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Racconti Erotici Etero

Blade: riforgiatura

By 27 Agosto 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Per chi non mi conosce: salve!
Io sono Alexander Mirror, meglio noto nel sottobosco criminoso e negli ambienti dello S.H.I.E.L.D. come Blade, un mutante con artigli e un fattore rigenerante, roba molto utile quando finisci nel vicolo sbagliato di Madripoor.
Il lettore avveduto e informato sui racconti che mi riguardano può saltare le prossime righe.
Invece, il lettore che legge per la prima volta un racconto che mi riguardi può gustarsi questa breve presentazione.
Vivo negli States, nella città di New York (un tempo si chiamava New Amsterdam perché edificata da olandesi’). Non lavoro (specialmente a causa del mio ottimo rapporto con lo S.H.I.E.L.D. che mi ha pagato gli ultimi favori fatti) e, come ho già accennato, sono un mutante.
I miei due interessi nella vita sono le donne e le arti marziali, in quest’ordine. C’é anche altro, ovviamente ma il resto &egrave marginale.
Un’altra cosa: non mi considero un eroe, diciamo che cerco di fare la cosa giusta ma non di rado mi lascio tentare dall’usare le mie abilità per furtarelli, o almeno così facevo…
Dopo quella che posso considerare come una vacanza decisamente avventurosa sono tornato a casa, alla mia solita vita e ai soliti casini.
(Nota per cronologia. Quest’avventura si svolge poco dopo il racconto Flux: visioni di cambiamento).

Steso tra le lenzuola, ripresi lentamente conoscienza.
“Dio, che mal di testa… che diavolo ho fatto ieri sera?”, mi chiesi. Il soffitto sopra di me pareva incombere.
Un mal di testa lanciava fitte nel mio cranio, mettendo radici tra le mie tempie. Ero nudo.
Incominciai a ricordare ma riuscii a farlo solo quando vidi la splendida mutante accanto a me.
(breve paragrafo esplicativo che può essere saltato).
Zhara al-Jilani. Una trafficante e una criminale di piccolo-medio calibro. Ha sempre evitato di trafficare in droga, esseri umani o roba che potesse causarle guai. Quella linea di condotta le aveva permesso di evitare di divenire bersaglio di criminali o giustizieri vari.
La mia strada e quella di Zhara si erano incrociate tempo prima, in una situazione diversa. All’epoca avevo molte domande su di lei ma dopo un mio lavoretto molte di esse hanno avuto risposta (il lettore che ha solo ora iniziato a sapere delle mie avventure corra a rileggersi Blade: Notti Insonni). &egrave dunque corretto dire che conosco Zhara meglio di molti dei suoi collaboratori. una mutante, una sorta di ibrido uomo-rettile. Non é particolarmente mostruosa ma parte del suo corpo presenta tratti rettiliani. Scaglie, pelle fredda, cose così.
Niente di tutto questo ha ovviamente impedito l’evoluzione del nostro rapporto da mero rapporto di lavoro a relazione lavorativa alternata a slanci di erotismo.

Detto ciò…
Stavo lì a guardarla e a notare quanto fosse bella a dispetto di tutto quanto. Di ogni possibile difetto.
Era bellissima. Non fraintendetemi, il mio non era amore, almeno non solo. C’era l’apprezzamento della bellezza, ma c’era anche il desiderio. Detto ciò, sapevo apprezzare le qualità di Zhara. Era pragmatica, diretta e soprattutto, aveva una volontà d’acciaio. Doveva averla visto il suo passato. Essere una mutante non &egrave mai facile, stando a quanto dettomi da lei, in Medio Oriente lo era anche di meno. Alzai una mano, titubante.
Accarezzarla o no?

La sera prima, complice un successo notevole ottenuto grazie a me e dopo una cena in un ristorante appartenente a un suo sottoposto, io e Zhara ci eravamo ritirati in quell’alcova per godere del reciproco piacere.
Ovviamente, prima la giovane mi aveva offerto qualche bibita alcolica. Quello che era iniziato come un brindisi ci aveva portato a terminare una bottiglia intera di Saké.
Non che quello fosse un problema: il fattore rigenerante di cui entrambi eravamo dotati ci impediva di sbronzarci oltre un certo limite, limite che quella sera sicuramente raggiungemmo. Non ho molti altri ricordi, solo la consapevolezza del suo corpo sul mio. Della bocca di Zhara che mi suggeva il membro mentre io leccavo la sua intimità. Spezzoni della serata mi passarono alla mente come flashback di un passato che non ricordavo.
Quante volte avevamo goduto? Che ora era?
Emisi un verso basso sforzandomi di schiarirmi la gola mentre mi alzavo, mettendomi seduto.
-Ehi…-, sussurrò Zhara svegliandosi. Si mise seduta.
-Ci crederesti che ricordo poco e niente di quel che abbiamo fatto ieri sera?-, chiesi con un sorriso.
-Io ricordo quasi tutto… sei stato fantastico!-, esclamò.
-Oh, ci credo. Sono ancora esausto.-, risposi.
-Non ricordi proprio nulla?-, chiese lei. Io annuii.
-Ricordo pochissime cose… spezzoni.-, dissi. L’araba annuì. Sorrise improvvisamente e mi baciò. Per qualche istante le nostre lingue lottarono, esplorando le rispettive bocche, facendomi dimenticare tutto quanto, mal di testa incluso. Le accarezzai la nuca e il collo. La mutante mi accarezzò il petto scendendo lentamente.
-Credo sia colpa dell’alcool.-, dissi.
-Già. Lo penso anche io.-, sorrise lei. Immaginavo quale sarebbe stata la sua prossima frase.
-Possiamo provare a rivisitare la nostra serata senza l’aggiunta di alcolici…-, disse Zhara. Sorrisi. Non sarebbe stato male. Inoltre neanche al mio membro pareva dispiacere, vista la pronta erezione che il tocco della giovane suscitò di lì a poco.
-Caspita, reagisci in fretta, eh Blade?-, chiese.
Sorrisi. Preferii non rispondere e andare ad accarezzare il suo seno e poi più in giù. L’araba gemette a occhi chiusi. Sapevo come prenderla, pelle serpentina o no, era pur sempre una donna. Baciai il collo della giovane mentre le mie dita le tintillavano la vulva.
-Oh, Blade…-, sussurrò lei. Mi aveva afferrato il membro, accarezzandolo con una noncuranza quasi anormale.
-Ti apro.-, dissi. Fu più un ringhio ma in quel momento me ne importava proprio poco di essere galante.
E Zhara capiva: si sdraiò tra le lenzuola sfatte, aspettando il mio assalto.
Sorrisi. Mi posizionai. Le affondai dentro.
E proprio in quell’istante, lo sentii. Una vibrazione. Due materiali che urtavano l’uno contro l’altro generando un suono continuo e fastidioso.
Sospirai. Sapevo bene che era il mio telefono.
Impostato su vibrazione e deciso a rompermi i coglioni finché non avessi risposto.
-Continua…-, sussurrò Zhara. Io sorrisi.
Potevo posticipare la risposta a dopo il coito…
Presi a pompare, imponendo il ritmo. L’araba gemette. Ci baciammo. Cambiammo posizione due volte.
In tutto il tempo, il telefono continuò a suonare. Poi smise, finalmente. Sorrisi. Zhara aveva preso a succhiarmelo con una maestria impareggiabile mentre io mi dedicavo alla sua vulva.
In quel preciso momento, una voce eruppe dal punto in cui era situato il mio cellulare.
-Blade, sono Lisa. Lascia qualunque o chiunque tu (ti) stia facendo e sbrigati a venire qui.-, disse la voce di Lisa Huntington, il mio contatto con lo S.H.I.E.L.D.
Scambiai uno sguardo con Zhara. L’araba sospirò.
-Beh, immagino che il dovere chiami.-, disse.
Annuii. Poi le infilai un dito dentro. Lei squittì.
-Non temere. Quando tornerò riprenderemo da dove eravamo arrivati.-, dissi. Mi alzai e iniziai a rivestirmi.
-Ci conto.-, disse Zhara, accendendosi una sigaretta.

Il mio umore non era dei migliori quando arrivai alla base dello S.H.I.E.L.D. e non migliorò di certo quando Lisa Huntington mi salutò con una battuta.
-Avresti potuto almeno renderti presentabile.-, disse.
Non aveva torto. Vestiti stropicciati, capelli in disordine, l’alito che sapeva di saké misto a vulva…
Nel complesso potevo anche darle ragione ma preferii venire al punto. Quanto prima avessi sbrigato quell’incombenza, tanto prima sarei riuscito a tornare da Zhara e a riprendere quel che entrambi volevamo finire.
-Allora?-, chiesi. Niente mezze misure. Lisa non cedette.
-Blade, secondo il tuo file il tuo fattore rigenerante viene da quello di Wolverine, giusto?-, chiese dopo dieci secondi di attesa che servirono solo a snervarmi.
-Sì.-, dissi a conferma, -Ma questo già lo sai.-.
-Esatto. Ora… so che non sei una persona stupida e capirai che quello che sto per affidarti é un incarico… difficoltoso.-, disse lei.
-Ogni incarico che mi affidi é difficile. Quindi?-, replicai io.
-Wolverine &egrave morto, Blade.-, disse Lisa.
Lisa non lasciava trasparire emozioni molto spesso ma in quel momento notai qualcosa, come un riflesso di tristezza nei suoi occhi. Durò qualche istante e sparì.
Io invece accusai il colpo alla stregua di un pugno in pancia. Crollai su una sedia, senza parole.
Wolverine, al secolo James Howlett Logan era un eroe per alcuni (me incluso) e un demone per altri.
Era grazie a lui (in modo molto indiretto) se ero quello che ero. E ora era morto.
X-Man, Vendicatore, guerriero, animale, erano tutti modi per definirlo, almeno in parte. Logan era tutto questo e molto altro. Non l’avevo mai incontrato ma sapevo bene che era un uomo tormentato che tentava di essere migliore. Ed ora era morto.
-Come &egrave morto?-, chiesi.
-Com’é vissuto.-, rispose Lisa, -Vuoi del caffé?-.
Era la prima volta che me l’offriva. Annuì.
-Zucchero?-, chiese. Scossi il capo. Certe notizie non potevano essere addolcite in alcuna maniera.
-Blade, ti ho chiamato qui perché Wolverine era un simbolo. Un esempio. Ma soprattutto un pericolo.-, disse.
-Il suo fattore rigenerante era di altissimo livello. Se qualcuno trovasse il modo di replicarlo o di clonare Wolverine sarebbe grave. Gravissimo.-.
Annuii. Capivo. Lisa prese un sorso di caffé. La imitai. Era caldissimo, ustionante. Soffrii in silenzio.
-Immagino che qualcuno stia già tentando qualcosa di simile.-, dissi. La Huntington annuì.
-Sappiamo che la zona di quarantena dove Wolverine é morto, il laboratorio Paradiso in Arizona &egrave stata violata.
Non una, ma ben due volte. La seconda volta una squadra dello S.H.I.E.L.D. &egrave intervenuta.-, disse Lisa.
Il proiettore nella sala si attivò, mostrando la zona, foto satellitari di mezzi in movimento. Pochi uomini.
Una cosa mi colpì: i vestiti.
Non erano militari, non di quest’epoca almeno.
Parevano piuttosto dei Ninja del 1500. Kunai e coltelli da lancio alla cintura, spade a tracolla. Archi e frecce. Balestre e shuriken, un armamento primitivo ma non per questo inefficace. Il filmato mostrò il gruppo entrare e uscire, dopo aver falciato le dieci guardie dello S.H.I.E.L.D. a difesa del sito.
-Chi sono?-, chiesi.
-La Mano.-, rispose Lisa, -Un’organizzazione eversiva di ninja che sfrutta tecniche necromantiche. Logan li ha combattuti in moltissime occasioni.-.
-Capisco. E cos’hanno preso?-, chiesi.
-Una fiala di sangue. Pochi millilitri. Ma prova a immaginare cosa succederebbe se la Mano riuscisse a clonare Logan…-, il pensiero mi gelò il sangue nelle vene. Wolverine era già stato controllato dalla Mano. Fermarlo aveva richiesto sacrifici elevatissimi.
-Ora pensa se lo clonassero… Il mondo non &egrave pronto a un’armata di Wolverines controllati dalla Mano.-, disse Lisa Huntington. Era spaventata da quell’eventualità quanto me. Entrambi sapevamo che sarebbe stata la fine. Di tutto quanto.
-Sappiamo dove sono?-, chiesi. Lisa annuì.
-Ok. Procurami un trasporto e dammi il tempo di una chiamata.-, dissi. Gettai il caffé nel cestino.

-Pronto?-, chiese Zhara al-Jilani.
-Sono io. Ci metterò un po’.-, dissi. Silenzio.
-&egrave lo S.H.I.E.L.D., vero?-, chiese lei con freddezza.
Non sapevo in che rapporti fosse con loro ma era inutile negare. Nessun altro poteva violare un cellulare in quel modo. Decisi di dirle la verità.
-Sì. Logan… Wolverine, é morto.-, dissi.
-Tu cosa c’entri?-, chiese Zhara. La notizia della morte del supereroe non pareva scuoterla.
-Devo impedire che alcuni bastardi usino il sangue di Wolverine per mettere fine a tutto quello che conosciamo.-, dissi optando nuovamente per la verità. Silenzio, ancora. Temetti avesse appeso. Infine parlò.
-Fai attenzione.-, in quelle parole c’era tutto. Tutto quello che aveva provato per me, tutta la speranza, tutto il desiderio, tutta la paura di perdermi. Tutto. Annuii.
-Tornerò. Non temere.-, dissi. Chiusi la chiamata.
Salii a bordo del VTOL.
-Dove siamo diretti?-, chiesi.
-In Giappone.-, disse il pilota. Insieme a me c’erano altri sette uomini. Armi ed equipaggiamenti all’avanguardia.
Qualcuno mi allungò un giubbotto antiproiettile, un fucile e dei caricatori. Sistemai il tutto.
-Qual é il piano?-, chiesi.
-La Huntington li ha seguiti tramite rilevamento satellitare. Forse non troveremo la loro base ma ci andremo abbastanza vicino.-, disse un biondo che pareva il comandante del drappello. Pareva perfetto per il ruolo.
-Poi li colpiremo con tutto quello che abbiamo.-, dicendo quell’ultima frase il comandante strinse i denti.
-Conosceva Logan?-, chiesi.
-No. Ma ha ucciso una persona a me cara quando era controllato dalla Mano. Non voglio che succeda di nuovo. A nessuno.-, rispose lui. Capivo. Annuii.
-Immagino che a bordo avrete un panino…-, dissi.
Qualcuno mi passò un panino sottovuoto. Roba al sapore di plastica, non la consiglierei neppure al mio peggior nemico. Mangiai di malavoglia mentre il VTOL, spinto da propulsori che gli permettevano di raggiungere la velocità di 1500 km/h ci portava verso il Giappone.

Atterrammo diversi chilometri e fusi orari dopo.
Le tracce erano finite lì. Ai piedi di una maledettissima montagna. I commando si fermarono, incerti sul da farsi. Si sentiva odore di bosco… un buon odore che potevo dire di apprezzare. Ma c’era qualcosa, il presentimento di una catastrofe imminente.
Forse fu l’intuito maturato in tanti scontri o magari solo una grandissima fortuna a permettermi di vederli.
-Imboscata!-, gridai. Figure confuse nella notte, vesti nere e rosse. Brandivano katane e scagliavano frecce con archi lunghi. Il biondo a capo del nostro gruppo fu centrato alla gola. Morì malissimo in tempo breve.
Sgranai una raffica di dieci colpi centrando al petto due ninja armati di Katana che si erano materializzati di fronte a me. Divennero polvere, svanendo nella brezza notturna. La cosa mi sorprese ma decisi di analizzarla in seguito. Mi girai bloccando l’attacco di una katana con il fucile. Cambiai la presa sull’arma e gratificai quel nemico di un proiettile al collo. Il Ninja divenne polvere. Solo per lasciare il posto ad altri due che mi caricarono senza emettere un suono ma brandendo le spade con abilità.
“Cavolo… qui ci resto secco!”.
Erano a centinaia, uscivano della ombre. I nostri sette uomini erano la punta di lancia dello S.H.I.E.L.D. Il meglio del meglio che quell’organizzazione avesse da offrire. Gente capace e preparata.
E stavano venendo massacrati come agnelli.
Certo, resistevano ma semplicemente in uno scontro simile non c’era possibilità. Noi eravamo in sette, ed avremmo dovuto essere noi ad aprire le danze. Loro erano una legione e ci arrivavano addosso incuranti di quanti cadessero. Ne abbattei altri sette prima di finire i caricatori. Vidi cadere gli altri membri del commando. Uno dopo l’altro. Alcuni in modo rapido, altri letteralmente fatti a pezzi, una ferita alla volta.
Era finita. O meglio, lo era per loro.
Capii cosa dovevo fare. Mi gettai nel fiume adiacente lo spiazzo, ignorando il freddo e il dolore. Lo shock termico mi travolse. Dovevo tenere duro. Ma non avevo calcolato quanto fossero abili gli arceri della Mano. Il dolore fu improvviso, lancinante. Mi strappò un grido.
La freccia mi era arrivata dritta nella schiena, trapassando il giubbotto in kevlar. Feci per strapparmela ma improvvisamente il fiume mutò, divenendo una cascata. Sentii un dolore atroce, poi il nulla mi inghiottì.
Il mio ultimo pensiero fu paradossalmente che presto avrei incontrato personalmente Wolverine. Il dolore per molti é una cappa opprimente, il corpo intero soffre, ogni singola terminazione nervosa che urla di agonia nel vuoto, disintegrando sistematicamente concentrazione e pensiero.
Per me, che ero già stato ferito in modi molto gravi, era una compagnia costante. In quel caso però non avevo calcolato che la Mano tendeva ad avvelenare le frecce.
Giacqui nell’oscurità di un delirio che minacciava di inghiottirmi a ogni istante per un tempo che non seppi quantificare. Vidi esseri ghignanti ridere della loro vittoria su di me. La realtà era lontanissima. Un sogno perduto.
Mormorai, gemetti, urlai mentre demoni a me ignoti si disputavano le ossa del mio spirito, la carcassa della mia essenza. L’oscurità attorno a me inviava lampi di fuoco alla mia mente e ai miei sensi. Scivolavo e riemergevo dal delirio. Lontanissime sentivo voci, dicevano cose che non capivo. Occasionalmente quello che pareva il tocco di un angelo alleviava la mia pena.
Ma per la maggior parte del tempo, (se ancora esisteva per me una cosa come il tempo), ero immerso nel dolore. Nella sofferenza più pura.

Fu dopo quella che potei definire comodamente un’eternità che ripresi i sensi. Mi ritrovai a fissare un soffitto in legno. Mi sentivo i muscoli e il corpo come ovattati, non sarei stato in grado di muovermi neppure se ne fosse andato della mia vita.
Rimasi lì. A fissare il soffitto.
“Dove sono? E soprattutto quanto tempo ho trascorso nell’incoscienza?”, mi chiesi.
Un’esclamazione femminile in una lingua che pareva giapponese mi fece comprendere che i miei salvatori, chiunque fossero avevano appena compreso che ero sveglio. Sospirai. Se ne avessi avuto le forze mi sarei alzato. Mi sarei presentato (o difeso, se fosse stato il caso) ma ero troppo, semplicemente troppo stanco.
Il suono di passi sul pavimento di legno mi permise di dare una direzione alla mia attenzione. Girai la testa con quello che mi parve uno sforzo erculeo.
Una giovane di chiare origini giapponesi avvolta in una veste tradizionale mi fissava, assolutamente calma.
Accanto a lei c’era un uomo, avvolto anche lui in vesti tipicamente nipponiche. Solo il viso era coperto. Da una maschera. Una maschera che rappresentava dei connotati da demone. Un Tengu della mitologia nipponica, temibile e sicuramente inquietante.
-Quanto tempo?-, chiesi in inglese attraverso una bocca asciutta come il Sahara e corde vocali atrofizzate.
-Due giorni.-, disse l’uomo-demone, -Ti abbiamo trovato a poca distanza dalla nostra casa. Con una freccia nella schiena e tutta una serie di ferite varie che mi hanno fatto credere che ogni sforzo sarebbe stato vano. Eppure… eccoti qui. Vivo.-, disse. Parlava inglese, un inglese perfetto. Quasi troppo per un giapponese.
-Sono… una persona molto speciale.-, dissi.
-Oh, Kukio l’ha notato. Ha visto i tuoi artigli, Gaijin. Sei un mutante.-, ribatté l’uomo. La giovane non parlava.
-Mi spiace… io…-, mi bloccai. Come spiegare?
-Io sono in missione per l’organizzazione dello S.H.I.E.L.D. C’é un gruppo di Ninja chiamato la Mano. &egrave attivo in questa regione e pianificano di creare un esercito di mutanti come me, o meglio, anche migliori. Vanno fermati.-, dissi.
-Già. Sospettavo fosse qualcosa di simile.-, disse il tizio mascherato. Si rivolse alla ragazza con poche, brevi parole. La giovane uscì dalla stanza.
Tornò poco dopo con una ciotola di zuppa. I miei sensi acuti mi permisero di sentirne l’odore. Miso e alghe.
-Mangia. Sono due giorni che non mangi.-, m’invitò l’uomo. Annuii.
-Dozoo.-, disse la giovane.
Farfugliai un ringraziamento in giapponese e cercai di raggiungere la ciotola. Nulla. Le braccia semplicemente ricaddero a terra. Con pazienza e sorridendo, la giovane (che tra l’altro dovevo ammettere, era splendida) prese a imboccarmi. La zuppa scottava ma me ne importava poco. Avrei mangiato di tutto, con la fame che sentivo.
La ciotola finì in breve tempo. L’uomo disse qualcosa alla ragazza che uscì, tornando poco dopo con un altra ciotola. Durò esattamente quanto la prima.
“Dio, che buona!”. Mi beai in quella sensazione.
-Acqua?-, chiese l’uomo.
-Sì… per favore.-, dissi. Avevo la lingua leggermente scottata. La giovane mi fece bere.
-Grazie… Per tutto.-, dissi.
-Di nulla.-, disse l’uomo. La giovane annuì, come a simboleggiare che aveva capito. Uscirono, lasciando detto che accanto al mio letto c’era un campanello che mi avrebbe permesso di chiamarli se fossi stato in difficoltà.
Poi sprofondai nel sonno.

Dormii per diverso tempo, ma il giorno dopo già stavo meglio. Riuscii ad alzarmi. Scoprendo di essere nudo.
-Ora… le mie robe.-, dissi.
Altro problema: non c’erano. Mi avvolsi nella coperta camminando sino alla porta. Doveva essere una casa monofamiliare in stile antico perché la mia camera dava su un corridoio.
Poi me la trovai davanti. La ragazza.
-No. Resta giù. Malato.-, disse.
-Non posso… devo compiere la missione.-, dissi.
-Non guarito. Malato. Non buono che ti alzi.-, disse lei.
-Devo andare. Non posso aspettare.-, dissi io, intestardendomi. La giovane scosse il bel capo.
Feci per oltrepassarla. E due secondi dopo caddi a terra, proiettato all’indietro dalla ragazza.
-Kukio sa quello che dice. &egrave cintura nera di Judo. Non ti conviene farla arrabbiare. Se dice che devi restare, tu resti.-, disse l’uomo demone mentre mi riavvolgevo nella coperta.
-Ok. Ok. Va bene.-, dissi io, rassegnato, -Ma devo muovermi. La Mano ha i suoi piani e vanno fermati. E le mie cose…-.
-Ti verranno ridate. Quando sarai guarito. Concorderai che andare ad affrontare la Mano così come sei non porterà che alla tua morte.-, m’interruppe l’uomo con la faccia da demone. Io sospirai. Non aveva torto.
Ma quanto sarebbe costata la mia convalescenza? Quanto avrebbe sofferto il mondo per la mia guarigione? Non lo sapevo. Speravo di non saperlo mai.
Eppure non c’era molto che potessi fare.

Passai ore a letto. Complice il mio fattore rigenerante che pareva essersi rimesso in carreggiata, incominciai a star meglio. Quando Kukio si presentò a servirmi il pranzo, ero già molto più in forma. La giovane sorrise. Io sorrisi di rimando.
-Meglio?-, chiese. Annuii. Lei sorrise. Era davvero bellissima. E improvvisamente mi accorsi di una mancanza essenziale a cui dovevo porre rimedio.
-Posso avere dei vestiti?-, chiesi, accompagnando alle parole il gesto di avvolgermi qualcosa addosso. Lei parve accigliarsi. Non capiva? Nel dubbio semplificai il concetto.
-Vestiti.-, dissi, scandendo bene le lettere. Improvvisamente la giapponese sorrise.
Uscì. Rientrò con una manciata di abiti. Ci misi due ore buone a capire come vestirmi, due ore durante le quali lei mi aiutò (per nulla imbarazzata dalla mia nudità).
Infine, due ore dopo ero vestito di tutto punto.
-Fuori?-, chiese lei. Annuii.
-Non scappa, vero?-, chiese lei. Annuii di nuovo.
-Ho imparato la lezione.-, dissi. Sorrise anche lei. Aveva capito. Mi accompagnò lungo la casa.
Era una tipica dimora giapponese d’altri tempi ma alcune delle camere erano vuote. Ce n’erano sei. Due erano occupate poi c’erano il bagno e l’angolo-cucina.
-Tu dormi con l’uomo?-, chiesi. Lei scosse il capo, per nulla infastidita dalle possibili implicazioni della mia frase.
-Lui non dorme qui.-, disse. Annuii. Quello era un mistero ma d’altronde poteva esserci un’altra casupola che lo ospitasse.
-Puoi portarmi da lui?-, chiesi, -Vorrei parlargli.-. Kukio annui.

Trovammo l’uomo con la maschera da demone poco distante. Sedeva in un giardino con una katana sulle ginocchia, come pensieroso.
-Salve.-, dissi. Ero incerto se inchinarmi o no. Così optai per un cenno del capo.
-Salve. Vedo che stai meglio.-, disse lui. La sua voce pareva provenire da un baratro.
Un brivido mi scese lungo la schiena ma annuii.
-Sì. Sto meglio. Ora’ ci sono alcune cose che dovrei chiederti.-, dissi.
L’uomo indicò una panchina in pietra accanto a sé. Mi sedetti.
-Innanzi tutto, dov’&egrave la mia roba?-, chiesi.
-&egrave tutto nei miei alloggi.-, disse lui. Annuii. Ora ovviamente restava da capire dove fossero i suoi benedetti alloggi’ Ma un problema alla volta.
-Parlavi della Mano come se la conoscessi.-, dissi. Toccò a lui confermare con un cenno del capo la mia ipotesi. Kukio restava ferma, assolutamente calma. In attesa.
-Conosco la Mano. Ho anche combattuto contro di loro, tempo fa. Salvarti era’ un atto dovuto.-, rispose dopo una lunga pausa, -Ma non farti illusioni: io ti ho salvato ma non sono dalla parte di nessuno. Mi batto solo per me stesso.-.
-Capisco.-, dissi. Feci per dire altro ma lui mi interruppe.
-Privo di equipaggiamenti come sei non c’&egrave possibilità che tu vinca, neppure con i tuoi poteri.-, disse l’uomo. Quella frase mi colpì come un pugno. Se fosse stato così’ Ma quell’essere non aveva ancora finito di parlare.
-Tuttavia io posso insegnarti qualcosa. Una tecnica antica come il tempo e letale come una spada.-. Una tecnica. Ci pensai. Seriamente. Allo stato attuale, senza armi né rinforzi, quel tizio era la mia unica possibilità per vincere.
-Accetto. Ma desidero sapere il tuo nome.-, dissi. La maschera demonica assunse un’espressione lieta. Avrei potuto dire che sorridesse eppure c’era qualcosa di malevolo in quel sorriso. Un’ombra che calava su quella scena così illuminata.
-Mi chiamo Ogun.-, disse presentandosi.
-Blade.-, dissi io.
-Bene, Blade. Iniziamo subito, ti va?-, chiese. La domanda pareva più un ordine.
Ma accettai ugualmente.

Seduto sui talloni, in seiza, ad occhi chiusi, aspettavo.
-Scendi dentro di te. Prendi coscienza del tuo corpo. Del tuo intero essere.-, la voce di Ogun mi giungeva da sinistra. I passi di Kukio scandivano il tempo attorno a me.
-Dimentica l’esteriore, affacciati sull’interiore.-, disse Ogun.
Scesi. Quanto più in profondità scendevo, tanto più mi avviluppava una calma innaturale.
O forse, la più naturale delle emozioni.
Percepii tutto me stesso. Poi oltre di me. I passi di Ogun e quelli, molto più silenziosi di Kukio.
Poi lo sentii. Improvvisamente. Un intento, più che un rumore o un’azione. Mi alzai in piedi con un movimento fluido, puntando la mano destra chiusa a pugno e i suoi artigli estratti al collo della giovane. Che brandiva una spada, quella che avevo visto in braccio a Ogun.
-Ottimo.-, disse il maestro. Kukio recuperò la compostezza dopo qualche istante.
-Ora. Chiudi gli occhi e rifai. Ma da in piedi.-, mi ordinò Ogun. Eseguii.
-Apri gli occhi.-, disse lui. Sollevai le palpebre. Vedevo solo il mondo. Così com’era stato prima e com’era ora. Ma lo sentivo in modo differente. Ogun sorrise.
-Ecco. Vedi? Ora senti come sente Kukio.-, disse.
Frasi in giapponese tra lui e lei.
-Kukio dice che deve metterti alla prova. Tu e lei combatterete.-, disse l’uomo-demone.
Annuii. Ordini del maestro.

Non ero propriamente entusiasta di combattere contro una come Kukio, soprattutto considerando quanto era maledettamente più capace di me. Gli ordini però erano ordini.
Ci fronteggiammo in quel paesaggio bucolico. Lei mi diede due secondi per mettermi in guardia. Poi mi attaccò.
Sicuramente, se qualche lettore ricorda lo scontro che ebbi con Flux penserà le due donne siano pari quanto ad agilità e forza. Falso.
Kukio non era fortissima ma era agile come una vipera. Mi costrinse in difesa quasi subito.
Poi prese a tempestarmi di colpi, senza lasciarmi possibilità di attaccare. Colpi corti, scientifici. Mi costrinse ad arretrare. Riuscii a colpirla con rapidità ma non servì.
Ogni suo colpo era doloroso. S’imponeva dove colpire e colpiva. Era bravissima.
Mio malgrado dovevo ammetterlo. Seguii i consigli di Ogun, concentrandomi sulle mie sensazioni e difendendomi. Iniziai a parare. La giovane asiatica vide i suoi attacchi andare sempre meno a segno. E finalmente iniziai a colpire io.
Non fu esattamente facile. Abbandonai l’idea di attaccare coi soli pugni abbracciando invece l’idea di muovermi completamente. Una forma totale invece di una forma frammentata.
Kukio subì un paio di attacchi, poca cosa. Ma la costrinsi a difendersi.
-Basta così.-, disse Ogun. Aveva osservato il nostro duello senza battere ciglio.
-Come sono andato?-, chiesi. Kukio parve sorridere. O forse fu la mia impressione.
-Bene. Ma si può sempre migliorare.-, disse l’uomo-demone.
Annuii. Era vero. Ogun si alzò.
-Ne parleremo dopo pranzo.-, disse. Effettivamente avevo fame.
Entrammo, ci sedemmo e pranzammo. La zuppa era finita ma c’erano delle alghe e del pesce.
Mangiai con appetito, così come i miei anfitrioni.
Dopo pranzo, l’allenamento riprese. E Kukio mise a dura prova le mie capacità, sia a mani nude che con armi bianche. Ogun s’intromise giusto il necessario da consigliarmi.
Quando arrivò il tramonto, sentivo di avere fatto progressi. Forse non enormi, ma progressi.
Tra quello e i miei sensi potenziati, forse avevo una possibilità, ora.
-Dimmi di nuovo, Blade. Perché sei qui?-, chiese Ogun.
-La Mano’ vuole clonare un mutante. Un eroe di nome Wolverine, morto poco tempo fa.-, dissi, optando per la verità. La maschera del demone non si mosse ma potei sentire che quella rivelazione lo aveva sorpreso.
-Wolverine’ Potrebbe tornare?-, chiese.
-Solo come servo della Mano. Un insulto alla sua memoria. Ma tu, come lo conosci?-, chiesi.
-L’ho addestrato io. In parte. Logan era un guerriero nato. Avrebbe anche potuto salvarsi ma scelse di non farlo.-, disse Ogun. Ora entrambi sembravamo persi in un tempo diverso.
E in qualche modo, Logan ‘Wolverine’, l’uomo che avevamo conosciuto era, seppur per un solo istante e solo nelle nostre menti, lì. Insieme a noi.
-Era un grande uomo.-, dissi. Nessuna risposta.
-Sicuramente non rendeva le cose facili a nessuno.-, disse infine Ogun, -Neanche a sé stesso.-.
Annuii. Era vero. Mi alzai per andare in camera mia. L’indomani sarei partito, che loro lo volessero o meno. Avevo già temporeggiato sin troppo.

Il letto era comodo ma per qualche ragione non riuscivo a dormire.
Troppe domande affollavano la mia mente, più delle risposte.
Chi era Ogun? Perché sembrava sapere così tanto su di me? Perché riusciva sempre a dare la giusta risposta per trattenermi in quel suo eremo? E che ruolo giocava in tutto questo la ragazza, Kukio? Volevano davvero aiutarmi? O volevano solo trattenermi lì?
In tal caso, non lo avrei permesso. Le mie percezioni erano acuite quanto bastava da permettermi di rivaleggiare con lo stesso Logan. Se avessero voluto avvelenarmi lo avrei percepito, in qualche modo. Allora cos’era? Perché trattenermi lì? Ogun lavorava per la Mano? No. Improbabile. Se così fosse stato mi avrebbe ucciso sin da subito. A meno che’
A meno che il piano della Mano non fosse quello di ritardarmi fino ad avere Wolverine pronto. E in tal caso, probabilmente stava funzionando. O almeno, avrebbe funzionato.
A meno che io non mi fossi alzato e non avessi deciso di andarmene proprio in quel momento.
Il mio cellulare era tutto quello che mi premeva recuperare. Sapevo che era lì, doveva.
Se Ogun avesse lavorato per la Mano, una mossa logica sarebbe stata quella di analizzare i miei contatti, farsi un’idea del mio rapporto con lo S.H.I.E.L.D. e cercare punti deboli.
Io lo avrei fatto, fossi stato in lui. Ma era anche vero che queste erano solo congetture.
Di certo sapevo che la Mano era tosta e disponeva di molti, troppi effettivi.
Di certo Ogun e Kukio erano versatissimi nelle arti ninja, forse quasi quanto quelli della Mano.
Di certo tutto questo era vero. Ma restavano molte, troppe congetture, troppi dubbi.
Agire. L’azione era la sola misura della verità, ne ero convinto.
Agire era la mia sola possibilità. Mi alzai senza fare rumore alcuno.
Feci scivolare lo shorii, (porta-parete in carta di riso tipica delle case giapponesi) tra gli infissi, senza produrre suono. Ero un fantasma. Sorrisi.
‘E ora, il mio cellulare.’. Mi sforzai di ragionare come avrebbero ragionato Ogun e Kukio. Doveva essere tra i possedimenti dei due. Quindi in una delle loro stanze, al sicuro e sorvegliato. Non sarebbe stato facile riprendermelo. Ma avevo un enorme vantaggio: ero furtivo come un fantasma. Potevo farcela.
Decisi di iniziare dalla camera di Kukio. La trovai dopo pochi istanti. Il giro della casa che avevo fatto mi aveva dato modo di memorizzare dove dormisse la giovane.
Camminavo a piedi nudi per non fare rumore. Aprii appena la porta-parete della camera della giovane, quanto bastava da permettermi di passare.
Entrai. La giovane dormiva supina, bellissima anche nel sonno. Mi sorpresi a pensare che quella bellezza fosse sprecata lì, in quel luogo fuori dal tempo. Poi tornai serio. Dovevo agire e in fretta. Perquisii metodicamente un cassettone in modo tremendamente silenzioso. Niente.
Mi sforzai di ragionare. Dove diavolo poteva essere?
Mi mossi nel totale silenzio, minimizzando il respiro sino a quasi non inspirare. Ero quasi in apnea. Arrivai a un altro mobile. Quello che pareva un baule. Lo aprì. Cigolò. ‘Cazzo!’.
Ma non sentii alcun movimento dalla direzione in cui era la giovane addormentata.
Tirai un sospiro di sollievo mentale e ripresi a concentrarmi sul contenuto del baule.
Eccolo! Sorrisi. E solo allora sentì un braccio tirarmi indietro la nuca e un coltello appoggiarmisi sulla gola.
Evidentemente Kukio non era così assopita come avevo amato credere.
-&egrave maleducato guardare nelle cose di una donna.-, disse. Nient’affatto intimorito dal pugnale, risposi con una freddezza atroce.
-Ascoltami bene, cocca. Puoi fare due cose. La prima &egrave darmi il mio cellulare e lasciarmi andare. La seconda &egrave tagliarmi la gola, scoprire che &egrave inutile e rimpiangerlo per il poco tempo che ti resterà. Cosa scegli?-, chiesi. Esitazione. Improvvisa. La percepii a un livello primordiale.
Sfruttai quell’istante per afferrarle il braccio, allontanare appena il coltello dalla gola e prepararmi a proiettarla. Mi incise la carne del mento col Tanto. Poco male. Avevo ancora il suo braccio in mano’ O così fu finché non mi tirò un pugno al collo. Crack! Le cartilagini rischiarono di cedere. Sputai sangue.
Mi girai e sguainai un artiglio. Evitò l’attacco e colpì l’articolazione. Espirai. Evitai una serie di fendenti. Poi la disarmai. Non era uno scontro equo. Lei era bravissima. E io’
Beh, non ero al mio massimo. Lo ammetto tranquillamente.
Kukio roteò eseguendo un movimento che pareva tratto dalla capoeira. Ruota su una mano con calcio al mento del sottoscritto. Vestita di una leggera sottoveste, atterrò poco lontano. Prese una spada dal muro.
-Ok.-, dissi. Stavolta non mi sarei arreso.
-Perché non vuoi capire?-, chiese.
-Perché non mi state aiutando a farlo!-, esclamai, -Chi &egrave davvero Ogun? Per chi lavorate? E perché mi state trattenendo qui?-, chiesi. Me ne fregai del fatto che poteva non aver capito qualche domanda. Ma la giovane abbassò la spada.
-Lavoriamo per noi stessi e la Mano ci &egrave nemica.-, disse la giovane, -E non ti stiamo trattenendo. Ma addestrando.-, precisò poi. Mi indicò qualcosa con un dito. Una spada.
-Battimi e potrai andartene e guadagnerai il mio aiuto. E forse quello di Ogun.-.
Annuii. Presi la spada mettendomi in Chudan-Gamae, guardia standard, la spada volta a formare l’ipotenusa di un triangolo i cui vertici erano i miei occhi, il mio centro e la punta della mia arma. Poi Kukio attaccò. Colpì in Jodan-Gamae un fendente dall’alto verso il basso. Evitai l’attacco rispondendo con una stoccata che lei deviò agilmente. Era brava. E bellissima.
Schivai un fendente che avrebbe potuto comodamente sventrarmi. Retrocessi con un tenshin (giravolta) che protessi con un fendente. Tipica mossa dei Kata di spada insegnati in Aikido.
Lei e io ci trovavamo nella stessa posizione, Jodan-Gamae, spada sollevata sopra la testa, pronti a colpire. Occhi negli occhi e sguardo perso ad analizzare l’avversario, a cercare ogni debolezza da sfruttare. Ma non ne trovai. Così mi preparai all’attacco finale, quello che mi avrebbe annientato. Avevo puntato tutto e avevo perso. Ero pronto a morire.
Il mio solo rimpianto era di morire tanto invano.
Ma improvvisamente, Kukio rinfoderò la spada. Io mi limitai ad abbassarla, non senza stupore.
Silenzio assoluto. Sentivo il peso della katana come ovattato. Tutto era avvolto da una cortina di stupore, di totale meraviglia per quel momento.
-Hai superato la prova.-, disse lei. Io non capivo. Rimasi immobile dov’ero. Poi lei si avvicinò, prese il mio cellulare e me lo diede. Mi sorrise.
-Non era per questo che eri qui?-, chiese. Io annuii. Lo presi.
-Domani all’alba partiremo. Manca’ un’ora. Forse due.-, disse la giovane. Non sapevo che dire. Neppure volendo. Vuoto assoluto nella mia mente. Non capivo proprio come avevo superato quella prova. Eppure Kukio pareva convintissima del mio valore.
Possibile che mi stesse ingannando ancora? La guardai. No. Non sembrava proprio.
-Vuoi restare? Io ho riposato abbastanza.-, disse lei.
-&egrave che’ era tutto un test?-, chiesi. Ero confuso oltre ogni dire.
-Sì.-, rispose lei con semplicità. Nessun’altra parola. Sì e basta.
-Perché’ perché adesso?-, chiesi.
-Perché non tutto si può’-, si fermò, cercò la parola adatta, -Simulare.-.
-Capisco.-, in realtà molto mi era ancora oscuro come la notte stessa ma andava bene così.
Non avevo bisogno di capire. Solo di decidere. E la decisione era banalmente semplice.
Avrei accettato il suo aiuto. Era la sola possibilità che avevo per affrontare la Mano al meglio.
-Sei americano?-, chiese lei improvvisamente. Era seduta sul letto. Assolutamente calma.
-Sì. Di New York.-, dissi.
-Ah’ sulla costa?-, chiese. Sorrisi e annuii. ‘E tu?-, chiesi.
-Io vengo da Hokkaido.-, disse lei, -Mio padre e mia madre erano pescatori. Gente’-, altra pausa alla ricerca della parola giusta, -all’antica.-.
-Capisco. Non dev’essere facile. Insomma’ col Giappone che cerca di diventare sempre più moderno’-, dissi. La giovane annuì. No. Non era facile, lo vedevo.
-Mio padre mi ha detto che non sono abbastanza bella per diventare moglie di qualcuno importante. Così mi ha mandata dai miei parenti su queste montagne. La Mano li ha uccisi e Ogun mi ha preso con sé.-, disse lei. Era vero? Non lo era? Mi accorsi che non m’importava quasi più di tutto ciò. Forse stavo semplificando troppo ma la verità era che tutto quanto si riduceva a me e alla mano. Lo scontro finale.
-Mi spiace. Per me sei bellissima.-, dissi. Non era una bugia, lo pensavo davvero. E Kukio se ne accorse. Sorrise e io sorrisi a mia volta.
-Lo pensi davvero?-, chiese. Annuii, serissimo.
-Ne sono convintissimo.-, dissi. Lei sorrise di nuovo. Forse un po’ imbarazzata da quel complimento così grande. Poi abbassò gli occhi.
-Ho ventiquattro anni e non ho mai avuto un ragazzo’ Tutti troppo impegnati a scegliersene un’altra.-, disse. Io annuii. Era un po’ anche la mia storia, almeno in parte.
-Blade’-, s’interruppe, come timorosa. Io attesi, senza volerla forzare. Se avesse voluto avrebbe parlato, oppure se ne sarebbe stata in silenzio. Ma non ero indifferente come amavo credere. La volevo? Sì. Decisamente sì. Attesi, lasciando che il silenzio stillasse tra noi.
-Tu credi’ che’-, pausa. Si fermò improvvisamente. Come timorosa di continuare, o forse desiderosa di riformulare una domanda la cui enorme importanza richiedeva la giusta forma.
-Questa notte’ queste ore potrebbero essere le ultime. Per tutti e due.-, dissi io, -Se devi dire qualcosa trovo sia importante che tu lo faccia ora. Perché una volta finita questa notte andremo verso un giorno sanguinoso che ci vedrà vittoriosi o cadaveri. Se devi parlare dunque, parla.-. Lei parve concentrarsi. Annuì.
-Tu’ vorresti’-, altra pausa. E poi un sospiro, -Essere il mio uomo? Solo per questa notte?-.
Il mio membro percepì quella richiesta e subito si erse fiero, manco avesse avuto orecchie proprie. Io mi limitai ad annuire. Mi sedetti accanto a lei.
La abbracciai. S’irrigidì. Prevedibile, soprattutto perché in larga parte stavo portando la sua fantasia nella realtà con la rapidità di un jet. Potendo avrei preso il tempo.
Ma non ce n’era, lo sapevamo entrambi. Quindi dovevo travolgerla, anche perché così avrei avuto modo di spezzare le sue difese. Anche se allo stesso tempo avrei lasciato cadere le mie.
Il sesso da quel lato era un compromesso. Due nemici, due sconosciuti potevano fare sesso, ma avrebbe implicato smettere di essere tali. Per un istante.
-Lasciati andare.-, le sussurrai all’orecchio, -Baciami.-. Era un ordine.
-Non so se sarò’ brava.-, disse. Le sorrisi guardandola in faccia, scolpendomi nella memoria i capelli corvini, gli occhi leggermente a mandorla, il viso così bello.
-Sarai perfetta.-, dissi. E la baciai. Il primo bacio era sempre timido. Nel caso di Kukio fu spaventato, esitante e permeato da una corrente elettrice che era eccitazione pura. La giovane si staccò dopo qualche istante. Pareva scioccata.
-Rilassati.-, dissi. Scesi baciandole il collo. Lei gemette. Non c’era abituata.
-Blade’-, sussurrò. La ignorai, continuai. Farla crollare. E regalarle il miglior momento della sua vita, quello era il mio obiettivo adesso.
-Blade’ io’-, pausa. Stavolta dovuta al fatto che i miei baci avevano iniziato a lambire la radice del collo e poi a tornare su dal lato opposto, -Ti voglio.-, disse.
Eccola! Eccola lì! Smisi di baciarla.
-Anche io.-, dissi. Lei mi baciò di nuovo. Meno esitazione, più decisione e più passione.
Giocava con le mie labbra con timore di far male ma stava migliorando. Mi accarezzò il petto, cercando i lacci del mio kimono mentre io facevo altrettanto col suo.
Trovò i lacci e prese a sciogliere i nodi uno a uno, proprio mentre io facevo lo stesso, quasi fosse stata una gara. In realtà, se lo era lo era solo per lei. Intendevo lasciarla vincere.
Mi denudò il petto proprio mentre io rimuovevo con gentilezza la parte superiore delle sue vesti da notte. Il suo seno era piccolo ma sinceramente delle dimensioni m’importava poco.
Presi ad accarezzarlo, a leccare i capezzoli. Kukio gemette, smozzicò una frase.
-Oh, sì’ così.-, sussurrò. Mi accarezzò il petto, le spalle, scese fino al bassoventre.
-Ti voglio.- disse nuovamente. La baciai, finendo di spogliarla lentamente mentre lei spogliava me. Eravamo eccitatissimi. Sapevo che non sarei potuto resistere a lungo. La giovane, abbastanza priva di esperienza, accarezzò il mio membro con la mano.
-Aspetta.-, le dissi, -Sdraiati.-. Eseguii, sdraiandosi supina. Iniziai baciandola poi scivolai lungo il suo corpo come un serpente, leccando ogni punto che poteva essere anche solo lontanamente fonte di piacere. Mi soffermai più a lungo sui seni e i capezzoli della giapponese che, come constatai una volta giunto a contemplare la sua vulva leggermente celata da una peluria non esattamente rada, era eccitatissima. Presi a leccarle le grandi labbra, penetrando appena tra esse. Quando trovai il clitoride, Kukio si sciolse. Letteralmente.
-Dentro’ dentro! Ti prego’-, esclamò. La accontentai lentamente, rompendo l’imene con un singolo, rapido colpo di reni. Un Tameshigiri, rapido e relativamente indolore.
Presi a dettare il ritmo, prendendo la giovane giapponese per i fianchi e iniziando a entrare e uscire. Kukio gemeva, smozzicando frasi in giapponese il cui significato mi era noto per mera esperienza in tali situazioni. Sorrisi.
Quando venni sentii che anche lei godeva. Mi stesi accanto alla giovane per dormire il poco tempo che ancora potevamo. Lei mi grattò la schiena, come disegnando una figura. Sorrisi e la baciai, rimandando ogni preoccupazione al domani.
Il mio addestramento era finito. L’indomani avremmo visto se tutto ciò che avevo fatto era servito a qualcosa.

La Mano nasconde molti segreti. Nessuno sa da quando esista, chi sia a capo della loro organizzazione o dove si trovino le loro basi. Almeno, non tutte.
Io avevo una mezza idea di fosse una di quelle basi. E come Kukio mi confermò, la base era esattamente dove immaginavo, poco distante dal punto dove la mia squadra era stata attaccata. Ma preferirei che la narrazione procedesse con ordine, dunque…

Dopo il nostro amplesso era passata un’ora appena di sonno. Pochissimo. Ma era pur vero che avevo passato notti ben peggiori… Io e Kukio facemmo una brevissima colazione e partimmo.
Notai che la giovane indossava la maschera di Ogun.
-E quella?-, chiesi. Lei mi fissò. Probabilmente stava ancora cercando le parole.
-Porta fortuna, ha detto Ogun.-, disse. Io annuì. La fortuna ci sarebbe servita non poco.
Soprattutto considerando l’enorme svantaggio numerico tra me e Kukio e l’infinità di Ninja non-morti che ci saremmo trovati ad affrontare.
Poco ma sicuro la mente di tutto quanto, il tizio a capo dell’operazione per clonare Logan doveva essere una faccenda a parte. Un essere malvagio e potente, se consideravo tutto quanto. La morte dei miei compagni, della squadra inviata dallo S.H.I.E.L.D. suggeriva cautela ma la verità era che il tempo non era a mio favore. I giorni passati a languire e a riprendermi erano stati sufficienti a permettere alla Mano di raggiungere il suo scopo? Forse.
E se così fosse stato, avrei fallito. La Mano avrebbe vinto. Ed avrebbe esteso il suo dominio su tutta l’umanità. Scossi il capo, focalizzando la mia attenzione sul presente.
Avrei impedito quell’orrore. O sarei morto provandoci. Nessun’altra opzione mi era data.
-Lì.-, disse Kukio. Indicava una fenditura nella roccia. Ci infilammo dentro di essa.
-Ok. Ora, se ho ragione dovremmo sbucare dall’altro lato. Spero non in mezzo ai Ninja.-, dissi.
La giovane non rispose. Infine arrivammo dall’altra parte, eravamo in piedi su quello che era una sporgenza. Davanti a noi si ergeva un tempio, solitario e maestoso. Una pagoda, isolata dal resto del mondo. Non avevo dubbi che quella fosse la base della Mano.
E qualora ne avessi avuti, mi furono strappati dalla vista dei Ninja. Erano in molti.
Almeno una quarantina. All’esterno. E all’interno della pagoda? Quanti sarebbero potuti essere? Non lo sapevo e mi accorsi che non importava, perché avevo trovato un modo per entrare. Diedi di gomito a Kukio. La giovane seguì il mio sguardo. La nostra posizione dava sul bosco sottostante. Perfetto per muoverci furtivamente, e per limitare il vantaggio di quei maledetti non morti. C’intendemmo a gesti e balzammo di sotto.
Atterrammo qualche metro più in giù, perfettamente in piedi. Poi li sentii. Passi. Rumorosi.
Due Ninja avevano deciso di controllare la situazione. Forse non ci avevano visti, altrimenti sarebbero stati ben di più.
Ora, essendo morti e resuscitati da qualche empia magia, quei ninja non provavano paura, le loro tecniche erano perfette, o pressappoco. Erano furtivi come gatti e capaci di camminare su un pavimento cosparso di vetri senza fare il benché minimo rumore.
Ma ovviamente c’erano anche degli svantaggi. Quando si torna dalla morte, generalmente ci si presuppone abbastanza tosti da essere invincibili e se una simile convinzione mette radici, alla fine si ignoreranno diversi segnali importanti. Peggio ancora, esclusi gli occhi, i Ninja avevano uno scarso udito oltre a un olfatto pressoché inesistente.
Erano, da quel punto di vista, la preda perfetta.
Ci oltrepassarono senza vederci. Eravamo sopra gli alberi.
Cademmo letteralmente sui due ninja, abbattendoli da sopra. Ritrassi gli artigli. Mi era venuta un’idea. La dissi a Kukio. Ci misi qualche minuto ma infine la giovane si convinse.

Le vesti dei Ninja calzavano quasi a pennello. Tuta aderente sotto una toga rossa con i kunai e le shuriken appese. Katane appese sulla schiena (o meglio, una Katana e un Wakizashi).
“In un evento a tema sarebbero perfette”, pensai. La verità era che era possibile che i non-morti capissero subito che non eravamo dei loro. D’altronde l’alternativa sarebbe stata l’introduzione furtiva o l’assalto a testa bassa (quest’ultimo particolarmente sconsigliabile).
Uscimmo dal bosco. Gli altri Ninja non chiesero nulla. Sorrisi. Fin lì era stata facile.
Il difficile sarebbe arrivato presto, lo sapevamo entrambi. Non potevamo certo aspettarci che la sorpresa durasse in eterno.
Entrammo. La pagoda pareva piccola ma in realtà era vastissima (una distorsione spaziale dovuta alla magia, sicuramente). E dentro era piena di stramaledettissimi ninja. Ce ne saranno stati un centinaio. Ma soprattutto, lo vidi in quell’istante, un officiante con una cappa rosso sangue e il viso coperto, parlò con voce antica. Pareva che mille uomini parlassero attraverso la sua bocca ma era certamente anziano poiché il tono che più emergeva era quello di un vecchio, di un vegliardo. Un male antichissimo, come la Mano stessa.
“Avevo sentito dire che i capi della Mano sono immortali, che hanno vissuto per millenni. Dio sa quanto ci ho riso quel giorno e ora…”, il pensiero mi attraversò la mente con la rapidità di un lampo quando il sacerdote prese a parlare.
-Miei fratelli! Oggi abbiamo ottenuto il risultato che speravamo! Grazie ai nostri sacrifici, abbiamo l’arma che ci permetterà di piegare l’umanità al nostro volere. Vi presento Arma X.-, a un cenno del sacerdote, fu portato alla luce delle torce. Era vestito come uno di loro ma gli artigli (ossei, come i miei) e la stazza non potevano ingannare o mentire.
La Mano ce l’aveva fatta. Wolverine era stato clonato e ora era un loro burattino.

Trattenni il fiato un istante, pensando che fosse impossibile, che fosse solo un incubo…
-Finalmente siamo pronti a reclamare ciò che ci spetta. Il dominio che le forze della luce ci hanno negato tanto a lungo sarà nostro, fratelli!-, esclamò il vecchio.
“No. Non lo permetterò!”, vidi Kukio armeggiare con la propria veste. “Ma cosa?”.
Poi accaddero diverse cose simultaneamente.
Kukio afferrò la maschera di Ogun.
Io impedii a uno dei Ninja di afferrarmi e gli stampai un pugno con artigli in piena gola.
Gli altri Ninja ci attaccarono.
Kukio schiaffò la maschera di Ogun sul viso di un Ninja e il non morto prese a combattere i suoi simili con un abilità che consideravo innaturale persino per quegli esseri.
Improvvisamente non eravamo più due contro cento ma tre contro novantanove.
Evitai una spada, schivai un nunchaku e decapitai un nemico con la katana che avevo estratto prima di parare un altro fendente. Anche Kukio pareva in difficoltà. L’unico che se la cavava era il ninja con la maschera di Ogun. Rideva selvaggiamente nel tono dell’uomo che mi aveva ospitato, la spada continuamente in movimento, ogni parata il preludio a un nuovo movimento. Ogni attacco concatenato. La perfezione di quello stile era… Assoluta.
Neppure un mio vecchio maestro di Kendo aveva quella fluidità di movimento.
Improvvisamente, mentre abbattevo qualcosa come il quindicesimo ninja, capii. La maschera era Ogun, non l’uomo che la portava.
Logico. Kukio l’aveva portato lì come rinforzo. Non me l’aveva detto però. C’era sotto qualcosa.
Archiviai quella domanda conficcando la lama spezzata della mia spada nel petto di un altro avversario e schivando un nunchaku. Non riuscì a evitare un sai che mi strappò la veste disegnando un taglio cremisi sul mio petto. Colpii di risposta e trapassai il cranio del Ninja che si sfaldò in cenere. Punito.
Kukio era una furia. Aveva ferite lungo le braccia (tutti tagli poco importanti ma tutti assieme fanno un gran bel problema) ma non cedeva. Abbatteva i Ninja con colpi rapidi ma privi della fluidità del Ninja-Ogun, il quale aveva momentaneamente finito i Ninja e si era lanciato sul vecchio sacerdote, che tentò di dissuaderlo dicendo qualcosa che andò perso nel clamore generale. Poi la lama di Ogun calò abbattendosi sul collo dell’anziano.
La morte del loro leader parve spezzare qualcosa nei seguaci della Mano che subito presero a disperdersi. Non lo fecero rapidamente e tutti assieme, fu una rotta. I più cercarono una morte da guerrieri e morirono rapidamente e senza riuscire a vendicare i loro caduti.
Altri invece semplicemente balzarono verso le uscite più vicine. Non avevo dubbi che sarebbero tornati al resto della Mano (posto che vi fosse ancora un resto della Mano a cui tornare). Era finita. Restava solo il Logan-clone, immobile, come inebetito.
Kukio sanguinava da una decina di ferite. Non ne avrebbe avuto per molto.
-Ogun!-, esclamai, -Kukio è ferita, le serve aiuto!-. Il Ninja-Ogun non badò minimamente a me.
Anzi si avvicinò al clone di Wolverine, toltosi la maschera, la mise al clone.
La replica dell’uomo che mi aveva dato modo di divenire ciò che ero si fissò le mani, mosse un paio di passi. Poi scoppiò a ridere con la voce di Ogun stesso.
-Oh, Blade… povero, stupido, Blade.-, disse, -Pensi che io abbia fatto tutto questo a gratis? Pensi che io abbia agito per puro altruismo o mero desiderio di vendetta? Idiota!-, esclamò.
-Già. Immaginavo che non eri esattamente mosso dal più puro degli intenti.-, ammisi.
Studiai la situazione. Il corpo di Wolverine nelle mani di un combattente del calibro di Ogun significava che sarei potuto morire. Molto in fretta. Ma lasciar andare Ogun avrebbe significato permettergli di compiere ciò che era stato impedito alla Mano.
Nessuna scelta, nessuna vera scelta. Sguainai gli artigli. Snikt!
-Non penserai davvero di potermi fermare, Blade? Sono Ogun, il signore delle lame, morte fatta carne. Sono il mostro che temevi quando eri ancora bambino.-, rise il demone.
-Si dà il caso che io sia cresciuto.-, ribattei.
-Capisco. Allora… vinca il migliore.-, sussurrò Ogun. Poi si lanciò contro di me.
Evitai i primi due attacchi. Cercai un’apertura, attaccai protendendo il braccio destro. Contrattaccò. La mano destra subì un taglio fortunatamente marginale.
Balzai all’indietro ma non abbastanza in fretta da evitare un taglio che mi intaccò il ventre.
Ero letteralmente ricoperto di ferite. Mi tenevo in piedi per forza di volontà, sospinta dalla consapevolezza di cosa sarebbe successo se non fossi stato in grado di fermare quel maledetto di Ogun. Gettai uno sguardo a Kukio. Pareva svenuta. O morta. Possibilissimo.
Rimanevamo solo noi, dunque.
-Blade. Non deve finire così. Pensaci? Cos’ha mai fatto questo mondo per te? O per lui? Wolverine sapeva bene quanto infame fosse la gente. Non meritavano il suo sacrificio e neppure il tuo.-, disse il falso Logan. Scossi il capo, più per scacciare il sospetto che parte delle sue affermazioni fossero vere, che per altro.
-Logan lo sapeva. E anche tu. Non negarlo, per lo S.H.I.E.L.D. tu sei solo un altro numero, l’ennesimo milite ignoto da mandare al macello.-, continuò Ogun.
“Parla, parla. Intanto mi riprendo”, pensai fingendo di temporeggiare.
-E tu cosa mi offriresti?-, chiesi a denti stretti.
-Ciò che desideri! Il mondo è grande. A me basta il Giappone e forse la costa cinese… magari Taiwan… È così che era, all’inizio, quando io ero qualcosa di più che questo.-, rispose.
-Ciò che desidero…-, ponderai quelle parole. Non potevo negare che quella promessa avesse una certa attrattiva su di me. Un mondo in cui i mutanti fossero rispettati…
-Blade, tu meriti di meglio.-, disse Ogun. Quello era vero, in modi che forse quel pazzo non capiva. Meglio così. Sorrisi. Mi ero ripreso.
-Sai, hai proprio ragione.-, dissi. Individuai una spada. Giaceva ai miei piedi.
-Merito di meglio!-, esclamai sollevando l’arma col piede e calciandogliela addosso. Gli artigli in osso di Logan-Ogun la ridussero a schegge. Ne approfittai per avvicinarmi e colpii trapassando il braccio di Ogun con gli artigli della mano destra. La sinistra puntò al petto.
Il bastardo reagì. In fretta. Forse anche troppo. Tranciò di netto la mia mano sinistra, staccandola dal polso. Mi afferrò con l’altra.
-Povero stupido!-, esclamò lanciandomi verso la parete di fondo.
-Neanche immagini il potere che rifiuti.-, disse. Sorrisi. Su questo si sbagliava. L’avrei rifiutato, sino alla fine. E anche oltre. Perché potevo anche non essere un eroe ma non sarei mai stato così canaglia, mai sarei sceso tanto in basso. Caddi in ginocchio tra i Ninja in polvere e i pezzi di armi. La mano sinistra si stava rigenerando, la destra si era fratturata con l’impatto.
“Avanti… guarisci!”, imprecai mentalmente contro quel fattore rigenerante tanto debole.
-È finita, Blade.-, disse Ogun. Afferrò una katana da terra.
“È finita per davvero. Sono esausto. Dovrei strappargli la maschera ma… con quali forze?”.
Ero fottuto. E lo sapevo. Il peggio era che con me, era fottuto anche il resto del mondo.
Espirai. Un espiro controllato mentre mi preparavo a un ultimo e inutile tentativo.
Mi sovvennero alla mente tutte le persone a me care. Flux, Zhara, persino Lisa Huntington.
Visualizzai la mia morte. La accettai. Nel momento della fine, cosa si può fare se non morire e possibilmente farlo in pace con sé stessi? Ogun sollevò la spada.
Contemplai la fine. Espirai. Pronto a scattare. Ogun sorrise. Calò la lama. E improvvisamente si fermò, un’espressione di muto dolore aleggiò nell’aria. Si voltò fendendo l’aria con la spada.
Kukio, o meglio la sua testa, cadde con uno sguardo vacuo.
Si era sacrificata. Per ragioni che non capivo. E che nemmeno volevo capire, almeno non ora.
Ora una sola cosa contava. Proprio mentre si girava, mi gettai sul Wolverine-Ogun.
Piantai gli artigli nella guancia destra dell’essere, usandoli come leva per strappargli la maschera. Ogun urlò di rabbia, di perdita mentre veniva scalzato.
Ora restava solo la furia di Wolverine, inumana, animalesca. Ma decisamente meno letale della precisione guerriera di quell’essere che aveva posseduto quel corpo.
Schivai un attacco e sentii gli artigli di osso trapassarmi la gamba destra. Dio, ero stanco.
Gli artigli mi strapparono la gamba come fosse stata di cartone. Urlai ferocemente mentre affondavo i miei artigli. Nuca, collo, petto. Ovunque. Wolverine doveva morire, di nuovo.
Era meglio per tutti noi.
Un braccio del clone partì per la tangente. “Niente scheletro d’adamantio, eh?”.
Un suo fendente alla cieca mi apre uno squarcio all’altezza dell’addome. Siamo entrambi ridotti malissimo, sanguiniamo da mille ferite e più. Ma continuiamo a batterci.
Perché ormai ci resta solo questo. L’intero universo ridotto allo scontro, non alla vittoria o alla sconfitta, ma al combattimento semplicemente. Ringhiai.
Colpii alla gamba sinistra mentre lo trapassavo al petto. Sentii i suoi artigli trapassarmi le spalle. Dolore fulminante. Per un momento avrei voluto cedere. Ma non potevo. Non ancora.
Prima avrei dovuto finire. Poi sarei anche potuto crepare.
Affondai gli artigli nel suo cranio. Sentii un rantolo. “Ci siamo! È alla frutta!”.
Ma lo ero anche io. Sanguinavo da più ferite di quante potessi contare.
Trapassai il clone di Logan un’ultima volta, dalla nuca con gli artigli che praticamente gli affondarono nel cervello. Lo sentii morire.
Poi crollai, sdraiato sulla schiena. Cercai a stento il cellulare. Miracolosamente era ancora carico e funzionava ancora. Feci il numero a fatica. Ero esausto, persino digitare un numero mi costò una fatica inumana. Stavo scivolando nell’incoscienza.
-Huntington.-, rispose Lisa.
-Lisa… sono Blade. Wolverine è morto. Sbrigati a mandare qualcuno qui per prelevarne i pezzi. Non so per quanto rimarrà tale.-, dissi. Dolori ovunque, fitte strazianti mi impedirono di proseguire. Non ascoltai la risposta di Lisa. Scivolai lentamente nell’incoscienza, incurante di ciò che sarebbe potuto succedermi.

Una mano mi scosse leggermente, o almeno così credetti, un’era geologica dopo.
La cappa di dolore che mi avvolgeva pareva sparita. Eppure mi sentivo esausto.
-Blade, alzati.-, disse una voce. Imperante ma calma. Femminile. Pareva proprio…
Aprii gli occhi con uno sforzo disumano, ritornando alla realtà con lentezza mentre riprendevo consapevolezza del mio corpo. Lisa Huntington mi sorrise.
-Hai fatto un ottimo lavoro.-, disse. Sorrisi o ci provai. Solo allora notai che il mio braccio era ricresciuto. E che non ero nella pagoda, bensì in una stanza d’ospedale.
-Quanto tempo…?-, chiesi con voce rauca. La gola pareva foderata in cartavetro.
-Trentasei ore. Iniziavo a temere che non ti saresti più svegliato.-, disse Lisa.
“Trentasei ore… Che fine ha fatto il clone?”, la domanda mi angosciò. E Ogun?
-Il clone è morto. Un difetto nel fattore rigenerante, credo. C’era anche una ragazza e un sacco di cenere, oltre a una maschera che… beh, diciamo che vorrei mi spiegassi com’è andata.-, disse la Huntington, indovinando le mie preoccupazioni e parlando con meno autorità del solito. Io sospirai. Annuii. Ci sarebbe voluto del tempo. Lisa mi porse bicchiere d’acqua. Ne bevvi tre di fila. Poi iniziai a raccontare.
Raccontai tutto quanto in poco meno di un’ora, senza tacere nulla. Confessai che c’erano diverse cose che non capivo, l’aiuto di Ogun, quello improvviso e fatale da parte di Kukio…
Mi sfuggivano molti, troppi dettagli ma una cosa la sapevo. Sapevo cos’avrei fatto.
-Comunque la crisi è finita. La Mano dovrà rinunciare al suo progetto di un Wolverine personale e tu hai fatto un ottimo lavoro.-, disse Lisa.
Sorrisi. Ero bravo e, in assenza di Logan, il migliore in quello che facevo.
Anche quando quel che facevo non mi era chiarissimo. E improvvisamente ebbi un’idea. Il genere di idea apparentemente folle ma che potrebbe essere geniale.
-La maschera.-, dissi. Lisa mi guardò, stupita.
-La prendo io. Il resto è tutto vostro, potete tenervi anche i miei soldi ma la maschera, quella è mia.-, dissi. Non avrei accettato un no come risposta. La Huntington lo capì.
-Basta che tu non faccia idiozie.-, disse. Sorrisi. Non intendevo farne.

Uscii dall’ospedale il giorno dopo. Presi la maschera di Ogun.
-Andiamo Blade, non fare minacce che non puoi mantenere.-, disse, -Non posso essere distrutto e lo sai bene.-. Sorrisi. Ancora non aveva la minima idea di ciò che avevo in mente.
-Hai ucciso Wolverine, sei stato bravo. Pensa per un istante a ciò che tu e io potremmo realizzare.-, disse ancora. Non stava implorando, molto dignitoso da parte sua.
-Ma ci penso, Ogun. Molto.-, dissi. Era vero. Avevo dei piani per quella maschera.
Pensavo anche al fatto che aver ucciso il clone di Wolverine doveva significare qualcosa di più che un mero sfoggio di abilità marziale o almeno lo speravo. Pensavo significasse qualcos’altro, di meglio. Un dono per il mondo e un modo per salvaguardare l’immagine di un uomo che aveva cercato di essere migliore. E che era morto riuscendoci.
-Allora sicuramente capirai cosa intendo! Pensaci, saremmo inarrestabili!-, Ogun ormai parlava a briglia sciolta, cercava disperatamente di allargare una breccia che credeva prossima. Ma si sbagliava. Arrivai a casa, presi alcune cose e uscii.
-Vedi, Ogun, ho capito qualcosa della tua maschera. Ti permette di controllare chi non ha volontà, come ad esempio i Ninja della Mano o un clone ancora inebetito. Ma… mi chiedo, come te la caveresti contro di me. E ora non sono in punto di morte. Se io adesso indossassi la maschera… potrei essere io a usare te.-, dissi. E finalmente, la voce del demone tacque.
Interessato, offeso, o semplicemente desideroso che io lo facessi, che gli dessi una possibilità di prendersi il mio corpo. Arrivai al piazzale.
-Pensi veramente che io mi lascerò usare come l’ultimo degli schiavi?-, chiese caustico Ogun.
-Penso che preferirai essere usato da me piuttosto che venire distrutto definitivamente.-.
Non attesi la sua risposta. Misi la maschera. Silenzio, vuoto. E poi, improvvisamente, eccola. Quella fluidità di movimento che aveva lui, forse non uguale ma simile, più di quanto pensavo.
Sorrisi. Mi centrai come mi aveva insegnato. E prendendo in mano il bokken che avevo preso da casa iniziai a tirare fendenti, ogni colpo concatenato, sorrisi.
-Se credi che basti così poco, sei un illuso.-, disse Ogun. Sorrisi senza curarmene.
-Ogun, tu sei un guerriero, come me. Non ti sto offrendo un’alleanza, il mio è un ricatto bello e buono. Ma trovo che questa sia la degna punizione per la morte di Kiuko.-, dissi, -Inoltre, almeno così sarai utile a qualcuno, invece che dannoso com’eri.-.
Parai un colpo immaginario e risposi a un nemico invisibile. Dal demone giunse solo silenzio.
-E sia.-, sospirò Ogun. Sorrisi. Avevo vinto.
-Bene.-, dissi. Mi tolsi la maschera con calma e la buttai nello zaino.
Restava solo una cosa da fare. Presi il cellulare e chiamai un numero.
Suonò libero per un po’ poi la sua voce rispose.
-Ciao Zhara.-, dissi.
-Era ora! Maledizione, hai un’idea di quanto sono stata in pensiero, porcaputtana?-, chiese inviperita la giovane araba.
-Sì. Lo so e mi spiace, ho avuto un paio d’imprevisti.-, dissi.
-E uno di questi era una donna vogliosa?-, chiese lei, decisamente non propensa a perdonarmi.
Sospirai.
-Ascolta, sono mortificato. Se vorrai ci vedremo e ti racconterò tutto quanto.-, dissi.
Lei tacque. Un lungo istante di silenzio. Se avesse detto di no avrei accettato.
In fin dei conti la mia avventura mi aveva forgiato, anzi, riforgiato.
Non era solo questione di fisico. Mi sentivo diverso, come se quel legame col passato che non avevo mai digerito si fosse finalmente raddrizzato.
Come se quel debito che avevo sentito sulle mie spalle per tanto tempo si fosse finalmente alleggerito, almeno un po’. Poi c’erano tutte le abilità che avevo acquisito. Mi sentivo… bene.
-Ok.-, disse Zhara. Mi disse di raggiungerla la sera stessa.

Entrare al Sailor Pub fu semplice come al solito. Mi fu detto che Zhara mi aspettava in una delle sue stanze. La trovai al secondo tentativo. Era stata brava ma non abbastanza a mascherare il suo profumo. Entrai.
E qualcuno mi buttò un tessuto sugli occhi, privandomi completamente della vista.
Feci per toglierlo, abbastanza irritato.
-Non toglierlo.-, disse Zhara, -Prima dimmi cos’è successo.-. Raccontai anche a lei tutto, tranne dell’interludio amoroso con Kukio (non ero certo che avrebbe gradito).
Silenzio, poi finalmente l’araba parlò.
-Toglilo.-, disse. Tolsi il tessuto. Mi trovai davanti un letto matrimoniale con sopra Zhara. Nuda. Rimasi bloccato dall’erotismo di tale visione (tutto salvo il mio pene, che invece si preparò ad adempiere al suo scopo).
-Beh, non ti piaccio?-, chiese la giovane. Si sfiorò tra le grandi labbra dopo aver aperto impudicamente le gambe. Mi tolsi i vestiti con rapidità fulminea e la baciai.
Mi sentii vivo, più che mai. Più di quanto credevo possibile.
Altre sfide sarebbero giunte ma per quella sera potevo festeggiare.

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