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Racconti Erotici Etero

Beyond the White: Spettri e spade (2)

By 5 Maggio 2020No Comments

Aria secca. Vento pungente. S’infila tra le vesti, tormenta la pelle esposta dei troopers.
Oleg lo ignora. Lo sa ignorare. Ha visto abbastanza campi da fuoco da saperlo fare, ha conosciuto condizioni operative ben peggiori. Anche Helmut ne é immune.
Uno dei trooper impreca, bestemmia in italiano. Patetico sfogo rivolto a déi inclementi e privi di ogni considerazione per la rabbia degli uomini. La bionda, a capo del gruppo, si limita a guidare il drappello. Attenzione alle alture, ai dettagli, a tutto.
Territorio aspro, nemico. Territorio dei Taliban, degli integralisti islamici tanto odiati dall’occidente eppure così resilienti e fanatici da essere divenuti già da tempo una costante in quella zona, nonostante le due massicce operazioni avviate in passato per ripulirla dalla loro nefasta presenza. In realtà, Oleg lo sa bene, i Taliban non se ne andranno mai.
Non per volontà divina, o per divina intercessione, no. Dio, o chi per lui, non si cura di ciò.
Ma l’uomo sì, l’uomo sceglie. E la scelta di quegli uomini è di patire, di restare, di combattere.
Per cosa? Oleg si domanda, per un breve istante, se qualcuno tra loro è ancora in grado di ricordare per cosa stanno combattendo, o se invece lo fanno perché non riescono a fare altro.
Alla fine forse non è poi una domanda così complessa: come tutti i guerriglieri, alla fine anche loro non hanno fatto altro che regredire, affondare nel pantano dell’esistenza fino a recedere, a devolvere in esseri rimasti ancorati solo alle più basilari necessità.
La verità, Oleg ne è convinto, è che la verniciatura di civiltà tanto cara all’occidente sia solo una maschera, da questo lato i guerriglieri maomettani sono persino da stimare.
Ma d’altro canto, loro sono divenuti bestie, intrappolati in quel microcosmo infernale.
La morte per loro dev’essere liberazione…

 

Helmut Khöl controlla le alture, verifica, sonda. Non nota nulla. I Muj (abbreviativo di mujaheddin, vocabolo che designa i combattenti religiosi che in Occidente chiamano Taliban) sembrano aver disertato il campo. Almeno per ora, oppure stavano solo aspettando un buon momento per colpire. Il gruppo di mercenari procedeva a piedi, lentamente, con assoluta attenzione a ogni dettaglio, deciso a non farsi cogliere impreparato. Erano stati depositati lì dopo che un elicottero di proprietà della Steelfang li aveva recuperati da Bagram dopo il loro atterraggio in Afghanistan. Helmut sospira, nuvoletta di fiato che evapora nell’aria gelida.
Fa un freddo cane. D’un tratto lo vede. Un bagliore riflesso.
-Cecchino!-, esclama. Lo sparo arriva un istante dopo. Il trooper di testa della pattuglia cade in uno schizzo cremisi. Colpo terminale alla testa. Fuoco dai trooper aperti a ventaglio. Helmut spara con precisione. Costringe lo sniper a rompere il contatto. Forse lo uccide o forse no.
Altre sagome sulle alture, urla di guerra, odio ancestrale. Raffiche. L’imboscata scatta con ferocia notevole. Un atro trooper crolla, il giubbotto second-chance trapassato da impatti multipli al petto. Raffiche di risposta. Helmut stringe l’AN-94 Abakan sino a sbiancare le nocche mentre spara. Click! Magazzino esaurito. Si getta a terra evitando una raffica che si perde nel vuoto, estraendo la pistola. Blam! Colpo singolo in testa a uno dei Muj.
L’imboscata è iniziata solo da pochi secondi ma i mercenari della Steelfang hanno già perso due uomini sui dieci della pattuglia.
-A sinistra! RPG!-, urla la donna a capo del drappello. Helmut lo vede. Avvolto in una tunica lacera, bardato con uno zaino contenente altri tre razzi, uno degli uomini ha in pugno il caratteristico lanciamissili sovietico. Arma anti-veicolo iconica, da film. E arma da sterminio, qui e ora. Helmut si rende conto, sa, che è distante e attento, che è difficile, quasi impossibile ucciderlo. Helmut decide comunque di provare. L’uomo alza l’RPG. Punta. Mira.
Helmut Khöl spara. Il proiettile annulla la distanza, colpendo il razzo. L’uomo con l’RPG smette di esistere. I due suoi gregari che vomitano maledizioni alla volta dell’Occidente smettono di esistere. Sulla collina esplode per un breve istante la luce di un nuovo sole.
I Taliban sgranano raffiche ma il vantaggio della sorpresa è perso. E anche la loro arma migliore. Uno dei Trooper, l’italiano di prima, si becca un proiettile in una coscia. Raffiche di risposta falciano il Taliban che ha sparato all’italiano. Helmut getta un occhio sul ferito.
 Ferita grave. Arteria femorale. Rapidissimo, Oleg interviene. L’altro bestemmia. Oleg estrae il laccio emostatico e, con una perizia inconcepibile, blocca l’arteria. Sussurra qualcosa al ferito mentre gli altri contractors fanno quadrato attorno a lui.
D’un tratto, i Taliban rompono il contatto. Urlano cose. Fuggono. Alcuni cadono abbattuti da colpi sparati alle spalle. Helmut ricarica il fucile con gesti rapidi.
-Com’è messo?-, chiede la bionda a capo del drappello, la stessa che li ha accolti nella Steelfang. Oleg sospira, il viso mesto nonostante sia sporco di sangue.
-Ferita letale. L’arteria femorale è recisa. Ha bisogno di essere ricucito da qualcuno che se ne intenda.-, risponde. La bestemmia sussurrata dell’italico è quasi comica. Quasi.
-Capito. Chiamo l’elicottero. Perdite nemiche e alleate?-, chiede.
-Due morti. Colpi letali.-, dice Helmut avanzando, -Almeno cinque ostili a terra, forse di più.-.
-Un dannatissimo ritardo. Questi straccioni ci costano tempo e risorse.-, borbotta un altro trooper. Helmut annuisce, la mente già lanciata in un diverso ragionamento.
Ritardo per cosa? Per un incontro? Con chi? A che scopo?
L’Afghanistan è famoso per i papaveri da oppio, no? Allora…
Il ragionamento raggiunge la sua ovvia conclusione e Helmut Khöl annuisce di nuovo.

 

Anche Oleg annuisce. Anche lui immagina, pensa. Sa che qualcosa sta per succedere.
Non sa con precisione come muoversi ma sa che qualcosa gli fa strano.
Oppio? In cambio di cosa? E dove, soprattutto? In una di quelle valli che pullulavano di nemici disposti a morire pur di portare con loro un altro infedele occidentale?
Rischioso. Anche parecchio. Se realmente ci sarà un incontro o qualcosa di simile, è difficile per Oleg immaginare un posto più rischioso di quello. O più sicuro…
Già, ha senso, decide Oleg. Ha una sua contorta logica. E questo rende tutto più difficile.
Più che altro per il piano. Si potrebbero necessitare degli aggiustamenti.
Il rumore dell’elicottero in arrivo è persino confortante. Distrae da quei pensieri. Due trooper caricano il ferito a bordo mentre due uomini con le insegne del personale medico si prendono cura dell’uomo. Se la caverà, su questo Oleg non ha dubbi.

 

-Avrete dei rinforzi.-, spiegò Marco Poretti mentre preparavano l’infiltrazione.
-Non sarai in grado di farli arrivare in tempo se le cose dovessero mettersi male.-, osservò Oleg Kazamov. Alla luce dei monitor, il viso del giovane italiano s’illuminò di un sorriso.
-Vedrai se non posso. Tu limitati a tenere con te questo cellulare. C’è solo un numero in memoria. Chiamalo e poi aspetta. Non dire nulla.-, disse Marco passandogli il cellulare.
Oleg annuì, consapevole che il piano probabilmente sarebbe stato rischiosissimo.

 

La marcia dei contractors proseguì. Oleg era appena più in là rispetto a Helmut, che faceva da retroguardia. Non ci furono altri contatti ostili. Solo capre abbandonate, in lontananza.
Il luogo dello scambio doveva essere vicino. Peccato che stesse calando la notte.
Si accampano alla bell’e meglio in un villaggio abbandonato. Helmut si offre per fare da sentinella al primo turno, così come la leader. Sofia.
Di lei, lui non sa che pensare. Donna e comandante. Gran brutta cosa, anche nel libertario e progressista esercito occidentale. Tra i mercenari dev’essere ancora più dura.
La guarda appena, cercando di capire che tipo sia. Sicuramente una dura. Lei nota lo sguardo.
-Continui a guardare da questa parte.-, nota senza preamboli, -Che c’è?-.
-Beh, noto una bella donna.-, risponde Helmut, ha mentito sapendo di mentire.
Sofia non è brutta, ma dire che la guardi per valutarne la bellezza non corrisponde a verità.
La verità sarebbe ben più dannosa.
-Capisco.-, dice lei con un sorriso non esattamente disinteressato, -E ti piace quel che vedi?-.
La domanda fa sorridere anche Helmut ora. –Molto.-, ammette. È appena un sussurro.
Movimento. La giovane si avvicina. Avrà trentacinque, forse trentasei anni al massimo.
Anche se Helmut non ne è sicuro. Per nulla. Sofia sorride ancora.
-Anche tu non sei male. Vediamo un po’…-, la mano destra della donna abbandona l’impugnatura dell’M4 per adagiarsi sul cavallo dei calzoni di Helmut, che non è esattamente immune al tocco. L’uomo geme appena, sorpreso da tanta audacia.
-Sono abbastanza ninfomane, sai?-, chiede Sofia con un sorriso mentre apre la cerniera-lampo ed estrae il pene con un’abilità che ne conferma la confessione.
-Si vede…-, sussurra Helmut. Si getta un occhio alle spalle. Nessun movimento. Neppure davanti. Sofia sorride, accarezzandolo appena. Rischierebbe di farlo venire se lo facesse due volte, ma sembra capirlo. Gli sorride, decisamente maliziosa.
-Vieni…-, sussurra. Lo prende per mano, arma in pugno, vigile ma non troppo.
Helmut segue, vede, osserva. Lei lo porta dietro i resti di una casa.
-Gli altri…-, sussurra appena lui, sorpreso da tanta lussuria in un luogo tanto poco idoneo.
-Dormono. Solo Jean fa la guardia dall’altra parte del villaggio. Nessuno vedrà nulla.-, dice.
Intanto si abbassa i pantaloni 5.11 e il tanga, appoggiandosi al muro.
-Dentro… adesso..-, sussurra sentendo le dita di Helmut tra le cosce. Lui obbedisce ma non nell’immediato e non senza preoccupazione. Le affonda dentro un istante dopo, trovandola talmente bagnata e calda da sembrare surreale. Non resiste a lungo, ma lei non sembra badarci: sta già godendo come l’ultima delle troie, tanto da mordere la cannuccia del camelbak per non tradire la loro precaria intimità. Helmut esplode dentro di lei senza remore, gemendo appena, silenzioso. Non è stato un amplesso gradevole, solo una scopata che, sebbene liberatoria, è stata gravata dalla paura di essere scoperti o uccisi. Sofia geme appena sentendolo ritrarsi. Per la bionda pare persino che il problema non si ponga: lei ha goduto.
Egoisticamente, avrebbe detto Helmut, senza considerazione per lui.
Si riveste in fretta, e anche lei.  Il divertimento è finito, per entrambi. Si guardano attorno.
Nessuno. Nessun Muj in vista, quantomeno.
-Va a svegliare Jean. Ora tocca a lui e a Mark.-, dice la comandante. Nessun accenno di tenerezza, niente. Per quella donna, l’intimità appena condivisa deve avere la stessa rilevanza di un sacchetto di patatine. Una volta finito non conta più. Helmut annuisce. Esegue e si distende al suolo, avvolto nel sacco termico, l’arma vicina a sé e cerca di dormire.
In un modo o nell’altro, l’indomani, tutto questo avrà fine.

 

L’alba è bellissima. Oleg Kazamov la osserva non senza meraviglia.
Anche suo fratello maggiore deve averla vista. Deve. Almeno una volta, prima di morire durante un’imboscata dei combattenti afghani. Era accaduto durante l’ultimo anno dell’Invasione Sovietica dell’Afghanistan. Un cecchino l’aveva colpito durante una perlustrazione della Valle dei Cinque Leoni. Oleg non lo ricorda molto bene. All’epoca era piccolo e il fratello era partito per l’Aghanistan che lui aveva tre o quattro anni.
Ma i suoi genitori lo piansero, a lungo. Per loro quel figlio era stato una vittima di una guerra ingiusta, combattuta in nome di ideali ormai morti. Una vittima inutile.
Oleg aveva passato gran parte della vita a cercare di eguagliarlo. Ora, si domanda se in realtà non sta ancora cercando inconsciamente di farlo.
Sospira, scacciando le illusioni. Poi lo vede. Un bagliore. Realizza. Capisce.
Riesce a dare l’allarme prima che il proiettile lo abbatta.

 

Helmut vede Oleg cadere con un gettito rosso scuro che fiottava dalla base del collo. Ferita letale. Nulla da dire o da fare. L’ex Spetsnaz é già morto. Helmut spara. Vede lo sniper centrato da due colpi crollare a terra, trapassato mentre cerca di fuggire dal suo piombo.
Morte inutile, vendetta a mala-pena sufficiente. Oleg Kazamov giace a terra, morto.
Si avvicina appena e, cercando di non farsi vedere, estrae il cellulare dalla tasca del morto.
-Merda.-, impreca Sofia mentre i mercenari fanno cerchio attorno al morto e a Helmut.
-Non possiamo fermarci. Siamo in ritardo.-, dice lei. Helmut annuisce. Capisce. Sa.
Non può permettere al dolore di ostacolare la sua missione. Non può. Si rialza.
-Andiamo.-, dice soltanto. Gli altri capiscono. Rispettano. La marcia riprende.
Continua per altre due ore, prima di arrivare a quello che sembra un villaggio.
I maledetti Muj sono tutti lì. Helmut, in retroguardia, finalmente capisce, finalmente vede.
Oppio. Papaveri da oppio, eroina. A pacchi. A palette. Una figura in abiti tradizionali emerge. Barba sale e pepe, occhi azzurri, viso fiero.
Gamal Al-bashir. Bandito, terrorista, nemico dell’occidente, salvo quando il capitalismo si mette in mezzo. Acerrimo avversario delle droghe e dei vizi, purista sino a che le droghe non si rivelano una fonte d’introiti. Trafficante terrorista. Uomo della nuova Al-Qaeda.
-Salaam Aleikum.-, saluta uno dei mercenari. Piglio da uomo d’affari piuttosto che altro.
-Aleikum salaam.-, risponde Gamal. S’incontrano a metà strada. Helmut Khöl scuote il capo. Non ha senso. O meglio, non dovrebbe averne. Improvvisamente sente la pistola contro la schiena. Una voce femminile all’orecchio. Sofia.
-Vieni.-, dice. Nessun desiderio dirompente in quella voce, solo una promessa. Lo allontana senza un suono dagli altri contractors mentre un elicottero volteggia in cielo.
La contropartita della droga. Hardware della Steelfang. Armi? Soldi? Probabile.
Sofia lo porta sino a dietro un muretto. Gli punta la pistola.
-Per chi lavori?-, chiede, -Ti ho visto prendere quel cellulare. È un Thuraya, ma era spento. Troppo avanzato per non essere hardware governativo.-. Helmut sospira.
-Allora? C.I.A.? N.S.A.? D.E.A.?-, chiede lei. Lui scuote il capo.
-E tu?-, domanda lui senza mostrarsi intimorito, -Se veramente fossi dalla parte della Steelclaw non staresti facendomi il terzo grado. Avresti potuto freddarmi prima, molto prima, o anche ora. Invece non l’hai fatto. E questo mi porta a credere che tu non voglia che questo scambio si compia. Proprio come non lo voglio io.-. La sua tirata è rapida, assoluta.
Lei sospira. Arma puntata ma senza convinzione. Helmut potrebbe disarmarla. Ma non lo fa.
-Una domanda e una risposta, ok?-, chiede. Lui annuisce. Tempo sul filo del rasoio. 
L’Elicottero volteggia su di loro. Troppo vicino ma ancora abbastanza lontano.
-Ok. Di che gruppo fai parte?-, chiede.
-Un gruppo privato. Di gente stanca.-, dice Helmut, -Tu?-.
-GRU.-, dice lei. Sigla imponente. Il G.R.U. è la C.I.A. della grande Madre Russia. Eredità della Guerra Fredda, patrioti inflessibili. Tosti e ben addestrati. Guerrieri del sottosuolo. Helmut sa. 
-Immagino tu abbia un piano per far cessare questa follia, no?-, chiede lei.
-Ce l’ho. Devo solo attivare il cellulare. E andarmene a distanza di sicurezza.-, conferma lui, -Ma i tuoi capi non vogliono vivo il bastardo?-, chiede con un movimento del capo volto a indicare Gamal. Cenno negativo del capo.
-No. Gmal è da considerarsi terminabile. Tutto quello che devo fare è documentare lo scambio. Portare le prove che la Steelfang collabora con i trafficanti di droga che finanziano i terroristi. Del resto non importa nulla.-, dice.
-E immagino tu possa fare la ripresa. Lei annuisce. Batte appena sugli occhiali.
-Questi hanno una microcamera all’interno. Aspettiamo che l’elicottero scarichi la roba e facciamo una foto, poi puoi comodamente chiamare i tuoi.-, dice lei. 
Helmut valuta, decide. Annuisce. –Abbiamo un accordo.-, dice.
Ritornano alla pattuglia silenziosi. L’eli è atterrato. Pacchi antiurto, casse sigillate. Armi.
E droga che prende il posto di quelle armi. A bizzeffe. Helmut estrae il cellulare. Accende senza che esso emetta un suono. Prega silenziosamente che nessuno veda nulla. Chiama. E lascia il cellulare a terra. Sofia scatta le foto. Gesto rapido, quasi perfettamente impercettibile.
Quasi. Uno dei mercenari nota il gesto. Fa per parlare. Tumulto tra i contractors e i terroristi.
Helmut fa tre passi indietro. Misurati. Anche Sofia. I contractors puntano le armi.
Inferiorità numerica devastante. Gamal bercia in inglese accentatissimo, ignorato dai più.
-Pare che qualcuno stia nascondendoci qualcosa.-, l’uomo vestito da contractor ma con il piglio del trafficante scuote il capo, deluso, -Speravo proprio che non succedesse.-, dice.
Helmut sorride. Il rumore è appena un sibilo. L’uomo e i contractor alzano gli occhi. Helmut si getta indietro. Afferra Sofia, abbracciandola. Perde la presa sull’arma, su di lei. Ruzzolano lungo la collina, proteggendosi alla bell’e meglio. Spari verso di loro. Nessuno a segno. Panico. Urla.
Il missile sparato dall’UAV centra il bersaglio, una frazione di secondo dopo. Fuoco dal più alto cielo.
Urla disperate che divengono luce, calore e rogo. Un boato esplode nella vallata mentre droga, armi e uomini bruciano, annichiliti dall’impatto terminale.
L’elicottero esplode. L’onda d’urto scaglia Sofia e Helmut più in là. Dolore al fianco. Almeno una costola lesa. Sofia geme dolorosamente. Ginocchio, braccio, dolore in più punti.
Helmut lotta per rialzarsi e la aiuta. Devono andarsene. È finita.
Il tedesco estrae il suo telefono.
-Esfiltrare. Oleg è KIA.-, dice dopo aver chiamato un numero in memoria. Non c’è altro da dire.
Fumo si solleva dal punto d’impatto. Tutto al rogo. Gli affari della Steelfang muoiono lì.
-Ricevuto. Tramite l’UAV ho rilevato che c’è qualcuno con te.-, la voce di Marco Poretti è calma.
-Affermativo. Alleata. Le daremo un passaggio fino a dove potremo.-, conferma Helmut.
-Ricevuto. Elicottero già in arrivo. ETA, tre minuti. ZA a cento metri da voi, sud ovest-, dice Marco. Helmut sospira. Tre minuti… Saranno lunghi a passare.
-Ricevuto. Chiudo.-, conclude il tedesco. Si rivolge a Sofia. Come lui, la giovane ha estratto la pistola, abbandonato le ginocchiere e gomitiere in favore del minore ingombro. Estrae una barretta proteica dalla giberna e la addenta. Pistole in pugno, si dirigono verso la zona d’atterraggio, un brullo pianoro spoglio ma moderatamente adatto.
Vi arrivano due minuti dopo, alternando corsa a movimenti tattici. Poca prudenza.
L’Elicottero è un Blackhawk registrato a nome dell’Academi, ex Blackwater. Nero color pece.
Il pilota è stato profumatamente pagato per l’esfiltrazione. Non farà domande.
Sofia e Helmut si accomodano nel vano di carico e l’eli si alza in volo.
-Dunque immagino che non ci rivedremo.-, dice lui. È un dato di fatto.
-Chi può dirlo. Il nostro è un mestiere pericoloso, ma ti fa capire che il mondo è piccolo.-, risponde lei con un sorriso. Lui si concede un sorriso. Pensa a Oleg, morto in quella terra e il sorriso svanisce. Si consola pensando che sono riusciti a compiere quella missione.
-Toglimi una curiosità…-, inizia. Lei sorride. –Sì.-, risponde. –Sì?-, chiede lui.
-Sì. Sono ninfomane per davvero.-, spiega lei, -Era questa la domanda?-.
-Prevedibile immagino, vero?-, domanda lui.
-Sì. Assolutamente. Ma è una qualità utile nel mio lavoro.-, sorride ancora.
-Chissà che non avremo modo di ripetere l’esperienza.-, dice lui. Lei non cessa il sorriso.

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