarebbe già stato deciso. Con il loro addestramento e il numero, i Gatti Neri avrebbero facilmente fatto breccia. Ma a Patil non importava: lui e Dalima erano uguali, lo Yin e lo Yang dell’annientamento. Il marciume del sistema politico indiano era noto, così come nota era l’inimicizia col Pakistan, tollerato solo per via della presenza degli occidentali nell’intera regione e a causa dei benefici di una relazione commerciale con stati vicini. Patetico.
Patil sapeva. L’India dei tempi antichi, che aveva sottomesso un enorme impero, che aveva scoraggiato Alessandro il Macedone dall’avanzare ancora verso il confine del mondo, il regno che aveva illuminato il mondo grazie alle parole di saggi e veggenti era destinato a riprendere il suo posto come guida dei popoli dell’Asia.
E lui e Dalima sapevano che ciò non sarebbe mai potuto accadere se non riaccendendo infine le sparute braci di un conflitto da troppi dimenticato. Quella guerra con il Pakistan sarebbe stata l’inizio di una nuova, grande alleanza. Sia che l’India vincesse o perdesse, non avrebbe avuto importanza: la loro organizzazione avrebbe mosso le fila e spostato gli equilibri garantendo al vincitore il ruolo egemone che sarebbe stato suo di diritto.
A quel punto, persino l’arroganza occidentale avrebbe dovuto chinare il capo. La Cina avrebbe capito dove sarebbe stato il suo interesse, e così anche il Giappone. Le Coree avrebbero messo da parte la cinquantennale questione in favore della comune prosperità e la Russia…
La tanto incompresa Russia avrebbe favorevolmente guardato ai figli del Gange e dell’Indo con il desiderio di alleanze e alleati, specie contro ciò che, Patil poteva intuire, sarebbe accaduto presto.
Lui e Dalima erano esecutori, sebbene di altissimo livello. Sapevano. E questo significava che non potevano cadere prigionieri. Ma anche quello era stato programmato, in ogni sua parte.
A Patil andava bene: lui non voleva vivere in eterno. Dalima non la pensava diversamente.
Dopo l’amplesso si era trincerata nella sala di controllo, imponendo a tutti di sbrigarsi.
I progressi erano lenti, ma costanti. Ce l’avrebbero fatta, era sicuro.

-Non riesci a fare più in fretta?-, chiese Dalima con rabbia. L’informatico scosse il capo.
-No. La crittografia e i programmi a difesa sono estremamente complessi. Anche con l’apparecchiatura che mi avete procurato ci vorrà del tempo…-, belò. La donna si trattenne dal volergli sparare. La chiave di volta del loro intero piano era lì, sotto i loro occhi, eppure irraggiungibile! Ma non per sempre.
Dalima sorrise. Sentiva qualcosa colare da dentro, lungo la coscia. Il seme di Patil. Era stato un amplesso piacevolissimo e folgorante. Un vero peccato che le possibilità non fossero a favore di un ripetersi di tale esperienza. Le direttive erano chiare: innescare la catastrofe e poi andarsene. Se fossero stati attaccati avrebbero dovuto cercare di fuggire, o morire battendosi.
I membri del suo gruppo non potevano permettersi il lusso di farsi catturare vivi.
Nonostante tutto, non credeva sarebbe stato necessario: i loro nemici non sarebbero stati in grado di bloccarli. A Seul e Pechino c’erano case sicure e alleati pronti a riceverli.
Se la sarebbero cavata. Ne era certa.
Allora perché provava un senso d’irrequietezza?

Il Little Bird aveva lasciato James e i suoi lontano dalla posizione ottimale. I commando avevano scalato la parete rocciosa senza prendere i percorsi più facili, e neppure quelli intuitivi. Transito trasversale. Scienza esatta del movimento bellico. Basso profilo, percorsi infami e insicuri. Lo scopo era semplice: attaccare dalla direzione inaspettata.
Sotto il monsone appena terminato rasentava la tortura, e con la ferita non completamente apposto, era veramente una fatica. Ma James Crowain, ex SBS, non cedette.
Una donna dei Gatti Neri emise un pigolio. James vide. Mimetiche scure sulla foresta, camminavano con le armi puntate, due. Il terzo adagiò a terra un cadavere. Accanto ad altri corpi. Nemici. Mercenari di Dalima Kothil e Patil. Stavano facendo pulizia.
Erano armati di AK-101 e altri sistemi d’arma. Mercenari orientali. Pakistani o afghani.
Uno dei commando si rivolse a James.
-Visuale sulla pattuglia confermata, tre bersagli.-, disse.
-Ordine di abbattimento. Priorità ai due armati di AK.-, James fece scivolare il fucile lungo la spalla, impugnando a mano ferma l’arma. Si accovacciò preparando il colpo, -Colpo simultaneo. Minimo spreco di colpi.-.
-Valido.-, annuì la donna. Tutti loro avevano armi adatte al tiro a lunga distanza. I mercenari erano in allerta, ma la distanza era notevole, ben oltre i cento metri.
I mercenari presero a parlottare tra loro. Uno estrasse una radio. Parlò.
Un altro parve imprecare. Fece due passi oltre una coppia di alberi.
-Fuoco al mio mark. Tre… due… uno…-, il caposquadra fece una pausa. -Mark!-.
Spararono. Quasi all’unisono. Il bersaglio 1, AK in pugno s’inarcò, colto al collo. Il secondo colpo della donna lo centrò al mento. Il bersaglio 2, AK in puntamento, incassò al volto, zona d’impatto occhio sinistro. L’ultimo bersaglio, quello di James, fu centrato in piena testa.
Morti prima ancora di capire di essere in pericolo.
-Avanzare.-, ordinò il caposquadra.
-Comando, qui Crowain. Abbiamo avuto un contatto, tre ostili a terra.-, disse.
-Ricevuto, prendere posizione come previsto. Procediamo.-, rispose la voce di Turama.

Il team 2 aveva optato per una diversa entrata. Non aveva incontrato resistenza. Erano in posizione nella zona dell’hangar di Jahaghanath. L’enorme voragine dell’ingresso era chiusa.
Ma andava bene: il compito della squadra non era quello di entrare, solo di sorvegliare.
Fecero rapporto.

Marcia forzata. Il team di James aveva raggiunto la posizione designata. Stesi a terra, vedevano l’ingresso. La zona d’accesso alla base di Jahaghanath era fortificata. Cavalli di frisia, avvisi di divieto d’accesso e più in là, il checkpoint iniziale. Mitragliatrici cicliche e mercenari in pattuglia. Un perimetro dannatamente ben difeso.
Ma non sarebbero entrati da lì.

Patil osservò la radio. Il gruppo di Rudesh sarebbe dovuto tornare un buon minuto prima.
C’erano molte spiegazioni razionali a un simile ritardo, e molte irrazionali. Decise.
-Base in allarme rosso!-, ordinò Patil, -A tutti gli operatori, prepararsi ad attacco nemico.-.
-Signore… come faremo ad andarcene, insomma, i Viper…-, iniziò uno dei suoi. Patil neanche lo guardò. Non poteva permettere distrazioni o dubbi. Sparò. Due colpi. L’idiota non indossava l’antiproiettile. Crollò all’indietro contro la parete, centrato al petto.
-Muoversi.-, ordinò l’indiano. Gli altri lo fissarono, atterriti.
Nessuno di loro osò disobbedire. Nei successivi quindi secondi la base risuonò di sirene e allarmi.

-Hanno attivato i protocolli d’isolamento.-, disse l’hacker indiano. Shaibat annuì. Digitò una stringa di codici. La loro fortuna era stata la backdoor del sistema di Jahaghanath.
-Procedo con l’override.-, disse l’uomo. La thailandese annuì appena. Il suo programma terminò l’upload con un ping sonoro. La giovane fissò lo schermo.
-Isolare accesso, terminale dodici, sala di controllo.-, ordinò.
-Come lo sai?-, chiese l’indiano. Lei sorrise.
-Trucchetti da cattiva.-, disse con un sogghigno.
-Isolo.-, rispose l’uomo. La fissò ancora un istante, -Non sono sicuro che il mio governo ti lascerà andare, sai?-, chiese, apparentemente provocatorio.
Shaibat annuì appena. Senza sorridere, stavolta.

Jamal imprecò. Dalima accorse.
-Che cazzo succede?-, chiese. Tutt’attorno i mercenari prendevano posizione, in previsione dell’attacco nemico. L’informatico si alzò dalla postazione del computer.
-Mi stanno tagliando fuori. Per fortuna ho preparato un punto d’accesso alternativo.-, rispose mentre estraeva e accendeva con fare concitato un portatile rugged modello militare. Si mise a digitare forsennatamente.

-Merda! Stanno nuovamente accedendo alla rete della base.-, ringhiò Shaibat.
-Riesci a individuarlo?-, chiese l’hacker.
-No. Sta usando codici a doppia cifratura, rimbalzando l’accesso tramite molteplici punti. Merda…-, imprecò la thai.
-Puoi impedire il protocollo di blocco?-, chiese l’indiano. Lei annuì.
-Procediamo.-, disse digitando cifre su cifre. I codici si susseguivano, implacabile marea informatica all’assalto della realtà.

Cavalieri del vento.
Gli elicotteri delle Forze Speciali avevano volato a bassa quota in volo silenzioso. L’uomo, seduto nel vano di carico di uno dei velivoli, si concentrò sul verificare un ennesima volta l’equipaggiamento.
-Zona d’atterraggio in vista, cinque minuti!-.
-Armi pronte!-, ordinò Turama Jindal. Tutti inserirono i caricatori nelle armi. Misero i colpi in canna ma non tolsero le sicure. Non ancora. L’elicottero prese a calare.

James Crowain inquadrò la testa del mercenario al checkpoint. Si preparò a sparare. Il cielo era stranamente sereno dopo il monsone. Dopotutto andava bene.
Quel giorno era ideale per la fine del mondo, se così avesse dovuto essere.
Ma lui aveva tutta l’intenzione d’impedirlo.
-Forza d’attacco all’interno della zona operativa, due minuti all’atterraggio.-, riferì il Caposquadra.
-Bersagli agganciati.-, riferì la donna. James non disse nulla. Tenne il bersaglio.
-Avete il disco verde.-, disse l’uomo.
-Ricevuto. Apro il fuoco.-, rispose James. Come lui, anche gli altri tre erano pronti al fuoco.
Il servente della mitragliatrice ciclica a canne rotanti fu sbalzato indietro. Centro a pieno petto. Qualcuno accorse. Altri caddero. Il checkpoint scivolò nel caos terminale mentre cercavano d’individuare il nemico.

Il team 2 aveva atteso. Quando le porte della base si erano definitivamente rivelate chiuse, avevano compreso di dover cambiare i loro piani. Si erano inerpicati lungo la montagna, raggiungendo la posizione di sbarco dei team operativi. Avrebbero dovuto unirsi a loro.

-Fuori! Fuori!-, esclamò la voce dell’ufficiale indiano.
Myriam scattò, balzando fuori dal vano e atterrando sul terreno. Per un istinto pavloviano si accucciò al suolo, puntando l’arma.
-Nessun contatto.-, riferì.
-Procedere!-, ordinò l’ufficiale. Myriam scambiò appena uno sguardo con Frank Horst, ugualmente bardato col giubbotto in kevlar e relative giberne.
Il piano era semplice: assalto simultaneo da due fronti. Il gruppo di Turama Jindal avrebbe attaccato da una diversa zona, mentre loro avrebbero colpito da una diversa posizione.
-L’ingresso è poco più avanti. È un vecchio tunnel di manutenzione, in disuso.-, spiegò l’ufficiale.
-Il nemico non sa della sua esistenza?-, chiese Frank.
-Irrilevante. L’importante è che noi sappiamo di poter entrare da lì. Conduce a un magazzino di stoccaggio merci. In marcia.-, ordinò l’indiano.

Neroko Tsubikome conosceva la morte. L’intera Via del Guerriero si basava su di essa e lui aveva reso l’Hagakure e le sue sagge verità un pilastro della sua esistenza.
Lui e l’intera unità di Turama erano sbarcati all’imbocco della piazzola fortificata.
Assalto frontale. Quasi suicida, quasi. Per lui andava bene.
Inquadrò in un movimento fluido l’arma ciclica e il servente in posizione. Sparò. Uno, due, tre colpi. L’arma rinculò contro la sua spalla. Altri si unirono a lui, un cuneo in avanzata verso la base nemica. I mercenari, per quanto appostati non osarono metter fuori le teste.
Qualcuno sparò. Qualcuno, alle spalle di Neroko, cadde. Il giapponese ignorò. Sparò ancora.
Sparare in movimento non garantiva la dovuta precisione: non riusciva a colpire il servente. Vide l’arma ciclica iniziare a ruotare, sempre più veloce. Era così: sarebbero stati annientati.
Urlò sparando, ignorando la mano di qualcuno che cercava di trascinarlo lontano dalla linea di tiro. Non voleva fallire! Non accettava di vivere con il fallimento!
Sparò, in sfida all’annientamento. Lo avrebbe affrontato a testa alta. Si preparò a morire.
Poi, come in un sogno, vide l’uomo alla mitraglia cadere, uno schizzo cremisi si levò nell’aria.
Colpo di precisione. Da molto distante.
-Arma ciclica neutralizzata!-, la voce di James Crowain emerse dall’etere.
-Avanzare!-, ordinò la voce di Turama.
Non era necessaria l’esortazione: il gruppo si mosse in sinergia quasi perfetta. Coperture multiple e campi di fuoco sovrapposti. I mercenari incominciarono a ripiegare.
Non tutti ci riuscirono: Neroko individuò uno dei nemici in ritirata. Scaricò altri cinque colpi su di lui. I colpi arrivarono a bersaglio. Al petto. Lo sbatterono a terra. Gli ultimi due colpi del giapponese gli arrivarono in testa.
-Dentro! Forza!-, urlò la voce dell’uomo, del Giustiziere.
L’intera testuggine di guerrieri in nero entrò. Il tunnel in cemento armato era freddo e illuminato da fioche luci malate. Non esitarono.
I mercenari a terra cercarono di reagire, o di arrendersi. Ricevettero rapidi quanto clementi colpi di grazia. Nessuno spreco di tempo.
Neroko si mosse fluido dopo aver ricaricato. Le luci malate delle alogene illuminavano appena alcune sagome. La reazione dei mercenari fu furiosa: spararono ad alzo zero obbligando il giapponese e i suoi compagni ad acquattarsi dietro piloni e coperture.
-Dobbiamo muoverci!-, esclamò un commando. Lanciò a parabola una granata.
L’esplosione scagliò frammenti di ghisa in ogni direzione, costringendo due mercenari a buttarsi fuori dal raggio della detonazione, ma anche fuori dai ripari.
I Gatti Neri li abbatterono con colpi precisi. Neroko strinse i denti.
Non avrebbe tollerato un fallimento. Non un’altra volta!

-Situazione?-, chiese Dalima Kothil. Patil sospirò. Era la domanda che temeva.
I commando erano entrati, ma privi del fuoco dei tiratori scelti, erano rallentati dai suoi uomini. Lo stallo però non sarebbe durato: i Gatti Neri erano precisi ed efficienti, oltre che mortalmente determinati ed equipaggiati al combattimento in ambienti ristretti, condizioni che non tutti gli uomini di Patil potevano vantare.
L’indiano evitò di misura due colpi e sparò. Una figura in nero si ritrasse dietro un pilone traforato dagli impatti di armi di piccolo calibro.
-Non buona.-, disse infine, -Li teniamo, per ora, ma passeranno.-.
-Ripiega.-, quello di Dalima era un ordine bello e buono. Patil annuì. L’aveva considerato, ma aveva esitato a darlo lui stesso. Eppure la scelta era pressoché inesistente: coprendosi l’un l’altro, gli invasori guadagnavano terreno. Un colpo fortunato azzoppò uno dei Gatti Neri, ma il mercenario autore del colpo non ebbe modo di vantarsi: una serie di colpi lo travolse da più direzioni. Ricadde a terra in una pioggia cremisi.
-Ripiegare!-, urlò Patil. Strappò la granata dalla giberna. Lanciò a parabola.

L’uomo vide il movimento. Riconobbe la voce e la corporatura. Non fu l’unico.
-Patil!-, ringhò Turama sparando. L’indiano scagliò qualcosa verso di loro prima di ritrarsi dietro un pilone. L’uomo la vide: granata!
Agì senza pensare. La bomba atterrò ai piedi di Turama e di un altro. La donna la vide.
Non avrebbe fatto in tempo a togliersi dal raggio dell’esplosione.
L’uomo calciò l’ordigno verso i nemici. Lo vide esplodere a mezz’aria. Sparò all’anca.
Per un istante fu in piena vista. Due colpi impattarono sul giubbotto in kevlar.
“Non sei immortale, deficiente!”, gli urlò il suo buonsenso.
Dolore accecante gli incendiò il petto. Crollò in ginocchio. Fu trascinato a terra da qualcuno, strappato dalla posizione sulla linea di tiro, portato al riparo dietro ad alcune casse.
-Stai bene?-, chiese Turama Jindal. Sotto l’elmetto in kevlar, i lineamenti dell’indiana erano contratti dalla frenesia. L’uomo annuì. Tastò e cercò ferite. Nessuna. Riprese in mano l’arma. Ricaricò rapidamente, un po’ impacciato dalla configurazione bullpup dell’arma.
Davanti, i nemici ripiegavano, sparando per coprirsi.
-Proseguiamo!-, ringhiò l’uomo.

James Crowain stringeva i denti contro il dolore. Il fianco gli faceva un male cane.
Lui e la sua squadra avevano rotto la copertura, avanzando sino all’entrata della base, abbandonando le armi lunghe in favore di mitragliette e armi da pugno. Lo scopo era supportare le squadre penetrate nel complesso. Stando alle comunicazioni stavano arrivando altri alleati: elementi degli artificieri dell’esercito, squadre NBC addestrate a gestire equipaggiamenti e minacce nucleari. Tutta quell’adunanza pareva inutile.
James lo sapeva: se non fossero riusciti a riconquistare la base per tempo, il pugno di Jahaghanath avrebbe annientato la pace.
Continuò la marcia verso l’ingresso. In cielo, gli elicotteri dell’esercito indiano preparavano le operazioni per lo sbarco.

Il cunicolo era soffocante. Frank Horst ricordava bene cunicoli del genere. Strinse con forza l’arma. In Congo, poi in Afghanistan, aveva marciato dentro simili strettoie senza nessuna garanzia di uscirne. Davanti a lui, il commando che apriva la colonna dettava il passo, dietro di sé sentiva i passi appena udibili di Myriam Goldmann, il suo respiro rapido.
Si sorprese a immaginarla fugacemente in un altro contesto, ma l’idea morì subito.
Non era né il momento né il luogo: era indispensabile che restasse concentrato.
Il commando davanti a lui chiuse il pugno della mano secondaria dopo averla staccata dall’arma. Stop. L’intera unità si fermò. Il caldo era asfissiante e l’odore di chiuso non aiutava.
Frank odiava quei cunicoli del cazzo: ci aveva visto morire diversi commilitoni.
Il commando di testa parve lavorare su qualcosa. Aveva mollato l’arma e sfilato qualcosa dalla cintura. Un cacciavite? O un avvitatore a batteria? Un cacciavite. Aveva senso. Frank intravide la grata che li separava dall’interno. Il commando lavorò celermente. Sfilò la grata e avanzò.
Frank lo seguì. Si alzò riguadagnando una postura eretta. La schiena protestò.
-Merda.-, sibilò appena. Erano nel magazzino. C’erano diverse casse e la fottuta porta era chiusa. Ma c’era anche qualcos’altro. Frank lo vide.
Cadaveri. Tre. Soldati indiani uccisi da Dalima Kothil e i suoi.
Li avevano lasciati lì, per potersi concentrare sulla difesa. I Gatti Neri si disposero per irrompere oltre la porta chiusa.

-Telecamere?-, chiese l’hacker indiano. Shaibat scosse il capo.
-Le ho oscurate, grazie ai codici che mi hai dato. Il problema è che non posso intervenire sui sistemi che potrebbero aver installato.-, rispose. Le dava sui nervi il fatto che la tenessero sotto tiro, ma tentava di non pensarci, come non voleva pensare al fatto che, una volta finita quella storia, realisticamente il governo indiano l’avrebbe incarcerata.
“A tempo debito”, s’impose. Digitò altri codici e se ne accorse improvvisamente. “Merda!”.
-Dannazione!-, imprecò, -Cazzo!-.
-Che succede?!-, chiese l’hacker indiano accanto a lei. Lei puntò col dito lo schermo del computer. E anche lui capì. -Merda.-, disse soltanto.
-Hanno cambiato le chiavi d’accesso per i sistemi di lancio. Non posso impedire che inizializzino la sequenza.-, sibilò la thailandese.
-Già, lo vedo.-, sospirò l’indiano. Il milite pareva aver perso tutta la baldanza.
Se non era possibile impedire il lancio c’era una sola opzione. Una che Shaibat non voleva davvero considerare ma che non poteva scartare, anche perché poteva essere risolutiva.
-Inizializziamo il protocollo di blocco. Sigilliamo Jahaghanath e, in caso di lancio… la base verrà distrutta.-, disse infine l’hacker indiano, indovinando il suo pensiero.
-Non con i nostri ancora dentro!-, insorse la ragazza.
-Notevole senso di cameratismo, per una criminale.-, osservò il fante con la pistola.
Shaibat lo mandò al diavolo in dialetto cantonese con un insulto talmente volgare e crudele da farlo sussultare anche se era certa che non conoscesse l’esatto significato.
-Non possiamo sigillare la base. Gli incursori non hanno ancora fallito.-, sibilò la giovane.
-Ma non possiamo semplicemente star qui a far nulla. Dobbiamo ipotizzare il peggio, e prepararci ad agire come se fosse già reale.-, rispose l’hacker indiano.

-Situazione?-, chiese Patil. Lui e i suoi uomini avevano ripiegato oltre una delle porte blindate e avevano provveduto a chiuderla.
-Abbiamo quasi ottenuto accesso ai sistemi di lancio.-, rispose Dalima, -E probabilmente ci sono incursori dai cunicoli d’areazione. I sensori hanno rilevato movimento.-.
-Manda una squadra. Tutti gli altri, disporsi a difesa.-, ordinò Patil rivolto ai suoi.
-Non c’è verso che usciamo, signore.-, disse uno dei suoi.
-Ci proveremo.-, rispose Patil. “Ma la priorità è lanciare quel missile.”, pensò tra sé e sé.
Le loro vite erano totalmente sacrificabili. Quello era ciò che quegli uomini non capivano, o non accettavano. Patil e Dalima non avevano quel problema. Pur prevedendo di potersene andare, si erano imbarcati in quell’avventura ben consci che avrebbe potuto trattarsi di un viaggio di sola andata. Ma a lui andava bene. Ricaricò l’arma. Anche i suoi lo fecero.
Patil li guidò nelle tenebre, preparandosi e preparandoli all’ultima difesa.
Tempo, tutto quel che serviva era tempo!

Tempo, tempo fuggente. L’uomo vide i Gatti Neri piazzare l’esplosivo.
Barre di esplosivo termite, capace di sventrare quella porta, ma con estrema precisione.
I commando si disposero ai lati della porta, formazione da irruzione. Innescarono l’esplosivo.
La porta deflagrò verso l’interno. Uno dei Gatti Neri lanciò dentro qualcosa.
Un boato sonoro e un lampo, seguito da urla e lamenti nella stanza, segnalarono l’inizio dell’attacco. Neroko Tsubikome entrò per primo, arma in presa alta. Sparò ad altezza petto.
I mercenari, quelli non accecati e assordati dalla flashbang cercarono di resistere. Inutile.
Due colpi centrarono il giapponese al petto. La piastra in kevlar evitò il peggio.
L’uomo superò Neroko senza fermarsi. Sparò a sua volta. Vide un mercenario contorcersi sotto i colpi. Turama, alla sua destra, avanzava senza smettere di sparare. Clack! Arma scarica.
Estrasse la pistola. Il corridoio in cui erano si biforcava, ma i nemici andavano in una sola direzione, evidentemente quella del centro di comando.
Era palese che cercassero di guadagnare tempo, i maledetti.
-Dobbiamo schiodarli qui e ora!-, ringhiò l’uomo.
-Arjun!-, urlò Turama. L’indiano annuì. Diede la parola alla sua seconda arma: un lanciagranate a tamburo. Sparò a parabola facendo esplodere le granate dietro le coperture. I mercenari urlarono, travolti dall’uragano di shrapnel.
Due colpi centrarono uno dei Gatti Neri. Colpo letale al collo.
Un altro morto. L’uomo contò gli altri. Non erano rimasti in molti.
-Turama! Coprimi!-. La donna annuì. Fece fuoco in full-auto costringendo i mercenari rimasti a ritrarsi. L’uomo avanzò con la pistola in pugno. Sparò tre colpi al nemico più vicino, scoperchiandogli il cranio. Gli altri tentarono la reazione.
Inutile: l’avanzata dei Gatti Neri era lenta ma costante. I mercenari cercarono di fermarli.
Poterono solo morire mentre gli incursori avanzavano a scaglioni, dividendosi tra i corridoi e le stanze abbattendo eventuali superstiti.

-Hanno superato il corridoio. Ne abbiamo due nella sala mensa e altri tre in avanzata verso il centro di comando. Inoltre l’altra squadra…-, iniziò Jamal.
-Altra squadra?-, chiese Dalima.
-Ha fatto irruzione dal magazzino e sta avanzando verso il centro comando passando per i silos missilistici dopo aver neutralizzato alcuni dei nostri nel tragitto. A quanto ho potuto vedere dalla telecamera installata sono più di quelli entrati dalla porta principale.-, rispose il tecnico. Dalima annuì. Capiva. Toccava a lei metterci una pezza.
-Altri dieci uomini a fermarli.-, ordinò.
-Non siamo abbastanza per tenere il centro di controllo!-, esclamò uno di loro.
La risposta di Dalima fu fermata da un rumore. Passi. Aisha la raggiunse.
-Viper pronti, signora.-, disse. Era sporca di grasso, ma imbracciava l’arma con determinazione assoluta.
-Molto bene. Tu rimarrai con me. Jamal, trasferisci il comando di lancio al portatile. Lanceremo da remoto. Fahir, prendi con te nove uomini. Dovete fermare quei bastardi.-.
Il mercenario, un iraniano che Dalima avrebbe definito psicotico e inaffidabile non fosse stato per l’enorme freddezza, annuì con un ghigno sadico. Additò alcuni dei presenti ordinandogli di seguirlo.
Dalima lo guardò varcare una delle porte, poi annuì a un altro dei mercenari.
-Sigilla la sala. Solo la strada per l’hangar dovrà restare sgombra. Jamal, tempo al lancio?-.
-Altri dieci minuti.-, rispose l’uomo, digitando freneticamente. Alla luce delle lampade il suo viso appariva stanco e sciupato, coperto da un velo di sudore. Dalima annuì.
Potevano farcela. In fin dei conti, il tempo era dalla loro.
Dieci minuti. Solo dieci minuti da quel momento.

T=-9.55.
Patil si sporse sparando. Il commando in avanzata fu centrato alla spalla destra e al petto. Non era morto, il bastardo, ma per ora gli sarebbe bastato. L’indiano ripiegò nel corridoio.
Tempo. Doveva solo guadagnarne altro. Strappò un AK-101 a un mercenario morente, insieme a un paio di caricatori. Vide un’ombra lungo la parete. Lo stavano inseguendo!
Sparò ancora. Un colpo, due, tre. Colpi singoli e moderati.
Un altro dei suoi lo coprì mentre si ritirava.

T=-9.54.
Turama Jindal arretrò sotto gli impatti. L’uomo, il Giustiziere, avanzò diametralmente a lei.
Copertura uno su uno. Si muovevano per istinto e coordinazione. Affiatamento naturale.
Un fottuto duo, ecco cos’erano. Merda, se fossero sopravvissuti ci avrebbero riso sopra.
Se fossero sopravvissuti e l’India non fosse divenuta un campo di battaglia.
Arjun, ferito alla spalla destra, impugnò il Tar nonostante la sofferenza dipinta sul viso.
-È andato di qua!-, ringhiò mentre si preparava a sparare.
-Devi tapparti quel buco.-, rispose l’indiana.
-Dopo.-, disse il milite. Girò un angolo. Una raffica lo sfiorò, aprendo squarci nella divisa e nella carne del suo fianco sinistro. Arjun sparò. Il mercenario sussultò sotto gli impatti.
-Merda, Arjun!-, gridò Turama. Quell’uomo era il suo miglior partner, e ora…
Ora stava morendo un fottuto proiettile, una goccia di sangue alla volta!
-Devi andartene! Rischi solo di farti ammazzare!-, gli urlò in faccia lei. Lui non cedette.
-Tu non capisci! Non potete rinunciare ad altri uomini: siete già fottutamente in pochi.-.
Turama imprecò a mezza voce. Sapeva che aveva ragione.
-È andato di qua!-, esclamò l’uomo, all’inseguimento del fuggitivo.
Turama annuì. Non era il momento. Ricaricò e seguì il Giustiziere.

T=-9.43.
Neroko aveva proseguito insieme a due commando. Si coprivano gli uni gli altri.
Avevano ripulito la sala mensa, pur perdendo un uomo.
Una donna dal viso sfregiato emerse dalle ombre di un anfratto, urlando insulti e imprecazioni. Fece fuoco con un fucile a pompa automatico dall’anca.
I proiettili BMX strapparono parti di pelle e sangue al viso del commando superstite.
Neroko sentì una vibrazione tremenda. La donna aveva colpito la sua arma. E lui.
Cadde a terra. Imprecò mentre lei si voltava verso di lui per finirlo.
Strappò la pistola dalla fondina e sparò tre colpi, cancellando la virago in extremis. Si alzò.
Il Tar-21 era andato: i proiettili del pompa avevano colpito il corpo dell’arma, compromesso la finestra di espulsione, l’otturatore e, in sostanza, l’intera sequenza di fuoco.
Si gettò sul commando agonizzante. L’uomo smise di muoversi proprio mentre il giapponese gli toglieva i caricatori rimasti. Ricaricò la pistola.
Scartò l’idea di prendere il mitra del morto: l’arma non aveva che un caricatore e sarebbe stata peso in più. Neroko era sempre stato un fan della semplicità e della velocità. Impugnò la pistola a due mani e avanzò oltre la mensa. Lanciò una granata accecante. Al botto e al lampo non fecero seguito urla. I nemici si erano evidentemente ritirati ancora.
Il che avrebbe reso tutto più difficile.

T=-9.20
Myriam Goldmann aveva imparato a non fidarsi delle vittorie facili.
Era stata una lezione acquisita con sofferenza, durante uno dei tanti, troppi rastrellamenti compiuti nella Striscia di Gaza. Vittorie facili spesso nascondono i semi di sofferenze immani.
Quando lei e gli altri avevano annientato i tre mercenari che avevano tentato di sbarrare loro la strada, avevano creduto di aver conservato un certo vantaggio, pur senza smettere di muoversi rapidamente per sfruttare qualunque rimasuglio di effetto sorpresa.
La verità le si era palesata quando, dietro una barricata improvvisata di casse e materiali, cinque mercenari di cui uno armato con una mitragliatrice Galil da squadra avevano cominciato a sparare su di loro. Il commando che faceva da scout era stato abbattuto spietatamente, falciato dalla raffica. Frank si era salvato, pur venendo ferito di striscio al collo (Myriam si era rapidamente assicurata che la ferita non fosse letale) e lei stessa aveva sentito il piombo rovente urlare mentre la oltrepassava.
-Di qui non si passa!-, ringhiò uno dei commando con loro.
-Allora vediamo di forzare il blocco!-, esclamò il comandante Lahim Kahamindhar.
L’ufficiale aveva insistito per guidare quel team. Myriam poteva dire di rispettarlo: l’uomo avrebbe potuto fregarsene, imporsi con il grado, finanche dettare le proprie condizioni. Non l’aveva fatto: aveva preso un’arma e si era buttato in prima linea.
-Qui rischiamo solo di venire falciati, signore.-, commentò Frank mentre si annodava un bendaggio di fortuna al collo.
-Non ci sono altre strade?-, chiese Myriam. L’ufficiale scosse il capo.
-Anche se ci fossero, non avremmo tempo di cercarle. Dobbiamo sfondare.-, disse.
Solo allora Myriam notò la sua arma. Un Tavor con lanciagranate M203.
-Attirate il fuoco! Quando si concentrerà su di voi sparerò con questo.-, ordinò Lahim.
Myriam annuì. Ricaricò rapidamente. Si sporse a sparare.
Il mitragliere puntò verso di lei. Ebbe la fugace visione di un mercenario colpito che cadeva all’indietro, colpito. La canna della mitragliatrice era ormai allineata, pronta a spedire una raffica di colpi roventi attraverso il suo corpo.
Ebbe appena la percezione del movimento quando qualcuno la tirò indietro.

T=-9.12.
Fahir Maroussad era un buon musulmano. Niente alcool, niente droga, solo donne, tante.
Ma il dovere di un buon musulmano andava oltre, per lui. Sfociava nella Jihad.
La sua personale era contro tutto l’occidente e ogni alleato dell’occidente.
Russi, compiacenti governi arabi, orientali ambigui, fieri popoli dell’America latina, prostrati africani, imbelli europei… Tutti coloro che servivano o intrattenevano rapporti con il Grande Satana americano dovevano perire.
Per Fahir, l’operazione di Dalima Kothil era solo un mezzo per un fine: punire il Pakistan e il suo corrotto governo, garantendo che si ricordassero della calata della spada di Allah.
Il mitragliere, un indiano a cui Fahir avrebbe sparato solo per compiacimento, spostò l’arma verso l’infedele che aveva osato aprire il fuoco. Supportato dagli altri mercenari l’avrebbe annientata senza sforzo. Senza alcuno…
D’improvviso, il bersaglio del mitragliere parve sparire dietro il muro ad angolo. La mitraglia brandeggiò, priva di bersagli, poi sparò quando un diverso commando si fece avanti, gambe larghe e arma in puntamento. Fahir sorrise appena, pregustando la morte di quel folle.
Sorriso che si congelò quando vide. L’arma. Una parte dell’arma. Lanciagranate!
Si buttò a terra, istintivamente, maledicendo quell’uomo, la sua arroganza e l’idiozia dei suoi sottoposti. Il boato fu devastante. Qualcosa gli piovve addosso. Qualcosa di caldo e liquido dal sapore ferrigno. Sangue… Quello dei suoi uomini.
Sfilò la pistola dalla fondina. Non trovava il fucile. L’impatto, l’onda d’urto gliel’aveva strappato di mano. Puntò più o meno verso il nemico.
-Morite, infedeli!-, ringhiò in inglese.
-Le vuoi proprio quelle vergini…-, disse una voce. Inglese con accento strano, duro.
Fahir riuscì a distinguere. Uno dei commando lo fissava, arma imbracciata.
Solo allora l’arabo capì che non aveva mai tolto la sicura alla pistola. L’altro sparò.

T=-8.59.
Frank Horst ricaricò. Scambiò uno sguardo con Myriam Goldmann. L’ebrea era la sola superstite insieme all’olandese ed altri due commando. Lahim giaceva in una pozza di sangue. Il mitragliere alla fine l’aveva colpito, o forse era stato uno degli altri mercenari.
Poco importava: l’ufficiale era morto. Gli altri commando ricaricarono.
-Dobbiamo avanzare!-, esclamò Frank. Sparò due colpi che decapitarono un mercenario tanto audace da sporgersi. Fece da apripista, cercando di ignorare il dolore delle ferite ricevute sin lì. Notò uno sguardo di disapprovazione da Myriam. Si sforzò d’ignorarlo.
Non ci fu bisogno di una parola: la donna si mise a copertura, garantendogli di avanzare.

-I protocolli di blocco sono stati resettati!-, esclamò Jamal, -Il loro hacker mi impedisce di attuarli.-. Dalima annuì, aveva visto tramite le telecamere installate dai suoi uomini la fine fatta da Fahir. Patil era da qualche parte e non rispondeva alla radio. Morto o no, non poteva contare su di lui e, poco ma sicuro, gli incursori stavano riprendendo terreno.
-Tempo al lancio?-, chiese, con voce incolore.
-Sette minuti.-, rispose l’informatico, -Ho commutato i comandi di lancio sul mio computer. Possiamo ripiegare ai Viper.-.
-Già, direi che possiamo farlo.-, rispose Dalima con voce incolore e monocorde.
Attese che Jamal si voltasse a prendere il portatile e gli sparò. Pieno centro alla nuca. L’uomo crollò, fulminato a lato del portatile con un lamento gorgogliante incomprensibile.
-Desolata, Jamal. Ho bisogno di gente capace di combattere e che non si faccia scrupoli e tu non hai queste caratteristiche.-, disse. Ignorò i mercenari che la guardavano, sorpresi.
Si chinò sul portatile rugged. A parte le macchie di sangue era in perfetto stato.
-Muoviamoci.-, ordinò la donna. Prese con sé il laptop. Stupidamente, Jamal aveva dato a lei tutte le chiavi d’accesso al portatile.

T=-6.57.
-Se ne vanno!-, ringhiò l’indiano. Shaibat ignorò. Era concentrata ben oltre l’immaginabile.
Avevano riattivato le telecamere e comunicato alle squadre la posizione di eventuali nemici laddove possibile, per cercare di minimizzare le perdite.
E avevano visto Dalima freddare uno dei suoi per poi uscire, con tutto l’intento di raggiungere uno dei Viper. Evidentemente era riuscita a deviare i controlli di lancio dei missili Agni sul portatile che si stava portando via. Ma Shaibat aveva deciso come fermarla, anche se sapeva bene che sarebbe stato probabilmente una condanna per i suoi amici.
La verità era che non avevano scelta. L’aviazione indiana stava facendo confluire sulla posizione dei caccia e stava posizionando le proprie forze attorno al complesso, ma se Dalima Kothil avesse usato la minaccia di lanciare i missili da remoto, era improbabile che chiunque si sarebbe mai deciso a tagliarle la strada. Quella strega avrebbe vinto.
E la morte di Nô sarebbe stata vana. No: Shaibat non l’avrebbe permesso. Era un’hacker e una criminale, ma non era senza una sua etica. Era quello che l’aveva portata a rifiutare accordi con alcuni elementi delle Triadi. Digitò, sentendo le dita pesanti come pietre.
-Protocollo di blocco inizializzato.-, disse con un’incrinatura nella voce che volle credere inudibile. Non ne fu affatto sicura.

T=-6.30.
Patil imprecò. Fine dei caricatori. Lasciò a terra l’arma scarica, estraendo la pistola e i coltello, un kukri nepalese di ben diciassette centimetri di lama ricurva. Arma antica, da sterminio.
I commando lo stavano braccando. Aveva sparato sperando di rallentarli ed era stato con soddisfazione che aveva notato che uno di loro era ferito, forse prossimo al collasso.
Ma i lati negativi erano altri. Un proiettile fortunato aveva tranciato il cavetto della radio. Niente più comunicazioni con Dalima. Era da solo. I suoi, quelli rimasti, dovevano aver ripiegato. Sorrise bandendo il timore: sapeva che presto avrebbe raggiunto il paradiso dei guerrieri, premiato dalla miglior morte che un guerriero potesse desiderare.
Gli andava bene. Superò un divisorio e si arrischiò a gettare un’occhiata nel corridoio. Vuoto.
Intravide un’ombra. Sparò. L’ombra sparì. Non l’aveva colpita!
Si spinse più in profondità. Allontanarli dal centro di comando. Ora! Fargli perdere tempo!
Quella era la sua priorità. Tutto il resto era secondario. Anche la sua sopravvivenza.
-Solo la missione conta!-, ringhiò a voce alta. Un’ombra si sporse. Errore terminale: Patil sparò. Si udì un suono di metalli in collisione.
Vide l’ombra strisciare al riparo. Aveva colpito il fucile del commando.

T-6.21.
Turama imprecò. Il fucile era andato, la canna distorta dal proiettile. Gettò a terra l’arma.
Estrasse la pistola. Era tempo di essere rapidi. Aprì il sottogola dell’elmetto togliendolo.
-Voi proseguite.-, disse ai suoi compagni, -Qui ci penso io.-. Poi si voltò.
Notò che non erano tutti. Uno di loro mancava. Uno di loro che avrebbe dovuto esserci.
L’uomo noto come il Giustiziere pareva essersi fuso con le tenebre, come se il vuoto l’avesse fagocitato. Non riuscì a evitare di chiederlo.
-Dove diavolo è finito?-.
Nessuno seppe rispondere.

T=-6.05.
Patil sogghignò. Ricaricò la pistola. Tecnica delle forze speciali: mai presumere che il caricatore rimasto sia sufficiente a cavarsi d’impiccio.
Ma nel suo caso non faceva reale differenza: sapeva bene la verità.
Si trattava solo di abbattere quanti più nemici poteva, prima che loro abbattessero lui.
Si preparò a colpire di nuovo. Sparare ancora. Rallentarli. Ucciderli se possibile.
Fu solo all’ultimo che percepì qualcosa, una presenza dietro di sé.
Si spostò per mero istinto, voltandosi. L’uomo, l’occidentale senza nome era uscito dalle tenebre come da un incubo. Impugnava il coltello karambit in una mano, presa riversa, indice nell’anello al termine del codolo.
-Interessante!-, esclamò Patil. Gettò la pistola. L’uomo non rispose.
Attaccò. Fendente corto orizzontale. Il tempo si ridusse al presente.
Patil schiva, aprendo la guardia per attaccare. Il Kukri è più lungo, richiede spazio.
Sferra un calcio corto. L’occidentale incespica. Il kukri fende l’aria. Incontra il Karambit. Scintille improvvise da ambo le lame. Patil ringhia qualcosa. Il secondo fendente dell’uomo viene intercettato dal kevlar. La lama di Patil viene deviata dal colpo di gomito dell’altro.
Colpi corti. Nessuno a bersaglio. Secondi che corrono. Tagli superficiali e trascurabili.
In un momento del genere, vita o morte diventano ininfluenti.
L’uomo sfodera l’altra lama. Un coltello corto. Trapassa il fianco destro di Patil. Il dolore lo flagella. L’indiano si strappa all’attacco, indietreggia. Recupera la pistola sparando due colpi a corta distanza. Bersaglio: zona toracica. L’uomo è colto all’antiproiettile. Incespica. Cade. Patil ghigna. Ora ce l’ha in pungo. Punta alla testa. L’uomo lo fissa. Non teme.
-Addio, stronzo.-, sibila con odio l’indiano.
Poi una detonazione, lontana. Patil avvertì solo un pungente dolore al petto. Qualcosa che entrò e uscì portandosi via la vita. Si portò una mano al collo. Sangue. Molto.
Crollò al suolo, mentre sentiva la coscienza abbandonarlo, fuggire via.

T=-5.43.
-Stai bene?-, chiese Turama. L’uomo si alzò. Le costole facevano un male cane.
Si strappò il giubbotto in Kevlar. Non avrebbe comunque retto molti altri colpi.
-CI sono.-, riuscì a dire. Turama annuì appena. Gettò appena uno sguardo al cadavere di Patil.
-Dalima sarà al centro di comando. Lei e i suoi hanno bloccato la sala.-, disse l’indiana.
-Vuole fuggire. Può farlo con gli elicotteri, se i nostri non hanno già provveduto.-, aggiunse Arjun. L’indiano sanguinava da diverse ferite, ma non pareva intenzionato a mollare.
Con lui, altri due commando. Neroko e un altro indiano. Gli ultimi del loro gruppo.
Nessuno di loro era illeso, l’uomo se ne rese conto. Si domandò fugacemente come fossero messi gli altri.
-James e la sua unità?-, chiese a nessuno in particolare.
-Gli è stato ordinato di restare fuori.-, disse Turama. Il tono della donna era stranamente privo di emozioni. L’uomo la fissò.
-Che cosa significa?-, chiese.
-Significa…-, Turama Jindal esitò, percettibilmente, -Significa che i miei superiori hanno decretato il blocco della struttura. Indipendentemente dal nostro successo, non intendono permettere a Dalima di andarsene.-.
-Riesci a mettermi in contatto con Myriam e Frank?-, chiese l’uomo. Turama annuì.

T=-4.36.
-Frank, mi ricevi?-, chiese la voce del Giustiziere. Frank sorrise: erano ancora vivi!
Attorno a lui era un carnaio. Gli ultimi dei Gatti Neri che erano con loro erano morti. Myriam aveva una ferita al braccio sinistro mentre lui si medicava sommariamente la gamba destra, sfregiata da un proiettile.
-Ti ricevo.-, disse. La sala era piena di mercenari morti. La retroguardia di Dalima era stata annientata. Stando alle planimetrie erano poco lontani dal centro di comando.
-Ritiratevi.-. Frank fu sicuro di aver udito male.
-Come?-, chiese. La voce dell’uomo ripeté.
-Ritiratevi. Potete ancora uscire. Il protocollo di blocco è stato confermato. La struttura sta venendo sigillata. Il governo indiano vuole la certezza che Dalima Kothil non scappi.-, disse l’uomo. Le parole raggiunsero il cervello di Frank in modo anomalo, come a tratti.
-Mi stai dicendo di abbandonarvi qui?-, chiese Myriam. Frank imprecò in olandese.
-Myriam. Il mio è un ordine. Questa missione è una doomsday run, capisci? Non ha senso che si vada a morire tutti. Non qui, non così. Il sito sarà comunque riconquistato, in un modo o nell’altro. Io e Neroko però dobbiamo uccidere quella stronza.-, la voce dell’uomo tradiva determinazione adamantina. Frank capì, intuì che non si sarebbe arreso.
-Ricevuto.-, disse soltanto. Chiuse il collegamento. Si strappò l’elmetto scagliandolo a terra, con rabbia. Myriam, poco distante, si portò una mano al viso. Piangeva.
-Merda… Merda…-, mormorò l’israeliana, -Stupido…-.
-Dobbiamo andare, Myriam.-, Frank si avvicinò. Le tolse con delicatezza la mano dal viso.
-Dobbiamo sopravvivere. Per combattere un altro giorno.-, disse.
Lei annuì, debolmente. Anche se a malincuore, lui sapeva che l’ebrea capiva.
Incominciarono a ripiegare verso il condotto da cui erano arrivati. La loro parte in quella guerra era finita.

T=-4.20.
James Crowain imprecò. Marciò con determinazione verso i due ufficiali che, a capo di una truppa nutrita di soldati in nero stavano allestendo il perimetro difensivo attorno all’ingresso.
-Si allontani. Siamo in assetto difensivo.-, disse un milite. James lo ignorò. Si rivolse all’ufficiale. Un uomo dalla pelle chiara, occhiali da sole e viso da attore del cinema. Fece un rapido saluto militare. L’ufficiale dirigeva le operazioni con pochi ordini. Non lo guardò.
-Signore. Chiedo il permesso di entrare.-, disse.
-Negato.-, rispose il milite senza quasi guardarlo. James non desistette.
-I miei compagni sono laggiù, signore. Non esiste che io li lasci.-, insistette.
-La sua tenacia le fa onore, soldato. Non posso lasciarla passare.-, ancora senza guardarlo.
-Comandante, loro possono ancora evitare il lancio!-, esclamò James.
-Non si tratta solo di quello. Ho l’ordine di non fare passare nessuno.-, l’indiano fissò fugacemente l’inglese, il quale notò i gradi. Generale.
-Generale, l’ordine da chi viene? Dal suo governo?-, chiese.
-Non sono autorizzato a rispondere. Ora si faccia da parte, o dovrò metterla agli arresti. Vista la sua situazione, le consiglio di non complicare le cose.-, rispose l’ufficiale.
-Merda, Generale! Sono stato nell’esercito anche io!-, all’esplosione di James alcuni soldati sobbalzarono, armi si livellarono al suo petto. L’uomo non ci badò.
-C’imbottiscono di tutte quelle belle vaccate sul patriottismo, ma non è per la nazione che scegliamo di prenderci il prossimo proiettile. Lo facciamo per noi. Per i nostri compagni, per i nostri fratelli. Lei mi sta chiedendo di tradirli!-, la mano di James strinse il generale alla spalla, lo costrinse a girarsi. Le armi puntate furono improvvisamente molte di più.
Il generale si sfilò gli occhiali. James vide il viso di un cinquantenne. Atletico il giusto, anche con il tocco degli anni che aveva già fatto la sua comparsa sotto forma di rughe e capelli grigi.
-Lei crede che per me sia facile? Ho diversi morti e parecchi feriti. E ora potrei vedere altri morire. Non è facile per niente!-, la voce del Generale divenne un ruggito sull’ultima frase.
-Potendo lo farei, sa? La lascerei passare. Ma ho l’ordine tassativo di non farlo. Fermare i terroristi è prioritario. Siamo a un passo da una guerra, se ne rende conto? Ora le chiedo di restare fermo e lasciarmi fare il mio dovere.-.
-Lei ci riesce, generale?-, la voce di James Crowain si abbassò appena, -Riesce a coesistere?-.
-Non è ciò che ho detto.-, sussurrò il generale. Volse le spalle all’inglese.
James imprecò. Strinse i pugni. Non poteva fare nulla. Solo accettare e aspettare.

T=-3.01.
Myriam uscì per prima, mani alzate, arma in sicura e caricatore sganciato. Almeno cinque armi la inquadrarono. Dietro le armi, numerosi soldati, tutti pronti a sparare.
-In ginocchio!-, urlò una voce in un megafono. Lei e Frank obbedirono.
I commando li ammanettarono rapidamente. Non si metteva bene. Tolsero loro le armi.
-Siamo con voi, dannazione!-, esclamò Frank. Myriam tacque. Capiva. Si lasciò ammanettare.
Era una procedura comprensibile: garantiva che loro fossero tenuti sotto controllo. In fin dei conti non erano parte dell’Esercito Indiano. Era perfettamente normale che venissero trattati così. Frank capì che opporre resistenza non era una buona idea.
-Spero che quella cena di cui parlavi non avrà luogo in qualche prigione indiana…-, disse.
-Non è ancora finita.-, mormorò l’israeliana. Pregò il dio dei suoi padri, quello in cui aveva smesso di credere, che il Giustiziere e gli altri riuscissero nel loro incarico.

T=-2.49.
La maledetta porta era chiusa. Il bunker di controllo era una zona fortificata adatta a impedire a forze nemiche l’accesso, era stata progettata così.
-Cariche pronte.-, disse Arjun, -Richiedo di aprire la strada.-.
-Negativo.-, replicò Neroko, -Ci rallenteresti. Appena entreremo capiranno che arriviamo.-.
-Io per primo.-, disse l’uomo, -Neroko con me. Turama e Jhadir a chiudere.-.
-Negativo. Richiedo di andare io per primo signora.-, Jhadir si era rivolto a Turama. La donna annuì. L’uomo non protestò. Era un bene: non avevano tempo per discutere.
-Jhadir primo. Tu per secondo, Neroko terzo, io quarta e Arjun chiude.-, decretò.

T=-2.21.
-Abbiamo un problema.-, disse qualcuno. Dalima si volse verso Aisha. L’altra la guardò, sgomenta.
-Protocolli di blocco. L’intera struttura è sigillata, salvo i silos di lancio.-.
-Allora dobbiamo prepararci a vendere cara la pelle.-, disse Dalima. Per lei non era un problema. Avrebbe voluto sopravvivere ma capiva che non era possibile. La causa richiedeva questo. E lei era devota alla causa, al suo paese. In modi che gli altri non potevano immaginare. Aisha scosse appena il capo.
-Io non voglio morire…-, sussurrò appena.
-Tutti muoiono.-, la voce di Dalima si abbassò mentre avanzava verso l’altra donna. Arrivò vicina, vicinissima. Tanto da sentire i loro respiri mescolarsi.
-Ma tu morirai prima di tutti noi se non prendi un’arma e non combatti.-, sibilò afferrando il battle-dress dell’altra e scuotendola. Aisha annuì, improvvisamente obbediente.
-Si stanno preparando a irrompere. Non potrò lanciare i missili, non tutti. Ma potrò lanciarne uno. Coordinate…-, Dalima appoggiò il portatile e prese a digitare.
Inserì le coordinate e i codici di lancio. Attivò la sequenza.
-Cinque minuti al lancio su Islamabad. Salutate la nuova era! Il Kali Yuga terminerà in questo giorno di radiante massacro! I politicanti imbelli e i loro leccapiedi senza spina dorsale periranno e saranno calciati nella polvere! Sia lode alla nuova India! Jay!-, esclamò, esaltata.
L’esplosione dell’irruzione la costrinse a mollare il portatile. Impugnò il P90.

La sala di controllo era guardata da solo due mercenari. I due erano trincerati bene.
Jhadir ne abbatté uno prima di venire crivellato dalla seconda Neroko la finì con un colpo alla testa. Zona libera, ma nessuna traccia di Dalima.
-Sono all’hangar dei Viper!-, esclamò Turama lanciandosi in avanti. Il giapponese la seguì.
Notò Arjun sedersi a una delle console. Il Giustiziere scattò dietro di loro.

Dalima li vide. Correvano di copertura in copertura. Allineò le tacche di mira e sparò.

Neroko aveva superato Turama. Alzò l’arma. Sparare in corsa implicava poche possibilità di successo. Tentò comunque. Sparò. Due colpi. Poi tre proiettili lo centrarono. Due lo colpirono sul kevlar ma il terzo fece scempio della spalla destra. Il giapponese cadde.
Vide, attraverso un velo rosso di sofferenza, il Giustiziere farsi avanti, arma imbracciata. Le raffiche dell’uomo furono precise, implacabili.
-Vai! Non farla scappare!-, strepitò Neroko. Cercò di alzarsi. Un proiettile vagante lo colpì alla gamba. Nulla di grave ma lo rallentò. Il giapponese imprecò. Sfilò la pistola dalla fondina.
Alzarsi! Continuare a combattere! Quello doveva fare! Quello avevano fatto i suoi avi!

Turama Jindal avanzò tra le tenebre dell’hangar. Sparò due colpi all’ultimo mercenario visibile. Poi le luci dell’hangar si affievolirono. Calo energetico.
L’indiana cercò un bersaglio. Dalima Kothil doveva essere rimasta sola.
Continuò a muoversi attorno al Viper. Il mezzo immobile pareva un gigantesco predatore assopito. L’intero hangar era in silenzio. E Dalima… Dalima era svanita.
Poi gli incubi presero corpo.

Dalima Kothil aveva atteso quel momento. Non aveva portato con sé il P90, per il quale non aveva che un caricatore, tra l’altro. Aveva preferito il coltello e la pistola.
Avrebbe dovuto freddare la donna da lontano, ma davanti alla possibilità di un confronto, non si era tirata indietro. Balzò su di lei dall’alto del Viper.
Turama fu presa totalmente di sorpresa: perse la presa sulla pistola, cadde a terra, rotolando con Dalima sul cemento. Si rialzarono, ma la killer fu più rapida. Aggredì l’altra con una serie di colpi corti tipici di diverse arti marziali. Turama si difese al meglio delle sue possibilità, ma incassò nondimeno. Un pugno la centrò all’addome, una testata al viso. Un calcio circolare dell’altra le colpì il ginocchio. L’articolazione gemette. L’indiana urlò. Dalima rise.
Calciò allo stomaco. La soldatessa crollò a terra, ansimante e sanguinante. Sconfitta.
Dalima sguainò il coltello. Voleva che quegli ultimi momenti con quella donna fossero molto intimi. Impugnò il coltello a rompighiaccio. Turama cercò la pistola. Non la trovò.
“È finita..:”, pensò. Dalima si chinò su di lei, una vampira pronta a mordere.
E improvvisamente un’altra ombra prese corpo.
Strappò Dalima Kothil dalla sua vittima, travolgendola.

Rabbia. Ira incontro alla languente luce.
L’uomo aveva visto molti morire. Nô era solo l’ultima della lista.
Non avrebbe permesso a quella scellerata di uccidere qualcun altro.
Sferrò una serie di colpi corti, usando la pistola come una mazza. Dalima, sorpresa, fu travolta da calci e pugni, colpi corti.
-Volevi il fuoco di Agni, l’annientamento finale?-, la voce dell’uomo pareva venire da una caverna. Colpì l’indiana con un jab ascendente. Lei riuscì a ristabilire la distanza.
-Voglio che l’India si risvegli dal velo di assopimento in cui è caduta! Siamo divenuti una nazione indegna!-, Dalima sguainò un altro pugnale. Un K-bar modello americano.
L’uomo annuì. Sguainò il Tantō. Lama contro lama.
-Ho visto il fondo della bolgia. L’annientamento è tutto ciò che meritiamo. Tutti noi. Indù e pakistani. Chi sopravvivrà trionferà!-, ringhiò Dalima, -E tu non lo fermerai: ho innescato il lancio. Ormai mancheranno tre minuti!-.
L’uomo non rispose. Si muovevano in cerchio. Turama Jindal cercava in vano di tirarsi su.
-Tu non sei diverso da me, uomo. Tu hai visto! Tu sai!-, gli occhi di Dalima erano sbarrati dal furore. Attaccò. L’uomo schivò. Contrattaccò. Fu stoppato.
L’uomo si fece sotto, attacchi diversi, colpi ascendenti e discendenti. L’indiana parò. L’uomo la centrò con un pugno. Dalima ringhiò. Contrattaccò. Urlò. Puro furore. Ira.
Riflessa nella sua. Davanti all’uomo si agitavano i morti. Tutti quelli di quell’intera faccenda.
Dalima attaccò, alto e basso. L’uomo schivò, parò. Eseguì un movimento del polso, fendendo lungo il braccio teso di lei. L’indiana emise un verso di dolore. Aveva leso il braccio della donna Le entrò nella guardia.
Lasciò il coltello. Applicò una leva afferrando il braccio ferito e tirando corpo e braccio in direzioni opposte. Clack! La spalla del braccio armato di Dalima Kothil uscì dalla sua sede. All’indiana sfuggì un grido di dolore. L’uomo la proiettò sul terreno. Il coltello della donna cadde da qualche parte. L’uomo sfilò il Karambit.
-Non riposano in pace.-, sibilò. Montò a cavalcioni della donna, spingendo l’arma verso il suo collo. Lei cercò di opporsi con entrambe le braccia, ma quello leso non contribuiva. Il suo avversario guadagnò un centimetro alla volta, fino a superare il limite. La resistenza di Dalima Kothil cedette, di schianto.
L’uomo spinse. Il coltello affondò. La donna gorgogliò qualcosa. Preghiere? Minacce? Irrilevante.
-E tu non sbagli.-, l’uomo diede la spinta terminale, un fiotto violento gli arrivò al viso.
-Non sei l’unica ad aver visto il fondo del vuoto.-, disse.
Si alzò. Dalima, gli occhi sbarrati e il collo aperto dalla lama del Giustiziere, lo fissava senza vedere.
La radio gracchiò, improvvisamente tornò alla vita.
-Qualcuno mi riceve?-. Arjun. La sua voce tradiva la sofferenza.
-Arjun. Io e Turama siamo vivi.-, l’uomo si inginocchiò accanto all’altra donna, quella viva.
La aiutò ad alzarsi. Turama gemette.
-Neroko è ancora vivo, ma è rimasto indietro.-, disse. Si tastò cercando ferite. Nulla di nuovo.
Turama si aggrappò a lui. L’uomo le passò un braccio sotto le ascelle. La sostenne.
-Dalima è morta.-, mormorò Turama alla radio.
-Peccato che abbia dato la sequenza di lancio. Avete due minuti per uscire da qui!-.
-Arjun…-, mormorò Turama, la voce affranta.
-Io sto morendo, Turama.-, la voce del milite tradiva stanchezza, dolore, sofferenza immane.
-Ho sigillato i silos e attivato l’autodistruzione del missile in fase di lancio. L’esplosione potrebbe tracimare, raggiungermi. O forse no. Di fatto non importa. Andatevene via di là.-.
-Arjun…-, la voce dell’uomo era incrinata da qualcosa, -Grazie.-.
-Ci rivedremo dall’altra parte, uomo.-, disse Arjun, con tono spavaldo nonostante tutto.
-Ti ricordi dov’è il condotto di accesso secondario?-, chiese l’uomo all’indiana. Neroko, poco distante, si reggeva in piedi appena. Gli bastò uno sguardo per capire.
-Da qui c’è una strada secondaria. Passiamo dalle camerate, muoviamoci.-, disse Turama.

-È finita, signore. Dobbiamo chiudere i passaggi. Il nostro uomo ha avvisato che l’esplosione potrebbe non venire contenuta. La struttura potrebbe collassare.-, avvisò il milite.
James Crowain, poco distante, scosse il capo.
-Aspettate ancora!-, insistette.
-La smetta, o…-, il soldato fu fermato da un gesto del Generale.
-Un altro minuto.-, ordinò l’ufficiale.
-Signore…-, iniziò il soldato.
-Me ne assumo la piena responsabilità, soldato. Esegui.-, ordinò l’uomo.
-Grazie, signore.-, James chinò il capo, riconoscente.
-Non lo faccio per lei. Lo faccio per me.-, chiarì l’ufficiale.

-Avete un minuto!-, la voce di Myriam Goldmann irruppe sulla frequenza. L’uomo si sfilò il cinturone. Tagliò i sospensori lasciandolo cadere. Turama si strappò di dosso il giubbotto imprecando in Hindi. Neroko buttò a terra l’elmetto e le armi.
Peso, peso inutile, correvano sfiancati, sanguinanti ed esausti.
-Il portello!-, esclamò l’uomo vedendolo. Era distante…

-Signore!-, la voce del soldato ora era intrisa di una nota di panico ancestrale.
-Ancora venti secondi!-, ringhiò l’ufficiale.
-Non possiamo! Signore, la prego…-, iniziò.
Improvvisamente il generale tacque, senza fissare i soldati. Fissava il passaggio.
Un bastone luminoso fece la sua comparsa, seguito da un braccio, da un corpo, poi un altro.
-Aiutateli!-, ordinò l’uomo. James Crowain scattò in avanti, ruppe la posizione statica senza la minima disciplina. Afferrò il braccio. Neroko Tsubikome grugnì. Fu estratto dal condotto.
Poi toccò a Turama, aiutata da altri due militi e infine all’ultimo superstite.
Dietro di loro, i fanti appartenenti ai reparti speciali artificieri sigillarono il passaggio a tempo di record.
-Arretrare! A tutte le forze alleate, arretrare!-, appelli via radio e a voce diffusero l’ordine.
L’intero schieramento indiano si sfaldò lungo le pendici della collina. Poi, fu il ruggito.
Il fuoco, imprigionato nelle viscere del monte ringhiò impotente la mancata libertà.
Il tremore scatenato dalla detonazione fece tremare il monte. Un crepaccio si spalancò, inghiottendo alcuni uomini. Urla e panico. Tutti corsero, per sfuggire alla collera degli dèi.
Poi, come fu iniziata, quell’ira funesta terminò.
E sulla scena calò il silenzio, assoluto e totale. I testimoni e i superstiti di quell’ecatombe si fissarono senza parole. Era finita. Il sogno delirante di Dalima Kothil e dei suoi era rimasto solo questo, un sogno. Un sogno per cui morire e uccidere.
L’uomo scambiò uno sguardo con Turama Jindal. Si accorse di ridere.
Un riso che, lentamente, divenne pianto.

-Così l’Operazione Jahaghanath si è conclusa, signore.-, terminato l’intervento, Turama riprese il suo posto tra i militi indiani presenti alla riunione. Il Debriefing e il recupero dei corpi erano stati complessi e penosi, ed erano durati giorni. Gli occidentali erano stati curati in ospedali indiani sotto la custodia del governo. Complice la crisi del COVID-19 non era certo facile capire come muoversi.
-Grazie, tenente Jindal.-, rispose il Ministro dell’Interno, -È chiaro e palese che ci troviamo davanti a una situazione mai vista prima: agenti occidentali slegati da qualunque agenzia ed elementi delle nostre forze speciali alle dipendenze dell’intelligence che sventano un complotto ai massimi livelli dello Stato indiano. Davanti a una simile situazione e tenendo conto dell’attuale emergenza sanitaria, mi trovo nell’impossibilità di pronunciarmi.-.
-Signore, con tutto il dovuto rispetto, il complesso noto come Jahaghanath è un pericolo. Nessuno stato è privo di corruzione, e penso che questa vicenda abbia ampiamente dimostrato la profonda corruzione presente nel nostro.-, osò dire il Generale Arush Radhvan.
-Generale Radhvan, apprezzo la sua franchezza. Come apprezzo l’operato del Tenente Jindal e dei suoi commilitoni. Siate pur certi che il loro sacrificio non sarà vanificato dai politicanti imbelli di Dheli. In concomitanza con il Goanbu cinese e con i Servizi della Sud Corea, ci siamo organizzati per incominciare una serie di operazioni volte a smantellare i resti dell’infrastruttura di cui facevano parte Dalima Kothil e i suoi alleati.-, rispose il ministro.
-In merito agli agenti occidentali?-, chiese Turama, sforzandosi di sembrare impassibile sebbene stesse sudando freddo. L’uniforme da ufficiale le stava stretta, e non era la sola cosa a farlo: in seguito al recupero dei corpi e alla cura dei feriti, l’indiana aveva avuto diverso tempo per pensare, per riflettere.
-La posizione del governo al riguardo è frammentata, tenente. Sarebbe stato meglio, per tutti noi, se questi occidentali sparissero. D’altronde, non possiamo certamente fingere che non siano mai esistiti. Siccome la situazione è questa, tenente, mi trovo nell’impossibilità di darle delle risposte definitive, al riguardo.-, il ministro guardò per un istante i fogli sulla scrivania.
Quell’intero sistema, quella pantomima di briefing era solo il preludio a un cambiamento nelle alleanze occulte che dominavano realmente la scena politico militare indiana.
-Signore, ho il permesso di parlare schiettamente?-, chiese Turama.
-Naturalmente, Maggiore Jindal.-, disse il Ministro. La donna spalancò tanto d’occhi.
-Ne ho parlato con il Capo di Stato Maggiore. Ritiene che la sua condotta e quella dei suoi uomini sia stata esemplare. Nel suo caso, la sua capacità di azione ha fatto la differenza tra la possibilità di sventare una catastrofe e la certezza di doverla subire. Per questo e per il suo ottimo stato di servizio, lei è promossa d’ufficio al grado di Maggiore.-, spiegò il Generale Radhvan. Turama annuì. Fece un rigido saluto militare.
-La mia richiesta rimane, signore.-, disse. Il ministro annuì.
-Parli pure, maggiore.-, disse.
-Signore, riguardo questi agenti occidentali, io ritengo che sia profondamente stupido e controproducente procedere a un loro fermo. Si sono rivelati risorse preziose e non hanno tentato alcun sabotaggio né hanno provato a fuggire.-, il colonnello Phaheed la interruppe.
-Vorrebbe forse dar loro una medaglia, maggiore?-, chiese.
-Mi basterebbe sapere di averli trattati umanamente.-, replicò Turama.
-Mi è stato riferito da fonti ambigue che tra gli occidentali c’è un’hacker nota come Shaibat. Corrisponde a verità?-, domandò il ministro.
-Signore, l’hacker in questione può essere confusa con Shaibat, il cui dossier lei avrà sicuramente già letto, ma ritengo che il suo contributo sia stato tanto importante quanto quello dei suoi compagni. Di fatto, senza di esso, ci sarebbe stato impossibile procedere all’operazione nella sua fase finale.-, spiegò Turama.
-La ringrazio, maggiore. Ulteriori opinioni o interventi da parte sua?-, chiese il ministro.
-Sì: signore, qualora agli occidentali venga comminata una pena, sarà mia premura avviare una procedura investigativa nei confronti dello Stato Maggiore.-, Turama ignorò le occhiate.
Il Generale Radhvan e il colonnello Phaheed parvero improvvisamente a disagio.
-Lei sta minacciando, Maggiore.-, disse il ministro.
-Puntualizzando, signore. Sto solo sottolineando la mia determinazione a impedire a qualsivoglia residuo di corruzione di ammorbare il sacrificio dei miei uomini. Parole sue, non mie, riguardo all’importanza di non rendere vane tali morti.-, Turama non staccò gli occhi dal ministro. L’uomo non distolse lo sguardo.

Erano passati tre giorni. L’uomo osservò le pareti. L’hotel in cui erano alloggiati era sorvegliato da diversi agenti dei Servizi Indiani. Stanze singole, nessuna visita permessa.
Tre giorni di medici che andavano e venivano, interrogatori e cibo consegnato senza parole.
Tre giorni di stasi. L’ansia avrebbe divorato un animo diverso. Non il suo.
L’uomo inspirò ed espirò. Nô, Arjun, tutti quei morti…
Pensò ai vivi. Lui e gli altri ce l’avevano fatta. Se il governo indiano non li avesse incarcerati…
Improvvisamente bussarono alla porta.
-Avanti.-, disse, con una certa sorpresa. Vide una figura famigliare entrare. Pantaloni jeans e maglia nera. Nessun accenno di vestiario tradizionale. Solo una leggera zoppia.
-Turama.-, salutò con un cenno. Lei rispose al saluto.
-Il governo ha autorizzato il vostro rilascio. Il corpo di Nô Mitsutune è già stato inviato in Giappone. Neroko lo ha seguito.-, disse l’indiana.
-Il tuo governo ci lascia andare? Così?-, chiese l’uomo. Non capiva, non si capacitava.
-Shaibat ha consegnato una lista di nomi. Nomi importanti. Diciamo che la scelta è tra trattenervi e vedere il governo crollare nello scandalo, o lasciarvi andare.-, il tono di voce e il viso di Turama tradivano un’ira inespressa, -Quei politicanti da quattro soldi ce l’hanno fatta ancora una volta. Non cambierà mai nulla.-, sibilò.
-No. Io credo che qualcosa sia cambiato.-, disse l’uomo con un sorriso.
-Tu ora sai.-, mormorò, -Sai perché facciamo quello che facciamo.-.
-E se avrete bisogno, io ci sarò. Qui o altrove.-, rispose Turama. L’ombra di un sorriso fece capolino sul viso di lei. L’uomo annuì, solennemente.
-Ti ci vorrebbe un nome da battaglia diverso. Sai… per celebrare.-, disse tra il serio e il faceto.
-Durga.-, disse l’indiana con un sorriso dopo averci pensato un po’.
-Mi piace!-, annuì l’uomo con un sorriso a sua volta. Scoppiarono a ridere entrambi.

Shaibat si fermò alla soglia del terminal. Guardò Turama Jindal e il Giustiziere salutarsi.
Il suo intuito le diceva che quei due prima o poi sarebbero finiti con l’essere ben più che semplici commilitoni. Almeno quello c’era di buono.
Quello e l’aver impedito una nuova guerra. Ma era tutt’altro che finita. Il Covid-19 aveva imposto un brusco stop all’economia, incasinando ulteriormente situazioni già di per sé complesse. Di tutto ciò, lei ne era certa, si sarebbero avvantaggiati i malvagi e i vili. Gente come Dalima Kothil non era intrinsecamente malvagia, ma davanti alla verità, aveva scelto l’opzione facile, l’annientamento.
Il Giustiziere, Turama e tutti loro non erano così. Di questo, l’hacker thailandese era sicura.
Loro non avrebbero voltato le spalle alla speranza che il mondo migliorasse, che i pochi potessero vegliare, affinché i molti vivessero in pace.
Shaibat aveva condiviso con i Servizi Indiani una lista. Una sorta di dono.
Contrabbandieri e politici, mercanti e diplomatici, militari e spie. Uomini così profondamente all’interno dell’estabilishment indiano da esserne mere emanazioni, per quanto corrotti e deviati.
Turama Jindal e pochi altri dell’Esercito Indiano avrebbero fatto sì che quelle corrotte emanazioni del potere trovassero pane per i loro denti. E loro li avrebbero aiutati. Sempre.
Anche perché chiunque avesse fornito a Dalima e Patil uomini e mezzi era ancora là fuori.
La bestia nera che aveva quasi scatenato una guerra sarebbe tornata alla rivalsa.

Jhon Kingsword imprecò. Si massaggiò la guancia lesa.
-Merda… non c’è più rispetto per i feriti… che male!-, imprecò.
Era collegato a diversi strumenti, ma meno dei primi giorni. Aveva avuto fortuna: la lesione riportata era stata operata per tempo e un massiccio quantitativo di antibiotici aveva impedito il propagarsi di infezioni.
-Giornataccia?-, chiese la voce di James Crowain. L’inglese schivò l’infermiera indiana bassa e compatta che lo lasciò entrare senza proferire verbo.
-Queste stronze sono decisamente incapaci di basilare compassione medica! Insomma, io ho bisogno di un urgente drenaggio di liquido spermatico, compare!-, Jhon sorrise a dispetto dell’espressione esausta. Anche una settimana dopo l’intervento che lo aveva restituito al mondo dei vivi e a dispetto della dieta ferrea e dei trattamenti, il biondo non pareva al suo meglio. James Crowain, elegante a dispetto degli abiti casual e della mascherina, avanzò.
-Dunque, Nô è morta.-, sospirò Jhon. James annuì appena. La tristezza avviluppò i due uomini.
-Neroko torna in Giappone. Myriam e Frank?-, chiese.
-Già in partenza. Come il Giustiziere. Io rimarrò ancora un po’. Ad assicurarmi che non facciano gli stronzi.-, rispose l’inglese.
-Non hai paura che ti prendano di mira? Sei pur sempre britannico, no?-, chiese Jhon.
James sorrise. Il suo amico tossicchiò.
-Merda, non mangio cibo solido da una settimana. Domani dovrei riprendere a farlo… E quelle infermiere… Neanche la minima soddisfazione…-.
-Pensa a guarire.-, lo rimbeccò l’ex SBS, -Tra tutti noi sei quello messo peggio.-.
-Già. Quello vivo, intendi.-, ribatté Jhon, improvvisamente triste.
-Abbiamo impedito una guerra. Shaibat sta scavando nella rete e tra le sue fonti. Troveremo i bastardi che hanno dato inizio a questa merda, Jhon. È una promessa.-, la mano di James si tese. Il biondo la strinse, con forza maggiore di quanto le sue condizioni avessero lasciato supporre. Dialogarono ancora del più e del meno e l’inglese uscì dopo qualche minuto.

James Crowain ripartì altri quattro giorni dopo alla volta dell’Europa.. Il Governo Indiano non fece trapelare nulla. Per tutti, la questione Jahaghanath era seppellita sotto tonnellate di roccia e omertoso silenzio. L’inchiesta negli ambienti del potere rilevò diverse irregolarità.
Turama Jindal, ricollocata ai Servizi Indiani, arrestò personalmente tre magistrati colpevoli di corruzione, peculato e truffa su forniture mediche. La successiva ondata di dimissioni e accuse passò in sordina, nell’India travolta dall’emergenza COVID.
Ma la pandemia non avrebbe fermato gli sforzi di Turama: la donna chiese e ottenne la creazione di un’unità speciale delle Forze Speciali Indiane, alle dipendenze dirette di un ente anticorruzione.

Jhon Kingsword era appena tornato dalla passeggiata. Gli veniva concesso di fare venti minuti di camminata. Sapeva che avrebbe dovuto riprendere ad allenarsi, ma i medici erano ferrei: non l’avrebbero lasciato fare senza prima essere certi della sua avvenuta ripresa.
Sospirò. Tra breve la solita, pudica, puritana e castigata infermiera indiana di trent’anni lo avrebbe controllato per poi andarsene senza una parola. Un classico.
Si rassegnò all’ennesimo passo nella routine. Era inutile esigere che certe cose cambiassero.
Si sistemò meglio contro il cuscino. Gli ospedali indiani erano ben ventilati, per fortuna! Dopo i monsoni, la temperatura era tornata equatoriale e umida.
Anche i pasti non erano eccelsi: la reintroduzione del cibo solido era stata lenta e graduale, per garantire la ripresa dell’apparato digerente. Risultato: si sentiva bene, ma moriva di fame.
Si consolò pensando che presto o tardi sarebbe tornato in America e si sarebbe rifatto di tutte quelle privazioni. Poi avrebbe nuovamente intrapreso qualche impresa suicida.
Era un incosciente, e lo sapeva. Non avrebbe cambiato quella vita per nulla al mondo.
La porta si aprì. Jhon, gli occhi volsi al cielo, sospirò. Ecco l’infermiera. Pregò solo non fosse quella con cui ci aveva provato…
-Conosco la prassi.-, disse con rassegnazione. Alzò la maglia ed espose la zona lesa, ancora coperta dal bendaggio. Sperava solo finisse in fretta.
-Uh. La guarigione procede bene. I dottori parlano di rilasciarla presto.-, disse la voce della donna. Jhon abbassò lo sguardo. Il tono lo stupì, l’accento di quella donna non era indiano.
E neanche la donna. Davanti a lui c’era una giovane, non meno di venticinque anni e non più di trenta, capelli neri raccolti in un coda e camice ospedaliero a coprire il seno, decisamente generoso.
-Mi scusi… lei non è l’infermiera delle ultime volte.-, disse lui.
-No. Nadia Kistorakis. Diciamo che sono volontaria.-, disse lei con un sorriso.
Gli occhi azzurro-verdi e il viso angelico erano uno spettacolo tanto quanto il resto del corpo di quella bellissima apparizione.
-Kistorakis è un nome greco…-, notò lui.
-Mh-mh.-, fece lei con un sorriso mentre esaminava la ferita. Jhon non capiva, ma sorrise.
-Pensavo che questo reparto fosse gestito dai soli medici indiani.-, disse.
-Lo sarebbe, ma il Covid sta costringendo i medici a fare doppi turni, se non tripli. Diciamo che la situazione è abbastanza pesante. Io ho già operato come medico in diverse occasioni all’interno delle istituzioni indiane. Per loro è stato naturale selezionare me e altri per coprire alcuni pazienti specifici.-, spiegò Nadia, -Inoltre non credo che la sostituzione ti disturbi.-.
-No… Le indiane sono poco propense alla conversazione…-, rispose lui con un sorriso.
-Immagino.-, fece lei. La sua mano si sollevò dall’addome di Jhon, andando a sfiorare l’erezione di lui, palesemente visibile attraverso i vestiti.
-Oh…-, disse Nadia. Non pareva dispiaciuta.
-Già…-, fece Jhon. Incominciava a farsi un’idea della situazione.
-Mi perdoni, ma mi pare palese che ci sia un ulteriore problema da analizzare prima che il quadro clinico divenga critico…-, fece Nadia, allusiva. Fece schioccare la lingua e si tolse i guanti dopo aver chiuso la porta a chiave.
-La prego dottoressa… ho bisogno di cure…-, sussurrò lui con voce lamentosa.
Lei sorrise, complice.
-Già. Un suo amico mi ha informato della sua situazione. Drenaggio di liquido spermatico, eh?-.
“James, maledetto filibustiere! Ti devo un drink!”, pensò Jhon con un ghigno.
La mano di Nadia saggiò la consistenza del pene del paziente con professionale dovizia.
-Uh. Una situazione decisamente grave. Richiederà un approccio meccanico e oltremodo invasivo…-, disse mentre estraeva il sesso di Jhon. Si sbottonò il camice, mettendo a nudo un reggiseno in pizzo e un seno decisamente florido.
-Nadia… James le ha chiesto di fare questo?-, chiese Jhon.
-Preferirei tu mi dessi del tu, vista la situazione. Inoltre, indirettamente sì. Ma c’è una ragione. Jhon e io eravamo sotto le armi assieme. Una missione di pace ONU in Est Europa. Lui ha continuato, io sono rimasta un medico. Ci siamo tenuti in contatto. Lui sa che il mio matrimonio va da schifo, per questo faccio il medico all’estero e che non mi vergogno ad aggiungere un po’ di pepe alla routine…-.
L’uomo annuì. La spiegazione aveva senso. La mano di Nadia prese a fare su e giù sul sesso di lui, esponendo il glande arrossato e turgido. Lo studiò con un sorrisetto.
Jhon allungò la mano andando ad accarezzare un seno di tutto rispetto coronato da un capezzolo turgido. Il giovane notò che una delle mani di Nadia era scivolata nei pantaloni.
La giovane si dava piacere con tocchi evidenti, chiaramente eccitataa da quella situazione.
-Penso sia opportuno procedere al drenaggio… Senza indugio.-, disse chinandosi a suggere il membro di Jhon. Il biondo ringraziò James di cuore mentre stringeva i capelli di Nadia dettando il ritmo. Il resto del soggiorno nell’ospedale indiano si prospettava gradevole.

Leave a Reply