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Racconti Erotici Etero

Blade: vacanza avventurosa

By 23 Luglio 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Per chi non mi conosce: salve!
Io sono Alexander Mirror, meglio noto nel sottobosco criminoso e negli ambienti dello S.H.I.E.L.D. come Blade, un mutante con artigli e un fattore rigenerante, roba molto utile quando gli strozzini si stancano di chiederti i soldi gentilmente’
Il lettore avveduto e informato sui racconti che mi riguardano può saltare le prossime righe.
Invece, il lettore che legge per la prima volta un racconto che mi riguardi può gustarsi questa breve presentazione.
Vivo negli States, nella città di New York (un tempo si chiamava New Amsterdam perché edificata da olandesi’). Non lavoro (specialmente a causa del mio ottimo rapporto con lo S.H.I.E.L.D. che mi ha pagato gli ultimi favori fatti) e, come ho già accennato, sono un mutante.
I miei due interessi nella vita sono le donne e le arti marziali, in quest’ordine. C’é anche altro, ovviamente ma il resto &egrave marginale.
Un’altra cosa: non mi considero un eroe, diciamo che cerco di fare la cosa giusta ma non di rado mi lascio tentare dall’usare le mie abilità per furtarelli, o almeno così facevo…
Recentemente ho avuto il piacere di collaborare nuovamente con Flux, una mutante con cui inizialmente non ero propriamente in buoni rapporti. La nostra ultima missione ci ha spediti sino a Madripoor, ad abbattere un boss locale i cui piani per quell’isola erano quantomeno sinistri (il lettore aggiornato saprà di cosa parlo, quello alle prime armi farebbe bene a leggersi gli altri racconti nel seguente ordine: Flux e Blade, Blade Royal Flush, Blade: Notti Insonni e Blade: Giorni diversi).
Ora, qualche giorno dopo la piacevole conclusione della missione che avevo menzionato poc’anzi, mi trovavo con un bel po’ di soldi in mano e il forte desiderio di una vacanza.

Le Hawaii…
Sabbia cristallina, spiagge, un sole che spacca le pietre.
Le mie vacanze stavano decisamente andando bene.
Sdraiato al sole, mi sentivo crogiolare mentre i raggi solari impattavano contro la protezione che mi ero spalmato sul petto e la pelle sottostante.
“Incendiami, possente disco del sole! Dona colore e vita!”, pensai con un sorriso. La spiaggia era piena di gente. Uomini, donne, bambini… Tutti a godersi quel mare cristallino e quel sole indomito che diffondeva il suo calore su ogni cosa. Erano le 13.59. E mi sentivo da dio.
Certo, forse un bagno in mare non sarebbe stato una pessima idea e forse neanche cercare di rimorchiare una delle splendide donne che affollavano il mare e la spiaggia sarebbe stato un piano da scartare.
Ce n’erano un sacco. Nere, bianche, asiatiche, di tutti i tipi e per tutti i gusti. Ma purtroppo un inconveniente mi impediva di approcciarmi ad esse come normalmente avrei fatto. Normalmente ci avrei riso sopra ma in quel caso, era diverso. Si trattava della mancanza di un pezzo del mio torace. Una mancanza lieve, quasi ininfluente ma in realtà mi faceva sentire… a disagio.
Come se essere un mutante non fosse abbastanza…
Come se essere in un posto dove solo i ricconi potevano permettersi di pernottare per più di tre notti al massimo non bastasse…
Già. Un muscolo intero del torace mi era stato asportato. Esteticamente é un pugno in faccia alla mia immagine. Quello e una notevole stanchezza erano stati il prezzo da pagare per fare sì che Flux tornasse dal regno dei morti.
Grazie al Dr. Strange, quella giovane che consideravo tanto amante quanto avversaria, era risorta.
Ma, come detto dallo Stregone Supremo, entrambi avremmo portato i segni di quell’esperienza e nel mio caso i segni mi impedivano di approcciarmi a quelle bellissime creature come normalmente avrei fatto.
In ogni caso, anche starmene lì a crogiolarmi al sole delle Hawaii non era decisamente male. Sospirai e chiusi gli occhi, scivolando nel sonno per riprendere a godermi quel torpore stupendo. Ero arrivato alle Hawaii da solo un giorno, me la stavo decisamente godendo.
Tutto andava bene. Niente sparatorie, problemi o gente che voleva uccidermi. Tutto sommato non era neppure troppo male. Mi assopii, cullato dal suono della marea e dell’I-pod che diffondeva musica classica quasi perfettamente intonata alla situazione.

Mi svegliai un indeterminato tempo dopo. Avevo sete.
Misi le ciabatte e camminai sino al bar. Era il genere di bar uscito dai sogni di chiunque avesse mai sognato di aprire un bar su un’isola tropicale. Un tetto di foglie di palma intrecciate proteggeva le merci, il barista e un bancone ultramoderno dal torrido sole pomeridiano.
-Una coca cola, per favore.-, dissi.
-Subito!-, esclamò il barista con un sorriso.
E subito avvenne. Bevvi la coca con una calma quasi incredibile. Sorrisi. Sì, ci poteva stare, quella vacanza.
-Allora, lavoro o vacanze?-, chiese il barista.
-Vacanze. Le prime qui ma certamente non le ultime.-, dissi. Il barman sorrise. Gli lasciai qualche dollaro di mancia, era un tipo apposto. Poi la notai. Capelli neri, occhi verdi, fisico slanciato avvolto in un bikini a due pezzi minimale. Sguardo incendiario più di una molotov.
La classica predatrice alfa. Un tipo di donna che incuteva rispetto prima ancora che sollecitare un’erezione.
Eppure… era bellissima. Sfoggiava un tatuaggio tribale che partiva dalla caviglia destra e arrivava sino all’interno coscia per poi continuare sino alla spalla destra scendendo poi lungo il braccio stesso e fermandosi lungo il polso. Sexy, come tutto in lei.
In ogni altra situazione mi sarei buttato all’assalto. Ma non in quel caso. Ero in vacanza. E avrei avuto tempo per provarci con lei e mille altre.

Tornai al mio posto, finita la coca cola. Mi stesi sulla pancia. Tempo di fare abbronzare anche quella parte della mia anatomia. Tentai di assopirmi di nuovo, eppure il pensiero di quello sguardo… Mi guardava come se mi cercasse. Come se avesse bisogno di me.
“Dannazione, sono in vacanza! Potrà rivolgersi ad altri!”.
E su quel pensiero, decisamente egoista, sprofondai nuovamente nel mondo dei sogni.
Mi risvegliai mezz’ora dopo. Avevo caldo.
Tempo di farsi un bagno. L’acqua marina mi accolse col suo fresco abbraccio mentre i piedi calpestavano la sabbia. Bellissimo. Mi lasciai cullare dalle onde.
E poi la vidi. Vicina. A fissarmi.
-Beh, non credevo di poter fare colpo senza dire neanche una parola.-, dissi. Contro ogni previsione, lei sorrise.
-La sua fama la precede, senor Blade.-, disse.
L’acqua parve divenire ghiaccio. “Come cazzo può sapere chi sono?!”. Ero stato cauto, più che cauto, ma evidentmente anche con le migliori cautele c’é chi ha le sue informazioni e le sue fonti, spesso buone abbastanza da scoprire la verità anche sotto cumuli di falsità.
Valutai in un istante le alternative. Colpire o parlare?
Non pareva aggressiva. Non appariva neppure prossima a ordinare a dei killer nascosti di balzarmi addosso.
Gettai un occhio attorno a me per sicurezza.
-Non abbia timore. Non sono qui per ucciderla.-, disse la donna. C’era una leggera inflessione ispanica nel suo tono suadente. Io sorrisi.
-Beh, grazie al cielo.-, dissi, -Sarebbe un vero peccato litigare.-. Lei annuì. Seria. Forse troppo.
-Sono d’accordo. Spero lei sappia nuotare.-, disse.
Prese a nuotare a crawl verso il mare aperto. Annuii. Che ci voleva. La seguì con un modesto stile rana.
-Ci voleva, con questo caldo. Non trova?-, chiesi raggiungendola. Lei annuì. Ora sorrideva.
-Direi di sì. Un peccato non essere in una situazione un po’ più… intima.-, disse. Ci tenevamo a galla in un punto poco distante dalla costa. Fiutai chiarissimo l’odore di una trappola. Quella donna non me la raccontava giusta.
O era il preludio alla classica trappola al miele oppure quella tipa voleva davvero scopare con me. Oppure c’era una terza possibilità… che non impediva le altre. Sorrisi.
-Beh, sa, non vedrei male una simile eventualità.-, dissi.
La mora sorrise. E mi baciò. Sulle labbra. Poco più di uno sfiorarsi di labbra. Poi mi sussurrò all’orecchio.
-Stanza 227, Hawaii Hyatt.-, disse, -Stasera. Alle 21.00.-.
Poi, prima che potessi dire altro, s’immerse e riemerse a diversi metri da me.

Pensai di ignorare quella femmina dalla sensualità prorompente ma ormai mi conoscevo abbastanza da sapere che semplicemente non ci sarei riuscito.
Così, la sera stessa, mi presentai alla sua camera che, stranamente era nel mio stesso hotel. Ero disarmato ma solo perché non impugnavo armi. In realtà i miei artigli mi avrebbero garantito sufficiente margine di offesa da scongiurare qualunque trappola.
O almeno così amavo credere.
“Ed é anche iniziata bene come vacanza.”, pensai.
Poi bussai.
-Chi é?-, chiese la voce della donna. Mi sforzai di annusare, di percepire altro. Niente. Pareva che là dentro ci fosse solo lei. Ormai ero in ballo, tanto valeva giocare.
-Blade.-, dissi.
-Entra.-, disse lei. Entrai. La femmina scultorea vestiva ora un tailleur di pregiata fattura, aperto nei punti giusti.
Un vestito perfetto a coprire un corpo perfetto.
Gli occhi verdi della donna mi inchiodarono appena entrai. Sorrise. Non era un sorriso falso, me ne accorsi.
Era davvero felice che fossi lì.
Mi sorrise, sprazzi del tatuaggio tribale che emergevano dalle vesti come scritture in una lingua che l’uomo aveva scordato tempo prima.
Si avvicinò e mi abbracciò, provocandomi un erezione immediata. Poi mi baciò. Il genere di bacio lungo e passionale che amavo, con le nostre lingue a battagliare in ogni secondo di quel meraviglioso scambio di saliva e respiri. La squadrai. Abbronzata, ma non troppo. Spagnola o comunque di discendenze ispaniche o latine.
-&egrave divertente: stiamo per fare sesso e tu sai tutto di me, ma io non so proprio nulla di te.-, dissi.
-Puoi chiamarmi Amanda Montes.-, appunto, ispanica.
Il nostro bocca a bocca riprese. La mia mano destra scese sino ai glutei marmorei della donna.
-Sì…-, dissi mentre lei mi accarezzava dolcemente il pacco. Non potevo certo dire che conversare fosse il mio obiettivo principale in quel momento.
Lei mugolò appena le sfiorai un seno. Non portava reggiseno, era abbastanza chiaro. Il vestito lasciava intravedere i capezzoli di quei seni di terza misura.
-Di dove sei?-, sussurrai mentre litigavo con le chiusure dell’abito di quella donna bellissima. Amanda rise.
Mi aprì i calzoni, prendendomelo in mano.
-Messico, tesoro.-, disse. Assaporai l’istante i cui mi manipolò. Sospirai, domandandomi quante possibilità ci fossero che me lo prendesse in bocca.
Mi sorpresi a sentire la sua lingua lungo tutta l’asta.
Evidentemente erano molto alte…
Le scoprii i seni appena si fu rialzata, gettandomi su quelle splendide rotondità. Presi a leccare i capezzoli come fossero stati gelati. Amanda gemette.
-Leccameli per bene!-, esclamò. Intanto non smetteva di accarezzarmi il membro. Ed eravamo ancora vestiti e in piedi, una condizione a cui avremmo dovuto porre rimedio quanto prima.
-Trovo che il letto sia più comodo.-, dissi.
-Penso anche io.-, disse Amanda. La bella ispanica mi afferrò il pene usandolo tipo guinzaglio per tirarmi a letto.
Come un cagnolino…
C’erano ancora un sacco di cose che non mi quadravano e quel nome, Amanda Montes… Montes…
Non riuscivo a ricordare, ma sentivo di averla già vista da qualche parte, molto tempo fa.
Qualcosa non stava andando per il verso giusto.
Montes, Montes…. Non mi diceva nulla ma sentivo di conoscerla. Per qualche ragione, improvvisamente sentii l’eccitazione venire meno. Amanda mi sorrise.
-Che succede? Non ti piaccio?-, chiese con quell’aria da bimba viziosa offesa che sinceramente odiavo.
-No, scusa. Stavo cercando di ricordare se avevo chiuso il gas…-, dissi. Doveva essere una battuta ma lei preferì concentrarsi sul mio pene. Mi tolsi i pantaloni e le mutande, togliendomi poi la maglietta mentre Amanda si tolse il vestito. Sotto non c’era nulla che mi separasse dal suo corpo. La mia erezione ritornò prepotentemente.
-Allora un po’ ti piaccio…-, sussurrò accarezzandomi il membro. Feci scivolare una mano sino al suo pube.
-Decisamente. Mi fai impazzire.-, dissi. Lei mi baciò.
Il baciò divenne decisamente passionale. Sentii le sue unghie piantarmisi nella carne.
“Dolore… un dolore leggerissimo ma simile a un altro…”.
Perché non riuscivo a ricordare? Perché dovevo ricordare proprio lì, proprio in quel momento, quando tutti i miei pensieri sarebbero dovuti evaporare davanti alla prospettiva del piacere più sublime?
Perché c’era qualcosa che non andava. Tensione.
La mia e la sua. Ma in prospettiva del piacere, tutti sono tesi, o no? Amanda mi sorrise mentre il mio dito indice accarezzava appena il clitoride della donna.
-Piano…-, sussurrò, -Sono sensibile, sai.-.
-Oh, capisco.-, dissi. Lei sorrise. Mi solleticò i testicoli con un abilità che non credevo possibile.
Dio, se non mi fossi controllato sarei venuto come un ragazzino alla sua prima volta.
Ma riuscii a contenermi mentre Amanda si stendeva sul letto invitandomi a raggiungerla.
-Forza, hai paura?-, chiese.
Quella frase… Anche quella mi era famigliare. L’aveva già detta. In un diverso contesto, in passato.
Ma non l’aveva detta a me. A qualcun altro.
Perché non riuscivo a ricordare?
Rividi l’intera mia vita davanti ai miei occhi. Nulla. Il buio.
Amanda Montes non c’era. Da nessuna parte.
Eppure ero certo di averci avuto a che fare. Non sapevo quando né come ma Amanda aveva avuto una parte nel mio passato. Se solo fossi riuscito a ricordare…
Mi sdraiai accanto a lei, fissandola, annusandola.
L’odore mi era estraneo ma il viso… l’avevo già vista.
Mi baciò. Risposi con uguale passione, stendendomi sopra di lei. Le unghie di Amanda mi graffiarono la schiena. Scesi baciandole il collo e il petto. Mi piantò le unghie nelle scapole. Mormorò qualcosa che non sentii.
Sorrisi scendendo a baciare le costole e lo stomaco.
Poi scesi sino al pube.
-Sì… lì…-, sussurrò lei. Sorrisi. Cattivo? No, solo deciso.
Ignorai il centro del suo piacere per scivolare con la lingua lungo la sua coscia sinistra.
-Dai…-, protestò lievemente Amanda. Si toccò un po’.
Non così presto. Mi piazzai tra le sue gambe, prima seduto poi disteso. Lei mi afferrò il membro, iniziando a succhiarmelo senza mezzi termini con una maestria degna delle migliori fellatrici di questo (e ogni altro) mondo. Io omaggiai lentamente la sua vulva. In modo talmente lento e delicato da esasperarla. Volevo vederla esplodere, una volta per tutte.
In fin dei conti era lei che aveva iniziato. Leccai la vulva con lentezza, passando poi a rapidi colpi di lingua.
Amanda andò in brodo. Letteralmente. Si sciolse.
Era bagnata fradicia, tanto da farmi temere avesse già goduto. Interruppe il pompino per sussurrarmi di fotterla.
E come rifiutare un così accorato invito?
Mi piazzai tra le sue gambe. Lei si toccò ancora un pò, trasognata. Gli occhi verdi parevano fuochi fatui nella penombra della stanza illuminata solo da un abat-jour.
La penetrai affondando fino alle gonadi, in un unico movimento fluido. Lei parve urlare, solo per esalare un’espessione di godimento condita di oscenità.
Affondai di nuovo. Ancora. All’improvviso mi parve di doverla scopare per punirla più che per mio piacere, come se ogni singolo colpo di reni fosse stato una frustata, una punizione per crimini che non riuscivo davvero a ricordare, a dispetto dei miei migliori sforzi.
Amanda non rimase sotto di me in eterno. Cambiammo posizione e lei mi piantò le unghie nel petto. Non fece commenti sul mio torace e segretamente ne fui grato. Pareva quasi volermi sezionare, non come altre che avevo conosciuto. Non capivo… perché avevo quei pensieri? Avrei dovuto pensare solo scoparla, no?
Invece quelle domande non se ne andavano. Come un buco nero, attiravano a sé tutto il resto.
Il calore bollente della sua vulva che stringeva il mio pene veniva eclissato dal freddo timore suscitato da quei dubbi. Decisi di rimandare quei dubbi a dopo.
-Aspetta, ora tocca a me.-, dissi dopo qualche minuto di cavalcata selvaggia parte sua. Amanda sorrise.
-Mettiti in un altro modo.-, dissi quando lei fece per sdraiarsi. Roteò gli occhi.
-Voi uomini siete tutti uguali.-, disse.
-No. Le misure cambiano e così anche i caratteri.-, precisai. Lei sorrise. Ed eseguì mettendosi carponi.
La vista della sua vulva così offerta cancellò come al solito tutti i miei pensieri o dubbi di sorta. Annichilì tutte quelle seghe mentali in un unico istante. Le affondai dentro selvaggiamente. Ancora animato da quella sensazione di vendetta che non riuscivo proprio a spiegare. Afferrai i capelli di Amanda, stringendoli in pugno e tirandoli. Ero animalesco, brutale. E mi sentivo bene. Stavo per venire, lei probabilmente aveva già goduto qualche volta ma non m’importava.
Ora toccava a me, e le venni dentro con un ringhio che suggellò la mia vittoria.
Rimasi in ginocchio, seduto sui talloni mentre lei si sdraiava, il mio sperma che le usciva dalla vagina con lentezza. Mi sorrise.
-Sei stato magnifico…-, altra frase che mi diceva qualcosa senza dirlo. Il mio cuore batteva forte, la testa era un punto fermo in un uragano di pensieri.
-Perché non ricordo dove ti ho già vista?-, chiesi.
Lei parve incupirsi.
-Non lo so.-, disse. Bugia. Odiavo le bugie. Lei mise una mano dentro a un cassetto. Sguainai gli artigli. E due dardi tranquillanti mi centrarono in pieno.
Mi sembrò di vedere la scena da fuori, in terza persona.
Riuscii comunque ad afferrarle il collo. Ma la mia presa divenne ovatta e la mia mente fu risuccchiata nel vuoto. &egrave curioso come il corpo abbisogni di determinati stimoli per poter effettivamente accedere a determinati ricordi sepolti. Forse una faccia o una voce non sempre bastano, a volte si necessita di uno shock, di una situazione analoga. Sicuramente, almeno in questo caso.

Scagliato nel deliquio delirante di un baratro oscuro, il mio cervello parve recuperare improvvisamente quella memoria. Probabilmente l’avevo rimossa, una difesa della mente contro un dolore enorme, non solo fisico.
Un’azione autonoma, non esattamente cosciente, compiuta dalla mia mente per preservarsi dall’orrore.
Le vittime di stupri o di forti shock facevano lo stesso.
E la loro vita andava avanti, non sempre facile, non sempre in modo piacevole ma relativamente al sicuro dall’oscurità di un passato che non potranno mai davvero scordare.
Purtroppo, a volte qualcosa scatena una reazione, un evento apparentemente ininfluente riporta alla mente quelle memorie sopite. E improvvisamente, l’orrore ritorna a imperversare.

Nel mio caso, quando il sedativo fece effetto, fu come se una nova mi fosse esplosa in testa.
Ricaddi in un abisso dentro me stesso. E improvvisamente ricordai, con assoluta chiarezza.
Amanda Montes lavorava per la compagnia che mi aveva trasformato in quello che ero, o quantomeno era presente durante le loro sperimentazioni su di me.
Ricordavo che ero immerso in un liquido, una bara trasparente a schermarmi dal mondo, ma ovattata, distorta, sentii la conversazione tra lei e un sottoposto.
-Forza, hai paura?-, chiedeva irritata la Montes.
-No… ma potremmo perderlo. Non é una procedura esattamente soft.-, disse il tizio.
-Hai visto cos’abbiamo fatto a mister Wilson? Beh, lui non é diverso. Il risultato soltanto conta. Fallo.-.
Aghi mi bucarono la cute, spedendomi in vena qualcosa. Sentii il mio cuore iniziare a battere all’impazzata. Paura. E poi…
Poi giunse un dolore lancinante mentre sentivo qualcosa crescermi dentro. Mi sentii dilaniare.
L’orrore mi travolse. Urlai.
Nel vuoto della mia tomba liquida, nessuno mi avrebbe sentito. Urlai finché il fiato non mi fu cavato a forza dai polmoni, finché non mi sembrò di esplodere.
Finché non desiderai morire.
Poi, improvvisamente, persi conoscienza.
Ripresi conoscenza, trovandomela davanti.
-&egrave sveglio. Pupille normali, battito accelerato.-, disse la Montes. Un tizio si fregò le mani, soddisfatto.
-Eccellente! Dici che il DNA ha attecchito?-, chiese.
– Non lo so. Dovremmo farlo uscire per capirlo.-, ammise la Montes. L’altro parve pensieroso, improvvisamente consapevole che forse non sarebbe stata una buona idea liberarmi.
-Prenderemo tutte le precauzioni del caso.-, disse la Montes. Io ringhiai, sentendomi pronto a massacrarli a mani nude.
La furia che mi era sbocciata in petto era semplicemente immensa. Misi una mano sul vetro. Picchiai. Ancora e ancora. Inutile. Servì solo a dar loro un motivo per sedarmi. Ma prima che ciò potesse accadere, vi fu un esplosione. La Montes uscì e l’altro tizio prese a dare ordini e fare domande.
Pensai che sarei morto lì. Pensai che fosse finita.
Poi lo sentii, per la prima volta. La netta sensazione che non l’avrei permesso. Picchiai ancora il vetro. E finalmente la vidi. Una crepa. Certo, non potevo dire che fosse gigantesca, era minuscola ma forse… colpii ancora. Niente. Dannazione.
Sferrai un pugno al vetro, in prossimità della crepa e d’un tratto avvenne.
Snikt. Dalle nocche dell’indice e dell’anulare uscirono quelli che parevano artigli d’osso. Cazzo!
Allora… qualunque maledetta cosa mi avessero fatto aveva funzionato, dopotutto. Quantomeno per me.
Sotto la pressione, il vetro s’infranse.
Emersi dal liquame nudo e decisamente incazzato.
Il tizio di prima, quello che si era messo a urlare ordini mi vide. E sbiancò. Mise mano a una pistola.
Sparò, colpendomi al petto. Caddi provando un nuovo tipo di dolore. E mi sorpresi: non stavo andando in shock, il corpo continuava a carburare come normalmente. Sputai sangue. Sorrisi, ferocemente deciso a prendermi la rivincita. E il tizio tentennò.
Tremò. Era terrorizzato. E ne aveva motivo.
-Ora tocca a me.-, ringhiai. Strinsi i pugni di ambo le mani. Quattro artigli uscirono dalla carne, lasciandomi un dolore trascurabile. Il dottore sparò. La mia coscia sinistra si aprì. Sangue sul pavimento. Sparò di nuovo. Impatti al torace e alla spalla destra.
La pistola s’inceppò. E io continuai ad avanzare.
Lo afferrai per il colletto della camicia.
-Sayonara!-, ringhiai piantandogli gli artigli nel petto.
Dopo di che mi guardai intorno. A parte di dott. agonizzante, di vivo non c’era nessun’altro. E sicuramente non avrebbero apprezzato quello che avevo fatto. Dovevo andarmene.

A posteriori sarebbe sembrata una facilata. Invece per me fu un vero inferno: i sotterranei di quel posto erano un cazzo di labirinto. E ovviamente gli scienziati erano armati… Risultato: dovetti continuare a fuggire, uccidere e correre, sempre più stanco e debilitato per le ferite. Stavo per crollare quando, avvolto in un camice devastato e vestito con dei pantaloni che parevano reduci da un lavaggio in una lavatrice piena di emoglobina, riuscii ad uscire dal complesso.
Cazzo, sì! Arrivai a casa mia sfruttando il buio della notte. E crollai sul divano, collassando. Credevo fosse finita, che sarei morto. Forse lo speravo, dato che ogni passo era stato pura sofferenza. Avevo lasciato tracce di sangue dappertutto. Riuscii a evitare che le tracce portassero a casa mia e solo allora, dopo aver occultato decentemente la mia desitinazione, riuscii a tornare al mio monolocale e a collassare in pace.

Mi svegliai alle 11.09 del giorno dopo, pensando fosse stato tutto un sogno. In fin dei conti, segni sul corpo non ne avevo. Dovevo essermi sognato tutto.
Così mi alzai. E appena un bicchiere mi cadde, per la rabbia sferrai un pugno al divano.
Snikt. Gli artigli uscirono trpassando il sofa. Rimasi bloccato un istante, fissandoli.
Cazzo… era tutto vero! Ma allora… le ferite di ieri, avrebbero dovuto uccidermi, no?
Nel dubbio, passai un artiglio lungo il palmo della mano sinistra. Il taglio si aprì. E dieci minuti dopo, la mano era come nuova. Porca troia…
Rimasi a guardare quella mano per mezz’ora buona.

E fu lì che la mia vita cambiò radicalmente. Di eroi ce n’erano abbastanza, no? Che male avrebbe fatto usare quei poteri per me, entro i limiti della legalità ma senza essere eccessivamente ligi alla legge?
Non ricordavo cosa fosse successo, ricordavo solo a sprazzi, poi neanche più quelli. Un buco nero si era mangiato il segreto della mia metamorfosi.

O almeno, fino ad ora.

Aprii gli occhi.
La troia, Amanda Montes mi guardò. Ero nudo e legato tipo cotechino. Mi sorrise.
-Oh, Blade… nemmeno immagini cosa abbiamo in mente per te.-, disse.
Sicuramente non sarebbe stato piacevole.
-Fottiti, puttana.-, sibilai.
-Oh, no. No, Blade. A quello ci hai già pensato tu. Complimenti tra l’altro. La miglior scopata da qualche anno a questa parte.-, disse. Sputai, imbrattando il pavimento. Non eravamo più nell’Hotel ma da qualche altra parte. Era freddo. Pareti di cemento e luci alogene. Niente di buono, appunto.
-Vedi, durante gli ultimi tempi io e i miei colleghi ci siamo messi a rivedere il progetto. E sono felice di dire che siamo giunti a qualcosa di davvero fantastico. Abbiamo creato qualcosa degno di nota. Ma ci serve qualcuno per poterne verificare la reale capacità. E quel qualcuno sei tu. Non sei contento? Morirai per la scienza, Blade.-, disse.
-Tu sei pazza, oltre che troia.-, dissi.
-E tu sei un fallimento. Uno scansafatiche con abilità e poteri che non merita. Tempo di renderti utile, per una volta nella vita.-. Amanda si voltò. Fece un cenno a qualcuno. Fui colpito da due dardi e nuovamente l’oblio calò su di me. Ma prima che la mia mente fosse fagocitata dall’abisso, mi imposi di resistere.
Resistere, prevalere e fuggire.
Sarei sopravvissuto ed avrei avuto la mia vendetta su quella stronza. Non importava quanto mi avesse dato. Per lei ero solo un giocattolo, un burattino.
Ma era ora di tagliare i fili. La luce fu abbagliante. Mi si impresse a fuoco nella retina, anche attraverso le palpebre sbarrate. Ci misi qualche istante a fronteggiare quell’assoluto candore e a poter finalmente distinguere ciò che avevo attorno.
Ero libero. Nudo ma libero. Era già qualcosa. Peccato che sapessi benissimo che la mia libertà non sarebbe realmente stata di alcun conforto, visto che tale non era.
Ero ancora prigioniero. Così come lo era l’essere che avevo davanti, a circa dieci metri di distanza. In quella cavolo di arena c’era una donna. Bionda. Nuda come me. Solo la sua espressione era diversa. Era completamente vacua. Come se il suo cervello fosse già morto, la sua mente già lontana, la sua anima già persa.
Notai una parete in vetro. I bastardi, Montes inclusa, dovevano essere lì. Certo. Dovevano starsi preparando per lo spettacolo.
Lo spettacolo della mia morte, naturalmente.
Sospirai mentre mi alzavo in piedi. Nessun dolore.
Perché quello, lo sapevo benissimo, sarebbe arrivato dopo. A posteriori, nello scontro che era stato preparato per me. Per far sì che “mi rendessi utile”, come aveva detto quella puttana della Montes.
Piccolo inconveniente: non intendevo morire.
E non intendevo prestarmi al loro progettino demente.
Peccato che la donna che avevo davanti non sembrasse dello stesso avviso. Pareva già staccata dalla vita. Se fossi riuscito a farle capire quanto profondamente sbagliato sarebbe stato prestarsi a quel crudele gioco, forse avremmo avuto una possibilità. Insieme.
-Uccidete!-, esclamò la voce della Montes.
-Non dobbiamo farlo per forza!-, esclamai. Lei non rispose. Preferì usare il fiato che aveva in corpo per balzarmi addosso. Estrasse gli artigli. Due per mano.
Come me. Schivai il primo affondo. Evitai un fendente. Le tirai un calcio che lei schivò. Mi artigliò la gamba.
Colpì il nulla. Ero veloce anche io.
-Non deve andare così per forza! Ribellati! Puoi essere più che un burattino!-, le urlai. Parole al vento.
La bionda attaccò ancora. Indietreggiai contro una parete in cemento. Con una giravolta riuscì a evitare che mi trapassasse. Le sferrai un pugno. Fu come colpire il cemento stesso. Sentii le giunture della mano gemere. Ma neanche lei pareva immune da conseguenze. Mi tirò un calcio. I testicoli urlarono di dolore. Caddie e sfruttai a stento il moto per rotolare all’indietro e rialzarmi.
-Uccidere o essere uccisi!-, sibilò la bionda.
-L’hai sentita, Blade? Uccidi!-, esclamò la Montes.
-No! C’é un’altra possibilità!-, ringhiai.
Ma c’era davvero? La ragazza non era in sé, era chiaro. Forse uccidere era davvero tutto quello che potevo fare per sopravvivere a quella follia.
Con un grido da banshee la bionda mi arrivò addosso. Stavolta gli artigli mi graffiarono a fondo le braccia.
Dolore, sangue. Rabbia.
Sguainai i miei artigli senza pensare.
-Così! Falle vedere!-, esclamò la Montes. Pareva quasi eccitata, e forse lo era pure.
La gamba destra della bionda fu sfregiata da un artigliata. Il suo contrattacco mi trapassò il torace.
Ah, ecco il polmone sinistro che parte per le ferie…
Le tirai una testata. Crack! Il naso si ruppe. Sangue. Su di me, su di lei. Ansimavamo entrambi. Le affondai gli artigli della mano destra nello stomaco.
Smorfie di dolore, ringhii. Furia.
-Non capisci?-, chiesi, -Gli stiamo dando quello che vogliono! Due animali in una gabbia! A combattere per il loro divertimento!-. Lei girò gli artigli, allargando la lacerazione nel mio petto. Feci lo stesso.
Grida di dolore. Le nostre. Eravamo fottutamente vicini. Dio, sembrava qualche perverso tipo di preliminari artigliati. Forse da un certo lato, lo erano pure. Lei mi schiacciò i testicoli. Un’esplosione di dolore. Se prima ero leggermente eccitato, ora ero veramente furioso. Le trapassai il seno destro. Parità.
Probabilmente le avevo preso un polmone perché si bloccò, decisamente sofferente.
-Possiamo decidere il nostro destino! Dobbiamo solo dire di no!-, le gridai in faccia.
In un altro universo, avremmo potuto essere prossimi a un amplesso, da tanto che eravamo vicini.
I miei occhi affondavano nei suoi. E improvvisamente lo vidi. Un bagliore. Il frutto di una consapevolezza.
-Forza… possiamo farcela. E ne usciremo. In due.-, dissi. Lei esalò. Inspirò. Un lunghissimo istante in cui notai qualcosa. Un filo di sangue le scendeva dalla bocca. Così come a me. Ci eravamo massacrati per la gioia di quei figli di puttana. Ma ora…
-Tagliamo i fili.-, dissi.
-Non… so… come…-, sussurrò lei. A tratti, forse per colpa del polmone, o forse perché era la prima volta che parlava, dopo tanto tempo.
-&egrave semplice.-, dissi, -Trafiggimi. Al cuore. Deve sembrare che tu vinca.-, sussurrai. Intanto le graffiai una spalla. Lei mi trapassò una gamba. Ero pieno di ferite, dilaniato. Ma non avrei ceduto.
-E poi?-, chiese lei. Ci agitavamo sempre più debolmente. Un modo come ogni altro per riuscire a convincere quei bastardi che il loro show procedesse secondo i piani, quando in realtà stavamo per prendere il comando nel modo più cruento.
-Poi dammi qualche istante. Fai sì che intervengano.-, dissi. La voce della Montes rimbombò dagli altoparlanti, ordinando alla ragazza, B-21 (così l’aveva chiamata. Doveva essere una sigla…) di uccidermi.
“B-21… Vuol dire che gli altri venti esperimenti sono falliti? E per cosa? Per averne uno come me?”. Era orribile, veramente grottesco. E l’avrei saputo fermare.
-Avanti!-, ringhiai, -Non dirmi che ti manca il fegato perché ora te lo strappo!-. Affondai allo stomaco. Leggermente. Abbastanza da dar l’idea di volerla uccidere. Lei capì. E affondò al cuore.
Atrio destro e ventricolo sinistro trafitti. Emorragia. Bella grossa anche. Insieme a tutto quanto sarebbe potuta anche essere letale. Persino il mio fattore rigenerante aveva dei limiti.
-Brava, B-21.-, la voce della Montes, da qualche posto lontano. Mi feci forza. Dovevo reagire. Guarire.
E chiudere quella faccenda, liberarmi di quei bastardi una volta per tutte. Il cuore ci metteva un po’ troppo.
-Uccidilo!-, esclamò la Montes. B-21 mi guardò. Occhi negli occhi. Biascicai qualcosa. Non ero sicuro di niente. In quel momento, se avesse deciso che ribellarsi non fosse la scelta migliore, avrei solo potuto assistere alla mia morte.
Il polmone era tornato. In situazioni del genere, il fattore rigenerante si sbrigava a rimettermi in sesto.
Il cuore? Batteva. Debolmente, perdendo sangue a ogni battito. Ma batteva. Inspirai. Che bello!
-No.-, disse B-21. Incredulità. Stupore.
Mio, e di tutti gli altri. Esalai, mascherando a stento un sorriso. Poi la voce della Montes fece capolino.
-Molto bene. Allora lascia che ti dica cos’accadrà.-.
Porte che si aprivano. Due uomini. Corazzati come dei cazzo di juggernaut presi dal peggior videogame.
-Uccidilo. O ti uccideremo noi.-, disse la Montes.
Snikt. Gli artigli di B-21 scattarono.
Ero apposto? No. Ma sarebbe dovuto bastare.
La guardai, sperando che capisse.
-Fai quello per cui sei stata creata, B-21. Adempi il tuo destino.-, disse la Montes. Uno dei Juggernaut puntò la mitraglietta sulla giovane. Mirava alla testa.
Silenzio. Un lungo istante di silenzio in cui B-21 alzò gli artigli. Un’offerta a un dio sordo e cieco. O forse solo una messinscena. In ogni caso tutti trattennero il fiato. Io mi preparai. Sarei rotolato di lato, poi avrei tentato di rialzarmi, non importava cosa sarebbe successo. Non gli avrei permesso di usarmi ancora.
-Io non sono B-21.-, sibilò la bionda. Sorrisi.
Mi girai su me stesso, ignorando il dolore. Dopo un po’ diventava semplice ignorarlo.
E attaccai, proprio mentre la ragazza si girava portandosi fuori tiro e fendendo il nemico al viso.
-IO SONO BETHANY!-, ruggì. Tranciò il facciale del tizio. Non arrivò al viso ma lo costrinse in difesa. Raffica. Troppo alta. Mancò sia me che lei.
L’altro Juggernaut era un completo idiota. Sparò in raffica. Ferite superficiali. Graffi. L’altro cercò febbrilmente un coltello. Io gli trapassai l’aorta, colpendolo all’ascella e affondando gli artigli. Gli strappai la pistola mentre cadeva.
Bethany aveva sbilanciato il suo avversario. Gli si avvinghiò addosso, spezzandogli il collo con le gambe (e offrendogli una magnifica visione delle sue grazie glabre, aggiungerei).
Sparai una raffica contro il vetro. Le urla della Montes si sentirono dagli altoparlanti.
-Vengo a prenderti, puttana!-, ringhiai.
Balzammo verso le porte prima che si chiudessero. Un tizio con la pistola alzò l’arma. Bethany rafficò ad altezza petto. Pura furia guerriera, una valchiria divenuta berserkr a causa dell’orrore attraverso cui era passata. Falciò la guardia e procedette spedita.
Scale. Cemento sotto i piedi nudi. Sangue che stilla da ferite ancora aperte. Cuore e polmoni che fanno gli straordinari. Una marea di sensazioni che mi travolse tutta insieme. E l’odore della giovane che procedeva a balzi davanti a me. Una porta. Sparai ai cardini, Beth la sfondò con un calcio. Notevole, la ragazza.
Tuono da monsone. Desert Eagle calibro .50.
Bethany fu scagliata indietro con un buco enorme in una spalla. La Montes ringhiò qualcosa d’incoerente.
Farfugliò mentre arrancava verso l’uscita.
-No. Non stavolta!-, esclamai. Due soldati entrarono. Raffiche da parte loro e mia. Braccio destro colpito al quadricipite. Loro invece divennero storia.
Bethany lanciò un grido belluino. Un altro tizio, un camice bianco pelato emerse da una porta. Spaventato e confuso, aveva in mano una pistola ma non avrebbe mai saputo come servirsene. La bionda gli aprì il petto con un’artigliata.
-Di qua!-, gridai.
Scale, ancora. Un soldato sparò a colpo singolo. Beth sussultò. Colpita. Ringhiò in moodo animalesco. Il tizio sparò altri tre colpi. La giovane non si curò delle ferite.
-Vai. Non farla scappare!-, mi ordinò lanciandosi contro il soldato. Le obbedii. Uscii allo scoperto. Sole. Sabbia sotto i piedi. E la Montes che fuggiva a rotta di collo. Sparò. Mancato. Ora toccava a me.
Sparai alle gambe. Impatti multipli. Caviglie e polpacci spappolati.
La Montes cadde in avanti tipo sacco di patate.
Gettai la mitraglietta a terra. Quello che stavo per fare richiedeva un approccio più personale.
-Tu… io cercavo di creare qualcosa! Un esercito invincibile! Rendere di nuovo grande il nostro paese…-, Amanda Montes sputava sentenze mentre mi avvicinavo. Sapeva di essere alla fine. Alzò la pistola.
Clack. Scarica o inceppata. Sorrisi. End of the Line.
-Tu cos’hai fatto? Cos’hai fatto a parte uccidere gente e scopare? Cos’hai fatto, brutto stronzo?!-, chiese.
Le piantai il pugno chiuso sotto il mento.
-Cosa ho fatto? Molto. Moltissimo.-, dissi.
Era vero. Ricordi mi passarono in testa. Non ero un santo ma soprattuto non ero come loro. E questo forse loro non lo avrebbero mai potuto veramente capire. Ma io lo sapevo. Tanto bastava.
Rividi lo sguardo di Flux mentre il Dr. Strange la riportava in vita, grazie a me.
Rividi lo sguardo riconoscente della ragazza salvata a Madripoor, durante quell’avventura folle.
Rividi lo sguardo di Punisher, approvazione davanti ai miei atti, perché quella era la sola forma di giustizia che riteneva adatta.
Rividi tutto questo e molto altro. Ogni vita salvata, ogni malvagio ucciso. Tutto.
-Ma non pretendo che tu capisca.-, dissi.
Non avevo altro da dire. Strinsi il pugno.
Snikt. Gli artigli fecero il loro dovere.
Amanda Montes passò alla storia. Mi sembrò una fine persino troppo pulita per tutto quel che aveva fatto.
Colpi d’arma da fuoco all’interno del complesso sotterraneo. Tornai sui miei passi.
-Beth?-, chiesi. Corpi a terra. Decine.
E la bionda che si ergeva tra loro, arma da fuoco scarica in una mano e artigli snudati nell’altra.
Era ferita. Tantissimo. Ferite di striscio e almeno un proiettile in corpo. Ma si sarebbe ripresa, ne ero sicuro. Era come me. Insieme eravamo stati in grado di fare quella strage, di ribellarci e liberarci.
Insieme eravamo invincibili.
-Blade…-, sussurrò. Cadde in ginocchio.
Le corsi accanto.
-Andrà tutto bene.-, dissi, -Andrà tutto bene, devi solo riprenderti.-. Lei scosse il capo. Lacrime e sangue sul suo viso. E gli occhi. Finalmente erano puri. Vivi.
-No. &egrave finita, me lo sento.-, disse. La aiutai a rialzarsi. Arrivammo all’uscita crollando a terra sulla spiaggia.
-Blade…-, sussurrò ancora lei.
-Ce la faremo. Vedrai. Devo solo… trovare un medico.-, dissi. Ma sapevo che era una bugia.
E lo sapeva anche Bethany.
-Lascia stare. Piuttosto, stai qui. Con me.-, disse la bionda. Si stese sulla sabbia. Obbedii, stendendomi accanto a lei. Lei sospirò. Malinconicamente.
-Avrei voluto…-, gorgogliò. Sputò qualcosa rossastro.
-Dimmi…-, sussurrai. Mi sentivo affranto. Eravamo liberi ma la nostra libertà era costata così tanto.
-…Fare l’amore… una prima… e ultima volta.-, disse.
Rimasi spiazzato. Stava morendo. E voleva vivere.
Fare qualcosa che richiedeva vita vera.
Sentii le lacrime affiorare agli occhi, scendermi lungo le gote. Singhiozzai. Singhiozzai vergognandomi quasi di volerla. La sentii accarezzarmi il petto, la runa tatuata, indomita sullo sterno nonostante sangue e ferite. Mi guardò intensamente. Supplice.
-Blade… lo faresti… con me?-, chiese.
-Ti ucciderà…-, dissi.
-Non si può impedire. Quella strega mi ha sparato qualcosa… Un proiettile annullante, o forse non sono perfetta come credevo…-, sorrise attraverso la sofferenza, -Non mi importa… Voglio vivere. Un’ultima volta.-. Io annuii. Capivo.
A parti invertite, forse avrei fatto lo stesso.
Mi chinai a baciarla. Lei agitò debolmente la lingua.
Io fui delicato, stava morendo e non volevo che i suoi ultimi istanti fossero… non lo sapevo neanche io.
Cosa potevo fare se non onorare la sua richiesta.
-Prendimi…-, sussurrò lei. Obbedii. Puntai il mio membro all’imbocco della sua vulva.
Affondai. Bethany emise un mugolio di piacere misto a dolore. Aumentai appena il ritmo. Mi stesi sopra la bionda. Gli artigli che non poteva più ritrarre mi si piantarono nella schiena. Ignorai quel dolore.
-Continua…-, sussurrò lei. Stava morendo… sanguinava da molte ferite e voleva arrivare fino in fondo. Vivere davvero per poi morire per sempre.
Pensai che se ci fosse stato qualcosa che avessi potuto fare per salvarla l’avrei fatto… Ma non c’era niente. E nessuno di noi era in grado di chiamare aiuto. Affondai ancora dentro di lei mentre la baciavo. Ora Beth cercava di dare il massimo. Si avvinghiava a me con tutte le sue forze. Mi mordeva il collo, incurante di farmi male, mi sussurrava di continuare, incurante di quanto poco tempo le restasse.
A un certo punto si trovò sopra. Non capii come o quando. Sorrise. Le strinsi il seno sinistro, quello destro era in uno stato quantomeno discutibile.
Lei mugolò.
-Vengo, Blade… Oddio…-, sussurrò. Inspirò con la bocca come se avesse dovuto incamerare quanta più aria possibile nei polmoni per assaporare quel momento, il viso felice, selvaggiamente lieto.
-Anch’io…-, dissi. Era vero. Mi scaricai dentro di lei.
Giacemmo, lei su di me, per qualche istante. Temetti fosse morta. La scossi appena.
-Beth?-, chiesi.
-Ci sono… é stato splendido…-, sussurrò. Iperventilava. Forse la Montes e i suoi le avevano potenziato il fisico in modi a me preclusi ma, senza il fattore rigenerante a guarirla tali modifiche si erano rivelate sufficienti solo a permetterle quell’ultimo disperato e liberatorio atto.
-Grazie… per tutto.-, sibilò. Il suo cuore batteva debole, debolissimo. Io l’accarezzai, preso da una tristezza che nemmeno la consapevolezza di averla resa libera e lieta nel suo ultimo istante poteva lenire.
Rotolò sfilandosi da me, giacendo supina sulla spiaggia. Mi accarezzò appena. La baciai.
E sentii che moriva, percepii un sussulto e poi, un rilassamento, un languore.
Chinai il capo, sussurrando parole che non usavo da molto tempo. Da un sacco di tempo.
-Possa tu trovare pace.-, dissi.

Non so quanto tempo restai lì, accanto al corpo di Beth ma quando trovai la forza di alzarmi capii che dovevo ancora fare quacosa. Presi il corpo della Montes e lo portai nel complesso. Le scaricai addosso i corpi dei suoi uomini, formando una sorta di pira rudimentale. Trovai del carburante per una jeep in una rimessa poco lontana. Irrorai i corpi. Tutti, anche quello di Bethany che posai in cima a quella pira fatta coi corpi dei suoi nemici morti. Trovai dei fiammiferi.
Guardai la giovane.
Aveva un’aria serena, a dispetto di tutte le ferite, come se improvvisamente fosse in pace. Annuii.
Andava bene.
Accesi un fiammifero e diedi alle fiamme quel posto e tutto ciò che conteneva. Poi, ripulito sommariamente e vestito di quel poco che riuscii a recuperare, arrivai al primo centro abitato. E da lì, tornai a Honolulu.

La mia non era stata la vacanza relax che sperava, piuttosto un incrocio tra un incubo e una vacanza avventurosa. Dopo una simile ordalia, il richiamo di casa era irresistibile. Tornato in hotel, feci i bagagli e presi il primo volo per New York.
Arrivato, il telefono squillò. Zhara.
-Blade. Come vanno le vacanze?-, chiese.
Dubitavo fosse una telefonata di cortesia.
-Sono tornato prima. Diciamo che non mi trovavo bene.-, dissi. Lei stette in silenzio un istante.
-Beh, meglio così. Ho un lavoro per qualcuno di affidabile. Speravo tu fossi interessato.-, disse. Sorrisi.
-Non vedevo l’ora che tu dicessi qualcosa del genere.-, dissi.
Ero tornato a casa.

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