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Racconti Erotici Etero

Blade: Notti insonni

By 16 Giugno 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Per chi non mi conosce: salve!
Io sono Alexander Mirror, meglio noto nel sottobosco criminoso e negli ambienti dello S.H.I.E.L.D. come Blade, un mutante con artigli e un fattore rigenerante, roba molto utile quando finisci col trovati dalla parte sbagliata di una pistola..
Il lettore avveduto e informato sui racconti che mi riguardano può saltare le prossime righe.
Invece, il lettore che legge per la prima volta un racconto che mi riguardi può gustarsi questa breve presentazione.
Vivo negli States, nella città di New York. Non lavoro (specialmente a causa del mio ottimo rapporto con lo S.H.I.E.L.D. che mi ha pagato gli ultimi favori fatti) e, come ho già accennato, sono un mutante.
I miei due interessi nella vita sono le donne e le arti marziali, in quest’ordine. C’é anche altro, ovviamente.
Un’altra cosa: non mi considero un eroe, diciamo che cerco di fare la cosa giusta ma non di rado mi lascio tentare dall’usare le mie abilità per furtarelli, o almeno così facevo…
Comunque nel mio ultimo lavoretto per lo S.H.I.E.L.D. qualche tempo fa, una mutante capace di divenire acqua che risponde al nome di Flux mi ha riempito di botte. Me la sono legata al dito e dopo averla trovata e averle reso il favore alcune volte siamo finiti alleati (ed amanti). Nell’ultima missione insieme, Flux é apparentemente morta. Apparentemente, perché ha lasciato un chiaro segno della sua sopravvivenza qualche tempo dopo. Un segno di cui so unicamente io. Recentemente ho avuto il (dis) piacere di vincere contro un tipo parecchio ricco, rampollo di un’agiata famiglia che se l’é legata al dito, con il risultato che l’intera suddetta famiglia é morta più o meno male.
Ah, la virtù del lasciar correre, che bella cosa.
Purtroppo però neanche io ne sono uscito illeso, sia fisicamente che emotivamente.

Ah, eccomi di nuovo a raccontarvi. Sono sicuro che dopo il pasticcio accaduto del mio ultimo racconto vi sarete illusi che avrei potuto sparire per un po’.
Invece no.
Ora, chiariamo, dopo la notte movimentata (per usare un eufemismo) dormii tipo mezza giornata e uscì a fare colazione (o cena?) alle 19.32. Mi scelsi un ristorante e buttai qualcosa in pancia, ripensando a quel che era accaduto. Ero stato giocato, truffato nel peggiore dei modi e manipolato da una persona che credevo amica (anzi, di più). Morale della favola, ero abbastanza a terra. Dopo aver divorato una pizza margherita cercai di fare il punto.
I soldi dello S.H.I.E.L.D. e le vittorie a poker coprivano i miei costi e l’avrebbero fatto ancora per diverso tempo. Ma purtroppo, non avevo messo in conto alcune cose.

Prima fra tutte, il costo del corso di Ju-Jitsu che stavo frequentando. Dopo la morte di Maria ci tornai per tre volte. Alla terza mi scusai con il Sensei ma dovetti dirgli che mi sarei fermato lì. Il maestro fu comprensivo ma decisamente capitalista quando mi disse che avrei dovuto pagare una “penale morale” per l’interruzione del corso oltre al costo delle lezioni già frequentate. Mi rassegnai a pagare e almeno un trecento dollari buono se ne andò.
Poi ci fu la rottura dell’impianto idraulico. Una strage.
E ovviamente, l’idraulico lo dovetti pagare di tasca mia, cosa che si aggiunse ad altri 500 dollari che se ne andarono a causa delle riparazioni di alcuni mobili e del muro. E altre spese minori. In altre parole: non navigavo proprio in ottime acque.

Il colpo finale, quello che mi costrinse ad agire, me lo diede una giovane. Una dell’Est Europa. Caucasica, occhi verdi, procace e capelli castani che arrivavano fino alle spalle. Indiavolata.
Era una prostituta. Sul momento non volevo legami seri, ed ero un po’ stanco delle storie da una notte che mi procacciavo col mio fascino da sfaccendato scapestrato. Pagare una donna per farci sesso mi pareva quindi un’ottima soluzione, nell’immediato.
Io e quella tale Irina iniziammo a darci dentro sin dalla porta d’ingresso, baciandoci e togliendoci vestiti.
Dovetti trattenermi dallo spogliarla brutalmente strappandole alcuni abiti ma sinceramente non fu facile. Irina aveva quel fuoco dentro che poche avevano. Non le dispiaceva scopare e sinceramente a me non dispiaceva lei. Quando arrivammo al mio letto eravamo già nudi. E lei prese l’iniziativa.
Mi lasciai buttare a letto e prese a succhiarmelo in modo sopraffino. Era brava ma sapeva anche moderarsi. Iniziava, si fermava, continuava, si fermava. Una torturatrice espertissima. Io ricambiai con un lavoro di lingua da manuale sui suoi seni.
Dato che non ero sicuro per quanto riguardava malattie veneree e simili (e non intendevo semplicemente mettere alla prova il mio fattore rigenerante con simili patologie) decisi di evitare i contatti non protetti con l’intimità di irina, la quale stava ampiamente provvedendo che la sua vulva fosse degnamente pronta e lubrificata.
La penetrai affondandole dentro. La slava mi graffiò la schiena, non con rabbia ma con passione non simulata mentre sussultava a ogni mio colpo sospirando e imprecando in inglese e in un’altra lingua che non avrei saputo riconoscere.
Cambiammo posizione con lei sopra e mi piantò le unghie nel petto mentre io le vezzeggiavo e stringevo i seni decisamente grossi. Rifatti? Forse.
Sul momento ogni dettaglio bruciava, perdeva di significato, diveniva inconsistente mentre le affondavo dentro. Ero deciso a non venire in quella posizione, così glielo dissi. Lei annuì. Si mise a pecorina.
Quella sì che era una postura che mi strappava ogni inibizione. Le affondai dentro di nuovo. Deciso a godermela tutta, le accarezzai il sedere dopo averlo sculacciato a dovere. Come indovinando i miei pensieri, mi disse che per altri cento verdoni avrei potuto occuparle anche quell’orifizio.
Sorrisi pensando che si vivesse una volta sola. Accettai. E le piantai tutto il membro dentro l’ano, quasi crudelmente. Irina sorrise.
Continuammo per un bel po’. Fatto sta che finì venendo nel condom e mi distesi sulla schiena, assaporando il momento. Lei sorrise. Le dissi che i soldi erano nel borsello e mi assopii leggermente.
Leggerezza imperdonabile.
Mi risvegliai pochi istanti dopo e lei si era già rivestita. Sul momento non percepii niente. Complice la stanchezza del giorno prima dedicato ad allenamenti su allenamenti di Krav Maga, le diedi un bacio e la accompagnai all’uscita, inconsapevole fino a venti minuti dopo, quando, uscito dalla doccia, trovai il mio portafogli svuotato di tutta la cartamoneta.
Imprecai tipo carrettiere. Per dieci minuti buoni.
Ma ormai era tardi. Il mio olfatto mi avrebbe guidato sino al pianoterra poi la sua traccia olfattiva si sarebbe persa nella marea di persone che calcavano la strada.
La perdita in sé non era grave, ma era un bel fastidio: 430 dollari. Irina mi aveva fottuto, niente da dire.
Tirando le somme non dovevo preoccuparmi ma avevo decisamente superato quello che era il mio budget. Tornai in alcune bische ma purtroppo il vento era girato. Alcuni giocatori bravi avevano avuto modo di contendermi i piatti con il risultato che, alla fine di due serate di Poker, il mio portafogli si era alleggerito di altri duecento dollari. Vittorie? Poche, sempre troppo poche. E fu così che riudssi le alternative.
Una buona regola é smettere di scommettere quando si perde troppo. Io non l’avrei infranta.
Me ne andai con quel che avevo in tasca.

Tirando le somme ero in perdita. Non enorme ma decisamente in perdita. Dato che i fondi dello S.H.I.E.L.D. non mi sarebbero durati in eterno, quel che potevo fare era andare a rubare qualcosa a qualcuno. Fortunatamente per me, New York da quel lato era una fucina di opportunità.
Bisognava solo scegliere quella giusta. E poi colpire.
Mi misi a osservare i dintorni. Il trucco é aspettare un segno. Qualche acquisto, una soffiata, una voce di corridoio, qualche improvviso e stupido sfoggio di opulenza… Niente.
Sospirai. Pesci grossi non ce n’erano.
Ma c’era qualcuno. Il mio vicino, Alan Kirk aveva improvvisamente comprato un nuovo impianto stereo.
Roba tosta, con cui si ascoltava i Motorhead. Non era pessima musica ma credo che metà del palazzo non apprezzi un rumore simile dalle 20.00 alla mezzanotte tutte le sere. Così decisi.
Alan Kirk avrebbe perso il suo stereo. Io avrei guadagnato i miei soldi e i miei vicini avrebbero riavuto la pace. Semplice no?
Pianificai il colpo con cura. Mi ero munito già da tempo di una chiave funzionante per tutto quel palazzo. Attesi sino alle 03.00 poi agii.
Telecamere non ce n’erano. Aprii la porta ed entrai. Lentamente. Attento a tutto.
Evitai gli ostacoli tipo il tavolo della sala e decisi di iniziare dalla cassa di sinistra. Rimossi i cavi e, dopo venti minuti o poco più l’intero impianto era comodamente trasferito al mio domicilio.

Come ho già detto, non sono e non sarò mai un eroe. Avevo fatto, e continuerò a fare azioni discutibili. A volte per fini più grandi di me, altre volte per meschinità, come in questo caso. Non stateci a cercare un senso: questa é la mia natura.

Controllai che fosse tutto a posto. Sì. C’era tutto.
Persino il telecomando con batterie nuove (grazie, alan!). Questa era fatta. Ora si trattava di rivenderlo.

Una fortuna che per quello potevo contare su Zhara. So cosa state pensando: perché non lavori?
Semplice: non ci tengo a essere parte del sistema. Certo, sicuramente potreste obbiettare che, lavorando per lo S.H.I.E.L.D. tecnicamente farei comunque parte del sistema. Probabile. Per me conta non farmi schiacciare come un insetto. Non ho mai voluto essere uno di quegli impiegati che vengono considerati solo come numeri.
Dato che non mi basta essere un numero anonimo, eccomi qui.

E ora, la seconda domanda che sicuramente vi fate:
Chi é Zhara?

Zhara era una leggenda nel sottobosco non eccessivamente lecito di New York. La sua organizzazione si estendeva a tutta la costa est degli States. Zhara trafficava con tutte le merci rubate.
Dai computers alle armi da fuoco illegali.
Ma Zhara aveva una linea di confine, un limite autoimposto che le impediva di trafficare in organi umani e droghe. Per il resto, Zhara era spietata e furba a sufficienza da giocarsela su quel terreno. Un tale e la sua rete cercarono di metterle i bastoni tra le ruote. Lei chiamò in causa Punisher (sì, proprio il tizio col teschio sul petto e il fucile perennemente pronto al fuoco).
Risultato? Il tale e la rete finirono all’altro mondo e Zhara attese che Frank Castle si cercasse un altro bersaglio prima di riprendere con la sua vita. Che io sappia é stata l’ultima volta che qualcuno si sia deciso a contenderle il mercato…
Di Zhara prima che divenisse quel che era ora si sa ancora veramente poco, quasi nulla.
&egrave araba, poco ma sicuro. Qualcuno dice che viene dall’Iran, altri sostengono dall’Afghanistan.
Ciò che si sà é che Zhara non ha famiglia, o la nasconde decisamente bene. Scuole? Sicuramente il suo inglese denota una pratica lunga e fruttuosa. Sicuramente parla anche arabo visto che una volta l’ho vista leggere in lingua araba. &egrave certo che non é una persona religiosa.
Afferma che dio non esiste.
Io concluderei sostenendo che é morto a causa nostra.
Divagazioni filosofiche a parte, trovare Zhara non é difficile. Di più. Bisogna essere addentri al suo giro e lei é stata molto attenta a costruirlo come una ragnatela. Una prima rete di persone che erano suoi collaboratori fidati. Poi una seconda cerchia, reclutata dalla prima e poi una terza reclutata dalla seconda. E Zhara resta un mito, una leggenda senza volto. Tranne che per pochi.

E tra quei pochi… spiccavo io.
Zhara aveva richiesto i miei servizi tramite un intermediario. Io avevo richiesto di vedere in faccia chi mi cercava. Fui accontentato. A metà.
Il viso di Zhara, occhi verdi che spiccavano in una carnagione ambrata, era coperto per metà da un cappuccio. Sotto l’abito s’indovinavano seni di tutto rispetto e forme languide che tentavano ogni uomo.
Non capii il perché coprisse parte del viso, non mi interessava. Lei mi disse che cosa dovevo fare, io feci il mio dovere e fui pagato. Fine.
Ma credo di averla colpita: non era da tutti sfidarla.
Ancor meno, vincerla.

Così, quando la chiamai, lei mi disse subito di portarle la merce. Le chiesi un’aiuto e lei mandò due dei suoi. Tizi che dovevano essere pompati di steroidi.
Alzarono la roba come se nulla fosse e, la caricarono sul furgoncino con cui erano venuti. Salii e partimmo. Erano le 02.10 di notte. Facemmo parecchia strada. Se c’era una cosa che sapevo per certo su Zhara era che non si trovava mai due volte nello stesso posto.
Aveva una molteplicità di indirizzi sotto falso nome.
Era praticamente impossibile rintracciarla, tranne per chi si fidava di lei. Aveva qualcosa come quindici telefoni diversi. Se la polizia avesse deciso di darle la caccia, molto probabilmente avrebbero buttato tempo e risorse.
Comunque, quando il furgone si fermò, i due scaricarono la roba. Eravamo sulla costa. Vicino a un magazzino. I due entrarono e io li seguii.
L’interno era tutto buio, illuminato da lampade alogene.
-Ciao Blade. Ne é passato di tempo.-, disse la voce flautata di Zhara. Io annuii, stando rigorosamente in piedi. Lei invece si alzò dalla cassa su cui era seduta e si avvicinò a me, piantandomi l’occhio visibile fin dentro l’anima. Sorrise con metà della faccia oscurata.
-Mi hanno detto che hai fatto casino insieme allo S.H.I.E.L.D.-, disse. Non negai. Inutile farlo.
-E che qualche giorno fa hai messo a ferro e fuoco la villa di Anthony Swanson.-, neanche in quel caso negai.
-Insomma, capisci che non sei proprio il genere di soggetto che passa inosservato. Mi chiedo se sia saggio fare affari con te.-, disse Zhara. Era splendida e per un istante me la immaginai nuda. Tornai serio.
-Beh, riconosco entrambi i fatti ma sono dell’idea che la merce che ti ho portato…-, iniziai. Lei gettò l’occhio visibile verso lo stereo e l’impianto. Scosse il capo.
Brutto segno…
-Blade, quella roba é rubata, ed é vero che io tratto roba rubata ma uno stereo come quello, con un vicino come il tuo che ha fatto denuncia agli sbirri… Ci metterò un po’. Sempre se vorrò sprecare tempo e risorse per te.-, disse lei. Esaltazione. Di Zhara e dei “grossi” che stavano alle mie spalle. Percettibilissima.
I due volevano lo scontro. Lo bramavano.
Io invece sapevo che, se mi fossi inimicato Zhara avrei avuto rogne a non finire. La rete di quella donna era notevole. Se anche fossi uscito vivo da quel magazzino, avrei passato il resto della mia vita a cercarmi una nuova casa. No. Meglio cedere, abbozzare. Sorrisi.
-Ok, Zhara. Capisco.-, dissi, -Ma se non volessi nulla da me, mi avresti già buttato fuori di qui. Vuoi qualcosa. Quindi, ecco la mia proposta. Cinquecento dollari e se ne può parlare.-, dissi.
-Con chi credi di avere a che fare?-, chiese uno dei grossi. Rabbia. E desiderio di lotta, ancora. Percettibilissimi. Non mi voltai neppure, non mi intimorivano. E sinceramente, sapevo che la decisione non stava a loro.
-Con qualcuno che sa bene che valgo quanto chiedo.-, dissi. Silenzio. Improvviso e assoluto.
Pensai, per un istante di essermi spinto troppo oltre.
Poi la risata di Zhara spezzò la tensione accumulatasi.
Mi rilassai ma rimanendo in guardia, consapevole.
-&egrave vero. Facciamo così. Tu farai un lavoretto per me e io… ti darò i tuoi 500 verdoni. Ma mi terrò lo stereo.-, disse. Valutai pro e contro. Quello stereo valeva ben di più. Scossi il capo.
-500. E mi piazzi lo stereo col cinquanta percento dei profitti.-, dissi. Lei mi fissò, adirata.
Essere sfidata non le piaceva, perdere le piaceva anche meno. Comprensibile. Nessuno ama perdere.
-400. E ti piazzo lo stereo come hai detto.-, disse.
Annuii. Poteva andare. Tesi la mano. E dopo un istante, quella di Zhara me la strinse. Le unghie di lei erano lunghe. Unghie perfette per situazioni d’altro tipo.
-Qual’é il lavoro?-, chiesi. Zhara sorrise con metà del volto. I “grossi” uscirono. Ora cominciava la parte seria.
Zhara prese una bottiglia. Vodka? Sì. Roba d’importazione russa. Me ne offrì un sorso. Scossi il capo. Lei fece spallucce e buttò giù un sorso da stroncare un cammello. Mi sorrise.
-Sai, tu sei una garanzia. Uno pericoloso.-, disse.
Annuii, attendendo dove volesse andare a parare.
-Peccato che tu non sia l’unico.-, disse lei.
Io annuii di nuovo. Inutile parlare. Zhara si accese una sigretta. Roba normale stavolta. Fece un paio di tiri.
-C’é questo tizio, un fan di quel giustiziere col teschio che si é messo a indagare su di me. &egrave uno in gamba.-, disse, -Deve sparire. Lui e tutto quello che sa. A te il come e dove ma deve sparire. Al più presto.-.
-I tuoi sgherri non sono all’altezza?-, chiesi, sprezzante.
-Oh, loro sarebbero più che all’altezza ma ci sarebbero indagini, domande, fastidi. Voglio che la cosa non finisca nei notiziari. Un incidente, qualcosa così. Fallo e avrai quello che abbiamo pattuito. E forse anche qualcosa in più…-, se l’ultima frase non era un’allusione, io ero un tricheco. Sorrise e sorrisi anche io. Zhara era una bella donna, un superbo esemplare di femmina e aveva fegato da vendere. Era dinamite, punto e basta. E io sarei potuto saltare in aria con una mossa sbagliata.
-Ok. Sai già dove vive questo simpatico ficcanaso?-, chiesi. Lei sbuffò un cerchio di fumo imperfetto a causa del cappuccio, a cui non pareva voler rinunciare.
-So che si sposta lungo tutti gli States. Ma recentemente pare aver deciso di fermarsi a Dallas. Io annuii. Di nuovo.
-Più precisamente… non hai qualcuno sul posto?-, chiesi.
-Sì.-, rispose lei, -Si chiama “Scoprilo da solo”.-.
Sorrisi, ingoiando la battuta. Dallas era parecchio vasta.
-Capisco. Sarà amico di “Farò da me.”-, ribattei.
Zhara rise, un riso corto ma sincero.
-Blade, avrai tutti i difetti di questo mondo ma sicuramente sei divertente e hai le palle.-, disse.
Mi piantò lo sguardo negli occhi, non indietreggiai.
-D’acciaio.-, dissi. Lei sorrise di nuovo.
-Vai e uccidi quel tizio. Poi vedremo.-, disse.
Mi voltai e feci per andarmene ma mi fermai.
-Hai almeno un’identikit?-, chiesi. Lei parve sorpresa.
-Sì… parziale. Una robetta da niente fatta da un mio socio nella zona.-. Mi allungò un foglio stropicciato che trasse dalla sua borsetta di Gucci.
Ecco il tizio. Capelli neri, occhi castani, maschio, caucasico. Ma a renderlo riconoscibile era la cicatrice che aveva sulla gunacia. Annuii.
-Lo prenderò.-, dissi. E uscii.
Partii per Dallas il giorno stesso.

Sul volo New York-Dallas riflettei. Quella commissione mi era più chiara ora: Dallas era uno dei posti più ostili a Zhara di tutti gli States. Inoltre, ricordai di aver letto di un particolare accadimento: due arabi morti in una sparatoria. Nessuno trovò il modo di accusare Zhara ma magari quel tizio stava risalendo una pista che avrebbe portato a lei. E con le giuste informazioni, Zhara sarebbe stata costretta a mollare tutta la baracca e andarsene.
Un pessimo affare.
Certo, era quasi impossibile che la polizia riuscisse a prenderla ma d’altronde era anche vero che la fuga le sarebbe costata tutta una vita di lavoro.
E a me sarebbe costato un sacco di più: se fosse saltato fuori che io e Zhara facevamo affari assieme (per quanto sporadicamente) sarebbe stata la fine.
Dovevo farlo fuori.
L’avevo detto, in fin dei conti. Non sono un eroe. Dallas é un brutto posto. Non solo perché JFK é stato ucciso lì. &egrave proprio la sensazione che trasmette, unitamente al lezzo di cibo fritto e alla calura che rendono questa città sinceramente spiacevole.
Così, quando arrivati, tentai di concentrarmi solo sul mio compito, sbrigarlo e andarmene.

Presi alloggio in un hotel in centro (roba veramente dappoco). Se mi concentravo potevo sentire attraverso le pareti cosa stavano facendo gli altri occupanti delle varie camere. La coppia nella camera affianco alla mia doveva starci dando dentro di brutto, a giudicare dai gemiti.
Ovviamente non ero un guardone così presi e uscii.
Dallas mi era ostile. Non erano solo i neri a essere visti male nel sud degli States, neanche ai mutanti andava troppo bene.
Anche se era vero che i mutanti erano odiati un po’ dappertutto grazie alle azioni di pochi. Anche per questo decisi di evitare di usare gli artigli se non strettamente necessario.
Durante il volo mi ero impresso i connotati di quel tizio in testa ma non avevo la più pallida idea di dove diavolo si trovasse. Fare domande in giro era l’unica ma… a chi chiedere? A qualcuno operante nel sottobosco criminale di Dallas? See, come no?
Eppure…

Quando trovai quel posto erano già le 21.04.
Bussai. Il tizio che mi rispose doveva essere un qualche genere di osservatore. Un tizio a cui non sfuggiva mai nulla. Un informatore.
Forse lavorava per qualche servizio tipo la C.I.A…
O magari no.
Comunque lui mi aprì. Il tizio era vestito di boxer e camicia di flanella con maiche tagliate. Vestiva un inquietante berretto di stagnola…
All’interno, scena devasto: casa sporca all’inverosimile, divano sfatto su cui una tipa castana con solo gli slip addosso e un braccio tatuato in modo assurdo e privo di senso si stava fumando quella che sicuramente non era una sigaretta, odore di marijuana e alcool. Mi domandai se non avessi sbagliato indirizzo. No. La via era quella e il numero idem.
-Sei tu, Larry?-, chiesi. Lui annuì.
-In persona! Che posso fare per te? Vuoi qualche segreto militare? Documenti dell’Area 51? Segreti dei Templari?-, chiese. Dio, quel tizio era svitato.
-No. Mi basta sapere se sai dove posso trovare una persona.-, dissi io. Lui annuì.
-Per il giusto prezzo, amico mio, tutto é in vendita.-, rispose con un sorriso che evidenziò denti marci e gengive infiammate. Soppressi l’istinto di indietreggiare. Lui ridacchiò mentre tiravo fuori i soldi.
Ovviamente Zhara aveva anticipato quel genere di cose e mi aveva concesso un budget di mille dollari.
Quattrocento erano già spariti con l’hotel.
Dei restanti seicento, duecento finirono in mano al tipo. Lui li contò, li osservò. Rise come un pirla e poi, finalmente si decise a intascarli.
-Ok, dimmi chi é.-, disse. Estrassi l’identikit. Lui annuì.
E poi scosse il capo. Poi annuì di nuovo.
Sentii la rabbia montare, quel tipo era un idiota.
-Allora?-, chiesi. Resistetti all’impulso di tirargli un pugno. Lui sorrise ancora e fece per parlare.
-No. Non mi dice niente.-, disse.
Stavo per staccargli a pugni i pochi denti rimasti ma mi fermai quando la tipa parlò.
-Dough, tesoro, quello é Jack!-, esclamò.
Perfettamente a suo agio col minimo indispensabile addosso, mi sorrise.
-&egrave venuto da noi l’altro giorno.-, disse la tipa.
-Ah, già…-, ricordò Dough.
“E questo tizio sarebbe il miglior mercante di informazioni di Dallas? Oh, mio dio.”.
La tipa in compenso pareva avere le rotelle al loro posto. Mi rivolsi a lei.
-Sai dov’é?-, chiesi. Lei prese un tiro, me ne offrì uno, che accettai e mi sorrise.
-Non proprio… ma conosco qualcuna che lo sa. Vieni che ti ci porto.-, disse. Si mise a frugare nelle cianfrusaglie della stanza fino a trovare il reggiseno, una maglietta dei Lakers, un paio di shorts e delle Hoogan.
-Vabbene, allora io vi aspetto qui…-, disse Dough, svaccato sul divano e con in mano la canna.
A giudicare dallo sguardo perso e dalla posa afflosciata, difficilmente sarebbe rimasto sveglio ancora a lungo…

La tipa sapeva il fatto suo. La seguii, con calma.
-Sicura di sapere dov’é? Il tuo boyfriend non pareva molto lucido.-, dissi. Lei sorrise.
-Oh, lui é un idiota.-, disse, -Io sono il cervello dietro alla sua reputazione. Lui é fissato con maya, alieni, cospirazioni e robe varie. Una palla unica.-.
-Perché gli stai appresso, quindi?-, chiesi.
-Perché scopa, o meglio scopava da dio. Poi tutta la roba di cui si é fatto gli ha devastato il fisico.-, disse.
Un fugace pensiero mi attraversò la mente appena le mie narici captarono l’odore della giovane. Sorrisi.
-Un vero peccato.-, dissi.
-Già.-, ammise lei. Mi guardò. Eravamo vicinissimi. E fermi. In un vicolo deserto.
-E tu? Scopi abbastanza bene?-, chiese.
-Nessuna si é mai lamentata.-, dissi io. Lei sorrise.
-Allora… forse, dopo che avrai trovato il tizio che stai cercando, o anche prima… protremmo…-, mi appoggiò una mano sulla coscia, in prossimità del pene.
-Potremmo. Volentieri.-, dissi io. Deciso, ma fermo.
Prima il dovere, poi il piacere. La tipa sorrise.
-Io mi chiamo Mona, per la cronaca.-, disse.
-Blade.-, dissi io, optando per quel nomé de guerré.
-Oh… fico.-, sussurrò lei.
La sua mano me lo strinse. Ero abbastanza eccitato.
-Vedo che effettivamente la spada é affilata…-, disse.
Cavolo, se continuava così avrei finito con il fotterla lì, in quel vicolo.
Le presi il braccio, gentilmente ma con fermezza.
-Non subito, tesoro. Prima Jack. Poi ci divertiremo.-, dissi. Lei annuì, sorrise ancora.
-Come vuoi.-.
Era accondiscendente. Parecchio. Lo faceva perché voleva proprio quello che mi aveva detto o era solo perché aveva qualcosa in mente di cui non sapevo nulla? Dovevo stare attento.
Lei intanto mi condusse sino a un bar.
-Eccoci qui.-, disse.
Era un bar come tanti, troppi altri. Ma lei si diresse con assoluta calma verso il piano superiore.
Sedie vuote, nessuno in vista. Bussò a una porta.
-Sono io.-, disse. Una tipa le aprì. Vestita anche lei del minimo indispensabile. Bionda, magra e con occhi azzurri. Abbracciò Mona e le schiaffò la lingua in bocca con l’aggressività di un uomo. Pensai che farmele entrambe sarebbe stato interessante…
-Cherry, lui é Blade. Sta cercando il tizio con cui sei stata oggi.-, mi presentò Mona alla fine delle effusioni.
-Già. Jack. Uno stronzo. Mi ha fatto alcune domande, di cui io non sapevo la risposta, mi ha pagato, scopata tipo automa e poi mi ha buttata fuori.-, raccontò.
-Veramente un bastardo.-, dissi io, -Dove lo trovo?-.
-A questo indirizzo, tesoro.-, disse lei.
Era incredibile. La camera era quella accanto alla mia!
Quel bastardo era sempre stato lì!
Annuii.
-Grazie.-, estrassi alcune banconote. Qualcosa come cinquanta dollari, -Queste per il disturbo.-.
Mona sorrise.
-Sai, Cherry… Blade qui é uno stallone…-, disse.
-L’hai provato?-, chiese l’altra con un sorriso.
-No… Almeno non ancora!-, esclamò lei.
-Ah, ma io purtroppo ho un cliente tra pochi minuti, vi conviene sparire. Un peccato… avrei apprezzato un triangolo.-, disse. Anche io lo avrei apprezzato ma il dovere (o il piacere) chiamava.

Uscimmo e arrivammo al mio hotel, un motel veramente infimo. Il portiere non batté ciglio al vedermi entrare con una donna.
Sicuramente non era la prima volta che vedeva scene simili. E non sarebbe sicuramente stata l’ultima.
Arrivammo alla mia camera ma già in ascensore avevamo preso a baciarci con voracità.
Mona baciava come se volesse mangiarmi. Io sorrisi.
Le strinsi le natiche. Lei mi mordicchiò il labbro.
Animali, sia io che lei. Decisi a strappare il meglio alla notte, finché ne saremmo stati in grado.
Arrivammo nella mia camera e i vestiti volarono in giro. Lei mi sorrise. S’inginocchiò a prendermelo in bocca ma io la fermai. Ero stanco di aspettare, ed eccitato quanto bastava per farmela fino allo stremo.
La penetrai senza preliminari, era già bagnata. Lei ululò di piacere. Presi a dare il ritmo con Mona sdraiata sotto di me. Le succhiai i capezzoli mentre lei sussurrava cose oscene.
-Oh, era parecchio che non scopavo così bene…-, sussurrò all’ennesimo colpo di maglio, -Ma voglio sentirlo meglio!-. Mi sdraiai. Lei s’impalò sopra di me. Ma si vedeva che quella posa non le era congeniale.
Si tolse mettendosi a pecora.
-Prendimi così!-, esclamò. Io sorrisi. Volentieri…
Le entrai dentro quasi brutalmente ma era evidente che a lei piaceva. Andammo avanti per diverso tempo, con lei che sussurrava oscenità in varie lingue e io che le schiaffeggiavo le natiche. Cambiammo posizione, ancora con lei sopra, solo per breve tempo.
Quando venimmo (o almeno, io venni, lei ormai viveva un orgasmo continuo) con me sopra e lei sotto, ad ansimare, erano già le 3.12.
Mi lasciai cadere accanto a lei, la mente vuota. Accarezzandola appena.
-Cazzo.. era una vita che non lo facevo così!-, esclamò lei. Io sorrisi. Modestamente.
Era pur vero che, con un fattore rigenerante era un po’ barare. Lei sorrise.
-Mi hai fatto addirittura piangere… &egrave stato splendido!-.
Annuii. Ora però io avevo un compito. E lei doveva andarsene. Mi alzai.
-Che fai?-, chiese lei. Pareva stremata. Normale.
-Faccio quello che dovevo fare a Dallas.-, dissi.
-Vai a uccidere quell’uomo?-, chiese lei.
Cazzo! Ecco, questo era il classico momento che odiavo. La gente troppo curiosa per il proprio bene.
-Perché?-, chiese lei. Non pareva affranta o che, solo calma e forse curiosa.
-Perché devo.-, sibilai io. Mi rivestii.
-E tu non dovrai essere qui, quando accadrà.-.
Mona mi fissò. Occhi castani nei miei.
Uno specchio per ogni iniquità, una lente per ogni impurità. Un prisma per ogni tentazione.
-Sei pazzo.-, sentenziò. Io scossi il capo.
-No. Forse. Che importa? La vita é troppo breve per farsi dubbi simili.-, dissi.
-Vattene, ora. Prima che…-, non finii la frase che lei fece per urlare. Lo capii dal modo in cui aprì la bocca.
Sussultai, fu come uno schiaffo morale.
Ma sapevo che andava fatto: trapassai il petto della giovane con un artiglio. Mai come in quel momento mi sentii male per l’essere ciò che ero.
Lei mi fissò.
-No…-, sussurrò. Io la guardai spegnersi.
Mormorai due sole parole.
-Mi dispiace.-.
Era quanto di più vero potevo dire di provare.
Poi feci quel che dovevo fare. Erano le 3.13.
Forzai la porta della stanza. Jack, il giustiziere da strapazzo fece per alzarsi dal letto e raggiungere una Colt posta sulla scrivania. Grave errore. Lo raggiunsi prima e gli spezzai il collo. E ora avevo due cadaveri da liquidare. Cazzo. Cazzo!
Per un istante realizzai che non c’era via di fuga.
Poi lo sentii dietro di me. Una presenza. Odore di cordite appiccicato ai vestiti. Mi girai.
Frank Castle, Punisher, l’uomo col teschio. Mi fissava.
Capii che forse ero al capolinea. Ma poi notai alcune cose. Il fucile abbassato, le mani lontane dalle armi nascoste sotto l’impermeabile lungo.
-Ben fatto.-, disse.
-Come?-, chiesi. Ero sbalordito.
-Hai ucciso Jack Sevrien, un tizio che uccideva anche chi non lo meritava. Uno dei miei emulatori.-, disse.
-Ho ucciso anche…-, iniziai.
-Lo so. Vi ho sentiti. Ti ho sentito.-, disse Frank.
-Lei non c’entrava nulla… ma avrebbe dato l’allarme…-, dissi. Mi odiai per un momento di debolezza simile ma quel momento era la prova che ero ancora umano.
-Mona Bergari era una spacciatrice. Produceva e spacciava droga. Marijuana e anche altro. Due in meno. Grazie a te.-, disse Frank Castle.
-E ora?-, chiesi io.
-I corpi devono sparire.-, disse lui.

Ci mettemmo poco. Punisher era organizzato, ben più di quanto lo sia stato io. In breve tempo spostammo i corpi e li seppellimmo in un punto isolato, nel deserto del Texas. Completato il tutto, Frank mi guardò.
-Las Vegas é a circa 15 Km di marcia.-, disse, -Vai verso est e ci arriverai. Sono convinto che non avrai problemi.-. Poi rientrò in macchina e se ne andò.
Non mi aveva graziato, semplicemente avevo avuto la fortuna di averlo come alleato. Valige non ne avevo, e tutto quello che avevo me lo portavo dietro, inclusa la foto di Jack. Iniziai a marciare verso Las Vegas.
Ancora incredulo della mia fortuna. Attraversare il deserto può essere letale, per un essere umano normale. Io avevo dalla mia un fattore rigenerante che mi preservava in una certa misura dagli effetti peggiori della disidratazione e dai colpi di sole.
Non fu comunque un’esperienza piacevole.
Ma mi garantì qualche ora per riflettere in pace.
Quel che era successo non mi aveva lasciato indifferente. Spesso me lo chiedevo.
Era tutto lì quel che volevo dalla vita? Davvero?
A volte il tarlo del dubbio andava a rodermi la coscienza.
Fin dagli anni delle scuole medie mi ero impegnato al massimo ma poi, quando entrai nel mondo del lavoro e mi resi conto di non trovare qualcosa che mi andasse bene… Le cose cambiarono. Finché non ottenni questi poteri e pensai che forse avevo trovato la mia dimensione. Eppure il dubbio c’era ancora.
La domanda era se il dubbio ci fosse per mero scrupolo di coscienza per quanto fatto durante lavori come questo o se invece fosse proprio dovuto a un più profondo interrogativo…
Stavo diventando paranoico. Ripresi a marciare, cercando d’ignorare la sete, un mal di testa e il caldo che mi stava facendo perdere interi chili, probabilmente. RImpiansi di non essermi portato una maledetta bottiglia d’acqua ma d’altronde non sarebbe stato possibile. Arrivai a Las Vegas dopo un’oretta di cammino. Feci l’autostop e un tizio generoso mi portò sino all’aeroporto dove trovai un volo per tornare a New York.

Sull’aereo mi misi a riflettere di nuovo, stavolta aiutato grandemente da una bottiglia d’acqua e un sandwich che sapeva di plastica. Meglio di niente, comunque.
Il dubbio era dovuto al lavoro appena svolto, sicuro.
Perché quando lavoravo per lo S.H.I.E.L.D. non avevo mai avuto dubbi simili. Era pur vero che non avevo avuto un periodo eccezionalmente buono negli ultimi tempi. Raggiunta quella conclusione, mi addormentai.
Mi svegliai all’atterraggio. Rieccomi a casa…
Casa… Casa non é dove ti porti il cuore. &egrave dove ti portano rispetto.
Forse era tempo che Zharia capisse questo semplice detto.

-Pronto?-, la voce flautata della donna mi fece ricordare cosa dovevo dirle. Chiamarla era stata la prima cosa che avevo fatto una volta arrivato fuori dall’areoporto e a un chioschetto dove mangiare qualcosa di decente rispetto al panino plasticoso servitomi sull’aereo.
-Zhara. Sono io. Ho finito. Sono a New York.-, dissi.
-Mando qualcuno a prenderti.-, disse lei.
Le diedi l’indirizzo in cui mi trovavo e l’ok e chiusi la chiamata, tornando al taco che stavo mangiando con gusto. Pagai e attesi che arrivase l’uomo di Zhara.

L’auto nera si fermò quasi sul marciapiede e la portiera dietro si spalancò. Il tizio dietro mi fece segno di muovermi a entrare. Entrai. Agitazione, percettibile.
-Allora? Lavoro fatto?-, chiese il tizio accanto a me.
Abbandonammo New York, lo vidi dai finestrini.
-Sai, Zhara ha deciso che sei stato un po’ tanto arrogante…-, disse l’autista.
-Quindi capisci che… dobbiamo darti una lezione. Mi spiace.-, disse il tipo. Sparò allo stomaco. Un dolore cane. Sentii il proiettile entrare, farsi strada tra i miei intestini e uscire. Strinsi i denti.
-Figli di puttana!-, ringhiai.
-Niente di personale.-, disse l’autista.
-Io so che Zhara non avrebbe mai dato un ordine simile.-, dissi. “Avanti, dannato fattore rigenerante!”.
-Forse o forse no. Forse vogliamo solo avere meno ostacoli possibili…-, disse l’autista.
-Allora avete sbagliato di brutto.-, dissi io. L’altro si avvicinò. Mi puntò la pistola alla testa.
-Forse. Ma tra un istante tutto ciò non ti riguarderà più.-, disse. Agii ignorando il dolore. Deviai la pistola dalla testa muovendo il capo nella direzione opposta e spendendo la pallottola verso il finestrino anteriore. La mano sinistra si protese. Sguainai gli artigli. Snikt!
Il tizio si ritrovò impalato. La presa sulla pistola si affolosciò e l’arma passò in mano mia. Sparai. L’autista imprecò e sbandò fuoristrada mentre un proiettile gli entrava nel ginocchio destro.
Uscii dall’auto. La ferita allo stomaco era netta e il proiettile era uscito. Bene. Mi reggevo ancora sulle mie gambe. Arrivai alla portiera del guidatore e scaraventai fuori il bastardo. Lui parve cercare un’arma nel giubbotto. Sparai. La mano sinistra esplose e la pallottola proseguì la corsa nella spalla.
Eravamo in una zona abbandonata di New York, o pressappoco. Un postaccio in cui nessuno ci avrebbe cercati. Era tempo di scambiare due chiacchere col simpatico autista. Che si teneva il moncherino della mano contro la spalla. Presi il telefono e feci partire il registratore audio.
-Allora… Mi spieghi che cazzo succede?-, chiesi.
-Succede che sei troppo bravo. Alcuni dei nostri sono… gelosi.-, disse il tizio menomato.
-Delle mie abilita? O del mio rapporto con Zhara? Non é colpa mia se dispongo delle prime e a voi mancano i cojones per riuscire a concretizzare il secondo.-, nessun’ironia, solo la verità.
-Sei l’unico nella nostra rete che l’abbia mai vista in faccia… non sai quanto fa schifo ricevere gli ordini da qualcuno che non hai mai visto. Da una leggenda…-, sibilò il tizio. Annuii, non ero nuovo a quel genere di sensazioni. Mi era successo, ma avevo scelto di reagire. A differenza di loro, che erano arrivati al punto in cui la sola reazione possibile era la distruzione. Propria o di altri.
-Capisco.-, dissi. Inviai il file audio a Zhara.
Puntai la pistola. Lo sgherro sorrise.
-Se pensi che lei ti sarà riconoscente ti sbagli di grosso.-, disse.
-Infatti. Non lo faccio per lei.-, dissi io. Sparai.
Il viso del tizio esplose.
-Lo faccio per me.-.
Era vero: a differenza loro io avevo deciso, scelto, di non farmi più calpestare. Da nessuno. Stato o uomo.
Il telefono vibrò. Zhara. Risposi.
-Blade… che diavolo é successo?-, chiese.
-I tizi che hai mandato a prendermi hanno deciso di eliminarmi. Credo che dovresti rivedere la lealtà di certi tuoi elementi. In ogni caso depenna questi due.-, riassunsi brevemente. Silenzio. Attonito.
-Vieni al Sailor Pub.-, disse lei, -Alle 21.00 di stasera.-.
-Certamente.-, dissi io. Chiuse la chiamata.
Immaginavo che fosse stata una bella sberla: scoprire che qualcuno intende tradirti non dev’essere bello, nemmeno per una come Zhara.
Ma ero sicuro che se la sarebbe cavata.

Arrivai a casa e mi feci una doccia. Uscii e mangiai qualcosa per strada. Mi recai al Sailor Pub alle 21.00.
Era un localaccio dove i marinai del 1600 solevano sbronzarsi e andare a donne e ancora c’erano marinai che onoravano tale tradizione.
Ma io non ero lì per bere. Mi presentai al barista.
-Zhara mi ha convocato.-, dissi. Lui annuì. Mi indicò una porta con scritto privato.
Entrai. Cucine. Passai oltre. Altra porta. L’ultima aveva una finestrella richiudibile a livello del mio viso. Appena arrivai la finestrella si richiuse. Chiusi l’altra porta. E la porta con la finestrella si aprì. In automatico. Era evidente che quello fosse uno dei più importanti rifugi di Zhara.
E, a giudicare dalle suppliche che sentivo, era in corso una vera e propria sessione di tortura.
L’uomo giaceva a terra con le rotule dilaniate da qualche proiettile. Davanti a lui, c’era Zhara e due Bodyguard. La giovane brandiva una pistola silenziata. Tutta la sua attenzione era rivolta a quell’uomo. Al traditore.
-Khalim, pensavo saresti stato più furbo…-, disse.
Suonava come una vera e propria lamentela.
-Io…-, sussurrò l’uomo, -Ti prego…-.
-Dovresti saperlo che non avrai pietà, così come avresti dovuto sapere che tradirmi e cercare di fregarmi il potere non era una buona idea. Lo sapevi, no?-, chiese Zhara. Voce quasi inespressiva.
Il panico era prorompente, l’uomo devoveva essersela fatta sotto a giudicare dall’odore. Non sapevo da quanto soffrisse ma sapevo, perfettamente, come sarebbe finita. E non avrei mosso un dito per salvarlo.
Se l’era cercata, aveva osato sfidare Zhara.
E ora pagava.
La giovane puntò la pistola. L’uomo sospirò, iperventilò, implorò con un filo di voce.
Lei premette il grilletto. Clack! Il cane batté a vuoto.
Lui si stupì. Zhara sorrise. Ora che ero abbastanza vicino vedevo che la metà del suo sorriso non era che un sorriso di scherno.
-Pensavi sarebbe stato così facile, tesoro?-, chiese.
-Io… Zhara, ti prego… perdonami!-, suppliche vane.
-Tu sai bene che non succederà. Ma sarò gentile.-, disse Zhara. Alzai un sopracciglio pensando che fosse pressoché impossibile che lo graziasse.
Infatti l’espressione di Zhara cambiò da benevola a decisamente diabolica.
-Farò sì che tu patisca le pene dell’inferno. PORTATELO VIA!-, l’ultima sentenza gridata dalla giovane fu coronata dall’uscita dei due grossi che trascinarono il poveretto oltre una porta mentre quello cercava di opporsi graffiando il pavimento, piangendo e chiedendo un perdono che non sarebbe mai giunto.

Zhara si voltò verso di me. Ora che eravamo soli si permise di sorridermi. Ricambiai ma pensai che quella scena celasse qualcosa. Un recondito avvertimento.
-Vieni, Blade.-, disse. Un invito. La seguii oltre un altra porta. C’era una camera da letto e un tavolino con varie bottiglie di alcolici sopra.
-Ti ringrazio per l’ottimo lavoro svolto. Intendiamoci, parlo dell’esecuzione di quel tale. Suppongo che nessuno abbia fatto domande in giro.-, disse.
Io annuì. Estrassi dalla tasca dei fogli spiegazzati e glieli diedi. Lei mi guardò, interrogativa e curiosa.
-Tutto quello che Jack sapeva su di te. Ora é tuo.-, dissi. Lei sorrise. E poi parve incupirsi.
-Vuoi sapere perché nessuno mi vede? Vuoi sapere chi sono? Da dove vengo? Perché copro la mia faccia?-, chiese lei a raffica.
Avevo delle supposizioni ma mi sarebbe interessata davvero molto la sua storia.
-Il mio nome completo é Zharia al-Jilani. Sono nata in Siria ma i miei si sono spostati presto in Iran. Dicevano che laggiù sarebbe andato tutto bene, che saremmo stati meglio. Poi, a dodici anni…-, s’interruppe. Una mano prese il cappuccio. Lo tirò.
Avevo visto molte cose strane nella mia vita ma quella… Trasalii appena ma sono certo che se ne accorse in ogni caso.
Il viso di Zhara era a metà umano e l’altra metà ricoperto di scaglie, un mostruoso ibrido tra serpentino e umano. Denti umani mi sorrisero da labbra quasi inesistenti da un lato e fin troppo seducenti dall’altro.
Gli occhi verdi della donna rettile mi scrutarono.
-La mia mutazione mi conferiva un’estrema agilità e una furbizia oltre che una spietatezza notevole. Ma quando i miei lo scoprirono…-, gli occhi si velarono di qualcosa. Tristezza, rabbia. Dolore.
-Fui ripudiata. Per loro, una figlia femmina era già quasi più un peso che una gioia ma una figlia mutante… L’intero villaggio di Bakhari cercò di lapidarmi. Mi spararono. Fuggii. E capii che non c’era spazio per me laggiù. Riuscii ad arrivare in Turchia e poi in Grecia. Da lì, rubando, ricattando e uccidendo, trovai abbastanza denaro per arrivare in America.
E capii che neanche qui sarei stata vista come normale. Anche qui sarei stata una paria.-, ora il suo tono era intriso di qualcos’altro. Rabbia mista a quel sentimento che anche io avevo provato. Il desiderio selvaggio di poter essere me stesso e sapere di non poterlo essere. Lei mi sorrise, un sorriso malinconico.
-&egrave triste, vero? Siamo esseri speciali, dotati, la punta ultima dell’evoluzione umana. I migliori… E veniamo trattati come spazzatura.-. Silenzio. Non potevo dire un cazzo. Non aveva torto.
-Noi valiamo quanto loro, anche di più, ma loro ci temono… Hanno paura di noi, paura del diverso. E dalla paura nasce l’odio che hanno per noi.-, disse Zhara. Si versò un bicchiere di Vodka Nimeroff.
-Vuoi qualcosa?-, chiese.
-Rhum, se c’é, per favore. Non troppo.-, dissi.
Intendevo restare lucido. Lei mi sorrise passandomi un bicchiere con un quantitativo di rhum cubano originale decisamente maggiore rispetto a quanto avevo chiesto. Bevvi.
Zhara svuotò il suo bicchiere in un fiato.
-Anche io ho vissuto momenti del genere, e chissà quanti altri li vivono.-, dissi. Lei mi sorrise di nuovo. Si avvicinò di un passo.
-Tanti, caro mio, tanti. &egrave per questo che ho iniziato a fare quello che faccio, per mostrare a me stessa e agli altri che una come me, una paria, una mutante può arrivare al vertice.-, disse. Era vicina. Il suo profumo mi parlava di sensazioni lubriche, la sua voce aveva una sfumatura che non sapevo identificare.
Desiderio? O forse altro ancora?
-Io faccio quello che faccio per non essere schiavo.-, dissi io, -Per non dovermi sottomettere a un sistema che non mi rispetta e di cui non riconosco i valori.-.
Lei annuì. Mi prese la mano con la sinistra. Percepii un tocco squamato, sottile. Nondimeno lo sentii.
Sangue freddo, il corpo di Zhara doveva aver sviluppato due sistemi distinti. La parte umana a sangue caldo, la parte rettile a sangue freddo.
Sorprendente. Sicuramente Reed Richards ci sarebbe andato a nozze con tutte le teorie e deduzioni scientifiche che avrebbe potuto svilupparci.
Per me era un’esperienza nuova. Ma presi la sua mano. Strinsi le dite ruvide e lisce ad un tempo, scaglie e unghie nascoste in tutti gli altri nostri incontri sotto un guanto nero. Fugacemente mi domandai come fosse il resto di lei.
-Già. Per quelli come noi non c’é una vita normale. Solo sprazzi, piccoli istanti, schegge di esistenza.-, disse. Sospirai. Lei mi guardò, come indispettita.
-&egrave questo che credi?-, chiesi.
-Non é forse così?-, chiese lei.
-NO!-, esclamai io, -Io mi rifiuto che lo sia! Mi rifiuto di permettere che questo sia ciò che diventerò! Un’esistenza grigia, nell’oscurità, a muovere fili costruendo l’illusione che qualcosa cambierà! &egrave inaccettabile, sia per me che per te! E se lo accetti, se non fai nulla per combattere tutto ciò, allora forse la meriti, la vita di cui tanto ti lamenti!-.
Fu uno sfogo, forse il più sincero che avessi mai potuto dire di aver davvero avuto. Zhara mi guardò.
Paralizzata, improvvisamente sorpresa.
Perché quello che avevo detto, l’avevo detto a due persone. A lei e a me.
E poi mi abbracciò. Fu qualcosa di inaspettato.

-Ora te ne starai zitto e io mi prenderò qualcosa che non mi concedo… da moltissimo tempo.-, disse.
Immaginavo cosa fosse, sentivo il suo desiderio, il battito del suo cuore.
-Baciami. E non provare neanche lontanamente a baciare solo la mia parte umana. Mi dovrai baciare tutta. Che ti piaccia o no.-, sussurrò. Iniziai dalla parte rettile. Baciai le labbra quasi inesistenti di Zhara. Si aprirono svelando una lingua serpentina che giocava con la mia. Sentii le sue mani sulla mia schiena e poi le mie sul suo corpo ancora avvolto dai vestiti.
-Aspetta…-, disse lei staccandosi proprio mentre finivo di baciarle il collo. Le scaglie non erano spiacevoli ma dubitavo sentisse qualcosa da quella parte. Sicuramente non poteva assaporare al meglio i miei baci ma aveva chiesto di esssere baciata tutta…
Scelta sua. E io obbedii.
Comunque ci staccammo e lei prese a togliersi gli abiti rimanendo con un reggiseno top e uno slip di pizzo.
Notai che fino al petto le scaglie proseguivano, poi si fermavano. Era mutata solo in parte.
Ma doveva essere agile. Sicuramente non mi lasciò molto tempo per osservarla. Si avvicinò.
-Ora vediamo cosa c’é di bello sotto questi vestiti…-, sussurrò. Sentii le sue unghie graffiarmi leggermente il petto prima di scendere e alzarmi la T-shirt.
-Mh, immaginavo ci fossero più muscoli…-, disse.
-Forse più in giù…-, dissi io. Lei sibilò come una serpe.
-Divertente come sempre.-, disse. Mi infilò una mano nei calzoni con veemenza. Raggiunse l’obbiettivo, decisamente non inerme. Io sorrisi.
-Sì, qui c’é decisamente più… muscolatura.-, disse lei.
Io sorrisi.
-Ne sono felice…-, dissi. Le raggiunsi la chiusura del reggiseno. La slacciai. Il seno destro mi sorrise, carnoso e ambrato come il resto della sua carnagione, ma piccolo. Quello sinistro, era leggermente verdastro, molto meno appetitoso ma se non altro, senza scaglie di sorta. Mi dedicai al collo di Zhara.
La giovane gemette mentre mi abbassava i calzoni.
-Oh… dimmi, per caso la mutazione ha influito anche sulle dimensioni?-, chiese. Scossi il capo. Non ero un superdotato ma sicuramente non potevo dire di avere problemi da quel lato.
-Sono proprio curiosa di vedere cosa sa fare questa bellezza.-, disse l’araba. Annuii. Anche io la volevo.
Le abbassai gli slip ad occhi chiusi.
“Dannazione, fa che non sia squamata proprio lì!”.
Aprii gli occhi e mi trovai davanti una vulva relativamente rasata, perfettamente normale. Appoggiai un dito sul pube e lo passai appena lungo le grandi labbra, sino al perineo. Zhara gemette.
Sì. Tutto normale. “Ti ringrazio.”.
-Ora che sai che sono normale, là sotto… Ti spiace se ci spostiamo sul letto?-, chiese lei.
-Più che volentieri!-, esclamai.
Arrivammo sul letto con lei che gemeva mentre le baciavo entrambi seni. Per rifarsi, prese ad accarezzarmi soavemente con l’abilità di una suonatrice d’arpa. Poi mi sorrise.
-Blade, sinceramente, quante ne hai avute prima di me?-, chiese. Non stetti a calcolarle: erano tante.
Molto spesso le ragazze ci stavano perché sapvo come proporglielo ma non sempre mi andava bene.
-Qualcuna.-, dissi, restando vago. Lei mi baciò. Scese sul petto e me lo accarezzò.
-Qualcuna.-, ripeté. Come se la risposta non la convincesse. Io sospirai. Possibile che non riuscisse a godersi l’istante?
-Saranno state una decina. Contenta?-, chiesi. Lei si distese sulla schiena e io scesi accarezzandole lo stomaco. Zhara gemette quando scesi sul pube.
-E sei stato così… gentile con tutte loro?-, chiese.
-No. Non con tutte.-, dissi. Poi mi misi a leccarle la vulva. Zhara gemette di nuovo, stavolta in modo prolungato. Trovai il clito e lo stimolai. La giovane s’inarcò dal piacere.
-Mettilo dentro… adesso!-, ordinò con voce arrochita.
Eseguii. Sprofondai in un baratro calco e umido che mi strappò un gemito, lei afferrò spasmodicamente le coperte. Poi cambiò idea e piantò le unghie nella mia schiena.
-Oh, siiiì! Erano anni…-, sibilò. Pompai. Iniziammo ad ansimare. Cambiammo posizione con lei sopra.
-Ah, ecco cosa mi piace…-, spezzò la frase per prendere fiato, -Sapere che anche chi vuol’essere libero a volte…-, le strinsi i seni, -ama stare in catene!-. Sorrisi. Le sue erano sicuramente catene di ben altro tipo. A cui avrei potuto, volendo, sottostare.
Le ero piantato dentro come paletto e lei andava su e giù in una cavalcata selvaggia. Rischiavo di venire e mi domandai se fosse protetta o no ma non pareva importarle. Allora, decisi di non preoccuparmi.
-Siiiiiiì!-, un’ultima esclamazione di trionfo mentre strinsi i suoi seni e lei mi graffiò il petto inarcando la schiena, godendo all’unisono con me che venni a grandi fiotti dentro di lei.
Poi crollammo sul letto. Come morti, mai così vivi.

Passarono minuti. Non so dire quanti.
Poi sentii la mia mano scorrere lungo la schiena di Zhara. Lentamente, dalle scapole sino all’osso sacro.
Nessun bisogno di parlare. Per un unico, lungo istante, fummo solo noi, in un universo privo di confini, limiti, tempo e spazio. Un mondo frattale che sparì nel giro di un respiro.
Zhara bofonchiò qualcosa. -Come?-, chiesi.
-&egrave stato bellissimo. Non ricordo neanche l’ultima volta che l’ho fatto così…-, disse. Io sorrisi, lusingato.
Mi alzai, lentamente. Concedendo al mio corpo il tempo per riprendersi, non che ce ne volesse poi molto (ero giovane e il fattore rigenerante mi favoriva).
-Comunque, voglio che tu sappia una cosa: durante il mio lavoretto a Dallas ho ucciso una giovane che non c’entrava nulla. Non intendo più farlo.-, dissi.
Zhara si mise a sedere, ascoltando.
-C’é una linea che non voglio superare, come tu non vuoi superare la tua.-, dissi.
-Belle parole, tesoro. Ma sappiamo entrambi che non possiamo sempre essere quello che vogliamo. A volte la vita prende, quando vuole.-, disse lei. Si alzò.
Un sottile filo di sperma le usciva dalla vulva scendendo lungo la coscia ma non pareva badarci.
-Già. La vita prende quando vuole, ma noi dovremmo almeno provare a essere migliori, no?-, chiesi.
-Forse.-, ammise l’araba. Mi baciò. Un bacio lungo, sensuale. Lasciai che fosse lei a dire quando finisse.
-Vuoi già andartene?-, chiese. Pareva dispiaciuta.
Dovevo? Volevo? Sarei potuto restare con lei. Calmissima, Zhara si accese una sigaretta. Fece un anello di fumo perfetto, stavolta.
A vederlo, improvvisamente sorrisi.
Eccolo il punto. La convergenza. L’importanza di congiungere gli opposti.
Uomo e donna. Umano e mutante. Bene e male.
Perché nessuno può, per quanto si sforzi, vivere di assoluti.

Mi risedetti accanto a lei e Zhara mi sorrise.
-A parte tutto il polpettone sull’importanza di reagire… Devo dire che stiamo reagendo benone.-, disse.
Ci misi mezzo secondo a capirla. Poi mi misi a ridere per cinque minuti buoni. Poi rise anche lei.
Ripresi a baciarla. Mi tornò duro. La penetrai senza quasi pensare. Lei sotto, io sopra. Nessun discorso, niente parole, nulla. Solo il silenzio interrotto dai nostri gemiti e dal rumore dei corpi in moto l’uno contro l’altro. Sguardi incendiari, il mio piantato nel suo come io dentro di lei. Smeraldi verdi riflessi nei miei occhi neri come l’abisso.
Zhara lanciò un urletto strozzato e godette poco prima di me, che rilasciai tutto il mio seme dentro la giovane. Era stato un amplesso breve ma quasi animalesco. Sentivo la schiena bruciare per i graffi.

Sorrisi. Poi mi alzai. Dovevo andare in ogni caso.
-Blade.-, mi chiamò lei.
-Sì?-, chiesi io girandomi.
-Grazie. Di tutto.-, disse lei. Si alzò. Arrivò al tavolino.
Mi porse una mazzetta di banconote. Dieci da cento dollari. Il mio pagamento. Il prezzo del sangue versato.
-Il tuo stereo l’ho venduto a un tizio in Oregon. I soldi arriveranno dopodomani. Un mio uomo te li porterà.-, disse lei. Mi baciò un ultima volta, questa volta in modo casto. Sapeva che dovevo andare e non intendeva trattenermi.
Curiosamente, di quei soldi m’importava poco.
-Zhara, quello che abbiamo fatto oggi é stato splendido ma so, senza dubbio, che prima o poi ci rivedremo.-, dissi.
-E con ci’?-, chiese lei.
-Potrebbe non accadere in modo amichevole. Potremmo essere su schieramenti opposti. Spero non accada… Ti prego, fa che non succeda mai.-.
Silenzio. Poi lei annuì, decisa.

Tornai a casa e mi buttai a letto. Ripresi il mio ritmo dopo tante notti insonni. Saldai i vari debiti e andai in pari. Una buona cosa. Zhara non si fece più sentire.
Ricevetti una sua lettera tempo dopo. Disse che aveva devoluto alcuni fondi per aiutare le vittime di un conflitto in Europa. Doveva star cercando il suo modo per cambiare le cose, e anche questo era un bene.
Poi lo notai. Sul retro di una pubblicità. Un simbolo.
Sempre lo stesso, incoerente simbolo tracciato in un istante di passione. Noto solo a un’altra persona oltre a me. Una giovane mutante con cui avevo avuto una storia che dire complicata era poco.
Flux.
Flux era ancora viva. E presto sarebbe tornata.
Sorrisi. Mi avrebbe trovato pronto. A tutto.

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