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Racconti Erotici Etero

Ca’ de do’

By 12 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

1

Un tempo era ‘Ca’ Marco’, con un leone alato su ogni colonna.

Quel nome rimase anche dopo che sul portale di pietra era apparsa l’aquila bicipite degli Asburgo. Poi, sulle colonne furono scalpellati, a sbalzo, i fasci con la scure bipenne.

Due le teste dell’aquila, due i fasci, due le lame d’ogni scure.

La gente cominciò a chiamarla ‘Ca’ de Do”, ‘Dom Dva’, ma il Segretario Politico, che pure vi aveva stabilito per qualche mese il suo centro di potere, non si domandò mai il perché di quel nome.

Il trascorrere degli anni l’aveva resa più grigia che mai, il portale era annerito, nulla ricordava il lustro conferito dal rappresentante della Serenissima e dall’inviato dell’Imperatore.

Il portone, ben curato, era sempre imponente. Il vecchio pozzo, nel vasto cortile, conservava ancora la carrucola, vuota, e il coperchio arrugginito. Sotto il sedile di pietra era accatastata la legna. I vani del piano terreno erano chiusi da pesanti battenti scuri.

Di fronte, al centro, iniziava la scala. Gradini lunghi e bassi fino al pianerottolo, da dove si dipartivano le due rampe che conducevano al primo piano, proseguivano per il secondo e poi, divenute più modeste, portavano alla soffitta.

La grondaia, da poco rifatta, girava intorno al tetto, accoglieva l’acqua della pioggia, la convogliava in un angolo e la riversava, attraverso un grosso condotto, nella cisterna centrale. Nel punto in cui il tubo spariva nel terreno, tra le grosse lastre di pietra, s’era formato un sottile strato di muschio, come un velluto smeraldo.

‘Ca’ de Do” era quasi deserta. Solo il secondo piano era abitato: due famiglie, madre e figlia, ognuna col proprio cognome, quindi due cognomi, due donne e due uomini, rispettivamente figli e fratelli delle donne, più un bimbo in tenerissima età. Usavano unicamente la porta grande che s’apriva al centro del ballatoio, le altre, più piccole, laterali, erano state chiuse, e nel corrispondente vano interno, dove si sarebbero aperte, erano stati messi degli attaccapanni, nascosti da pesanti tende di velluto scuro.

Era, in sostanza, un unico appartamento che occupava tutto il piano.

L’ingresso, ampio, prendeva luce dalla finestra circolare che stava sulla porta d’entrata, protetta da un’artistica grata. Nel mezzo, un pesante tavolo di legno scuro con una composizione in ceramica, frutta colorata, su un merletto di filo écru. Alle pareti alcune vecchie oleografie e, accostate, delle sedie. Dal soffitto scendeva un bel lampadario di ferro battuto: un cerchio con sei candele elettriche che emanavano una luce rossiccia. Il pavimento di legno, lucidato a cera.

La donna mi aveva accolto con un sorriso di cortesia e mi guardava con fare interrogativo.

‘Buon giorno signora, mi manda Magnani.’

‘Ah! Prego, signor tenente, accomodatevi.’

Attese che entrassi, chiuse l’uscio e s’avviò verso la porta centrale che conduceva in un salone arredato con semplicità. Mobili senza la pretesa di formare un salotto ma più eleganti di quanto sarebbe servito per un semplice tinello. Nell’angolo, tra i balconi che affacciavano sulla piazza solitaria, due poltroncine e un tavolino basso. Mi fece cenno di sedere, e prese posto sull’altra poltroncina.

Alta, slanciata, vestita semplicemente ma con molta cura. I capelli, raccolti in una lunghissima e grossa treccia nera, lucidi, formavano una scura matassa serica tenuta insieme da un civettuolo nastrino rosso. Le mani, attentamente curate, cercavano di nascondere la consuetudine con i lavori domestici. Il volto aperto, sorridente, la pelle dorata e liscia. Occhi verdi, labbra non grosse e ben disegnate.

Poteva avere quaranta anni. Forse di più. Difficile stabilirlo, per il giovanile modo di muoversi, di camminare, di sedere.

‘Questa é la stanza che noi pomposamente chiamiamo ‘salone’, ed &egrave comune ai due appartamenti. Adesso, però, viviamo tutti in quello sud. L’altro &egrave chiuso per risparmiare luce, riscaldamento e il lavoro delle pulizie giornaliere.’

Il pavimento era lucidissimo, perfettamente tirato a cera.

Vicino alla porta, alcune pattine. Mi scusai per non averle usate. In effetti, non le avevo notate fino a quel momento.

La donna scosse il capo, sorridendo, e disse che neanche lei se ne era servita, come potevo vedere.

‘Voi siete qui per la camera, vero?’

La voce era calda, vellutata, con una lieve sfumatura di raucedine, quasi volesse parlare in sordina. Pronunciava le parole lentamente, con una leggera piacevole cadenza, molto simile a quella dei Triestini.

‘Sa’ -seguitò- ‘i tempi sono difficili e dobbiamo aiutarci come si può. Mio marito &egrave lontano, richiamato alle armi, e i due ragazzi hanno bisogno di tante cose. Venite a vedere la camera. Se sarà di vostro gradimento avremo tutto il tempo per parlarne e certamente ci metteremo d’accordo.’

Si alzò.

‘Vi faccio strada.’

Tornammo nell’ingresso, andò alla porta di sinistra, l’aprì. Un corridoio alquanto buio, illuminato da due lampadine poco splendenti nei tersi globi di vetro. Ai lati e sul fondo, porte di legno con lucide maniglie d’ottone.

Si fermò e indicò una tenda a destra.

‘E’ l’ingresso secondario che dà sul pianerottolo.’

Senza muoversi, seguitò:

‘A sinistra la stanza da pranzo, ma noi, ora, consumiamo i pasti in cucina. Quindi, la camera dei ragazzi, Stano e Mario, poi il bagno, la cucina e, di fronte, un piccolo ripostiglio. La porta successiva &egrave la camera che occupo io, ed ecco quella che intendiamo affittare. Nell’ultima c’é Ela, mia figlia, col suo bambino di pochi mesi. Il marito &egrave imbarcato, militarizzato, su un’unità adibita al trasporto di truppe e materiali.’

Si avvicinò ad una porta, l’aprì.

‘Questa é la camera disponibile.’

La stanza era ampia, luminosa, parati chiari, mobili di noce, molti specchi: sul comò, sulla toletta, sulle ante degli armadi. Il pavimento di legno, a cera, splendeva.

Subito dopo l’uscio, a sinistra, un tavolino con una sedia, poi una porta chiusa, senza maniglia, il comodino a fianco del letto accostato alla parete; nell’angolo la toletta con una poltroncina, quindi il balcone, di fronte alla costa rocciosa dominata dal vecchio castello. Proseguendo, il comò e, sull’altra parete, il grosso armadio a due sportelli.

La signora cercava di leggere in volto le mie impressioni.

‘E’ una bella camera’ -dissi- ‘forse anche troppo grande per me. Devo conoscere, logicamente, le vostre richieste prima di decidere.’

‘Certo’ -replicò lei, cortesemente- ‘venite che vi offro quello che dovrebbe essere un caff&egrave. Se non vi dispiace lo prenderemo in cucina, come se foste un altro mio figlio. Quanti anni avete, se posso chiederlo?’

‘Quasi ventuno.’

‘La stessa età di Ela. Noi da queste parti usiamo sposare abbastanza giovani. Io non avevo ancora diciannove anni. Anche Ela, del resto, aveva la stessa età quando ha sposato Mirko.’

Nella vasta cucina mi fece sedere accanto al tavolo. Prese una piccola ‘napoletana’, e la riempì con una polvere nera conservata in un barattolo che stava nella credenza. La mise su un fornello a spirito. Restò in silenzio fin quando l’acqua iniziò a bollire. Capovolse la macchinetta, la portò sul tavolo. Stese un bianco tovagliolo, vi pose due tazzine, i cucchiaini, una piccola zuccheriera. Venne a sedersi di fronte. Accavallò le gambe. Non indossava calze. Le caviglie erano snelle, il polpaccio ben modellato. Mi fissò negli occhi, con un lieve sorriso nel volto.

‘Quanto volete spendere?’

La risposta mi uscì spontanea, improvvisa, senza essere stata ponderata, senza valutarla.

‘Quello che mi chiederete.’

Sembrava assente quando sussurrò qualcosa che non capii. (Mi sembrò udire, Kamo srece! magari!.)

Si riprese subito e la richiesta corrispose esattamente alla cifra che avevo deciso di destinare al fitto della camera.

Proseguì.

‘E’ chiaro che provvederemo noi alla biancheria da letto e da bagno e alla pulizia della camera. Lo scaldabagno &egrave a legna, dovremo intenderci sul quando vorrete usarlo. Non c’&egrave bisogno che mandiate l’attendente per fare queste faccende. Scusate, ma non gradisco molta gente per casa.’

Quella specie di caff&egrave era filtrato, lo versò nelle tazzine, scoperchiò la zuccheriera, prese il cucchiaino che era dentro.

‘Quanto?’

‘Solo mezzo, grazie.’

Mi porse la tazzina sul piattino dov’era il cucchiaino.

‘Io lo prendo amaro. Sono abituata all’amaro.’

E i suoi occhi furono attraversati da un velo di tristezza.

Si sentì un lieve fruscio nel corridoio.

Come se si risvegliasse all’improvviso, ricompose il volto rivestendolo del solito vago ed enigmatico sorriso.

‘Dev’essere mia figlia col bambino. Tornano dalla passeggiata.

Ela, son qui, vien qua.’

Sulla porta apparve una giovane donna, quasi una ragazza, vestita di bianco: gonna svasata, corpetto senza maniche, un po’ attillato sul seno rigoglioso. Sandali bianchi, senza tacco. Gambe lunghe, affusolate, che salivano a modellare la pregevole curva dei fianchi. Il volto roseo, allegro, sorridente, gli occhi d’un azzurro scintillante, profondo, in cui ci si sentiva sperdere, lunghe ciglia, un piccolo nasetto su perfette labbra vermiglie, il collo d’alabastro, un ricco manto di biondi capelli sulle spalle.

Il bimbo che aveva in braccio tese le manine alla nonna. Nel porgerlo, Ela allungò le braccia mostrando le ascelle dorate.

‘Ela, questo &egrave il nostro inquilino.

E questa &egrave Ela, mia figlia, col piccolo Roberto.’

Mi alzai per salutare la nuova venuta.

Mi tese la mano. Bianca, morbida, curata, ma decisa nella stretta.

‘Sono Giorgio Santin. Mi auguro di non arrecare eccessivo disturbo nella vostra bella casa.’

Ela mi interruppe.

‘Eventualmente sarete voi ad aver fastidi da Roberto, e forse anche da Stano e Mario che sono alquanto rumorosi. Non li avete ancora conosciuti, vero ? Credo che siano in palestra, perché qui di lavoro neanche a parlarne, e Stano ha già diciotto anni e la licenza complementare. Mario deve ancora finire gli studi, lui dice che vuole fare il pilota militare, ma chissà cosa lo aspetta nella vita.’

Mi tese nuovamente la mano, prese la mia e la scosse con vigore.

‘Benvenuto a ‘Ca’ de Do”, perché la chiamano così, lo sapete? Ma avrò tempo per raccontarvene la storia, se non vi annoierò.’

Mi sembrò opportuno parlare del piccolo. Mi complimentai: era bello e ben cresciuto, poi presi commiato dicendo che sarei tornato verso sera e che, intanto, vi avrei fatto portare il mio bagaglio. Presi dal portafoglio l’importo del primo mese di fitto e lo posi sul tavolo, accanto alla tazzina di caff&egrave ormai vuota.

La madre di Ela ebbe un gesto di sorpresa.

‘Non c’era bisogno di tanta fretta.

Volevo dirvi che, se non avete impegni, saremmo lieti di avervi a cena con noi. Sapete, un pasto modesto, sia nella qualità sia nella quantità, ma vorremmo salutare la vostra venuta. E saremo lieti se potremo avervi con noi anche le sere future.’

Si voltò verso la figlia.

‘Vero Ela?’

‘Vrlo dobro! Benissimo, mamma, se il signor Tenente ci farà l’onore della sua presenza festeggeremmo l’ingresso del nostro primo inquilino che, però, vorremmo considerare soprattutto un amico.’

Ero restato in piedi, da quando era arrivata Ela.

‘L’invito &egrave un dono inatteso e gradito, mi fa sentire non estraneo nella vostra casa. Grazie, sono felicissimo di accettare. Quel ‘signor Tenente’, invece, mi allontana tanto. Visto che sarò a cena con voi, questa sera, e spero in cucina, dove, come mi &egrave stato detto, consumate abitualmente i pasti, non vi sembra che io sia solamente Giorgio?’

‘E io sono Ela.’

Disse la bella mamma di Roberto.

‘Ma tu… scusate, ma voi siete una signora, &egrave un’altra cosa.’

‘E allora? Sono vetusta?’

Non seppi dire altro.

‘Io sono Katia, la… vecchia nonna.’ -intervenne la padrona di casa, salutandomi- ‘Ela accompagnalo alla porta, io resto qui con Roberto.’

Giunto sul pianerottolo, Ela mi sorrise tendendomi la mano, che indugiò nella mia.

‘Ciao Giorgio, ci vediamo a cena, zdravo.’

L’unica torta che riuscii a trovare fu una specie di pan di Spagna addolcito col miele in luogo dello zucchero, imbottito di crema e ricoperto di panna.

Non potevo, certo, portarla attraverso il centro del paese, né affidare l’incarico all’attendente. Sarebbe stato buffo vedere un soldato, fucile a bracc’arm, col grosso pacco della pasticceria. Pregai il venditore di provvedere alla consegna, e lasciai una mancia con la preghiera di non accettarne altra dal destinatario.

Il bagaglio era stato ritirato dall’albergo e il facchino, con un vecchio e cigolante triciclo, si era incaricato di portarlo nella nuova abitazione. Lo incontrai che tornava dopo aver effettuato il trasporto. Si fermò, ringraziando ancora per la camicia nuova che gli avevo regalato e per dirmi che mi ero anche disturbato a dargli del denaro, mentre per quel servizio non ci sarebbe voluto niente.

‘Go’ messo tuto ne la camara. Xe veramente comoda, sior tenente, e la se troverà ben. Bela gente, vero? Gà vedùo che roba?’

Risalì in sella e si allontanò con un rumore di vecchia ferraglia.

Mi avviai verso ‘Ca’ de Do”, salii lentamente le scale, tirai il pomolo d’ottone che sporgeva a destra della porta. Dopo pochi istanti, senza che si fosse udito alcun passo, la porta si aprì. La signora Katia indossava un vestitino chiaro e attillato, appena coperto da un grembiulino con la pettorina bordata di rosso vivo. Aveva un’aria giovane, sbarazzina. Ai piedi le pattine. Quando si accorse che con gli occhi andavo cercando, sul pavimento, quelle che avrei dovuto usare io, il volto le s’illuminò con un sorriso.

‘No staga a preocuparse, no ghe xe bisogno che le porti anca lu.’

Arrossì e si affrettò a giustificarsi.

‘Scusatemi, ma noi, in genere si parla in dialetto, quasi veneto, o in croato.’

Entrai e misi i piedi sulle pattine di feltro. Sorrisi a mia volta, rassicurandola.

‘E’ bello il dialetto veneto, lo comprendo e mi piace moltissimo, &egrave dolce, musicale, confidenziale. E’ la prima lingua che ho parlato, fin dall’asilo. Inoltre, desidero apprendere un po’ di croato.’

La guardai con ostentata ammirazione.

‘Bel vestito, signora, così siete la sorella bruna di Ela.’

Il volto della donna si distese, sparirono anche le due sottili rughe che erano comparse sulla fronte.

‘Hvala! Grazie, troppo buono. E’ un complimento, non la realtà. Grazie.

Volevo dirvi che hanno portato una bellissima torta. Credevamo che il ragazzo avesse sbagliato. Non c’era biglietto. Ha detto che era stata ordinata dall’ufficiale venuto da poco e abbiamo capito che eravate voi. Non ha voluto neppure essere ringraziato, &egrave scappato subito via. Immagino che sia per la cena, ma non dovevate disturbarvi. Ela, golosissima, ha battuto le mani per la gioia, ha subito preso un po’ di panna con un dito e poi ha cercato di nascondere il furto riappianando la parte toccata.

E’ arrivato anche il bagaglio. Il facchino ha preteso di portarlo lui stesso in camera vostra. Se volete, possiamo pensare noi a mettere tutto a posto, nell’armadio, nei cassetti, salvo che non vi siano cose riservate che volete curare personalmente.’

‘Non ci vuole alcun ringraziamento, &egrave l’unico dolce che ho trovato.

Nel bagaglio, di riservato c’&egrave solo una scatola di legno, chiusa a chiave, con dei documenti. Chiedo scusa ma devo tenerla così, del resto la conserverò in un cassetto. Grazie di cuore per l’interessamento, ora dovrò aprire la valigia, per cambiarmi, poi vi lascerò le chiavi di tutto. A proposito di cambiarmi, non ho vestiti per mettermi in borghese, quindi devo restare in divisa perché non credo opportuno presentarmi con la giacca del pigiama.’

‘Potete venire come volete, in divisa, con la giacca del pigiama, in camicia come saranno i miei figli. Noi siamo gente alla buona, senza alcuna etichetta. Ma adesso &egrave meglio fare quello che dobbiamo, voi nella vostra camera, io in cucina. Se non avete nulla in contrario, andremmo a tavola fra un’ora.’

Si fece da parte per farmi passare. Le cedetti il passo e, dietro di lei, mi avviai verso la mia camera.

Avevano messo, vicino alla toletta, un asciugamano grande e due piccoli; sul comodino, in un vassoio, una bottiglia piena d’acqua, con un bicchiere.

Tolsi il cinturone, lo appesi all’attaccapanni tra il comò e l’armadio, estrassi la pistola dalla fondina e la riposi nel cassetto del comodino. Poggiai la giubba sulla spalliera della sedia, sciolsi la cravatta e levai la camicia, la misi vicino al cinturone. Aprii il baule e presi cacciastivali e pantofole.

Dopo poco ero in pigiama e pantofole.

Uscii nel corridoio, andai nel bagno per rinfrescarmi.

Rientrato in camera, dalla valigia tolsi il ‘necessaire’ che conteneva quanto serviva per radermi, pettinarmi, lavarmi, e lo sistemai sulla toletta. Restai un po’ dietro i vetri del balcone, a guardare il grigio del castello.

Indossai un paio di pantaloni abbastanza stirati e una camicia, infilai gli stivali, misi la cravatta.

Mancava mezz’ora per la cena, avrei potuto mettere a posto gli effetti personali, ma avevo voglia di non fare nulla. Uscii nel corridoio. Dalla cucina giungevano rumori soffocati e un parlottare a bassa voce. Mi schiarii la voce.

Come se qualcuno fosse stato in ascolto, si aprì la porta e comparve Ela. Indossava una gonna scura, che le affinava i fianchi, e una comoda camicetta di cotone bianco, abbottonata sul davanti. Mi salutò con la mano, sorridente, restando sulla porta.

‘Ah, Giorgio. Dobro vece, buonasera. Venite, c’&egrave posto per tutti. Parliamo piano perché Roberto dorme, dopo la poppata. Anzi, andiamo a vederlo. Piano, faccio strada.’

Attraversò il corridoio, si fermò accanto alla porta della sua camera, adiacente alla mia, restò ad origliare, con la mano sulla maniglia, l’abbassò lentamente, senza alcun rumore, aprì con molta cautela e mise dentro le testa. Si voltò verso di me e fece cenno di avvicinarmi. Le pattine scivolavano silenziose sul pavimento. Quando le fui accanto mi prese per mano e mi fece entrare nella camera avvolta dalla penombra. Accanto alla porta, tra il muro e il letto matrimoniale, stava la culla di Roberto, contornata da un vistoso nastro celeste, coperta con un velo che scendeva dal legno sagomato che la sovrastava.

Ela avvicinò il dito alla bocca, per raccomandarmi silenzio. Si curvò sulla culla. Roberto dormiva beato, con i pugnetti chiusi. Lei lo guardò con tenerezza, gli occhi lucidi. Si fece un po’ da parte perché lo potessi vedere da vicino. Cercai di dirle con lo sguardo che era un bambino meraviglioso, mi guardò fisso, serrò le labbra, mi strinse la mano.

Uscimmo silenziosamente, com’eravamo entrati. Ela chiuse la porta. Senza lasciare la mia mano andò verso la cucina. Parlò piano, sottovoce, come per tema di svegliare il bambino.

‘Piace anche a lui, mamma.’

Forse, solo allora si accorse che stringeva la mia mano, come se così si sentisse sicura, protetta. La lasciò lentamente, senza aprire del tutto la sua, in una lunga carezza.

Sedette sulla sedia poco discosta dalla tavola imbandita.

M’indicò la sedia accanto. Andai a sedere li, guardando tovaglia, tovaglioli, piatti, bicchieri, posate…

La signora Katia disse che andava a chiamare i ragazzi e uscì nel corridoio.

Ela si alzò, io le andai vicino. Additò i posti.

‘Stano siede a capotavola, al posto di papà, alla sua destra l’ospite con vicino la mamma; dall’altra parte Mario ed io. Va bene?’

Entrarono due giovanottoni, alti, robusti, volti aperti, simpatici, occhi verdazzurri, capelli castani. Indossavano pantaloni scuri e camicie chiare.

La signora Katia li seguiva.

‘Tenente Santin, questi sono i miei figli, Stano e Mario.’

Due vigorose strette di mano, e ci sedemmo nei posti indicati da Ela.

Prima ancora di spiegare il tovagliolo, la signora Katia si fece il segno della croce, imitata dagli altri.

‘Noi usiamo dire una piccola preghiera prima d’ogni pasto e non vorremmo perdere l’abitudine. La diciamo in croato.’

Anch’io risposi ‘amen’ al termine del breve ringraziamento, pur senza averne capito le parole.

La cena fu ottima e abbondante: sformato di verdura, coniglio al forno, con patate, uva. Il dolce, anche se autarchico, era delizioso. Il vino fresco ed invitante. Ela non diceva mai basta quando le riempivo il bicchiere. Al termine comparve una bottiglia di frizzante che animò ancor più la conversazione che si svolgeva quasi sottovoce per non svegliare Roberto.

Dopo molte insistenze, Stano e Mario, nonostante lo sguardo della madre non esprimesse approvazione, accettarono di darmi del tu. Il frizzantino, pjenusavo vino, dette il colpo decisivo.

La signora Katia fu la prima ad alzare il calice.

‘Alla salute dei nostri cari lontani, con l’augurio che questo stato di cose finisca presto e bene e che loro tornino sani e salvi. Che Mirko conosca il figlio, Dario il nipote. Alla salute di Roberto, che possa crescere in un mondo più giusto.’

Ci levammo in piedi, i calici in alto, dicendo insieme ‘alla salute!’, poi tornammo a sedere.

Ela ruppe il silenzio.

‘ ‘Prosit!’ Alla salute dei presenti, e degli assenti, e che il Signore ci dia la forza di attenderli in serenità. Alla salute di tutti. Alla salute di Giorgio.’

Si chinò verso me, tendendo il calice, rivelando la rosea carnalità del seno .

Toccai il suo bicchiere e la ringraziai, e così feci con gli altri.

Mario andò a prendere una grossa coppa di vetro, vi versò il resto dello spumante e disse solennemente:

‘Quando si &egrave amici si deve bere tutti nello stesso bicchiere, all’uso di montagna. E’ il segno che si &egrave legati per sempre. ‘

La signora Katia cercò di ridicolizzare la cosa, dicendo che erano ragazzate, ma anche Stano intervenne osservando che si trattava di una cosa seria: solenne promessa di solidarietà, d’aiuto reciproco. Bere nello stesso calice &egrave la massima espressione di fraternità, d’amore cristiano, concluse.

Mario porse la coppa alla madre.

‘Mamma, devi cominciare tu.’

‘No, facciamo iniziare al tenente.’

‘Prima la padrona di casa’ -osservai- ‘ha ragione Mario. E poi, per favore, sono Giorgio.’

La signora Katia prese il grosso calice, lo portò alle labbra, fece un piccolo sorso, passò sul bordo la parte pulita del suo tovagliolo.

‘E adesso ?’

Chiese, tenendo la coppa tra le mani.

‘E’ la volta dell’altra mamma.’

Dissi.

Il calice passò a Ela che vi fece un lungo sorso e, senza asciugarne l’orlo, lo porse a me:

‘Ora &egrave il turno dell’ospite.’

Bevvi anch’io, ma non feci in tempo a prendere il tovagliolo che Ela mi tolse la coppa dalle mani e, senza girarla la riportò alla bocca, soffermandosi in un altro lungo sorso, poi passò accuratamente l’angolo del tovagliolo dove aveva posato le labbra e dette il bicchiere a Stano.

‘Non devi leggere i miei pensieri, tu !’

Fu la volta di Mario. Che, dopo aver scolato tutto, si rivolse alla madre:

‘Mamma, se permetti, noi andiamo, perché ci aspettano, e il coprifuoco arriva presto.’

La madre fece un cenno di assenso col capo.

Si alzarono, salutarono, uscirono

Mi congratulai con la signora Katia per la deliziosa cena e per la simpatica cordialità dei suoi ragazzi.

Mi pose distrattamente la mano sulla gamba dicendo che ci voleva una tazza di quel liquido nero che si insisteva a chiamare caff&egrave. Si alzò per prepararlo.

Roberto cominciava a farsi sentire.

‘Ela, va a vedere, forse vuole il ciuccetto.’

‘Vado, mamma.’

Si alzò, mi tese la mano.

‘Andiamo.’

Il bambino aveva aperto gli occhi e guardava la luce del lume, sul comodino, azzurrata con un foulard.

‘Il padre non lo conosce.’

Disse Ela.

Prese in braccio il bambino e sedette sul tappeto accanto al letto. Sbottonò la blusetta, tirò fuori una mammella, gonfia, ricamata di venuzze, e l’avvicinò al piccolo che, avido, vi si attaccò subito.

‘Ha poppato da poco, ma così beve anche lui lo spumante col quale abbiamo brindato.’

Col solito gesto mi fece segno di sedere sul letto. Era morbido.

‘La mano… Molim… Per piacere…’

E mi tese la sua, calda, tremante, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime.

2

Cambiamento d’ambiente, letto diverso, o chissà cosa, fatto sta che non riuscii a riposare bene, quella notte.

Era appena giorno quando, curando di non fare rumore, andai al bagno portando il necessario per lavarmi e radermi.

A quell’ora dormivano ancora tutti. La notte era trascorsa silenziosa. Non avevo udito rientrare i ragazzi, né s’era sentito piangere Roberto.

Rientrai nella mia camera e mi vestii. Avrei letto qualcosa nell’attesa dell’ora di dover uscire.

Sentii picchiare leggermente alla porta. Come il grattare d’un gatto. La maniglia s’abbassò lentamente, l’uscio si socchiuse. Ela, in vestaglia, i capelli sciolti, portava un vassoio coperto da un tovagliolo.

‘Ho sentito gente già sveglia e ho pensato che ci volesse una bevanda calda. Disturbo?’

Non attese risposta, si avvicinò al tavolino e vi posò sopra il vassoio, lo scoprì in parte mostrando una caffettiera, un bricco col latte, un piatto con dei biscotti scuri.

‘Solo per me?’ Chiesi.

Scosse il capo, tolse del tutto il tovagliolo. Comparvero due tazze. Avvicinò al tavolino la poltroncina della toletta e la sedia. Sedette sulla sedia e fece il solito gesto d’invito battendo la mano sulla poltroncina.

‘Perché io in poltrona ?’

‘Il trono spetta all’uomo.’

Rispose con fare provocatorio. Prese i tovagliolini che aveva portato e ne mise uno davanti a me e uno davanti a lei, vi posò, sopra, le tazze.

Così muovendosi, la leggera vestaglia si apriva sulla camicia da notte trasparente.

Si accorse del mio guardare e, senza smettere ciò che stava facendo, sorrise maliziosamente:

‘Attento, la realtà potrebbe deludere. A quest’ora devo essere assolutamente impresentabile e credo che la camicia rechi il segno che, di notte, esce del latte dal seno.’

Aveva finito di preparare il tutto.

‘Pronti’ -proseguì- ‘e buona colazione.’

Si chinò verso di me, come per baciarmi. Si rialzò di scatto, seria, pallida, i lineamenti del volto tirati, stringendo le mani. Aveva cambiato voce.

‘Chiedo scusa, un attimo di distrazione. O forse no? Ero immersa nei miei pensieri, abbandonata alla fantasia che per un momento mi ha fatto sognare. E nel sogno ho sempre desiderato una realtà diversa da quella vissuta.

E’ passato tanto tempo da quando preparavo la colazione a Mirko. Prima di cominciare a mangiare, quando era tutto pronto, gli davo un bacio, ero io a darglielo, breve, fugace, giacché se indugiavo finivo col desiderare e pretendere quello che lui avrebbe… sbrigato in fretta e controvoglia, perché gli si raffreddava la colazione e a lui seccava molto. Restavo delusa, digiuna più che mai. Ma lui non se ne accorgeva. O non gli interessava. Spero di essere scusata.’

Parlava senza guardarmi, impersonalmente.

Lentamente, andava riprendendo il colorito. Le presi la mano e la baciai lievemente. Avvicinò le sue labbra alle mie, con la mano dietro mia nuca mi attirò a sé con forza, mi baciò avidamente. Si staccò di colpo, bagnò un biscotto nel latte e cominciò a mangiarlo come se nulla fosse accaduto, mi sorrise dicendo:

‘Mangia qualcosa, chi lavora deve mangiare.’

Inzuppò un altro biscotto nella sua tazza, ne mangiò un pezzetto e poi me lo porse. Bevve un sorso e avvicinò la tazza alla mia bocca.

‘Bevi qui, così saprai di me quello che nessuno non ha mai saputo. Buona giornata, io torno da Roberto.’

Prese la sua tazza e uscì dalla camera.

Dopo un po’ portai il vassoio in cucina, da dove proveniva qualche rumore.

La signora Katia, in vestaglia blu elettrico, serica, cangiante, che le aderiva come se le fosse incollata alla pelle, preparava le colazioni. Mi volgeva le spalle, non s’era accorta di me.

I suoi fianchi attraenti, invitanti, erano particolareggiatamente modellati in ogni delizioso dettaglio. I capelli, neri con qualche filuzzo d’argento, le carezzavano le belle spalle. Al mio saluto si voltò, poggiando la schiena al lavello.

La stoffa, tesa sul seno, metteva in evidenza i capezzoli eretti.

Restò immobile, fissando il vassoio che avevo messo sul tavolo, con un sorriso tra l’ironia e la curiosità.

‘Buon giorno. Vedo che c’&egrave chi ha già pensato alla vostra colazione. Avete dormito bene? Non mi sembra che Roberto abbia piagnucolato, questa notte. Neppure la luce della camera di Ela dovrebbe darvi fastidio. Davanti alla porta di comunicazione abbiamo posto un armadio, e il grosso feltro su cui poggia dovrebbe impedire che la luce filtri. Com’&egrave stata la prima notte? Perché per voi &egrave la prima notte, vero, in questa casa?’

M’interrogava cogli occhi, mi scrutava, quasi volesse leggermi dentro. Mi passò davanti, andò alla credenza, si alzò sulla punta dei piedi per prendere un barattolo sulla mensola, in alto. Così protesa la vestaglia aderiva ancora di più e quando, abbassando una delle mani, si aprì, vidi chiaramente che quello era l’unico indumento che indossava.

Non si scompose più di tanto. Tornò alle colazioni.

‘Io devo sentirmi libera di muovermi’ -disse- ‘non riesco a dormire stretta in camicie da notte e tanto meno in pigiami. Sono un essere primitivo, selvaggio. Dovevo nascere e vivere nei boschi. La mattina girerei per casa senza nulla addosso. Sopporto a malapena perfino gli abiti leggeri come questa vestaglia. Chissà che concetto vi fate di me dopo tutto quello che ho detto, ma a me piace parlare chiaro, dire come la penso, cosa voglio, senza stare tanto a girare intorno al problema. Sono un po’ matta, vero?’

Aveva parlato tutto d’un fiato, volgendomi le spalle.

Si voltò di scatto. Gli occhi improvvisamente illuminati d’una strana luce, le narici frementi. Mosse qualche passo verso il tavolo, barcollando.

Le andai incontro per sostenerla. Le passai un braccio dietro la schiena, la mano sotto l’ascella. Afferrò la mano stringendola al seno, sodo. Sfiorai il capezzolo, sobbalzò. La feci sedere. La vestaglia, aperta, scopriva le cosce che tremavano visibilmente. Cercai un bicchiere, volevo prendere l’acqua dalla caraffa. Scosse la testa.

‘No, non voglio bere. Non voglio niente. Sto bene, non chiamate nessuno, aiutatemi ad andare nella mia camera. Non dite niente a Ela, né ai ragazzi. Aiutatemi voi.’

Cercò di alzarsi dalla sedia. La sorressi. Mise il suo braccio sulla mia spalla e andammo, così, nella sua camera. Il letto era già rifatto. Il balcone, che aveva la stessa esposizione del mio, era spalancato. L’accompagnai al letto, l’aiutai a stendersi sopra. Volevo scostare le coperte per coprirla. Fece segno di no. Restò supina, con le braccia lungo il corpo, le labbra dischiuse, il respiro un po’ affannoso. Mi venne spontaneo di carezzarle i capelli. Mi prese la mano, la fece scendere sul cuore.

‘E’ questo che funziona male. Grazie, non disturbatevi oltre. Non vorrei che vedendovi qui si spaventassero. Grazie.’

Mi prese la mano, vi depose un lungo bacio.

Le lacrime le rigavano il volto, bagnavano i capelli, cadevano sul cuscino.

‘Grazie, Giorgio, grazie.’

Uscii piano, chiudendo la porta dietro di me.

Quando mi trovai solo, nella mia stanza, al Comando, ripensai a quello che era accaduto nelle ultime ore.

Una casa strana, stranissima.

La figlia ricordando quando portava la colazione al marito, che la lasciava insoddisfatta, un altro po’ mi stacca le labbra.

La madre si sente selvaggia, le piacerebbe girare per casa come se fosse in un campo nudista, non sopporta nemmeno una leggera vestaglia, e si fa quasi venire un colpo.

Mah, forse sarebbe bene togliere le tende.

E pensare che ho già pagato un mese anticipato.

Peccato, perché la camera &egrave comoda, pulita, accogliente. Devo pensarci bene, però, perché andando avanti così finirei più matto di loro.

Ci devo riflettere.

Forse basterebbe evitare di incontrarla, quella gente. Solo buon giorno e buona sera quando si esce e quando si rientra.

Dopo mensa tornai a casa per riposare.

Fui costretto a bussare perché non mi avevano dato le chiavi. Dovevo chiederle.

Mi aprì la signora Katia. Allegra, sorridente, pimpante. Tanto che non osai chiederle come si sentisse.

Mi precedette nel corridoio, aprì la porta della mia camera.

‘Ho messo a posto tutta la vostra roba. Ho stirato le camicie, che s’erano arricciate nella valigia. La fotografia di quella bella ragazza, la vostra fidanzata vero?, l’ho messa sulla toletta. Forse &egrave il posto migliore. Comunque se non siete d’accordo potete sempre cambiarlo. E’ veramente una splendida ragazza, deve essere bellissimo fare l’amore con lei, vero?’

La guardai serio, seccato.

‘Non ho mai fatto l’amore con quella ragazza!’

Si fermò di fronte a me, e mi fissò. Mi tolse di mano il cinturone e andò ad appenderlo all’attaccapanni. Tornò verso me, come volesse dirmi qualcosa, poi andò alla toletta.

‘Vi dispiace se siedo qui un momento ?’

‘No, prego.’ -risposi freddamente-

Riprese, insistendo.

‘Allora fate l’amore con le altre?! Con chi? Mica, per caso, con le…, o…’

La interruppi visibilmente irritato.

‘Non c’&egrave bisogno di proseguire o di abbandonarsi all’immaginazione. Non ho fatto l’amore con nessuna donna !’

Quella provocazione m’aveva indispettito e avevo risposto d’impeto. Ora mi sentivo a disagio.

S’alzò, si avvicinò a me.

‘Mai ? A ventun’anni ?!’

‘Mai !’

‘Oh, pilence, pulcino, poareto, vien qui, fiòl.’

Mi strinse al petto, forte. Non era facile svincolarsi.

‘Pilence -seguitò- vien dalla mamma, vien da Katia.’

Mi abbracciò ancora. Poi uscì senza parlare, scuotendo la testa.

Andai sul lungo balcone. Sulla destra, oltre il finestrino del ripostiglio, la camera della signora Katia, e girando si giungeva alla cucina; dall’altra parte si andava alla sala da pranzo, che adesso non si usava, poi, molto più largo, cominciava il balcone del salone comune.

Tornai in camera. Scrissi qualche lettera. Lessi il giornale che avevo comprato. Non riuscivo a riposare. Certo avrei fatto meglio a non dire quello che avevo detto, ma mi era sembrato l’unico modo per troncare la conversazione. Meglio così.

Uscendo, mi affacciai in cucina dov’era la signora Katia:

‘Per favore, vorrei le chiavi, così non dovrò disturbarvi ogni volta che rientro.’

‘Certo, avete ragione. Le ho date per farne fare le copie, questa sera le riporterà Stano.’

‘Grazie e arrivederci.’

‘La staga ben, ma non dica più bugie, arrivederci.’

La sera cenai a mensa. Al ritorno, Ela mi aprì la porta.

‘Ciao, come si va ? Le chiavi sono pronte, sono in cucina.’

Si avviò verso il fondo del corridoio. Dalla credenza prese le chiavi e me le dette sorridendo.

‘Fretta di andare a letto? Se vieni qui facciamo due ciàcole. Possiamo prendere un grappino, se vuoi. Roberto dorme, i ragazzi sono fuori con gli amici, la mamma &egrave andata a cena dalla sorella. Hanno sempre mille cose da dirsi.

Mi fai un po’ di compagnia?’

Feci di sì con la testa e andai in camera, per togliere cinturone e giubba, poi nel bagno a lavarmi. Quando tornai, Ela aveva preparato due bicchierini e la bottiglia della grappa.

‘Scusami un momento’ -disse- ‘aspetta sul balcone, si sta bene fuori, questa sera.’

Si alzò e andò in camera sua. Uscii sul balcone e, poggiato alla ringhiera, mi misi a guardare nel vuoto.

Ela, tornata, era alle mie spalle. Si era gettata quasi su di me. Con una mano entrò nella mia camicia. Sentivo il suo petto sulla mia schiena, il suo grembo. Mi voltai piano. Restò così, con la testa un po’ discosta dalla mia, e mi guardava negli occhi.

‘E’ molto bella la tua ragazza.’

Sospirò profondamente e si strinse ancor più a me quando sentì di avermi turbato, eccitato.

Sussurrò, provocante, muovendo i fianchi:

‘Dev’essere meraviglioso essere la prima donna di un uomo, specie se lo si desidera. Meraviglioso, inebriante, impagabile.’

Katia aveva parlato.

Lo sapevo che dovevo stare zitto. A quest’ora Katia lo avrà già detto alla sorella e poi lo saprà il vicinato, quindi tutto il paese.

Ela strofinò il suo nasino contro il mio.

‘Giorgio sei un raro esemplare. Credo di non aver mai conosciuto uno come te, così attraente, così gentile, così…’

Incollò le sue labbra alle mie e le dischiuse con la sua lingua prepotente e curiosa.

‘Rientriamo’ -sussurrò- ‘potrebbero vederci. Andiamo nella tua camera.’

Tolse la bottiglia della grappa dal tavolo, rimise a posto i bicchierini. Quasi mi trascinò nella camera. Mi accorsi che quando m’aveva lasciato sul balcone era andata a mettersi in vestaglia.

Ma questa é la casa delle donne in vestaglia! E’ abitudine di famiglia.

Accese la luce centrale e quella sul comodino.

‘Voglio vederti, Giorgio, e devi vedermi.’

Sedette sul letto, il volto acceso, gli occhi scintillanti, i capelli scompigliati. Il movimento del seno disse che non aveva reggipetto. Per sfida, per metterla a disagio, glielo chiesi.

‘No’ -rispose candidamente- ‘non indosso niente sotto la vestaglia. Guarda. Nista, niente.’

Si alzò dal letto e l’aprì.

Deglutii a fatica. Ero io a sentirmi a disagio. Non sapevo cosa fare, come sarebbe andato a finire. Avveniva tutto così in fretta. Ero in una situazione mai immaginata. Una donna splendida, bellissima, fresca, invitante, che conoscevo solo da qualche ora.

Provavo un vago senso di smarrimento di timore. Avrei dimostrato la mia inesperienza. Sarebbe stato un fallimento. L’avrei delusa. Avrebbe riso di me. Eppure era un momento che avevo sempre desiderato.

E se, invece, era solo un perfido giuoco il suo?

Ela tornò a sedere sul letto, con la vestaglia aperta, poggiando le spalle al muro.

‘Guardami Giorgio Devi guardarmi. Attentamente. Devi conoscere il mio corpo, il corpo della donna. Lo devi conoscere bene, in ogni suo particolare, in ogni sua espressione, in ogni suo momento. E dovrai essere tu, solamente tu, a decidere.

Vidieti, poznati, birati! Vedere, conoscere, scegliere!

Vedi, questo &egrave il seno della femmina che nutre la sua creatura. Questo &egrave il ventre che l’ha teneramente custodita per lungo tempo. Questo il grembo dal quale &egrave venuta alla luce. Lo stesso che ha sussultato nel ricevere il seme che l’ha generata.

Tu devi comprendere tutto ciò, devi sapere come la donna agisce, vibra, freme, impazzisce.

Solo la conoscenza può portare alla scelta, alla decisione.

Accosta la tua bocca al mio seno, assapora il tepore d’un latte come quello che anche tu hai succhiato. Poni il tuo orecchio sul mio ventre, e ascoltane la musica. Metti la tua mano tra le mie gambe, guarda le labbra rosa che custodiscono la fonte della vita e del piacere, schiudile, assisti allo sbocciare e al palpitare del desiderio, al raggiungimento dell’estasi che sarai tu a donare. Disseta la mia arsura con le tue carezze, con i tuoi baci. E i tuoi occhi devono partecipare a ciò. Solo allora saprai quello che vorrai. Se mi vorrai.’

Sfiorai il capezzolo, rubandogli qualche goccia tiepida e dolce, ascoltai la musica del suo ventre, rimasi incantato di fronte al cespuglio d’oro che nascondeva il suo sesso, lo frugai, lo carezzai con dita tremanti, lo sentii dischiudersi, vidi il bocciolo che si sporgeva offrendosi. Lo toccai appena, timidamente. Ebbe un fremito. Lo sfiorai con la lingua. S’irrigidì. Lei mi pose le gambe sulle spalle.

Dalle labbra le uscì, soffocato:

‘Da… da… sì… si…’

Si protese verso me.

‘E’ stupendo, amore, ma così non mi vedi. Tu devi vedermi.’

Tornò nella posizione prima.

‘Carezzami, tesoro, carezzami, &egrave bellissimo.’

Seguitai a carezzare, ancora ed ancora, mentre tutto mutava, assumeva diversa dimensione, si trasformava, diveniva vermiglio, si agitava, impazziva, sussultava.

Inarcò la schiena, scivolò sul letto sporgendo il bacino. Era un rantolo fioco, roco.

‘Krasan… da… jos… krasan… bellissimo… ancora… evo… evo…’

Non riusciva a soffocare il grido che le urgeva in gola. Tremava tutta, spingeva e ritraeva i fianchi. I suoni che le uscivano dalle labbra erano incalzanti, sempre più forti.

‘evo… evo… ecco… ecco… evooooo !’

Si fermò quasi di colpo, il turgido bocciolo tra le sue gambe tornava pian piano a nascondersi tra le pieghe incantevoli che per la prima volta mi avevano mostrato la loro palpitante vita.

Ela poggiava il capo al muro, una mano abbandonata sul lenzuolo, l’altra stretta al seno, semisdraiata, col bacino sulla sponda. Gli occhi aperti, rivolti verso l’alto, immobili. Le labbra dischiuse mostravano il candore dei piccoli denti. Il petto gonfio, coi capezzoli scuri e turgidi, andava smorzando il respiro affannoso. Il ventre continuava a muoversi in un’onda senza fine.

M’accorsi d’essere in ginocchio, sul tappeto, col volto tra le sue gambe.

Mi passò la mano tra i capelli. Mi strinse forte a sé. Mi prese il volto tra le mani, dolcemente, si chinò su di me e mi baciò delicatamente, chiudendo gli occhi. Poi mi guardò. Col gesto che ormai conoscevo mi fece cenno di sederle accanto.

Mi sussurrò nell’orecchio:

‘E’ il mio corpo, Giorgio. Hai visto?’

Prese il lobo del mio orecchio tra le labbra e cominciò a sfiorarlo lentamente con la lingua. Mi passò un braccio dietro la schiena. Con l’altra mano cominciò a sbottonarmi i pantaloni. Mi fissava. Le narici dilatate. La voce bassa, gutturale, affannata…

‘Adesso io devo conoscere te.’

Insinuò le sue dita affusolate nei pantaloni, nell’apertura delle mutandine, afferrò il mio sesso che balzò fuori, prorompente in tutta la sua spasmodica erezione.

Sempre guardandomi, sgranò gli occhi, interrogandomi con lo sguardo, sorpresa, poi si volse a ciò che teneva ben stretto nella mano, come temendo che potesse sfuggirle.

‘Madona benedeta cossa ti gà. Xelo maestoso, imenso! Blistav! Golem! Bajan!

Si chinò coprendolo coi capelli, lo pose sul palmo di una mano e con l’altra lo carezzò lentamente. Lo strinse, serrando le labbra. Si chinò ancora. Lo baciò a lungo.

‘Che beo, che spetacolo, che incanto, xe il re, e mi go’ la so’ regina, da kralj… da kraljica…’

Si alzò con fare incantato. Si avvolse nella vestaglia e si avviò alla porta. Si voltò.

‘Sutra, div… sutra… domani.’

E uscì.

3

Avevo fatto scorrere l’acqua fredda sul collo, sul volto, sui polsi. Avevo bevuto a piccoli sorsi. Scuotevo la testa, come a volervi scacciare qualcosa che stava sopra, dentro. Sedetti sul bordo della vasca e mi asciugai lentamente.

Stava passando.

Erano stati momenti terribili.

M’ero alzato dal letto per fermarla, per afferrarla, per fare qualcosa pur non sapendo cosa e come. Mi sentivo travolto da un gorgo al quale non riuscivo a salvarmi. Non sapevo nuotare!

Avevo preso l’asciugamano ed ero corso nel bagno.

L’acqua fredda aveva un po’ spento quel violento bruciare dei sensi che stava divorandomi.

Dovevo scappare da quella casa. Mi avevano accolto per farne il loro zimbello. L’indomani sarei andato via.

Quando uscii dal bagno per tornare nella mia camera, la signora Katia era in cucina. Non avevo sentito che era rientrata. Avevo la testa sotto l’acqua.

Venne sull’uscio e mi rivolse uno smagliante sorriso.

‘Buona sera, eccomi di ritorno. Quando vado da mia sorella si fa sempre un po’ tardi.’

Mi scrutò da capo a piedi. In effetti ero vestito in modo strano. Stivali, pantaloni sbottonati, camicia aperta sul petto, capelli bagnati, spettinati.

‘Scusate’ -bofonchiai- ‘non sapevo che eravate tornata, non vi ho sentito. Ho mal di testa e sento che non riuscirò a dormire.’

Mi venne incontro. Mise la mano sulla fronte.

‘Siete fresco, non avete febbre. Volete un bicchiere di latte, una camomilla?’

‘No, grazie, mi servirebbe un sonnifero.’

‘Quando si &egrave soli serve spesso un sonnifero, a chi lo dite! Andate a letto, vi porterò una pillola e un bicchiere di latte tiepido. Andate, sembrate sconvolto.’

E rimase ad assicurarsi che tornassi in camera.

Entrai in camera. Sfilai gli stivali Mi spogliai, indossai il pigiama, misi la camicia sulla spalliera della sedia, sulla giubba, il resto lo appesi all’attaccapanni. Sedetti vicino al tavolino in attesa della signora Katia.

Un lieve bussare alla porta e, senza attendere risposta, entrò recando un piccolo vassoio con un bicchiere di latte e un piattino sul quale era una grossa pillola bianca. Mise tutto sul tavolino.

La voce bassissima, quasi inudibile, con quel suo tono roco e caldo.

‘Parliamo piano, potremmo svegliare Roberto. Dovete mettervi a letto, adesso. L’effetto sarà più rapido. Ma alla vostra età e col vostro fisico non dovete ricorrere alle pillole per dormire. Su, mettetevi a letto, vi aiuto.’

Osservò il letto alquanto disfatto. La coperta di cotone raccolta a piedi, il lenzuolo con i segni lasciati da qualcuno che vi si era seduto.

‘Vi eravate sdraiato vestito?’

‘Si.’

‘Adesso metto in ordine.’

Con le mani distese bene il lenzuolo, riportò la coperta a posto, l’aprì.

‘Ecco, venite.’

La seguii come un automa.

Sedetti sul letto. Lei si chinò, mi mise un cuscino dietro le spalle, aggiustò la coperta.

Prese il vassoio dal tavolo e lo portò sul comodino. Mi porse la pillola e il bicchiere. Sedette sul letto.

‘Ecco, za uspavljivanje, per dormire. Ai bambini si canta la ninna nanna… uspavanka… uspavanka…’

A voce bassissima canticchiava.

Deglutii la pillola, bevvi il latte addolcito col miele. Restituii il bicchiere, che rimise sul vassoio.

La ringraziai.

Seguitava a canticchiare.

Si accostò a me, mi prese tra le braccia, col capo sul suo seno e cominciò a cullarmi.

‘Uspavanka… uspavanka…’

D’un tratto, sobbalzò come se uscisse da un sogno.

Sciolse quell’abbraccio, si alzò, rassettò il vestito, mi fissò a lungo negli occhi, intensamente, con un sorriso dolce, bellissimo.

‘Scusate… scusate. Buona notte.’

Le tesi la mano.

Vi abbandonò la sua sempre fissandomi. La portai alle mie labbra e la baciai delicatamente.

‘Grazie ancora, siete gentilissima.’

‘Sono io che vi ringrazio’ -rispose, con gli occhi lucidi- ‘non potete immaginare quanto sia felice che voi siate qui. Grazie, grazie ancora.’

Si chinò su me, sfiorò le mia bocca con un bacio che non riuscì a nascondere il tremore delle sue labbra, e si avviò alla porta.

Si voltò di nuovo.

Chiuse la porta, piano.

Nel sogno qualcosa mi sfiorava il volto.

Una carezza leggera, insistente, affettuosa, appassionata, e una voce sussurrava: ‘Giorgio… Giorgio…’.

Una voce nuova e nel contempo conosciuta.

Incalzante. ‘Giorgio… Giorgio…’.

La carezza si soffermò sulle labbra, si allontanò, tornò ancora, ma diversa. Adesso era un fuoco che le lambiva, si insinuava, le dischiudeva, passava tra i denti, cercava la lingua…

Aprii lentamente gli occhi.

La signora Katia allontanò il suo volto dal mio.

‘Tenente… &egrave ora di svegliarsi. Ho portato il caff&egrave, dopo la pillola di ieri sera ci vuole…’

Mi porse la tazzina.

Indossava la vestaglia blu, la treccia sciolta, i capelli, lunghissimi, sulle spalle, fino a coprirle i fianchi.

Balzai a sedere, guardai la sveglia sul comodino. Non l’avevo sentita. Era già passata l’ora nella quale normalmente mi alzavo. La pillola aveva fatto effetto.

‘Grazie signora Katia, ma come mi allontanate con quel ‘Tenente’. Ve l’ho detto, mi chiamo Giorgio.’

‘Non fino a quando io sarò la ‘signora’ Katia. Allontanarvi, poi! E’ la sola cosa che non farei mai. Anzi !’

‘ Va bene, Katia, vi ringrazio. E adesso devo fare in fretta per non essere in ritardo.’

‘Grazie Giorgio, così va bene. Ho scaldato l’acqua per il bagno. Cinque minuti non vi faranno far tardi. Alzatevi. Mi sono permessa di tenere in caldo un accappatoio. E’ nuovo, non lo ha mai indossato nessuno. Bevete il caff&egrave, alzatevi, venite.

Sapete che anche Ela ha mal di capo? Nessuno può comprenderla più di me.’

E non se ne andava. Anzi, scoprì il letto e s’abbassò a infilarmi le pantofole. Mi prese per le mani e mi tirò su.

‘Andiamo, altrimenti farete tardi davvero.’

Mi condusse per mano fino al bagno. Aprì i rubinetti e fece scendere l’acqua. Sullo sgabello accanto alla vasca mise spugna e sapone, sul tubo dello scaldabagno un bianco accappatoio, un lenzuolino, un asciugamani. Per terra un tappetino.

‘Io vado a prepararvi una robusta colazione.’

Non avevo troppo tempo. Una veloce insaponata, una sciacquata ed ero appena uscito dalla vasca, grondante, quando la porta si socchiuse.

‘Posso esservi utile ?’

Restò sull’uscio, a guardarmi, con una mano sulla bocca socchiusa. Sorpresa, meravigliata, ammirata, compiaciuta.

‘Bog moj, mio Dio.’

Non si decideva a richiudere, ad andarsene.

Indossai il caldo accappatoio.

Entrò, prese l’asciugamano, cominciò a strofinarmi i capelli.

‘Attento a non prendere freddo, pulcino bello, krasan pilence. Torna in camera, andiamo.’

Mi parlava col tu.

Mi sospinse fuori, aprì la porta della mia camera, mi fece entrare, entrò anche lei, chiuse la porta.

Riprese ad asciugarmi la testa, poi gettò l’asciugamano sulla sedia, adesso passava le mani sull’accappatoio, sulla schiena, giù sui fianchi.

‘Seduto, che asciugo le gambe.’

Mi spinse sulla sedia. Si inginocchiò e prese ad asciugare i piedi, i polpacci.

La vestaglia si muoveva, s’apriva sul petto, mostrava il seno sodo e bello.

Le sue mani salivano sulle cosce, tornavano giù, salivano ancora. Non più col vigore di prima, ed avevano abbandonato l’asciugamano. Mi guardava con occhi splendenti, con labbra e nari frementi.

‘Spetta che prendo il talco.’

Si alzò agilmente, uscì dalla camera e vi tornò, dopo pochi istanti, con un barattolo di talco.

‘Sul letto, presto.’

Ubbidii senza parlare.

Sparse il talco sulle gambe, sui piedi. Cominciò a massaggiare, anzi a sfiorare, piedi e gambe. Sollevò l’accappatoio e salì ai quadricipiti. Quelle dita mi eccitavano. Non volevo, ma era così. Non c’era da meravigliarsi pensando alla sera precedente. Cercai di porre fine a tutto ciò, ma senza mostrare scortesia verso tanta premura. Le sorrisi.

‘Grazie. Ora devo proprio alzarmi, per non far tardi.’

Le sue mani salirono ancora, lentamente, fino a incontrare la mia evidente eccitazione, indugiarono lievi, poi, molto lentamente, uscirono dall’accappatoio.

‘Si, devo finire di preparare la colazione. Vado.’

Tornò in cucina.

A metà mattino chiesi al capitano il permesso di allontanarmi per una mezz’ora.

In piazza v’era un negozio che appariva ben fornito. Avevo deciso di acquistare una vestaglia da camera.

Già, nella casa delle vestaglie forse ero io l’unico a non averne.

Quando entrai mi venne incontro, gentilissima, una signora, non giovanissima ma molto piacente, elegante.

‘Buon giorno. Cosa comanda, sior tenente?’

‘Buon giorno. Vorrei una vestaglia da camera, per me.’

La donna si voltò verso il fondo del negozio, dove una tenda nascondeva il retrobottega.

‘Lenka, vien qua, c’&egrave da servire un signore. Vestaglie per uomo.’

Rivolgendosi a me, sorridendo:

‘Viene subito. Accomodatevi pure.’

‘Grazie, preferisco restare in piedi.’

Dalla tenda uscì una ragazza, forse non ancora ventenne, con un grazioso vestitino a fiori, le braccia scoperte. Abbastanza alta, con un personale che dava certamente dei punti alle modelle. Era più ‘vero’, più proporzionato. Portava due grosse scatole che mise sul bancone. Volto allegro, sorridente. Mi guardò.

‘Eccomi. Buon giorno. Spero che vi sia quello che cercate. ‘

Mi ero avvicinato al bancone.

‘Buon giorno. Vorrei qualcosa di non troppo pesante, ma adatta anche per quando farà fresco. Un colore non vistoso.’

Aprì i coperchi delle scatole.

‘Ecco, &egrave tutto qui. Non é articolo che si vende molto, e sono quelle rimaste.’

Le chiesi consiglio.

‘Voi con quale mi vedreste meglio?’

Ammiccò maliziosamente, si sporse verso di me, sussurrò:

‘Con nessuna… Voglio dire che tutte vi starebbero bene, ma senza stareste meglio.’

‘Grazie, signorina, ma…’

‘Sono Lenka. Lenka e basta. Avete sentito come mi ha chiamato la mamma? Chiamatemi Lenka.’

‘Grazie, Lenka. Io sono Giorgio…’

‘Lo so, il tenente Giorgio Santin, che abita alla ‘Ca’ de Do”, in casa di Ela e della sua mamma, la Katia, che, poarete, le xe lontane dai so’ omini. Vero?’

‘Tutto vero, siete informatissima. Ma lo dite con un certo tono!’

‘Naturale, io sono sempre un po’ invidiosa!’

‘E di che?’

‘Via, tenente Santin…’

‘Sono Giorgio, ve l’ho detto.’

‘Via, Giorgio, &egrave una grazia del cielo, di questi tempi, avere in casa un ufficiale, e se &egrave come voi la grazia &egrave doppia.’

Quale grazia?

‘Ma siete proprio così o sapete recitare bene? La casa e le donne hanno un uomo, sono protette, hanno quello che loro mancava da tempo, e forse di più. Scusate se mi sono permessa queste chiacchiere, questo pettegolezzo.

Comunque, per tornare alla vestaglia, io vi vedrei bene con questa. Prima che… ve la togliate.’

E tornò a sorridere.

‘Benissimo. La prendo. Pago subito e manderò l’attendente perché me la porti a casa.’

Pagai. E mi avviai per uscire.

‘Grazie e arrivederci.’

La mamma salutò.

Lenka mi raggiunse sulla porta.

‘Arrivederci, spero. Io sono sempre libera, quando voglio, specie il pomeriggio, la sera. Mi piace passeggiare e andare al cinema. A casa ho una bella collezione di dischi. Sapete, mi viziano, sono figlia unica. Mio padre &egrave sempre alle prese con la sua farmacia e per non avere noi tra i piedi ha aperto questo negozio e lo ha affidato a noi. Abitiamo nella villetta, Villa Lenka, sul viale della stazione, dopo il bivio. Arrivederci?’

‘Certo, Lenka, e presto.’

Mi avviai verso il Comando.

Il pomeriggio sarei stato libero, perché l’indomani m’aspettava la pattuglia.

Quando rientrai, dopo la mensa, la casa era silenziosissima, sembrava disabitata. Solo la porta della cucina era aperta. Ela, seduta vicino al tavolo, come mi vide s’alzò. Un sorriso aperto, gioioso. Mi venne incontro. Con le mani dietro la schiena, si levò appena sulla punta dei piedi e strofinò le sue labbra sulle mie, lambendole, nel contempo, con la punta della lingua. Mi guardò con aria di sfida per vedere la mia reazione. Cominciai a sfilarmi i guanti. Mi prese sottobraccio.

‘Vieni, hanno portato la tua vestaglia, &egrave bellissima. Voglio vedere come ti sta.’

‘Ma io non ho detto ancora nulla all’attendente.’

‘Infatti, l’ha portata Lenka. Ha detto che si trovava di passaggio. Chissà dove andava, non me lo ha detto. Lei abita dall’altra parte del paese. Lo sai che hai fatto colpo su di lei? Mi ha detto che vi rivedrete, &egrave vero? Perché, ti piace? Sai, era nella classe dopo la mia. Bellina, certo, ma smorfiosa. E accaparratrice. Peccato che le sue arie, e non so come possa giustificarle, non la rendano molto attraente e socievole. Vero?’

Eravamo entrati nella mia camera.

La vestaglia era dispiegata, sul letto.

‘Allora’ -dissi- ‘vediamo di ricapitolare.’

Assunsi un tono scanzonato.

‘Ho piacere di aver fatto colpo su di lei. Forse ci rivedremo, ma dipende da tante cose. Non potrebbe non attirare, &egrave una bella ragazza. A me non sembra smorfiosa né che si dia delle arie. Con me non lo ha fatto, ma forse &egrave la sua tattica… accaparratrice. Come hai detto tu. Spero di aver risposto a tutto. Soddisfatta?’

Ela mi guardò aggressiva. Era restata sottobraccio a me. Passò con forza le sue unghie sulla mia mano.

‘Hai deciso di cominciare da lei? Ma non sai che io graffio?’

‘Si, ma anch’io posso graffiare.’

‘Lo so bene, ma io ti taglierò sempre le unghie, e così tanto che non te ne rimarranno per… le altre. Su, prova la vestaglia.’

Mi aiutò a togliere cinturone e giubba.

‘Via anche il resto. Non vorrai indossare la vestaglia restando con gli stivaloni. Aspetta che prendo il cavastivali.’

Lo prese, lo mise vicino ai miei piedi, attese che togliessi gli stivali, mi face calzare le pantofole che aveva preparato.

‘Forza, restano pantaloni, cravatta e camicia.’

La guardai indeciso.

‘Forza belo che mi te conosso, so’ ben come ti xe, ostrega se lo so! Mi son sta a sanjati de ti tutta la notte.’

‘Sanjati ?!’

‘Si, sognare. Ma non mi piase che mi sogno e gli altri godano la realtà. Capìo ? Razumjeti? Capire?’

Mi strinsi nelle spalle. Forse temevo che quello che capivo non era vero. O forse, in effetti, non capivo.

Ero in mutandine e maglietta. Mi porse la vestaglia e mi aiutò a indossarla. Annodò elegantemente la cinta. Arretrò d’un passo.

‘Sei una visione! No, sei una realtà. Io sono qui, e tu sei qui. Ti tocco, ti bacio…ti voglio.’

Mi gettò le braccia al collo, andava baciandomi avidamente, sulle labbra, sugli occhi. Si stringeva a me. Aderiva a me, come una ventosa, col ventre, sollevandosi sulla punta dei piedi, sentiva il mio eccitamento, se ne compiaceva, lo stimolava.

‘Non ti sono insensibile. Lo sento. Ho spostato l’armadio. Tu chiuditi dentro, questa sera, verrò a trovarti. Sarà qualcosa che non dimenticherai mai, mai. Devo andare. Non voglio sciupare tutto adesso. Aspettami. Capito?’

Mi lasciò nel momento che qualcuno stava rientrando.

Era Katia.

Ela aveva lasciato la porta aperta.

‘Come mai in casa così presto? E che bella vestaglia. Elegante. Sta benissimo.’

‘Grazie, sono di riposo prima di un servizio esterno.’

‘Pericoloso?’

‘No, solo delle scartoffie da consegnare fuori paese.’

‘Lontano?’

‘Non molto.’

‘Io faccio il caff&egrave. Lo prendiamo insieme?’

‘Volentieri.’

‘Allora, mi cambio in un momento e lo servirò nel soggiorno. Questa mattina l’ho pulito a fondo. Si sta bene. Vedrete. Anzi, aspettatemi lì.’

‘D’accordo, mi cambio anch’io. ‘

‘No, restate così, siete elegantissimo. Sarà più intimo… volevo dire più familiare.’

‘Obbedisco.’

Andò nella sua camera. Di fronte.

Uscii nel corridoio. La porta di Ela era chiusa. Proseguii, entrai nel soggiorno. Ampio, due luminosi balconi. A un lato, un tavolo quadrato e delle sedie, un mobile con oggetti d’argento. Dall’altra parte, un divano, nell’angolo un tavolino, due poltrone. Andai ad affacciarmi al balcone, quello che, girando intorno, andava fino alla cucina. A sinistra il balcone più largo, quello del salone comune, dove ero entrato il primo giorno. Sotto, la piazza basolata, dov’era il grosso portone tra due colonne.

Katia non tardò a entrare, col caff&egrave.

‘Ci sediamo sul divano. E’ comodo, potremo poggiare le tazzine sul tavolino.’

Aveva un vestito celeste, di taglio diritto, con una generosa e piacevole scollatura che mostrava il dorato chiarore del seno. Il vestito la snelliva, faceva indovinare la morbida curva dei fianchi, esaltava il solco tra le natiche. I lunghissimi capelli quasi l’avvolgevano.

‘Bel vestito. Nuovo?’

‘Grazie, &egrave solo una cosina fatta da me, e non &egrave nuova. Io, però, le mie cose le conservo bene, per cui sembrano sempre nuove. Sediamo.’

Eravamo sul divano, Katia alla mia destra. Prese la tazzina, vi mise mezzo cucchiaino di zucchero, lo girò, me la porse.

‘E’ così che vi piace, vero?’

Guardavo, golosamente affascinato, nella sua scollatura.

‘Si, mi piace cosi.’

Poggiò la schiena sul divano e accavallò le gambe. Gli ultimi bottoni del vestito non erano nelle asole.

‘Mi comporto stranamente, vero Giorgio?’

Al tentativo d’un mio gesto, di una mia parola, proseguì:

‘Certo, posso sembrare ambigua. Per un giovane, poi, posso essere ridicola. Una ‘baba’ che agisce così! Per questo desidero parlare con voi, anzi con te. Ti annoio? Puoi, vuoi ascoltarmi?’

Annuii con la testa.

‘Grazie. Ti parlerò come mai ho parlato. Neppure col confessore. A lui dicevo i miei poveri, piccoli, ridicoli peccati, che spesso non ascoltava, mi assolveva, mi benediva, e mi lasciava come prima, peggio di prima.

Non voglio la tua pietà. No, soprattutto non voglio né pietà né compassione. Spero solo che quando ti avrò detto tutto, tu possa comprendere, anche se non giustificare, il perché non sempre appaio controllata. In effetti &egrave così, spesso non lo sono.

Vedi, io attendevo molto dalla vita, speravo che la coppia fosse il congiungersi di due corsi d’acqua, l’unirsi di due correnti per formare un unico fluire verso la foce in una unione che non avrebbe più tenute distinte le caratteristiche di ciascuno.

Non &egrave stato così. Dario si &egrave rivelato solo un greto arido, abbandonato. Anzi, neppure abbandonato, perché mai acqua, né limpida né torbida, ha lambito le sue pietre restate aguzze, le sue rive che non hanno mai conosciuto vegetazione. In lui vi sono solo idee maniacali, integraliste, egoistiche, indiscutibili. Il suo agire &egrave scandito solo dai suoi tempi, irrispettosi degli altri. La sua &egrave totale povertà di sentimenti, che lui chiama bontà, comprensione per il prossimo. E’ asprezza che tenta di contrabbandare per dolcezza. Non ha mai dimostrato amore, affetto, tantomeno passionalità. Rare vampate di squallida sensualità e, una volta soddisfatta, ripiomba nel suo ‘credo di vita’ che non ha mai abbandonato. Per lui &egrave come aver sete: &egrave naturale abbeverarsi alla solita fontana. Ci si torna, anche, ma non &egrave che le si sia grati, o si pensi a lei. Si utilizza quando si ha sete. Tutto qui. Io, invece, ero, e sono ancora, un torrente di montagna. La sorgente &egrave in alto, pura, limpida, fresca, zampillante. Nasce come un piccolo rio, garrulo, saltellante tra ciottoli ben levigati, tra rive piene di verde, di fiori. Qualche rapida, qualche cascatella con spruzzi fatti di mille goccioline che divengono arcobaleno, al sole. Torrente che ha le sue magre, ma anche le sue piene tumultuose; che può travolgere, ma torna sempre ad essere il canto dell’acqua che saltella, che gorgoglia come la femmina nell’abbandono della voluttà.

Mi domanderai perché mi sono legata a lui. Giusto.

Una storia come tante altre.

Una ragazza vivace, piena di vita, piena di sane, naturali pulsioni, conosce un ragazzo, il suo primo ragazzo, e quando é vicina a lui sente battere il cuore, muovere qualcosa dentro, un gran calore… tra le gambe, un irrefrenabile desiderio di… fare l’amore. Lo fa.

Un disastro. Uno squallore. Una cosa frettolosa, scomoda, fatta di nascosto. Lo voleva anche lui, ma ho dovuto insistere, prendere l’iniziativa, perché &egrave timido, impacciato. Anche per lui era la prima volta. I racconti delle sue conquiste erano inventati.

Allora, non si era libere come adesso. Se lasciavi un ragazzo era facile che gli altri con te volessero solo divertirsi.

E così l’ho sposato.

Tutte le scuse sono state buone per andare lontano: Libia, Etiopia, Spagna, Albania. E quando era a casa gli ero moglie tanto di rado che quasi mi si faceva la ragnatela tra le gambe. Scusa la volgarità.

Per lui era un ‘servizio’ obbligatorio. E lo compiva con malavoglia, svogliatezza, indolenza, malagrazia. Dovevo essere io a mettermi su di lui a… pensare a tutto. Mi chiedeva: ‘Allora, hai fatto?’ E se sfilandomi da lui singhiozzavo, si voltava dandomi la schiena, dicendo ‘ne plakati, nesnosan’, ‘non piangere, insopportabile’, e si metteva a ronfare.

Non ho avuto mai il coraggio, forse solo per vigliaccheria, di andare con un altro. Quelle poche gocce di elemosina che ricevevo le facevo bastare. Stringevo il cuscino tra le gambe e tiravo avanti. Ho sempre evitato perfino di guardarli, gli uomini. Fino a qualche giorno fa. Fino a quando tu hai bussato alla mia porta. Quando ti ho visto ho sentito il tumulto del mio grembo. Un vuoto prepotente che non accetta più questa condizione. Ho compreso la mia debolezza, ho sentito l’urgenza violenta dei miei desideri, l’imperioso richiamo della carne, le vertigini per il lungo digiuno.

Pensa pure che sono allupata, che sono una vecchia ridicolmente oscena. Pensalo, ma voglio che tu sappia tutto di me, chi veramente sono. Cosa sento. Cosa desidero.’

Ascoltai in silenzio, mentre parlava con lo sguardo nel vuoto, gli occhi pieni di lacrime, la voce sempre più roca, deglutendo spesso.

La mia mano era sul suo grembo. L’aveva coperta con la sua, stringendola sempre più. Restò silenziosa.

‘Devo andar via da questa casa? ‘

Sobbalzò.

‘No, no, per favore, non andar via.’

Le passai la mano sul volto, sotto i capelli. La baciai sugli occhi. Sapevano del sale delle sue lacrime. Poi sulla bocca. A lungo. Ricordando il suo bacio che mi aveva risvegliato, cercai la sua lingua, golosamente. Rispose con veemenza, con abbandono. In quel momento avevamo la stessa età. Forse ero io il meno giovane. Sedette sulle mie ginocchia, seguitando a baciarmi, a suggermi, a carezzarmi. Allontanò un po’ la testa e mi guardò scuotendola. Introdussi una mano nel suo vestito, carezzai il seno, strinsi piano i capezzoli, scesi sul ventre, tra le gambe che si divaricarono leggermente, sentii il caldo tepore del suo sesso pulsante. Allontanò dolcemente la mia mano. Si alzò in piedi.

‘No, Giorgio, non chiedo la carità. Non la voglio. Non lo sopporterei. Devi pensarci e a lungo. Potrei sospettare che per te la prima volta va bene con chiunque. Scusa la rudezza, ma non voglio essere la tua nave scuola, anche se so che qualsiasi cosa accadrà sarà per te solo un fugace episodio. Questo lo devi decidere dopo, non prima.’

Prese le tazzine ed uscì dalla porta.

Tornai nella mia camera e mi sdraiai sul letto.

Mi addormentai.

4

Era quasi buio quando Ela venne a svegliarmi, soffiando leggermente sul mio viso.

‘Fra poco si cena, vieni.’

Tornò in camera sua attraverso la porta di comunicazione che aveva aperto.

Eravamo in tre. I ragazzi erano con gli amici.

Senza alzare gli occhi dal piatto Katia chiese:

‘Perché hai spostato l’armadio, Ela?’

‘Mi era sembrato che qualcosa si fosse introdotto sotto il feltro. Poi non sono più riuscita a rimetterlo dov’era.’

‘Ah! Dopo cena vengo io e ti aiuto.’

‘Lasciamolo così, per questa sera, potremmo fare rumore, svegliare Roberto.’

‘Capisco! Si, capisco! Va bene.’

Non parlò più fino al termine del pasto. Si alzò per mettere le stoviglie nell’acquaio. Andò alla credenza, da un flacone prese due grosse pillole, come quella che aveva dato a me per farmi dormire.

‘Spero che mi facciano effetto: buonanotte. Laku noc!’

Deglutì le pillole e se ne andò.

Sentimmo, poco dopo, lo sciacquone del bagno e poi dei rumori provenire dalla sua camera.

Ela mi guardò, chiese:

‘Noi hai mangiato molto. Perché?’

‘Non avevo molto appetito. Adesso vado a letto. Domani dovrò alzarmi molto presto.’

Lei sobbalzò, mi guardò spaventata.

‘Pattuglia?’

Non risposi.

‘Pattuglia, vero? Sta attento. I ribelli sono molti e dovunque.’

Seguitai a restare in silenzio. Mi alzai e andai nella mia camera. La porta comunicante con Ela era chiusa.

Mi preparai per la notte, entrai nel letto. Presi una rivista che stava sul comodino, cominciai a leggere.

Ela comparve d’improvviso, senza alcun rumore.

‘Hai chiuso a chiave la tua porta?’

Feci cenno di si.

‘Questa la lascio aperta’ -proseguì- ‘per sentire Roberto, se si sveglia. E così vai in pattuglia e non mi dici niente. Come posso dormire sapendo i pericoli che ti attendono.’

Si era avvicinata al letto, la vestaglia aperta sulla camicia trasparente. Il seno proteso, lo scuro del pube attraverso la stoffa.

La sua presenza mi eccitava. Molto.

‘Adesso’ -disse- ‘te ne stai buono, farai tutto quello che ti dirò. Mi intimorisci, Giorgio. Mi intimorisce la tua eventuale irruenza, anche involontaria, e nel contempo ne sono attratta. E’ facile perdere il controllo, specie quando si &egrave affamati o inesperti. Io ho molto più fame di te, e tu hai di che saziarmi, in abbondanza. E’ proprio questo che mi fa essere in ansia, anche perché, in fondo, non &egrave che la mia esperienza sia tanta.

Vedi, non conosco cibo da un anno, e devo stare attenta che la mia ingordigia per una tale ghiottoneria, mai sognata, non mi soffochi! Comprendi, amore?

Togliti il pigiama e fammi posto. Mi metterò vicina a te. Ci baceremo, ci carezzeremo. Sarò io a guidarti. Ti accoglierò in me quando sarà il momento. Sii dolce, tenero, delicato, paziente. Non farmi male, ti prego.’

Lasciò cadere la vestaglia sul tappeto, mise la leggera camicia rosa sul paralume. Restò in piedi, vicino al letto. Si chinò su me, che ero rimasto immobile, incantato, e mi sbottonò la giacca del pigiama, la tolse, la gettò per terra. Andò ai piedi del letto e, lentamente, tirò via i pantaloni. Ero supino, col sesso vigorosamente eretto. Restò a guardarmi.

‘Andrà tutto splendidamente, o sarebbe la più cocente e dolorosa delusione della mia vita.’

Venne vicina a me.

‘Non posso attendere, Giorgio. Non voglio baci e carezze. Non resisto, ti voglio subito, adesso.’

Ero di fianco, una gamba sulle sue gambe, una mano sul suo seno.

Mi tirò dolcemente su di lei.

Parlava sottovoce.

‘Tieniti sollevato sulle braccia. Si, così.’

Divaricò le gambe, prese il fallo con le mani e lo poggiò in un punto caldo, morbido, umido ‘La soglia dell’Eden’, pensai, ed ero naturalmente portato a spingere.

Le sue mani sembravano quasi volermi trattenere.

‘Pianissimo… bravo, così… ancora… ancora. Dio, che meraviglia, che sensazione. Si amore, entra… entra nella tua Ela che ti vuole, ti aspetta da sempre… così…, che bello… entra ancora, cerca di entrare tutto… così… fino in fondo… bravo… muoviti piano… bravo…’

Sentii il suo bacino venirmi incontro e poi allontanarsi. Ancora… Lentamente, poi più celermente. Aveva gli occhi aperti, le pupille scomparse verso l’alto, la bocca dischiusa, un suono fioco sortiva dalle sue labbra.

Incrociò le gambe dietro la mia schiena.

‘Amore, amore, mio… mio… docem… docem… eccomi… eccomi…’

Si muoveva quasi con furia. Si fermava un istante, vibrando come la corda di un’arpa, portava la mano alla bocca a soffocare il grido che stava per sfuggirle, gorgogliava ancora… docem… docem… e riprendeva la sua danza voluttuosa.

‘Ti sento, amore, sento quello che non immaginavo poter provare. Sento che sei mio, così… ecco…, tesoro, si…, dissetami…’

Mi strinse più forte con le gambe, inarcò la schiena.

Giacqui su lei, ancora in lei. Sentivo il mio sesso pulsare e la sua deliziosa risposta.

Era la mia prima volta.

I nostri respiri si univano. Bocca sulla bocca.

Sussurrai:

‘Posso restare così?’

‘Per sempre, amore, per sempre. Uvijek… Sento tutto il tuo vigore, potente, prepotente, incantevole.’

Aveva sciolto le sue gambe, giaceva supina, ansante. Mi poggiai sui gomiti, per guardare quell’espressione che non avrei mai dimenticato, i capelli sparsi, sul cuscino, sul seno.

Mi venne spontaneo muovermi un po’. Una piccola spinta dei reni.

‘Giorgio, ancora? Opet?’

Senza rispondere, ripresi a spingermi in lei. Lentamente. Come se volessi uscire e rientrarvi immediatamente.

‘Mi fai impazzire. Sei meravigliosamente instancabile. Sei… Giorgio, ti amo… Sto naufragando di nuovo, in un mare di piacere… voglio suggerti completamente… Giorgio… Giorgio…’

E riprese il suo ondeggiare, il suo mugolare, le brevi interruzioni, in un abbandono sempre crescente, fino al fremito del mio insuperabile godimento.

Mi misi su di un fianco, scivolando fuori da lei, mentre le sue unghie si configgevano nella mia schiena.

Mi prese il volto tra le mani. Restò così.

La carezzavo dolcemente. Imprimevo nella mente le sue forme perfette. Sentivo il suo respiro sul mio petto.

Ricambiò la carezza, indugiò tra le gambe. Fermò la mano.

‘Ma Giorgio, per te non &egrave accaduto nulla!’

E fu come prima, più bello di prima.

Ricordi un po’ confusi, d’una notte di sogno.

Guardai la sveglia sul comodino. Era ora d’alzarmi. Mi mossi piano, per non destarla. Dormiva abbracciata a me, come una bambina che ha bisogno di protezione. Dovevo alzarmi. Il bosco e la pattuglia mi attendevano.

Si svegliò lentamente. Si guardò intorno, come se non sapesse dov’era. Mi vide, sorrise. Si strinse a me, con un brivido.

‘ Devi alzarti?’

‘Si, devo uscire presto.’

‘La pattuglia, vero? Vorrei riposare ancora tra le tue braccia. Dopo la tua voluttuosa esuberanza me lo devi. Una notte così non si spera neppure sognarla. Ma tu me l’hai fatta vivere, amore. E’ stato meraviglioso, e per te?’

‘Sei bellissima. Non credevo che esistesse ciò che mi hai donato. Di poterlo avere. Grazie…’

‘Sono io immensamente grata a te. Ti adoro come un idolo, l’idolo incantatore della tua regina. Perché &egrave tua, Giorgio. Non immaginavo che ti avrebbe accolto, ma l’amore non conosce ostacoli. Tu hai trasformato una casupola in un castello incantato. Come nelle favole. E il mio castello ha ospitato il suo magnifico e superbo sovrano, sette incredibili, lunghe, meravigliose, indimenticabili volte. Ma io ho goduto almeno settanta volte. Sedam banchetti, sedamd&egraveset deliziose pietanze. Vorrei poterlo urlare al mondo: sono di Giorgio! Sono stata la prima donna che ha avuto! Ma anche per me &egrave stata la prima volta. La prima volta che mi sono sentita veramente femmina.

In me v’era solo una pianta avvizzita, rinsecchita, arida, sul punto di morire per sempre. Ora &egrave sbocciata, fiorita, rigogliosa, superba, lussureggiante.’

‘Ela, non dirmi cattivo, ma…?’

Mi saltò addosso, con occhi spalancati e mani artigliate.

‘Taci, taci… tu sei l’oceano. Infinito, beskrajnost. Non la goccia, kaplja, che ti lascia più assetata di prima. Il Colosso di Rodi, e lo gnomo. Gorostas i patuljak. Tu sei il mio dio e padrone. Bog i gospodar. Per sempre.’

Ero pronto per uscire.

Mi abbracciò come se volesse inghiottirmi nel suo grembo. Gli occhi erano lucidi.

‘Torna!’

Era già scuro. Quasi notte.

Dietro i vetri del balcone si scorgevano due teste, nera e bionda, che sparirono quando entrai nella piazza.

Ero abbastanza stanco. Portavo il moschetto a bracciarm, m’ero tolto l’elmetto e lo tenevo per il sottogola. Gli scarponi non erano molto sporchi ma sui calzettoni era rimasto qualche filo d’erba, di quelli che restano attaccati alla lana.

Ela e Katia erano ad attendermi sul pianerottolo. Quasi mi soffocarono coi loro abbracci, passandomi la mano sul volto, tra i capelli. Mi portarono quasi di peso nella mia camera.

Ela mise elmetto, moschetto e cinturone nell’armadio.

Katia si chinò a slacciare gli scarponi e, senza alzare il capo, come se parlasse da sola disse:

‘Sappiamo tutto. Le notizie in paese volano più veloci di quelle portate dal tam tam nella giungla. Sono stati uditi degli spari. Tanti. Sembravano non dovessero finire mai. E’ stato visto un militare uscire dal bosco col braccio al collo, ma vispo e allegro. Siete stati contati, al rientro. Non manca nessuno. Solo quando ci hanno detto questo siamo rientrate in casa, a ringraziare il Signore.

Adesso bisogna spogliarsi. Il bagno &egrave pronto. C’&egrave tutto.’

Mi aveva sfilato scarponi e calzettoni e aveva preparato le pantofole. Restando seduto, avevo tolto giubba, cravatta, camicia.

‘Grazie’ -dissi- ‘adesso posso fare da solo, grazie.’

Katia si rivolse alla figlia.

‘Ela, assicurati che in bagno sia tutto in ordine.’

Ela uscì e Katia la seguì, chiudendo la porta.

Mi spogliai, indossai l’accappatoio e andai nel bagno. La porta della camera di Ela era aperta. L’armadio era stato rimesso al suo posto. Le due donne stavano in cucina.

Tornato in camera, trovai sul letto biancheria e vestaglia. Mi asciugai bene e indossai quanto avevano preparato. Ela bussò, aprì piano, si affacciò sull’uscio. Parlava sottovoce.

‘Siamo tutti a tavola, ti vogliamo salutare, ti aspettiamo. Vieni così, non star a cambiarti.’

Entrai in cucina. Stano e Mario si alzarono, mi vennero incontro e mi strinsero vigorosamente la mano.

Li guardai divertito.

‘Ehi, ragazzi, ma io ero qui anche ieri sera, eravate voi a non esserci.’

‘Si’ -rispose Mario – ‘ma le voci che giravano sulla presenza di armati nel bosco non erano rassicuranti.’

Stano cercò di sdrammatizzare.

‘La verità &egrave che non volevamo cambiare inquilino così presto, anche perché tu piaci. Vero, donne?’

Katia intervenne con decisione.

‘Si, e la cena si fredda.’

Sedemmo ai soliti posti. Stano alzò la bottiglia del vino e si accinse a riempire i bicchieri.

‘Prima di tutto un brindisi.’

‘Nel mio bicchiere c’&egrave l’acqua’ -disse Ela- ‘ma non fa niente, berrò in quello di Giorgio.’

Katia si alzò e andò a prenderle un altro bicchiere.

Stano si levò in piedi per il brindisi che aveva proposto. Ci fu un tintinnare di vetri. Ela non bevve, attese che io bevessi e quando sedemmo di nuovo cambiò il suo bicchiere col mio guardando la madre con un’espressione dura, di sfida.

Si cenò allegramente. Si parlò di tante cose. Nessun accenno alla pattuglia. Alla fine prendemmo anche una tazzina di caff&egrave.

Come di consueto, i ragazzi uscirono. Katia cominciò a mettere un po’ d’ordine. Ela restò seduta di fronte a me, coi gomiti sul tavolo. Muovendo appena le labbra sussurrò:

‘Non chiudere il balcone con la maniglia.’

Si alzò e si mise ad aiutare la madre.

‘Domani uscirò più tardi -dissi- grazie per l’ottima cena e scusatemi se vado subito a riposare.’

‘Laku noc.’

Rispose Katia.

Ela non disse nulla.

Tornato in camera, chiusi bene le ante del balcone e mi assicurai che non potessero aprirsi, che gli scuri fossero al loro posto. Mi spogliai, indossai il pigiama, scoprii il letto. Lenzuola di bucato, profumate. Accesi il lume sul comodino, spensi la luce centrale. Mi misi a letto. Iniziai a leggere il giornale. Dopo poco mi alzai, andai al balcone, girai la maniglia, lo lasciai appena socchiuso. Tornai a letto e ripresi a leggere.

Credo che mi addormentai subito, di colpo, pesantemente, forse russando.

Non avevo udito alcun rumore, né m’ero accorto di essermi voltato su un fianco, con la schiena al muro. I capelli mi solleticavano il viso. Ma com’era possibile? Sono così corti. Nel mettermi supino mi accorsi che il letto era molto stretto.

Mi riassopii. Solo per qualche istante. I capelli mi erano sempre sul viso e qualcosa premeva sulla parte destra del mio petto. Allungai la mano. Era calda, tenera e soda nel contempo, vellutata, viva. L’altra mia mano era lungo il fianco, aperta, col palmo verso l’alto, e le dita affondavano in una matassa morbida e tiepida. Sulla mia gamba un’altra gamba. Il mio sesso era accolto in una deliziosa e lieve stretta che cedeva a mano a mano che ne sentiva l’eccitazione che andava sapientemente provocando.

Ela aveva la bocca vicino al mio orecchio.

‘Ti ho svegliato, amore, non volevo. Scusami. Ma non ho saputo resistere al desiderio di carezzarti. Scusami. Sei stanco dopo la difficile giornata che hai vissuto. Ma ora ti lascio dormire. Resto accanto a te senza muovermi, buona buona.’

Ero nudo! Senza farmi accorgere di nulla mi aveva tolto il pigiama! Anche lei era completamente nuda, coi capelli lunghi sul mio viso. La mia destra affondata tra le sue gambe. Poggiata sul gomito mi guardava al fioco chiarore del lume che aveva di nuovo velato con la camicia da notte. Si chinò e sfiorò la mia bocca con le sue labbra.

‘Dormi tesoro, dormi.’

Seguitava a carezzarmi, a strofinarsi sulla mia mano. Tornò a baciarmi, insistentemente, passandomi la lingua tra le labbra. Si spostò. Il seno sul mio petto, la sua gamba sulle mie. Sentivo il premere del suo pube.

‘Dormi, tesoro, dormi.’

Lo ripeteva come una cantilena.

Mi tirò lentamente verso di sé, facendomi allontanare dal muro. S’inginocchiò su di me, con le gambe aperte. Il busto eretto, i seni protesi. Si mise il mio sesso eretto tra le gambe, lo tenne fermo, e incominciò ad accoglierlo lentamente. La testa lievemente rovesciata indietro.

‘Voglio tutto… tutto…’

Spinse in avanti il bacino, cercando di farlo penetrare il più possibile.

Aveva iniziato ad ondeggiare dolcemente. Aveva divaricato al massimo le cosce, arcuata la schiena poggiandosi, dietro, sulle mani aperte, e aveva proteso il pube. Sentivo, in lei, il suo palpitare, il suo sussultare, il suo volermi suggere fino all’ultima goccia.

Mi guardò estatica. Si spostò in avanti. Con la mano portò un capezzolo alle mia bocca e quando lo accolsi tra le labbra, stringendolo dolcemente, sentii che il suo grembo mi avvolgeva con maggior vigore. Era una lunga cavalcata d’amore verso più oasi di voluttà. Sempre più veloce.

‘Adesso, amore… adesso… con me…’

Era quasi un gorgogliare confuso, soffocato, che finiva in un roco suono inarticolato.

‘Adesso, amore… o sì, grazie… &egrave meraviglioso…’

E si gettò su di me, esausta, ripetendo:

‘Dormi, amore, dormi.’

Ma volle fare ancora l’amore, e ancora, prima di voltarsi e accucciarsi sulle mie ginocchia, stringendo una mia mano sul seno e l’altra tra le gambe. Voltando il capo per un bacio mi guardò trasognata.

‘Sei indistruttibile amore. Ti sento ancora. Tanto. Entra in me e fammi dormire così.’

Restammo come lei voleva, fino a quando Roberto non la fece fuggire, seminuda, con la vestaglia sul braccio, attraverso i balconi socchiusi delle nostre camere.

Ormai temevo -si, lo temevo- che le cose sarebbero andate avanti, più o meno, sempre così.

Non proprio così, speravo, perché non era possibile vivere in tale modo: lavoro, pattuglie, sesso che, per quanto delizioso e incantevole, era preteso e fatto in modo ossessivo, possessivo, esclusivo, frenetico.

Ela era bella, attraente, appassionata. Anche troppo. Ma non era possibile dedicare ogni istante del tempo libero al… letto.

Per qualcuno era tutto. Per me era molto, moltissimo, ma non poteva ‘essere tutto’.

Sì, avevo scoperto il sesso, meraviglioso al di là d’ogni immaginazione, d’ogni attesa, ma non volevo divenirne schiavo, come un drogato che non può vivere senza. La mia gioventù esigeva la soddisfazione dei sensi, specie ora che n’aveva conosciuto il prelibato alimento che la saziava e n’aveva goduto le delizie. Ma dovevo evitare l’indigestione.

Era una prigione dorata, come i capelli di Ela, ma una prigione. N’avrei parlato con Lei.

C’erano anche le passeggiate, il cinema, la lettura, le amicizie.

La sera sarei stato trattenuto a mensa, per una riunione di servizio, e sarei rincasato tardi. L’avevo detto alle donne.

All’ultimo momento la riunione fu rinviata. Potevo fare un giretto coi colleghi, incontrare Lenka, andare al cinema con lei, giuocare al bigliardo.

Invece decisi di andare subito a casa.

Ela era nella sua camera, trastullando il bambino. La porta era aperta. Come mi vide pose Roberto nella culla e mi venne incontro, raggiante. Senza alcuna cautela, nel corridoio dove da un momento all’altro poteva giungere qualcuno, mi gettò le braccia al collo e mi baciò appassionatamente.

‘Che bello che sei qui’ -bisbigliò- ‘lo sai che siamo soli? Mamma &egrave dalla sorella, i ragazzi sono andati da alcuni loro amici, in campagna, torneranno domani. Non devi uscire di nuovo, vero? Saremo solo noi due, a cena. Solo noi a cena, per la prima volta. Vieni, ti aiuto a cambiarti. Scusa, sa, ma ho visto che nel tuo baule c’erano due pantaloni e alcune camicie non militari. Ho stirato tutto, potrai vestirti in borghese. Vieni.’

Con la sua solita esuberanza festosa mi condusse nella mia camera. Su una sedia erano, ben stirati, i pantaloni ‘borghesi’ e le camicie.

In vestaglia andai a lavarmi, nel bagno.

Quando tornai presi una delle camicie, ma Ela me la tolse dalle mani.

‘Non ora. C’&egrave qualcosa di bellissimo che ci attende, o almeno attende me. Vieni nella mia camera.’

Mi prese per mano e mi condusse da lei. Chiuse la porta.

‘Quello &egrave il letto grande nel quale vorrei stare sempre con te. Il letto grande, bracni krevet, matrimoniale. Desidero fare l’amore con te in questo letto. Spogliati, come faccio io.’

Si era completamente denudata.

Il proposito di farle un certo lungo discorso fu accantonato. In un attimo fui come lei, e le andai vicino.

‘E’ bellissimo averti qui, Giorgio, perché la mia non &egrave solo attrazione fisica, infatuazione. E’ passione, certo, ma anche vero amore. Giorgio, non solo ti amo, ma ti voglio bene. Come non ho mai voluto bene a nessuno. Non sorridere. Ho creduto che tu mi attirassi perché da troppo tempo non ero stata con un uomo, ho anche immaginato che soprattutto fosse curiosità, ho pensato che gli orgasmi, e così ripetuti, che prima non avevo mai conosciuto, fossero dovuti alla maturazione sessuale.

Ho capito, invece, la vera ragione: per ogni donna c’&egrave solo un uomo, ed uno solo. Gli altri, eventualmente, possono essere dei maschi che le servono per sopire, non soddisfare, il suo appetito sessuale.

E’ meraviglioso, e credo che capiti solo a pochissime fortunate. Innamorarsi, amare, voler bene. E io sono fortunata. Ma nello stesso tempo sono triste perché non potrò donarti tutta la mia vita, come vorrei. Immagino con angoscia quando mi lascerai. Perché mi lascerai, Giorgio, vero?’

Era su di me, mi fissava negli occhi.

V’era qualcosa di ieratico, di sacrale, nel suo viso nei suoi gesti, come in un rito solenne.

Con tenerezza mi guidò in lei, accogliendomi con incredibile voluttuosa lentezza. Eretta, il seno proteso in turgida offerta, il bacino immobile, mentre, in lei, mi avvolgeva col caldo palpitare della sua carne.

Un lento dondolio della testa accompagnava il suo dono inebriante. Perché era donarsi totalmente, generosamente, voler dare e dire tutto il suo amore, la sua passione, il suo voler bene.

Prese a tremare come un ramo nella tempesta, a scuotersi come foglia squassata dal vento, in attesa di sentirmi suo e di farsi sentire mia.

‘Intender non lo può chi non lo pruova.’

Dopo, rimase a lungo, in silenzio, sul dorso, braccia e gambe larghe, guardando il soffitto.

‘Credevo di morire dal piacere, amore, e sarebbe stato bellissimo. Sono tutta e completamente tua, e così sarà per sempre, qualsiasi cosa accada. Non potrò mai essere d’un altro come sono tua.’

Dopo un po’, chiese?

‘Koliko Jesati?’

Anch’io ero supino. Le domandai, incuriosito:

‘Cosa?’

‘Che ora &egrave?’

Forse il tono della mia voce era freddo quando aggiunsi:

‘Sono io, Ela, Giorgio. E non comprendo il croato.’

Si poggiò sul braccio e si voltò versi di me.

‘Si, Giorgio, sei tu. Il mio dio. E quando sono felice, quando mi rivolgo a Dio, lo faccio sempre nella lingua che ho parlato prima d’ogni altra.’

‘E da quando mi conosci?’

‘Hiljada godina. Da mille anni. Dobbiamo alzarci. La mamma potrebbe rientrare da un momento all’altro. In questi ultimi giorni &egrave molto strana, nervosa.’

Indossai la vestaglia e restai seduto sul letto.

Lei uscì dalla camera, rientrando poco dopo, sempre nuda.

Dovevo farle un certo discorso, ma prima dovevo domandarle qualcosa.

‘Sei splendida, meravigliosa. Ti sono grato. Non proverò mai, nella vita, la felicità che sai donarmi tu. Ma, tesoro, scusami, non credi che sia imprudente trascurare la benché minima precauzione. Non so se riesco a farmi comprendere.’

M’interruppe.

‘Opreznost! Precauzione! Come potremmo, Giorgio, separarci proprio quando il nostro dono reciproco giunge a fondersi, o come potrei permettere che una qualsiasi barriera, per quanto tenue, si frapponga tra noi, m’impedisca di sentirti come desidero e come voglio. Che senso avrebbe, che amore sarebbe? Io allatto, e una donna che allatta non concepisce, almeno così si dice da noi. Sarebbe meraviglioso, però, se sbocciasse in me il tuo seme. E non m’interessa del domani, della gente.’

Non sapevo cosa rispondere.

‘Ela sei incantevole. Pensavo che si potrebbe, qualche volta, uscire insieme, andare al cinema, in casa d’amici a ballare. Insomma fare una vita che ci porti fuori da…’

‘Sei stanco di me? Ti ho deluso?’

‘Sai bene che non &egrave questo. Ma, vedere gente, insieme s’intende, vivere anche nella società, cogli altri, andare al cinema, in campagna, un breve viaggio, sempre insieme, sarebbe bellissimo.’

‘Si, sarebbe bello. Dobbiamo pensarci bene. Mi piace l’idea di andare a spasso con te, al cinema, a ballare, a far visite. Andare, insieme, a trovare Lenka. Se non ci fosse la gente…’

Presi le mie cose e mi avviai nella mia camera.

5

Pomeriggio libero.

Dopo la mensa rientrai.

Sembrava che non ci fosse nessuno. Tutto silenzio. Andai in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Entrò Mario, per la stessa ragione. Mi disse che la madre riposava e che Stano aveva accompagnato Ela e il bambino dal pediatra. Una visita di controllo all’ospedale del Capoluogo. Cinquanta chilometri di lentissimo treno. Erano partiti poco prima del pranzo e sarebbero stati di ritorno per la cena.

Ela non mi aveva detto nulla.

Mario spiegò che la cartolina d’invito era giunta solo quella mattina, con notevole ritardo, e non era il caso di saltare il turno.

Mi salutò perché stava per uscire.

Mi spogliai e andai a rinfrescarmi. Rimasi in vestaglia e mutandine e uscii sul balcone. Una giornata particolarmente calda. Non solita in questo periodo. Anche la vestaglia era pesante. Andai verso l’angolo del balcone. La finestra del ripostiglio era spalancata, per cambiare l’aria al locale. Poco oltre, i vetri della camera di Katia erano appena accostati, gli scuri aperti. Mi venne spontaneo guardare dentro. Di fronte, l’ampio letto d’ottone lucido. Sul lenzuolo candido, Katia. Bocconi, le braccia in alto, sotto il cuscino, il viso rivolto verso la porta, le gambe leggermente divaricate, i capelli sparsi sul letto e sulla schiena. Era tutto quello che indossava.

Restai a guardarla incantato.

Non il candore niveo di Ela, ma una pelle dorata, dipinta dal sole. Le linee dei fianchi salivano dolcemente a modellare natiche statuarie, tonde, sode. Il volto non era sereno, si scorgeva una lunga ruga sulla fronte.

Spinsi piano le ante del balcone, che s’aprirono senza rumore.

Mi avvicinai al letto, dalla parte dov’era lei. Il respiro era lento, profondo. Quel corpo così bello, anche se non più giovanissimo, emanava un fascino indescrivibile, un’attrazione seducente, irresistibile.

Volevo toccarle i capelli, carezzare le natiche. Lo feci.

Delicatamente, con le dita che sfioravano appena. Insinuai la mano tra le gambe, col palmo in alto, nella scura lanugine che saliva verso il pube.

Esplorai piano. Ebbe solo un lieve sobbalzo.

Non sembrava accorgersi di me. Divenni più audace. La mano saliva carezzando, scendeva, tornava a salire con incalzante insistenza. Le dita percorrevano il solco tiepido, frugando dalla piccola protuberanza che s’ergeva sempre più prepotente, in alto, alla sensibile contrazione del perineo.

Di nuovo un sobbalzo. Poi, il lento ondeggiare del bacino accolse, assecondò, guidò la carezza. La testa sul cuscino, le labbra appena dischiuse. Sotto le palpebre si scorgeva il muoversi degli occhi. Le mani, erano aggrappate al cuscino, come a salvarsi da un precipizio.

La mia eccitazione era incontrollabile.

Quella donna mi stregava, mi ammaliava. Non riuscivo a sfuggire quel richiamo imperioso.

Non ricordai il balcone aperto, i vent’anni d’età che ci separavano.

Lasciai cadere le mutandine in terra. Così, con la vestaglia ancora addosso, salii sul letto, su di lei. Tolsi la mano dal suo grembo, introdussi, appena, il mio sesso tra quelle natiche che avrei voluto addentare come frutti sapidi.

Si voltò di scatto con gli occhi sbarrati, sgomenti. Mi guardò come fossi un fantasma. Un terrore che si trasformò in sorpresa, ansia, attesa, implorazione.

Aprì le gambe, alzò le ginocchia. Mi prese dolcemente il sesso per accogliermi in lei ma non riusciva a farsi penetrare. Spinsi con decisione. Un gemito soffocato uscì dalle sue labbra e sentii che entravo, lentamente, in un focoso inferno, in una ribollente lava incandescente.

Fui io a regolare il giuoco. Lei, come in preda al delirio, mugolava. Dalle sue labbra sortivano suoni inarticolati. Il suo ventre era un oceano in tempesta. Le sue mani mi serravano i lombi. Volgeva la testa a destra e manca sempre più sparpagliando i suoi lunghissimi capelli. Mi strizzò, avida, golosa, come se volesse svuotarmi completamente in lei. Si abbandonò, senza forze, le braccia allargate, gli occhi chiusi, il respiro affannoso, piccoli sussulti del bacino. Mi prese una mano, se la mise sul seno sinistro. Il cuore tumultuava. Aprì gli occhi, con uno sguardo incredulo.

Ero rimasto su di lei, sensibilmente in lei.

Scosse lievemente il capo.

‘Ma &egrave proprio vero, Giorgio, sei tu? Tu sei nel mio letto. Tu mi hai cercato. Tu mi hai voluto. Hai voluto entrare in me, darmi una voluttà che non ho mai raggiunto. Ma sono gelosa, Giorgio, tanto gelosa. Chi ti ha insegnato ad amare così?’

‘Tu’ -risposi- ‘me l’hai insegnato tu. Coi tuoi gesti, coi tuoi sguardi, con le tue parole, col tuo indimenticabile bacio, con i tuoi eloquenti silenzi. Ti ho aspettato, Katia, perché non sei venuta da me?’

‘Temevo che tu mi scacciassi, che mi deridessi. E bruciavo, mi tormentavo, in silenzio. Mi ripetevo: ‘Katia, sei vecchia, mettiti l’animo in pace’. L’animo poteva trovare pace, ma la carne no. I miei sensi sono da sempre destinati a restare miseramente e insufficientemente soddisfatti e per lungo tempo ero riuscita a dominarli, a sopirli. Poi sei apparso tu. E’ stata una violenta scarica, dentro di me. Un fulmine che aveva non solo riacceso ma moltiplicato la fiamma del mio sentirmi femmina. Mi vergogno dirlo, Giorgio. Il mio ventre &egrave stato tormentato dai crampi del desiderio. Una brama frenetica. Femmina in calore, ho compreso cosa sia la foia. Quel giorno, nel bagno, eri nudo, stavi indossando l’accappatoio. Imponente, maestoso, mi spaventavi e attraevi. Stavo morendo assetata e l’acqua era li, bastava tendere la ciotola.

Per un attimo ho pensato d’entrare, denudarmi, mettermi carponi dinanzi a te, per essere la tua Io e tu il mio Giove. E poi potevo serenamente morire. Ho temuto che tu scoppiassi a ridere, che m’avresti scacciata.’

Aveva preso il mio volto tra le mani. Mi baciava sugli occhi, sulla bocca. Sentiva che stavo rifiorendo in lei e seguitava a baciarmi, a passarmi lievemente la lingua sulle labbra.

‘Non mi &egrave mai capitata, piccolo grande Giorgio, una cosa così. Tu mi hai sfinita. Riempendomi di te mi hai svuotata. Ho raggiunto vette sconosciute. Ho vissuto con te quello che non ho vissuto in tutta una vita. La mia vita. Ora ti sento di nuovo, e questo rinnova in me la fiamma che attende di essere di nuovo spenta, per risorgere e seguitare a vivere.’

Mi spinsi ancor più in lei, per quanto poté accogliermi.

‘Katia, amore mio, tu sei giovane come nessuno lo &egrave. Tu, solo tu, mi hai fatto conoscere cosa voglia dire ‘avere’ una donna, non ‘essere’ d’una donna. Mi hai fatto sentire il tuo piacere confondersi col mio piacere. Tu fai l’amore con me e per me, non solamente per te. Non parlare d’età. Non significa nulla. Sei bellissima. Alla tua bellezza non ho saputo resistere. E c’&egrave la prova che tu sei per me ed io per te. Ho ritenuto, per un istante, di non poter entrare in te. Ma &egrave stato solo un attimo. Ti sei dischiusa, mi hai accolto, fremente, totalmente. Perché tu sei mia, nata per me, fatta per me.’

Aveva ripreso l’ondeggiare del piacere, il mugolare del godimento. Fu dolce naufragare ancora, tra le sue braccia, nel voluttuoso palpitare del suo grembo. Mi scaldò col suo corpo, mi coprì con l’inebriante tepore della sua pelle, senza lasciarmi, scrutando nel mio volto la mia estasi, cercando di accrescerla di condurla ai livelli più alti. La mia voluttà si specchiava in lei, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue narici frementi, nel suo palpitare, nel suo totale abbandono a quello scatenarsi della natura che ci travolgeva.

Non avrei mai più conosciuto una donna come Katia.

In casa s’era instaurato un ben definito ‘modus vivendi’. Tutti sapevano tutto e tutti ignoravano tutto. I volti erano sempre allegri, Ela e Katia canticchiavano, si parlavano sottovoce e ridevano.

Era una tacita ‘triplice alleanza’.

Spesso Katia suggeriva a me e Ela di andare al cinema, di fare una passeggiata. Al bambino ci avrebbe pensato lei.

Ero con Ela tutte le notti. Entravo dalla porta, senza più l’espediente del balcone. Anche perché cominciava a far fresco.

Katya aveva spesso un motivo per entrare nella mia camera. Si stringeva a me, mi baciava, con occhi pieni di desiderio e di promessa.

Quasi una settimana dopo l’incantevole incontro con Katia, il sabato, terminata la cena, Ela disse di aver mal di capo e si ritirò subito. Udii il girare della chiave nella serratura. Andai in camera, poi a lavarmi nel bagno e stavo rientrando. Katia era sulla sua porta, in vestaglia, con la treccia sciolta, sorridente. Mi tese la mano:

‘Vieni.’

Mi voltai verso la camera di Ela. Katia proseguì:

‘Poverina, ha il mal di testa. Vieni.’

E da allora, devo ammetterlo, attesi con ansia il sabato, quando Ela restava nella sua camera, senza più chiuderla a chiave, col suo settimanale mal di testa, e io passavo la notte nel letto di Katia.

L’indomani, la domenica, Katia mi portava la colazione a letto e dopo aver fatto di nuovo l’amore, come solo lei sapeva fare. Mi accompagnava a fare il bagno.

Il tempo scorreva veloce. A novembre, al compleanno di Ela, al risveglio, al mattino, le feci trovare un pacchetto sul comodino.

‘Cos’&egrave?’

‘Aprilo.’

Tolse il nastro che lo legava, strappò la carta che lo avvolgeva, aprì l’astuccio di velluto rosso.

‘Oh, Rucna Ura, un orologio! D’oro! E’ bellissimo. Grazie, amore.’

Si voltò dalla parte mia, si mise a cavalcioni su di me. Allacciò l’orologio al polso.

‘Na palub, a bordo! Odlazak, partenza! ‘

E cominciò la sua movimentata crociera, beccheggiando follemente, sostando nei porti del suo piacere, concludendola con un lungo e sospirato:

‘Olazak, arrivo!

Rimase così. Tolse l’orologio, Lo girò da tutte le parti. Sulla cassa vide incisa una ‘E’. Si chinò a baciarmi.

‘Ma ci voleva anche una ‘G”.

‘Un certo momento non lo porteresti più.’

‘Non potrebbe impedirmelo nessuno e per nessun motivo.’

A Natale e Capodanno ci furono i regali per le feste. Piccole grandi cose, date con tutto il cuore.

Subito dopo ebbi la licenza per trascorrere una settimana a casa.

Ela mi aiutò a fare la valigia. Quando la ebbe chiusa si voltò verso di me.

‘Cosa porti a regalare alla tua fidanzata?’

‘Niente, non credo che debba portarle qualche cosa.’

‘Poverina, ci resterà male.’

Mi aveva dato un’idea. A Trieste ci avrei pensato.

‘Giorgio, vorrei che tu mi facessi una promessa. Solenne.’

‘Quale?’

‘Giurami che non farai l’amore con lei.’

‘Ma io non faccio l’amore con lei.’

‘Non lo facevi. Ma ora vorrai mostrare quello che hai imparato e come lo hai… perfezionato. Attento perché io mi accorgo se fai l’amore con un’altra. E con un’altra sarei perfino disposta a perdonartelo. Io sono comprensiva con te. Ma non se lo farai con la tua fidanzata.’

‘Perché?’

‘Perché con le altre &egrave solamente sesso. Con la tua fidanzata sarebbe amore. Cosa credi, che non abbia saputo di Lenka e di Vittoria?’

‘Ma cosa dici…’

‘Povera Lenka, abituata al suo allevamento di canarini &egrave rimasta spaventata dall’aquila. Lo so che posso apparire volgare, ma mi &egrave stato detto che… ‘

‘Ma chi ti racconta tutte queste fandonie?’

‘Niente fandonie, tesoro. Sono tutte verità.

Vittoria, poi, con quel suo fare da santarellina appiccicata al muro…, é stato un punto d’onore, per lei, farti… entrare in casa! Sembra che adesso senta un gran vuoto. Sfido io! E’ stata una settimana senza vedere il suo ragazzo. Poi, hanno litigato e sembra che si siano lasciati per sempre.’

Questo tipo di discorso non mi piaceva, era volgare.

‘Non per colpa mia, certo.’

‘Non per colpa, amore, per merito. In ogni modo, Vittoria, quando le ho chiesto il motivo per cui aveva lasciato Angelo, si &egrave limitata a mordersi il labbro inferiore.

Capito, Ercolino Santin, cosa mi combini? E questa &egrave la prova che sesso senza amore … ma lasciamo perdere.

Io fisicamente sono come le altre, tesoro, ma io ti amo e ti voglio. Tutto per me, solo per me. Ma con amore.’

Ero irritato. La mia voce era aspra, quando le chiesi:

‘Allora potrò essere accolto solo dal grembo di chi mi ama? Il desiderio e tutto il resta non hanno alcun ruolo in proposito?’

‘E’ così. L’amore é la sola chiave che apre ogni porta. Senza amore rischi di restare fuori.’

Fui cattivo.

‘Non mi sembra che tu mi accolga… senza limitazioni. Allora?’

Rimase impassibile. Rispose soavemente.

‘L’amore che ho per te é già immenso, ma crescerà ancora. Un bel giorno t’ingoierò tutto intero. Non ti troverà più nessuno. Quando la gente chiederà: ‘Dov’&egrave Giorgio?’, risponderò che &egrave in me. Perché &egrave mio. Solamente mio.

Ma adesso vieni da me perché devo consacrarti una cosa.’

Mi trascinò sul letto. Cominciò a spogliarmi. Si spogliò. Mi tirò su di lei.

‘Vediamo se ti amo più di ieri, se parlerai più di ‘limitazioni”.

Il suo corpo sembrò trasformato. Mi succhiò in lei, tutto.

Fu una furia insaziabile, meravigliosa.

‘Non ti lascerò la minima possibilità di poter stare con un altra donna fino a quando sarai con me.’

E mise in atto il suo proposito, con zelo e diligenza.

La licenza fu splendida.

Con Carla, ci baciavamo, ci cercavamo golosamente, ma non potevo scacciare dalla mia mente il pensiero che mi assillava: ‘Come sarà?’.

Carezze più intime che mai. Sentivo, anzi sentivamo, il desiderio, l’impulso, di fare l’amore. Lei sussurrava di aver pazienza, ci saremmo sposati dopo pochi mesi. Io annuivo con la testa ma in cuor mio bramavo, e nel contempo temevo; averla subito. E se avessi avuto la dimostrazione che… non mi amava? Se avesse avuto le stesse reazioni di Lenka e di Vittoria?

Se, invece, la cosa fosse accaduta dopo sposati, come avremmo potuto rimediarvi?

Se avessimo subito dei rapporti e non le fosse possibile…?

Diavolo d’una Ela, quanti ‘se’ mi aveva messo in testa.

Non solo.

Sarebbe stata insaziabilmente possessiva come Ela o appassionatamente dolce, deliziosamente voluttuosa, come Katia?

Già, Katia, nessun problema anche con Katia, perché ne avrei dovuto avere con Carla?

Ma guarda quali problemi sorgevano con la propria fidanzata dopo essere stato con altre donne.

La sera prima della partenza andai, con lei, in casa di amici. Ballammo stretti. La sentivo, attraverso il suo vestito leggero. E lei mi sentiva, deliziosamente turbata. Ci carezzavamo col pube, vicendevolmente. Io mi piegavo sulle ginocchia, in artificiosi passi di danza, per sentire il caldo morbido del suo sesso. Lei non parlava più, si strofinava a me. La presi per la mano e la condussi nella camera della ragazza che ci aveva invitato. Non disse nulla. Mi seguì come un automa.

Le sollevai la gonna, scostai le mutandine. Mi lasciava fare, impietrita. Mi sbottonai i pantaloni che stavano scoppiando. Sembrava immenso anche a me. Lei non batté ciglio. Attese. Lo introdussi tra le sue cosce. Non volevo entrare in lei. No, non era quello il modo, in piedi, in una stanza sconosciuta, di fare l’amore con lei per la prima volta. Mi mossi lentamente. E cominciò anche lei a muoversi, un braccio intorno al mio collo, l’altra mano sulle labbra. Non riuscivo a fermarmi, e lei non voleva che mi fermassi. Sentii che s’era completamente abbandonata tra le mie braccia. La tenevo stretta, con le mani sulle sue piccole sode natiche che fremevano. Così, fino alla conclusione di quella prima, squallida, anomala e incompleta conoscenza.

Quando si ricompose, mi baciò a lungo.

‘Grazie Giorgio. Grazie per non aver guastato tutto. Quando saremo sposati ti compenserò anche per questo.’

Il rientro fu un vero e proprio ‘ritorno in servizio’.

Era la sera della domenica.

Perfino Roberto sembrava contento di rivedermi. Ormai mi conosceva da tanti mesi.

Avevo portato piccoli pensierini a ognuno.

A Ela avevo comprato una collana di corallo, pelle d’angelo. Ero riuscita a trovarla da un compagno di scuola, Israelita, che stava vendendo tutto.

Quando fummo a letto mi accorsi che indossava solo quella.

La collana e la sua pelle si confondevano.

Mi abbracciò tremando.

‘Ti ho atteso con ansia. Mi devi tutte le notti che non hai passato con me. E poi voglio qualcosa anche per domani sera, perché dovrò avere il mal di testa domani sera. Anche se non é sabato!

Sei in debito, e voglio svuotare la cassa. Fino all’ultimo centesimo.’

E fu esigente, nella riscossione.

Benché fossi stato molti giorni lontano da lei e da Katia, e nonostante la gioventù, non fu agevole saldare il conto fino in fondo.

Il viaggio e la notte con Ela, suggerirono, nel pomeriggio, un sonnellino nella vuota infermeria ufficiali. La sera ero fresco e riposato.

La cena si svolse in allegria.

Ela aveva il mal di testa. Strano, non era sabato.

Katia mi ospitò nel suo letto.

Fu appassionata e tenera come non mai. Nei pochi momenti che riuscivo ad assopirmi restava a guardarmi, e non resisteva al desiderio di carezzarmi, baciarmi, finché non sentiva che la desideravo ancora.

Meravigliosa Katia.

L’indomani mattina ero sfinito, esausto. Agivo come un sonnambulo.

Ero prigioniero d’una situazione dalla quale non sapevo, e soprattutto non volevo, uscire. Il sesso era divenuto una fissazione, una droga.

Mi stupiva l’insaziabilità delle mie deliziose compagne, la loro fantasia erotica, la carica di passione, la voluttà, ma ancor più come riuscivo a far fronte alla loro esuberanza.

Si andò avanti così per molto tempo.

Era, ormai, il nostro modo di vivere con gioia, senza mai trasformare la esaltante consuetudine in noia, in monotonia.

Notizie dei mariti arrivavano sempre più raramente.

Poi ci furono gli eventi della Russia, i dispersi. Di Mirko non si seppe nulla. Le nostre navi erano divenute bersaglio quasi indifeso per gli Inglesi. La nave di Dario fu affondata. Lui fu ritenuto essere tra i salvati dal nemico. Prigioniero.

Ero li da oltre un anno quando giunse il trasferimento ad altra sede. Molto lontana. Una località abbastanza al riparo dalle incursioni nemiche.

Le mie nozze erano imminenti. Mia moglie avrebbe potuto vivere con me nella nuova sede.

Il distacco fu atroce.

Gli ultimi giorni li vivemmo come in trance.

Ela piangeva di fronte a tutti.

Non dormiva più.

Faceva l’amore follemente, accanitamente, disperatamente.

Restava avvinghiata a me per ore.

Katya mi guardò sorridendo mestamente, quella sera.

‘Grazie per quello che mi hai dato. Resterà per sempre con me.’

Amò con l’ardore d’una adolescente, la sapiente dolcezza d’una sposa, l’insuperabile voluttà della sua maturità.

Mi baciò freneticamente.

Le sue labbra vellutate si posarono sulla ‘folgore ardente’ del suo dio, come diceva, si dischiusero per picchiettarlo col saettare della sua lingua infuocata, suggerlo golosamente, cospargerlo del nettare della sua saliva.

‘Giorgio, voglio donarti una cosa che non &egrave stata e non sarà mai di nessun altro.’

Si mise carponi.

‘Entra in me, Giorgio.’

Mi avvicinai a lei, eccitatissimo, con una imponente erezione.

Prese il glande violaceo, lo cosparse di saliva, lo guidò tra la sue meravigliose natiche che spinse lentamente ma decisamente verso di me.

Sentii dilatarsi adagio la sconosciuta deliziosa apertura che m’invitava a penetrare. Scivolai in lei, a poco a poco, travolto da una inimmaginabile voluttà. Una sensazione indescrivibile.

Si muoveva stupendamente.

Volse la testa verso di me.

‘Carezzami.’

Prese la mia mano e la condusse tra le sue gambe.

In lei si scatenò una tempesta che mi travolse, come cavalloni che assalivano il molo proteso nel mare della felicità.

Mi avvinghiai con l’altra mano a una mammella, la impastai freneticamente, strizzai il capezzolo.

Raggiungemmo le più alte inesplorate cime del godimento, sempre più convulsamente.

Crollò di colpo, sul letto, braccia e gambe spalancate, io non uscii completamente da lei.

‘L’unico regalo che posso farti, Giorgio, ma lo ricorderò per tutta la vita. E’ stato fantastico.’

E’ trascorso tanto tempo, da allora.

Anni.

Ma i ricordi sono sempre vivi, attuali e incancellabili.

Il paese di Katia e Ela era caduto nelle mani dei cosiddetti ribelli, pochi giorni dopo la mia partenza. Un colpo di mano.

Erano state commesse infinite atrocità. Le foibe erano state riempite di corpi, alcuni ancora vivi. Avevano dato la caccia a chi aveva ‘collaborato’ con gli Italiani. Bastava non essere stati apertamente ostili a loro per essere materialmente bollati a fuoco con una ‘I’, izdajica, traditore.

La guerra guerreggiata era terminata, ma ero ancora in servizio per ‘particolari esigenze dello Stato’.

Ero intento a leggere una relazione quando il piantone mi portò una busta.

‘E’ stata recapitata a mano. Un uomo in bicicletta l’ha consegnata al militare di guardia ed &egrave subito andato via. Un uomo di mezza età, vestito molto modestamente. Non si &egrave voluto fermare. Pareva avere molta fretta.’

Una grossa busta, di quelle arancione che s’usano per inviare domande o trasmettere documenti.

L’aprii.

Dentro c’era un’altra busta, più piccola, bianca, indirizzata, con una grafia chiara ed elegante, al Tenente Giorgio Santin, al mio vecchio Comando, lasciato da tempo, accompagnata da un foglio di quaderno scritto a matita.

‘Egregio Signor Tenente,

molto tempo fa ho avuto l’incarico di farle pervenire quanto allegato, ma solo in questi giorni sono riuscito ad entrare in Italia e, grazie agli amici, ho potuto rintracciarla.

Non so cosa contenga la busta.

Mi &egrave stata data chiusa, con la raccomandazione di distruggerla senza leggerne il contenuto in caso che non fossi riuscito a fargliela avere.

La signora che le invia la lettera mi ha anche raccomandato di assicurarle che sta bene.

Ma questa sarebbe una bugia, e io non dico bugie.

Mi perdoni se non firmo, ma sono ricercato dalla polizia che ora opera nel mio paese, dai rossi, ovviamente, che hanno informatori dappertutto.

Addio.’

Aprii la busta bianca, senza romperla.

Alcuni foglietti riempiti con una scrittura piccola e chiara.

Una data vecchissima.

Senza località.

‘Giorgio, amore mio,

Da quanto tempo avrei voluto scriverti, dopo essere stata portata qui, ma come inviarti una lettera?

Sai anche tu come si sono svolti gli eventi al mio paese e sono certa che non hai mai ricevuto le notizie che ho spedito subito dopo la tua partenza, perché mi &egrave stato detto che tutta la posta &egrave stata sequestrata e distrutta.

Affido la presente a un amico, sperando che possa giungerti.

E’ trascorso tanto tempo da quando mi hai lasciata e ti amo sempre. Più che mai.

Sono accadute tante cose.

La nostra casa &egrave stata distrutta, dei ragazzi non so nulla.

Io sono stata obbligata a cambiare residenza, e vivo qui, da una lontana parente, poverissima. Meglio che non ti dica dove.

E’ un trascinarsi giorno per giorno, aiutandomi con il poco denaro che riesco a raggranellare con mille espedienti. Le suore mi fanno fare qualche ora d’insegnamento. Ma quello che più mi aiuta &egrave che, mentre lavoro, pensano loro, le suore, ai bambini.

Si, amore mio, ai tre bambini.

‘Ca’ de Do”, testimone di quanto ti abbia amato, e le cui mura ancora risuonano dei miei appassionati sospiri, ha voluto che il mio amore non svanisse nel nulla.

Poco dopo la tua partenza, mi sono accorta d’aspettare un figlio. Tuo, tesoro mio. Ero pazza di gioia, avrei voluto gridarlo a tutto il mondo. Ma dovevo tenere per me questo segreto. Presto, però, la mia condizione sarebbe stata evidente, così decisi di confidarmi con la mamma.

Mamma -le dissi, mentre era intenta a cucinare- sono incinta, di Giorgio.

Seguitò senza neppure voltarsi, e rispose, calma:

Anch’io.

E nella sua voce c’era una profonda dolce, commossa felicità. Il suo volto era radioso.

Ci abbracciammo, ridendo e piangendo nel contempo.

Sedemmo accanto al tavolo.

Mamma prese le mie mani, e le tenne tra le sue mentre parlava.

Sapevo di attendere un bambino fin da quando Giorgio era ancora qui. Inizialmente avevo pensato che fossero le prime avvisaglie della menopausa, ma l’ostetrica mi disse che ero gravida, di almeno tre mesi. Avrei voluto comunicarlo a Giorgio, avrei voluto fargli conoscere quale grande dono mi aveva fatto, cosa ciò significasse per me, alla mia età. Ero tornata giovane. Ma ho preferito tacere. Questo bambino &egrave mio.

Stava accadendo quello che neppure la fantasia avrebbe immaginato.

Eravamo state rivali, e lo sapevamo. Avevamo vissuto un compromesso che farebbe rabbrividire anche i non moralisti. E adesso proseguivamo sulla stessa strada, sentendoci, addirittura, più vicine che mai perché entrambi aspettavamo un figlio dallo stesso uomo. Capii, però, che quello che ci univa, in effetti, era lo stesso amore, infinito, che, ognuno a modo suo, aveva avuto per te e ancora ci legava a te.

Anche per me, mamma, &egrave stata una sorpresa. Ero convinta che finché allattavo non avrei concepito. Ma sono infinitamente felice di essermi ingannata. Avremo un figlio di Giorgio, mamma. Prima tu, e io accudirò a questo mio fratellino. Poi io, e tu accudirai a questo tuo nuovo nipotino.

Parlavamo solo di te, Giorgio, ognuna un po’ gelosa dei ricordi dell’altra. Ma il destino aveva scritto un domani drammatico.

Quando mamma mise al mondo la sua creatura io ero vicina a lei. Un parto lungo ed estremamente laborioso. Soffrì molto, ma non emise un lamento. Qualcosa di innaturale. Sforzi sovrumani affrontati con incredibile serenità.

Era uno splendido bambino. L’ostetrica lo mostrò a mamma e le fece i complimenti. Sottolineò sorridendo che il bimbo ci teneva moltissimo ad evidenziare la sua mascolinità, che metteva in bella mostra.

Mamma era affranta, ma bellissima. Lo guardò felice. Mosse appena le labbra per dire debolmente:

Ciao, Giorgio, che dio ti benedica.

Il suo sguardo rimase fisso sul bimbo. Il suo cuore non resisté oltre a quella felicità.

Lo abbiamo battezzato come lei lo aveva chiamato: Giorgio. Gli uffici anagrafici hanno cambiato Santin in Santic.

Solo la mia povera parente e le suore sono riuscite a non farmi cadere nella più profonda delle depressioni.

Dopo due mesi &egrave nato anche il nostro bimbo. Il nostro, amore mio. Anche lui con quel… particolare che aveva fatto sorridere l’ostetrica. I due fratellini, che sono anche zio e nipote, sono due splendidi, vispi e intelligenti bambini e crescono benissimo, a vista d’occhio.

Il nostro bambino si chiama Bogdar, dono di Dio, Bogdar Santic.

E quando li chiamo entrambi, Giorgio… Bogdar…, posso gridare al mondo la mia felicità repressa, invocandoti, con la speranza che non mi abbandonerà mai, quella di averti ancora. E nessuno comprende il mio segreto, Giorgio… Bogdar…! Giorgio, dono di Dio!

Mi manchi, tesoro.

Ti prego, vieni a prendermi, tienimi con te, come una volta, anche se dovrà essere una sola volta.

Che Dio ti benedica, Giorgio, e mi consenta di sentirti di nuovo realmente, mio, come adesso ti sento nel ricordo.

Sono la tua Ela.’

* * *

Durante i lunghi anni trascorsi ho riletto più volte questi appunti.

Anche oggi.

Li ho lasciati così, senza modifica, senza commenti.

Come li avevo scritti allora.

Non ho tralasciato nulla, non ho dimenticato nulla.

Dopo anni e anni di vana ricerca, nonostante il prezioso interessamento delle autorità locali, dopo gli inutili viaggi nel paese dove la ‘Ca’ de Do” non esiste più, e che avevo trovato ancor più grigio e povero di allora, mi capita spesso di sorprendermi assorto a pensare a un passato che mi domando se tutto questo sia realmente accaduto o sia solo frutto della fantasia.

Torno a leggere, allora, la lunga lettera di Ela.

La realtà &egrave lì.

Lo svolgersi rapido d’un film che di quando in quando sosta su un fotogramma per poi dissolversi lentamente in un altro.

Ela e il suo appassionato ardore: bellissima valchiria lanciata al galoppo, il seno nudo, i biondi capelli al vento.

Il volto del piccolo Roberto con fattezze note e nel contempo sconosciute, forse quelle di Giorgio o di Bogdar.

La morbida, scultorea nudità dorata di Katia irrigidita nella fredda immobilità marmorea d’una statua.

Ho fatto una fotocopia della lettera di Ela. E’ sempre nel cassetto della mia scrivania. L’originale, chiusa, é nell’album dei ricordi.

Non so se mia moglie, i miei figli, l’abbiano mai letta. Comunque, non ne hanno mai parlato.

* * *

Catela, la mia prima bambina, &egrave già mamma.

Da qualche anno.

Ieri &egrave venuta a trovarmi.

Come per caso ha preso sulla scrivania un cartoncino che m’&egrave giunto giorni addietro.

‘E’ dell’Associazione Italia-Croazia, vero papà?’

Assentii con la testa.

‘Ti invitano a un incontro sugli scambi tra i due Paesi. Ci sarà anche l’addetto commerciale croato, il dottor Bodgar Santic.’

Era alle mie spalle, mi abbracciò stretto.

‘Ci andrai, vero, papà?’

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