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Racconti Erotici Etero

Blade: nel Bayou

By 27 Giugno 2021No Comments

Il nome é Alexander Mirror, meglio conosciuto negli ambienti dello S.H.I.E.L.D. e nel sottobosco criminale come Blade. Interessi? Donne e arti marziali, in quest’ordine. Sono uno che ama godersi la vita.
Altezza e peso nella media, capelli corti scuri e occhi neri.
Segni particolari? Un fattore rigenerante e degli artigli ossei che spuntano dalle nocche, un ottimo aiuto quando ti ritrovi nei posti sbagliati in momenti sbagliati.
Ora, il lettore aggiornato può fermarsi qui e godersi il racconto, quello che non mi conosce invece dovrebbe sapere che vivo a New York e collaboro spesso con lo S.H.I.E.L.D. ma che non sono un eroe, solo un poveraccio con qualche potere ottenuto in modi eticamente discutibili che cerca di tirare a campare.
Ovviamente, questo spesso include lavori per la malavita ma ho un certo codice etico quindi non ho mai accettato ingaggi eccessivamente illegali, per quanto fossero ben pagati.
Ho collaborato con una mutante, Flux, capace di cambiare stato divenendo liquida.
Una tipa notevole, anche a letto…
(Se vuoi saperne di più cerca pure il racconto Flux e Blade, sempre edito da Rebis=))
Ovviamente la nostra collaborazione fu più di un singolo episodio (Se ti va puoi cercare anche gli altri episodi nei miei racconti).

Quell’incarico era… inquietante e fastidioso.
Premessa: avete in mente le paludi della Louisiana? Ecco. Quello é il posto.
Il momento? Un giorno caldo, tanto da rendere intollerabile la già fastidiosa umidità nella zona.
Il motivo? Semplice: recupero crediti.
La mia committente é Zhara al-Jilani. Una mutante che gestisce una vasta rete criminale negli States.
Intelligente, sexy e in parte con la pelle a squame. È una con cui posso dire di trovarmi bene.
E questo ci porta a come tutto é iniziato.

-Sì! Aaaah! Sì!-, mentre pompavo da dietro la giovane stringendole i capelli a mo’ di redini, lei smozzicava frasi come queste. Era prossima a venire, come me. Continuai a pomparla, ancora e ancora. Dentro e fuori.
Mi sentii esplodere quando le sue mucose mi strinsero, come a volermi spremere.
Abbandonai ogni pretesa di controllo e venni perpotentemente nelle viscere di Zhara. Crollammo l’uno sull’altra, in silenzio, cercando di riprendere fiato, sudati e ansimanti.
-È stato bellissimo…-, sussurrò lei. Mi accarezzò la testa. Ero rasato quasi a zero. Conseguenze del caldo.
Sorrisi, la mia mano che le carezzava piano il viso, il collo per poi posarsi sul petto. Il suo cuore batteva forte.
I nostri umori mescolati, il profumo di lei e la sua pelle increspata ancora da brividi di godimento, tutto questo formava una sinfonia di piacere reciproco. I miei sensi, più acuti di quelli di un uomo normale, mi trasmisero tutto ciò. Zhara, lentamente, i capelli sparpagliati e mossi, si alzò a sedere.
-È stato bello, ma non ti ho chiamato per questo… o meglio, non solo.-, disse.
-Immaginavo. Parlavi di un incarico.-, dissi io. Si tornava in scena. Più che giusto. Ero fermo da molto.
Lo S.H.I.E.L.D. non aveva avuto bisogno dei miei servigi e anche i lavoretti illeciti languivano da un po’.
Più di tutto, volevo tornare in azione. Questo, Zhara lo sapeva sicuramente.
-Sì. Ho un compito per te. Un… recupero crediti. Da parte di un paio di persone.-, disse lei. Si alzò in piedi e giunse sino al tavolino. Prese i due bicchieri vuoti e li riempì di Vodka. Me ne passò uno. Bevvi.
Fuoco in gola e nello stomaco. Sorrisi. Vederla così rischiava di farmelo tornare duro.
Lei lo sapeva, e anche io. Volendo avremmo potuto concederci un secondo round. Volendo.
Ma vedevo bene che altro la preoccupava, quindi mi preparai alla spiegazione.
-Persone che non vogliono farsi trovare?-, chiesi.
-Persone che non vogliono farsi trovare, e che potrebbero non essere molto collaborative se disturbate.-, Zhara mi passò alcune foto. Le guardai. Gran brutta cosa. Il genere di immagini non adatte ai minori.
E forse neppure a certi dei maggiori…
-Erano quattro dei miei. Gente capace.-, commentò la mutante di origini siriane.
-Evidentemente non a sufficienza. Capisco l’ucciderli, ma ridurli così…-, dissi.
-Dovevano fare da esempio. Ma hanno scelto la persona sbagliata con cui giocare al rialzo. Io non mollo. Posso essere clemente Blade, ma non intendo permettere che uno che mi deve soldi se la batta e uccida i miei uomini.-, il tono di Zhara al-Jilani era pregno di rabbia, la sua faccia era una maschera di ferocia, la parte squamata pareva il viso di un drago. Incuteva timore.
-Quindi é uno solo?-, chiesi. Ora ero completamente concentrato. Avevo voluto un incarico e, per i miei peccati, ne avevo ottenuto uno. Peccati che, conoscendomi, avrei commesso ancora a lungo.
-Non é detto. Ma il tuo compito non cambia. Trova i responsabili. Puniscili.-, disse mentre ritrovava i vestiti e si ricomponeva con lentezza calcolata.
-Vivi o morti?-, chiesi io. Potevo immaginare la risposta ma la domanda era prassi. Mi alzai. Presi a rivestirmi.
-Fai sì che facciano da esempio.-, disse lei.

E fu così che mi ritrovai in Louisiana. Uno degli stati con la minor tolleranza per i mutanti.
Non che fossimo mai stati graditi: siamo sempre mal visti ovunque, additati come paria, demoni, diversi.
È stato così a lungo. E lo sarà ancora. Ma… non importa. Alla fine non era quello che contava.
Il volo era stato breve. Classe economica, niente armi. Zhara ha pensato alle spese del volo e dell’hotel.
Gentile. Davvero. Quello oltre all’anticipo di 20’000 dollari mi motivava alla grande.
Peccato che la zona fosse un vero inferno. Dopo l’arrivo a New Orleans, un socio di Zhara, tale Jacques, mi scarrozzò sin nel Bayou. Il delta del Mississippi creava una serie di paludi e acquitrini che alzavano di molto la già presente umidità. L’aria calda non aiutava. Si sudava non poco. Jacques, un bianco dal viso rubicondo e il barbone fulvo mi fissò. Durante il viaggio parlammo poco. Uscimmo dalla statale per proseguire su strade isolate, avvicinandoci all’arrivo.
-Quindi, stavolta ha mandato te, eh? Bien! Uno che vale per quattro spero!-, il suo tono lasciava presagire che non riponeva molta fiducia nella riuscita della mia impresa.
-Valgo quanto basta.-, risposi io. Non intendevo farmi prendere in grio da quel tizio.
-Oh oui! Je suis sur!-, esclamò lui in francese. Sarcastico, evidentemente. Incominciavo già a odiarlo.
-Dimmi una cosa… quello che stiamo cercando…-, iniziai.
-Oui, Ojambe. Un bastardo che ha rubato un carico di lingotti d’oro.-, disse Jacques.
-A me Zhara ha detto che non ha pagato un debito.-, dissi.
-Ah, oui! Aveva un debito di duemila dollari… e poi ha rubato quel carico. A me personalmente.-, rispose il barbuto. Io annuii. Zhara non mi aveva detto dell’oro. Oppure non ne sapeva? Preoccupante.
C’inoltrammo con la jeep lungo la palude. Le strade divennero sentieri sterrati, pieni di dossi. Buche a tratti.
-Avrai bisogno di armi, n’est pas?-, chiese Jacques. Io annuii.
-Roba leggera e che non si fotta con l’umidità e la pioggia.-, precisai. Lui annuì. Arrivammo all’hotel.
Hotel era una parola grossa. Il posto pareva uscito dal 1800. Un edificio in legno, con insegna e tutto.
“Bayou hotel.”, lessi, “che fantasia!”.
-Je te lasse ici! tornerò domani con la roba.-, disse Jacques. Scesi e annuii.
Oltre all’Hotel c’erano poche case, tutte in legno e un paio di barche di pescatori. Un porticciolo permetteva di salpare verso l’esterno. Un postaccio. Entrai. L’Hotel era praticamente deserto. C’erano giusto un vecchio bianco dalla pelle abbronzata e raggrinzita e una nera procace avvolta in un vestito con gonna lunga.
Mi sorrise. Incoraggiante: almeno lei pareva irradiare cortesia.
-Bevenuto! Ha una prenotazione?-, chiese.
-Sì. Sono Germaine.-, dissi io con un sorriso di rimando. Lei annuì. Controllò su un registro cartaceo.
-Sì. Eccola qui. Stanza tredici. La colazione, il pranzo e la cena sono inclusi. Il trasporto per Morgan City é ogni tre giorni. Se ha bisogno non esiti a chiamare. Io mi chiamo Jeanie.-, altro sorriso. Incoraggiante.
-Lo farò! Grazie.-, dissi e presi la chiave. Salite le scale trovai la mia camera.
Spartana, a dir poco. Un letto, un armadio, fine. Non c’era neppure il cesso. C’era una doccia ma era abbastanza fatiscente. L’intero hotel pareva arretrato in ambito di tecnologia. Nessun citofono per parlare con la reception né Tv.
Sospirai. Stavo già morendo di caldo e non era un buon segno. Feci qualche esercizio. Con me non avevo niente se non il borsello e i vestiti che indossavo, oltre a un cambio nello zaino. Mi spogliai.
Puntulmente, un paio di zanzare presero a banchettare su di me. Le schiacciai.
-E ovviamente neanche l’antizanzare…-, dissi. Espirai. Calma. Dovevo calmarmi. Ripresi gli esercizi. Flessioni, addominali, stretching e altro. Mi feci una doccia. L’acqua era tiepida, difficile averla fredda. Uscii e dopo essermi rivestito fui di nuovo sudato. Fantastico…
Scesi alla reception. Jeanie, la bella nera che mi aveva dato il benvenut era sparita, sostituita da un giovane mulatto che mi guardava, come in attesa di commenti. Uscii. L’esterno era quasi peggio che l’interno. Se c’era un condizionatore dentro doveva fare veramente poco rumore, visto che non l’avevo sentito.
Più probabile che non ci fosse, ma stranamente, il caldo era comunque atroce, all’esterno più che all’interno. Bighellonai per il villaggio. Cercai di fare mente locale.
“Quell’Ojambe si nasconde qui in giro.”, pensai, “Forse lontano dal villaggio. Ma non esageratamente.”.
Ovvio. Le provviste per lui sarebbero state un problema. Posto che ne avesse bisogno.
Oltrepassai il porticciolo, camminando sulle assi. Raggiunsi un altro punto: una sorta di isolotto alla deriva tra le paludi. Bellissimo, se non fosse stato pieno di insetti.
E lo vidi. Una sagoma in movimento. Un essere che pareva fatto di melma palustre. Lontano, procedeva a passo lento. Cercai di raggiungerlo, attraversando la palude a piedi e affondando sino a mezza gamba.
Lui intanto arrivò ad un cumulo di vegetazione e parve svanire dietro di esso.
Raggiunsi l’altra riva. Avanzai di altri sei passi. Cercai e trovai il cumolo. Il cuore batteva forte. Adrenalina, buona vecchia adrenalina. Girai attorno all’ostacolo. Niente. Sparito. Come se la palude l’avesse mangiato.
Incerto,cercai sul posto. Non torvando niente, avanzai ancora, oltre linee d’alberi, cercando di evitare gli insetti e i predatori locali. C’era odore di putridume, di decomposizione, ma non di cadaveri. Di vegetazione.
-Che posto…-, sussurrai. E non avevo neanche un’arma.
Sentì un ramo rompersi. Mi voltai. L’uomo che avevo davanti era un creolo, la carnagione bruna, i capelli riuniti in dreadlocks e la canotta sporca e lisa che indossava lo facevano sembrare lo scampato a qualche catastrofe apocalittica. Ma la doppietta che impugnava, mal ridotta ma sicuramente carica, lo rendeva meno risibile. Lo guardai. Era a sette metri di distanza, l’arma puntata alla mia testa.
-Guarda guarda…-, disse con un sorriso che rivelò denti mal messi e capsule sostitutive di bassa lega.
-Già. Metti via il ferro, per favore.-, dissi io.
-No, no, uomo. Qui sei nel mio territorio.-, disse lui. La dopietta era ancora puntata alla mia testa.
-Il territorio di chi?-, chiesi io. Non sentivo neanche il caldo: tutti i sensi erano focalizzati sul presente.
-Il mio. Ora, sei pregato di girare i tacchi e tornare da dove sei venuto. Non vogliamo stranieri qui.-, rispose lui, la rabbia nel tono. Io sorrisi, affabile.
-D’accordo. Ma prima… sapresti dove posso trovare un uomo di nome Ojambe?-, chiesi.
-Vattene via!-, ringhiò lui. Sparò un colpo a vuoto, per dimostrare che era serio. Mi allontanai, mani alzate e con calma. Si era innervosito non poco l’amico…

Tornai all’hotel di pessimo umore. Era quasi sera e tutto quello che avevo scoperto era che i locali non parevano molto accomodanti, e che Ojambe pareva avere una pessima nomea.
Il mio incarico non procedeva bene. Peggio ancora: non avevo modo di contattare Zhara.
Jeanie, la bella nera che mi aveva accolto mi sorrise vedendomi arrivare. Aveva si e no ventisei anni.
Giovane. E condannata a passare la vita lì, probabilmente. Era avvolta in un abito che ne valorizzava le forme slanciate. Mi indicò una valigia.
-L’ha portata un uomo, ha detto di consegnarla a te.-, disse. Io le sorrisi. Estrassi il portafoglio e le lasciai una mancia di dieci dollari. -Per il disturbo.-, dissi prendendo la valigia.
-Nessun disturbo.-, disse Jeanie. I suo capelli erano crespi, neri. Il suo sorriso era stupendo.
-A dopo.-, dissi. Salii in camera, chiusi la porta. Aprì la valigia.

Jacques era stato di parola. Un coltello bowie adatto alla palude, una beretta M9 e una mitraglietta MP7. Un bel corredo completo di munizioni e vestiti adatti. Mi strappai di dosso gli abiti lerci. Mi cambiai.
Controllai armi e lame. Tutto perfetto. Vidi se nella valigia c’era altro.
E la notai. Una lettera. Di Jacques? La aprì. No. Era di Zhara. Memorizzai le istruzioni e la feci a pezzi. Vecchio metodo. Uscii dall’hotel per espletare un bisogno della latrina poco distante. Buttai i pezzi della lettera nel buco. Niente tracce. Tornai all’hotel. Era quasi ora di cena.
La cena fu servita in fretta: una sorta di sbobba di verdure. Mangiai con scarso appetito, cercando di aproffitare della birra che, miracolosamente, era fresca.
Oltre a me, c’erano altri due ospiti: il vecchio incartapecorito e un giovane che pareva a disagio.
Il mulatto che avevo visto alla reception ritirò i piatti. Mi si avvicinò.
-Se vuole, signore, a pochi metri da qui ci sarà una cerimonia vudù.-, disse. Io annuii, interessato.
-Si può assistere?-, chiesi. Lui annuì a sua volta.
-Sì, per una modica cifra.-, disse. Io lo guardai, la domanda scolpita in volto.
-Quaranta dollari, signore.-, disse lui con serietà assoluta. Quaranta verdoni?!
Alla faccia! Mi limitai ad aprire il portafogli e darglieli. Non volevo attirare l’attenzione.
-Grazie signore. Sarà oggi alle 21.00.-, disse. Annuii.

Non ero l’unico al raduno. La cerimonia si teneva su un’isolotto tra le rovine di una vecchia struttura del secolo prima. Fuochi e tamburi. Offerte e canti. Invocavano i Loa. Canti femminili principalmente. Oltre a Jeanie, che riconobbi vestita in modo sobrio ma sempre bellissima, c’erano altre tre giovani quasi della sua età e molti uomini. Tra i quali anche il tizio che mi aveva minacciato. Lui non mi vide.
La cerimonia fu lunga, balli, canti. A un tratto due delle ballerine presero a contorcersi sull’erba, rotolando sulla terra, l’una vicino e poi contro l’altra, come in preda a una possessione. Il giovane che aveva cenato con me osservava la scena con sguardo stralunato. Non capiva.
Io invece capivo. Purtroppo mi ero documentato un po’ su quelle pratiche. Non era che un episodio di fervore religioso estremo, ma i credenti del Vudù sostenevano che quelle due donne stessero venendo cavalcate dai Loa che, muovendone i corpi come burattini, le rendevano loro strumenti.
Durò minuti lunghissimi, poi entrambe giacquero immobili, sporche e ansimanti, ma vive.
Il rito si concluse dopo altri canti e vidi Jeanie venirmi incontro.
-Hai visto?-, chiese con un sorriso, -Il Loa delle Acque ha voluto parlare attraverso Luise! Che fortuna!-.
Il suo entusiasmo era comprensibile. Io sorrisi. -Sì… é stato notevole. Non avevo mai visto niente così!-, risposi consapevole di star mentendo. Avevo visto ben altro. Molto.
-Sì. Ma mi han detto che il Loa era turbato. Qualcosa turba la palude e il Loa non trova pace.-, disse lei.
-Davvero?-, chiesi. Superstizioni, o stava cercando di dirmi qualcosa? Ora che il rito era finito, percepire i cambiamenti nella sua biochimica e nel modo di comportarsi era più facile. Era agitata. Non a causa del rito.
-Sì. C’é qualcosa… Ma io non so… Forse ha a che fare con i cadaveri che hanno trovato nel Bayou.-, disse.
-Quali?-, chiesi io. Improvvisamente capii di quali parlasse.
-Quattro stranieri, gente da fuori. Venivano per turismo, dicevano. E sono morti.-, rispose Jeanie.
-Uccisi da quella cosa che turba la palude?-, chiesi. Jeanie annuì. Respirava veloce. Paura? Sì.
Era chiarissimo il terrore che provava, una paura ancestrale.
-Ho bisogno che tu mi porti a vedere dove sono morti.-, dissi. La vidi divenire grigia.
Era terrorizzata. Fece per parlare ma la fermai.
-Non devi venire fin lì. Mi basta che tu mi dica dove andare.-, aggiunsi, -Ti pagherò il disturbo.-.
Lei titubò. Poi si diresse verso l’hotel senza dire altro.

Non la forzai: inutile farlo. Con le donne spesso é molto meglio lasciar loro il tempo.
Tornai all’hotel e, il mattino dopo, Jeanie bussò alla porta della mia camera. Indossava un abito simile a quello che aveva il giorno prima.
-Ti aiuterò.-, disse, -Ma devi promettermi di non metterci molto. La gente qui é… riservata.-, disse.
Annuii. Capivo. Era più di quanto sperassi. Le dissi di aspettarmi di sotto. Presi il Bowie e la pistola. inutile rischiare di attirare l’attenzione. Scesi dopo aver messo il primo alla cintura e nascosto la seconda nella fondina coperta dalla camicia.
-Ci sono.-, dissi scendendo.

Jeanie mi guidò lungo il bayou. Si muoveva con assoluta dimestichezza. La palude non pareva impacciarla.
Ma impacciava me. Alla grande. E gli insetti… insopportabili. Uno scoiattolo ci osservò per qualche istante.
-Di qui.-, disse lei. La seguii, tenendo gli occhi aperti. Si fermò su un isolotto.
-Qui. Ecco dove li hanno trovati.-, disse. Io annuii. Annusai. Nessun odore sospetto, ma c’era sangue secco su una roccia. Esaminai rapidamente il posto. Niente. Non mi aspettavo di trovare tracce.
Clack! Rumore! alla mia sinistra. Seguendo l’istinto rotolai in avanti. Un boato. La bordata centrò l’albero alle mie spalle. Estrassi la pistola e sparai. Due colpi verso la fonte del rumore. Tiro istintivo.
Vidi qualcosa cadere. Jeanie era incolume, ma terrorizzata, si era buttata a terra e piangeva piano, sussurrando qualcosa. Non capiva che era già finita. Mi avvicinai, arma pronta.
Scostai la vegetazione. Sorpresa: il tizio che aveva provato a spararmi era il nero dell’altro giorno.
Si teneva un buco all’altezza dello stomaco, tentando di alzare la doppietta. La scansai, strappandogliela di mano e buttandola dietro di me. La sua ferita non era letale, per ora.
-Ora io ti faccio due domande e tu rispondi. Se menti, o non rispondi, ti getto in pasto agli alligatori!-, ringhiai. Lui mi guardò. Passi. Jeanie guardò la scena.
-Lucien!-, esclamò. Proruppe in una serie di frasi in Cajun che non capì.
-Tu sai chi ha ucciso i quattro uomini venuti prima di me. Chi é stato?-, chiesi. Sguardi. Dal ferito a Jeanie.
Lo colpii con un destro. -Non guardare lei.-, dissi, -Guarda me.-.
-Io… sono stato io! Loro invandono la mia proprietà!-, esclamò.
-Quattro contro uno? E li hai uccisi? Non dir cazzate.-, dissi. Jeanie taceva, incapace di parlare.
-Chi é Ojambe?-, chiesi, -E dove lo trovo?-.
-Ojambe…-, sussurrò l’altro. Ora era grigio, terreo. Pareva invecchiato di dieci anni.
-Ojambe. Dimmi dov’é.-, dissi. Silenzio. Puntai al ginocchio sinistro la pistola.
-Non lo so! Non lo so, dov’é! Lui… vive nel profondo della palude!-, esclamò Lucien. Il sangue usciva ancora dalla ferita. Sospirai.
-Avrai un modo per contattarlo, no?-, chiesi.
-Io… sì… Un fuoco… fare fumo… a nordovest! Tre segnali… come gli indiani.-, biascicò lui.
-Bene.-, dissi. Scansai la sua mano dalla ferita. Messa male. Molto sangue. E in quell’ambiente poteva infettarsi alla svelta. Estrassi il bowie. Punsi la gamba destra del nero all’altezza della rotula.
-La senti?-, chiesi. Lui scosse il capo. Ripetei. Ancora niente.
-Mi spiace.-, dissi. Lesione alla colonna vertebrale. Roba seria. Paralisi discendente. Non avrebbe camminato mai più con quelle gambe.Scambiai uno sguardo con Jeanie. La giovane raccolse la doppietta. Lucien prese a piangere. Un’ultima frase in Cajun e un annuire da parte del ferito. Poi la giovane mi guardò.
-Vuole che finisci.-, disse. Annuii. Impugnai la Beretta. Puntai al cuore. Due colpi. Fine della storia.

Un alligatore saliva piano verso di noi. Jeanie lo fissò, atterrita. Sparai alla bestia un singolo colpo in testa, poi buttai il corpo del morto nell’acquitrino. Polvere alla polvere e melma alla melma.
Iniziammo il viaggio di ritorno. Jeanie era tremendamente silenziosa, ma io ero perso in una multitudine di pensieri. Le rivelazioni ottenute erano chiare e rendevano palese l’approccio successivo. Avrei dato la caccia ad Ojambe. L’avrei ucciso. Era una minaccia per tutti laggiù.
Poi avrei chiamato Jacques e avrei lasciato quel posto di merda.
Raggiungemmo l’hotel. Diedi i soldi a Jeanie, un buon settantacinque dollari. Non avevo fame e saltai il pasto. Mi chiusi in stanza a pensare. Ojambe, il carnefice, il terrore del Bayou pareva avere un forte ascendente sui suoi abitanti. Ma era lui il colpevole che cercavo? Veramente?
Chi era Ojambe? Quella figura avvolta dalla melma? Un mutante? O altro?
Mi stesi sul letto. Tante, troppe domande.
Sentii qualcuno bussare alla porta. Cercai il pugnale, sentendomi subito stupido. Lo lasciai sul comodino.
-Sì?-, chiesi.
-Sono io.-, rispose una voce di donna. Jeanie. La feci entrare. La giovane sgusciò dentro.
La valigia era chiusa. Nessun’arma in vista a parte la pistola, di cui lei già sapeva e il coltello che già aveva visto. Tutto normale. Si guardò comunque attorno, come se tutto ciò esulasse dal suo universo.
-Tu… non sei un poliziotto. E il tuo nome non é Germaine, vero?-, chiese a bruciapelo.
-No.-, ammisi. Lei annuì. Mi guardò.
-Chi sei?-, chiese. Ah, quella sì che era un’ottima domanda. Avrei voluto saperlo anche io.
-Un guerriero.-, dissi infine, -Sono qui a fare un favore a un’amica.-.
-I quattro morti… li conoscevi?-, chiese. Io scossi il capo.
-Fai un sacco di domande.-, dissi. Lei annuì.
-Questo hotel é tutto quello che abbiamo, io e la mia famiglia. Mio fratello e mio padre sono a Baton Rouge per lavorare. Mia madre abita poco lontano da qui. Io e il mio cugino gestiamo l’hotel. Non vogliamo problemi.-, disse. Io annuii. Non volevo causarne. Ma ne avevo già causati.
-Lucien é stato…-, iniziai.
-Un idiota. Dal grilletto facile, come tanti. Il mese scorso uno che viveva fuori dal villaggio ha ucciso un ragazzino per sbaglio. Capita a volte. Oggi é toccato a lui.-, disse Jeanie.
-Sembri molto tranquilla per essere una che ha visto morire un uomo sotto i suoi occhi.-, dissi.
-Qui la morte é quasi naturale. Ce la si aspetta, ci si abitua. Ci aiuta a vivere senza farci troppi problemi.-, si avvicinò. Era vicinissima. Il suo odore era intenso, l’odore dell’Africa da cui erano venuti i suoi avi. Intossicante e pieno. Mi ritrovai ad avere un’erezione. La guardai. il naso era appena un po’ schiacciato ma non molto. Sorrise. Sorrisi. Non bisognava avere sensi ultrapercettivi per poter dedurre cosa sarebbe accaduto: tutto il suo essere parlava di desiderio.
La baciai piano. Lentamente. Lei non si ritrasse. Mi cercò con le mani sotto la camicia. Il nostro bacio continuò lento, con le nostre lingue che si cercavano trovandosi piano. Ci sdraiammo, cadendo sul letto sul letto. Dopo poco, Jeanie si alzò. Con calma, disfece alcuni nodi, liberandosi del vestito. Niente reggiseno e mutandine color blu notte. Si chinò su di me, cercando il mio sesso tra i vestiti. Io accarezzai la sua schiena sino alle reni, e oltre, sino al sedere decisamente superbo. La carnagione della nera era ebano scuro, i capezzoli irti come punte di matita e quei seni decisamente conturbanti che sfidavano la gravità.
Mi afferrò il sesso. Prese a manipolarmi piano. Le accarezzai il seno. Si sedette accanto a me, per poi distendersi. La mia mano scivolò tra le sue cosce, trovando l’antro del suo piacere umido e fremente.
Il mio sesso nella sua mano pulsava. Il caldo avrebbe fermato chiunque dal fare uno sforzo fisico.
Ma non Jeanie: la giovane si alzò, mettendosi a cavalcioni su di me e guidò il mio pene rigido e turgido nel suo sesso bollente. Affondai in quella voragine con un gemito.
Prese a dare il ritmo, piano poi veloce. Le carezzai i seni. Si chinò a baciarmi. Non sudava. Io invece sì.
Ma non era un problema: solo un piccolo prezzo da pagare. Le strinsi le natiche. Gemiti estatici da me e da lei. Lussuria per due. Desiderio puro e animale. Mi graffiò il petto. Le strinsi un seno.
Si chinò di nuovo a baciarmi. Boccate di saliva. Respiri roventi a fior di pelle, ansimi di bocche quasi a contatto. Lei sorrise. Si sfilò da me, distendendosi su un fianco. Mi leccò collo e petto. La rovesciai.
Mi misi tra le sue cosce e presi a possederla. Salutò la mia invasione con un gemito compiacente. Mi chinai su di lei, sempre affondandole dentro. Lei mi strinse, le sue braccia si chiusero a morsa su di me.
Desiderio puro e semplice. Volevo venire. Riempirla, goderle dentro come un animale.
Le sue unghie mi affondarono nella schiena. Aumentai il ritmo. Affondai nel suo ventre sentendola venire per la seconda volta. Mi morse il collo. Le morsi la spalla quando venni a caldi fiotti nel suo ventre.
Poche volte avevo goduto in modo tanto intenso. Poi mi levai, gettandomi accanto a lei. Socchiusi gli occhi.
La nera sorrise, appagata e soddisfatta. Si alzò. C’era un po’ di sperma che colava dalla sua vulva.
-Faccio una doccia. Mio cugino non deve sapere.-, disse. Annuii. Scivolai nel sonno senza quasi accorgermene.

Mi svegliai poco dopo. Jeanie era uscita. Mi alzai. Feci la doccia. Avevo la testa vuota. Stavo bene.
Era ora di andare a cercare Ojambe.

Saltai la cena, preferendo recarmi verso la palude. Cercai un posto isolato.
Accesi un fuoco. Uccelli volavano nel cielo notturno. Feci i segnali. Stava per piovere ma me ne fregai.
Ero lì per mettere fine a quella faccenda. Quando iniziò a piovere, mi spalmai il viso di mota e cercai di mimetizzarmi. La pioggia prese a cadere. Pioggia spietata e intensa.
Lo vidi arrivare. Grosso, dall’odore putrido e avvolto da vegetazione, fango e melma.
Onjambe. Eccolo lì.
-Non ti muovere, Ojambe.-, dissi alzando la pistola. Lui si voltò. Mi vide.
-Hai ucciso quattro uomini. Hai un debito con Zhara al-Jilani. Vengo a riscuotere.-, dichiarai.
Si buttò verso di me. Premetti il grilletto. Click! L’arma non sparò. Merda!
Mi gettai oltre l’essere. Raggiunsi l’MP7 che avevo piazzato lì come seconda arma. Colpo in canna e via la sicura. Sparai. Click! Ma che cazzo?!
-Proprio come loro, eh?-, chiese Ojambe con una voce cavernosa che pareva provenire da mostruosi altrove. Lo guardai, sorpreso. Parlava!
-Allora ce l’hai una lingua.-, dissi. Evitai di misura un gancio. A mali estremi…
Snikt! Gli artigli trapassarono il bicipite del mostro. Fu come affondare nella melma.
-Mutante! Anche tu! Ma morirai ugualmente!-, il pugno successivo mi devastò le costole.
-Non oggi!-, ringhiai. Fesi al petto. Eravamo a contatto. Mi afferrò un braccio e torse. Dolore. Sentì l’osso gemere. Poi… crack!
Dannazione! il braccio sinistro mi divenne un’appendice inanimata e dolente. Colpii al collo. Sentì un gemito.
“Ah, questo l’hai sentito!”. Colpii ancora. Fianco, reni, collo, braccio. Senza pensare all’efficacia.
Lui urlò di frustrazione, o di dolore. Mi colpì due volte. Allo stomaco e poi con un montante. Mi lanciò a terra, caddi di schiena.
-Ora muori!-, ringhiò lui. Montò su di me e prese a strangolarmi. A tentoni cercai il bowie. Lo trovai.
Pugnalai sotto l’ascella. Affondò come nel burro. Estrassi. Sangue. Molto. Ojambe urlò, si scansò. Cercò di tamponarsi la ferita. Inutile. Mi alzai tossendo, ero vivo! Dolorante e pesto peggio che una zampogna…
Ma vivo! Il mio avversario sanguinava a fiotti, la pioggia lavava via il sangue, facendolo fluire verso gli acquitrini. Mi avvicinai.
-Perché?-, chiesi, -Perché l’oro? Perché i quattro? Perché il prestito di Zhara?-, chiesi.
-Io… non so.. di cosa parli!-, esclamò. Lo fissai. Alla luce di un lampo, vidi qualcosa. I suoi occhi.
La sua espressione era quella di una persona morente, ma oltre essa c’era stupore. Puro e assoluto.
Non ne sapeva davvero niente? Allora… Gli indizi andarono al loro posto. Alla svelta.
Mi avvicinai. Tastai il mostro. Cercai qualcosa. La trovai. Sotto la mota e la melma, una cerniera. Tirai.
Dopo minuti, sfilai il casco, rivelando il viso di un uomo. Un bianco, quarantasei anni minimo, muscoloso come un culturista. Ojambe non era un mutante, era un killer, ma non uno come me.
Tastai la tuta. Foderata in kevlar di nuova concezione. Bloccava i colpi di coltello. Poche o nessuna giuntura, salvo dove avevo colpito per salvarmi la vita. Dove, per assurdo, avrebbe dovuto esserci una protezione.
Mi presi il braccio con l’altra mano. Strinsi i denti. Diedi la torsione. Crack!
Il mio urlo si perse nella pioggia.

Fu all’alba che tornai all’hotel. Jeanie mi vide tornare. Mi osservò per un lungo istante.
-L’hai…?-, chiese. Annuii. Salii verso camera mia. Tolsi gli abiti, tutti. Non mi ero riportato le armi.
A parte il bowie, non mi sarebbero servite. M’infilai sotto la doccia. Il tempo aveva operato il suo miracolo anche se ero esausto e avrei dovuto dormire, ma non prima di vedere la fine di questa storia.
Il mio fattore rigenerante aveva rimesso le cose a posto, più o meno. Salvo un paio.
Sentii qualcuno bussare.
-Entra.-, dissi. Sapevo già chi era. Jeanie entrò. Stesso abito del giorno prima. Non mi curai di coprirmi.
-È morto?-, chiese. Io annuii. Lei si sedette sul letto, sussurrando qualcosa.
-Ora siamo liberi…-, sussurrò, -Grazie.-, mi abbracciò. Ricambiai l’abbraccio, stringendola.
-Peccato che il gioco sia finito.-, dissi. Jeanie rimase immobile. La sentii irrigidirsi nel mio abbraccio.
-Che vuoi dire?-, chiese staccandosi. Sorpresa, mi fissava senza capire.
-Che so tutto, Jeanie. Non é stato Ojambe a fregare Zhara, ma tu e i tuoi, con l’aiuto di Jacques.-, dissi.
-No… Io…-, iniziò lei. Io scossi il capo.
-Ojambe non é mai esistito: é solo una leggenda messa in piedi da un vostro amico per permettervi di tenere i curiosi alla larga e sistemare i debitori che vengono a riscuotere. E Jacques si é inserito nell’equazione per via del furtarello dei lingotti.-, dissi.
-Ma non é vero! Non ne so niente! Io… ero venuta per te…-, il suo tono s’illanguidì, al pari dei suoi occhi. Mi prese il pene, manipolandolo piano e intesnamente, -Per festeggiare.-.
Sorrisi. Le accarezzai la guancia scendendo sino ai seni e poi più giù. Sotto l’abito non c’era niente.
Ma c’era un diverso sentore ora. Paura. Assoluta. Consapevolezza. Il gioco era finito.
-Su…-, disse lei prendendo il mio membro e girandomi di 180°. Ora davo le spalle alla porta.
-Non hai voglia? Io dico di sì!-, esclamò lei. Prese a masturbarmi più in fretta.
-Abbastanza…-, dissi. Lei sorrise. -Allora posso farti venire più voglia?-, chiese.
Si chinò e me lo prese in bocca. Piano, lentamente. Lo vidi. Il pugnale, il bowie, senza fodero e sospeso nell’aria. Impugnato da una mano invisibile. Sorrisi. Presi la testa della giovane.
Il coltello volò. Stock! Si piantò dritto nel mio cuore. Dolore annichilente. Puro. Pochi battiti agonici.
Ora dovevo solo aspettare. Lei si alzò, guardandomi.
-È stato bello.-, disse prendendo il coltello in mano, -Non l’avevo mai succhiato a nessuno, prima.-.
Biascicai qualcosa con la bocca sporca di sangue. Lei mi guardò perdere conoscenza.

Buio. Odore di vecchio. Socchiusi gli occhi. Ero chiuso in un sacco di juta.
-Ottimo lavoro, cugina.-, disse una voce in inglese, con accento patois.
-Oui. Bien fait.-, disse una voce in francese. Jacques. Erano attorno a me.
-È morto in fretta. Dubito che Zhara ne manderà un altro molto presto.-, disse Jeanie.
-Ciò non cambia le cose: dobbiamo far sparire il cadavere alla svelta e poi decidere cosa fare.-, ribatté Jacques. Pareva preoccupato. Qualcuno mi mollò un calcio.
-Buttiamolo in pasto agli alligatori stavolta. Niente indagini né problemi.-, disse Jeanie.
-Ci penso io.-, rispose il mulatto. Sentii che mi sollevava. Nessun controllo ne niente. Dilettante.
-Grazie. Una birra, Jacques?-, chiese Jeanie. Lui ridacchiò. -Bien sur!-, esclamò.
Fui portato fuori. Venni adagiato a terra diversi metri dopo. Lentamente, feci uscire un artiglio. Tagliai il sacco. Il giovane si guardava attorno.
-Non mancherai a nessuno, bastardo.-, disse. Si chinò per afferrare il sacco.
Snikt! Gli artigli della mano destra lo trapassarono al petto. Uscì dal sacco, sollevandomi mentre lo tenevo impalato, osservando il suo viso stupito mentre moriva.
-Nemmeno tu.-, risposi. Sfilai gli artigli e lo afferrai prima che cadesse. Lo scagliai tra gli alligatori, che si avventarono sul cadavere.

Mi avvicinai all’hotel. Piano e senza fretta. Jacques beveva la sua birra all’ombra. Neanche si guardava in giro. Mi vide solo quando fu troppo tardi e comunque non avrebbe comunque avuto modo di reagire.
Lo trapassai al collo. Alcuni passanti guardavano. Nessuno osò intervenire. Gli sfilai la pistola che portava alla fondina. Una 1911. Banale ma sempre efficace. Non rimasi a guardarlo morire.
Entrai spalancando la porta dell’hotel con un calcio.
Il vecchio incartapecorito mi vide. Fece per alzare un braccio armato di pistola. Lo freddai senza quasi guardarlo. La mia attenzione era tutta per lei, per Jeanie. La giovane, al di là del bancone era impietrita.
-Ti prego…-, sussurrò. Forse ora aveva capito. Forse ora capiva. Non bisogna provocarmi. Mai.
E lei aveva tentato di ingannarmi e di uccidermi. Nel modo più subdolo e losco che potevo immaginare.
-Per favore… lasciami vivere… io non volevo… é stata una loro idea!-, esclamò.
-Non mi pare che tu ti sia ribellata.-, dissi.
-Non potevo!-, esclamò, -Io…-, mi avvicinai. -Zitta.-, le ingiunsi.
-L’oro di Zhara. Dov’é?-, chiesi.
-In cantina… Jacques lo teneva qui… per rivenderlo quando Zhara avrebbe mollato la presa.-, rispose.
-Ti dico cosa faremo. Quell’oro torna a Zhara. Tutto. Fino all’ultimo lingotto. Io le dirò che la colpa é di Jacques e di tuo cugino, con l’aiuto di Ojambe. In cambio tu t’impegnerai a sostituire Jacques e se anche solo ti passerà per la mente l’idea di fregare me o Zhara…-, feci un gesto eloquente passandomi due dita sulla gola. Jeanie deglutì duro.
-L’oro. Adesso. E trovami un telefono. So che puoi. Ti ho già pagato la stanza e tutto.-, dissi.
-Sì… fammi andare a…-, risposta sbagliata.
-No: tu non vai. Noi andiamo, casomai. E se mi viene anche solo mezzo sospetto ti ammazzo.-, ribattei.
Lei annuì. Mi condusse in cantina. Tra bottiglie e provviste, scostò una botte e me la mostrò. C’era una cassa di un metro di altezza per mezzo di larghezza, spessore mezzo metro. La aprì. Piena di lingotti.
Mi voltai guardandola. Jeanie non fece una mossa.
-Chi era il telecinetico?-, chiesi.
-Scusa?-, domandò lei.
-Le armi non smettono di sparare a caso. Quindi tu o tuo cugino avete il dono della telecinesi e della telepatia. Non allenato, ma ce l’avete. Quindi?-, chiesi. Lei sospirò.
-Io. È un po’ che ce l’ho. Ma… non sempre so dominarlo bene. Ce l’aveva anche Marcel. Ma l’hai ucciso.-, disse. Marcel doveva essere suo cugino. Annuii.
-Sì. Ma non mi ha lasciato scelta.-, dissi, -Ora il telefono.-, esortai.

Il resto fu facile: Zhara fece arrivare altri dei suoi. Recuperò l’oro. Si mobilitò di persona.
Cosa più unica che rara. Fece impiantare un particolare dispositivo a Jeanie.
-Con questo ci penserai due volte prima di fare altri trucchetti È collegato al tuo cervello. Se usi i tuoi poteri in qualunque momento… Boom.-, le spiegò a muso duro. Ordinò a uno dei suoi di installare alcune apparecchiature. La Louisiana le interessava poco, ma Zhara era una previdente: non avrebbe lasciato scoperto un punto nella sua rete e non si poteva mai sapere. Chissà, magari un giorno la Louisiana avrebbe ricoperto ben altro ruolo nei suoi piani.
Quanto a me, osservai il tutto, vagamente compiaciuto.
Fatte salvo le punture d’insetti, il caldo soffocante e i vari dolori, stavo bene.
Quando Zhara finì salimmo sui mezzi. Non salutai Jeanie. Non sapevo se l’avrei mai rivista. Personalmente non potevo dire che m’importasse a tal punto da implorare presso Zhara per lei.
Aveva voluto fregare qualcuno di più forte. Meritava ciò che le era accaduto.
Forse era sbagliato, ma come già ho detto in precedenza, il mondo affonda nel guano.
La differenza é solo tra chi sa nuotare e chi finge, convincendosi stupidamente di saperlo fare.

Tornato a New York, Zhara mi pagò. Oltre alla cena, e all’epilogo consumato nelle sue stanze, mi versò un buon quarantamila dollari totali. Più che abbastanza a giustificare la mia fatica.
Accettai con gratitudine e la vita riprese, in attesa del prossimo incarico.

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