Ci vediamo la settimana prossima per continuare le avventure di Marta nel bordello di Pontresina, tra l’eccitazione che le provoca Andri e il suo disprezzo verso Giulia; nel frattempo, vogliate fare un’ultima discesa sugli sci lungo le piste innevate di Santa Elisabetta in Valscighera in compagnia di Emanuele, Stefano e della maestra Katia.

Sollevo gli sci dal supporto della cabina che dondola muovendosi a passo d’uomo accanto alla banchina. Gli scarponi di plastica sono rigidi per camminare e mi tremano sulla gomma che ricopre il pavimento della stazione della funivia. Rischio una storta correndo per raggiungere il resto del gruppo, il peso degli sci in una mano e i bastoncini nell’altra mi sbilanciano.
I miei tre compagni della scuola di sci sono attorno a Katia, che spicca nel gruppo per la sua tuta bianca dalle rifiniture blu. Sulle spalle è cucito lo stemma della scuola di sci “Campioni delle nevi”, insieme ad un altro paio di patch che non ho mai letto. Il culo della ragazza distorce la tuta in una serie di curve che rendono una meraviglia seguirla nelle discese. O imbrattare di sborra i fazzolettini…
La maestra si volta. Gli occhialoni gialli sono sollevati sul caschetto bianco, attorno agli occhi castani si formano delle rughette nel sorriso che mi rivolge. «Bene, ora che anche tu Emanuele sei pronto, possiamo andare.»
Il mio sorriso nasconde lo sforzo di non fissare la terza che riempie la tuta all’altezza del petto di Katia. Annuisco, sia alle parole della donna che al suo corpo meraviglioso.
Stefano è al suo fianco. Due dita lo separano dalla maestra, sembra volersi strusciare contro di lei come farebbe un gatto con la coda sollevata in cerca di attenzioni e di qualche croccantino. Indossa una tuta nera imbottita con delle righe gialle che sembrano un’esplosione o che vi abbiano tirato addosso dei gavettoni di pittura. Gli sci sono neri, lucidi, come se fossero usciti questa mattina dal negozio, nonostante l’abbia visto sciare per delle ore ogni pomeriggio. «Sono davvero dispiaciuto che questo sia l’ultimo giorno del nostro corso.»
Francesco solleva la zip della giacca azzurra e stringe al petto gli sci bianchi e gialli. «Beh, Katia, sei un’ottima insegnante di sci. Non mi sarei mai aspettato di tornarmene dalle vacanze senza una gamba rotta sulle piste.»
Nicola annuisce, la sua pappagorgia si muove come il bargiglio di un tacchino. Si arriccia uno dei suoi grossi baffi da Babbo Natale. Stamattina non sembra più alticcio del solito.
La ragazza ci passa in rassegna con lo sguardo, sorridendo. «Siete stati tutti degli ottimi allievi.» Si ferma un’istante di più su Stefano. «Davvero ottimi.»
Un angolo della bocca dello stronzo si solleva un dito di troppo. Gli occhi azzurri gli luccicano sotto le lenti multicolore degli occhialoni. Cocco della maestra del cazzo…
Katia si volta, i capelli biondi si spostano sulla sua schiena. Le sue splendide chiappe mi fanno prudere nei boxer. «Adesso andiamo o ci rubano il posto.» La seguiamo fuori dalla stazione di mezza quota.
I riflessi che sfolgorano sui cristalli di neve attorno al sentiero mi ustionano gli occhi. Stringo le palpebre e abbasso gli occhialoni. Il fastidio svanisce. Sollevo la cerniera della giacca e fermo il fiato di aria che mi congela lo stomaco.
Procediamo in fila indiana verso la partenza della seggiovia in un sentiero scavato nei venti centimetri di neve caduti questa notte, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri scarponi. Nicola davanti a me scivola ma si salva dal capitombolo e dalla figuraccia appoggiando in tempo il fondo degli sci. Un uomo e una donna dalla pelle rossa come un pomodoro che vanno nella direzione opposta gli lanciano un’occhiata e sogghignano.
Diverse persone stanno parlando e ridendo nel piazzale sotto di noi, alcuni con in mano dei caffè in tazze di carta, altri con delle sigarette in bocca. Dal comignolo della cucina del bar della stazione si sprigiona un pennacchio di vapore bianco degno di una ciminiera industriale. L’odore delle pietanze in preparazione è una cappa nauseante, il fetore del soffritto di aglio e cipolla è vomitevole, come se me l’avessero ficcato direttamente nel naso.
Non c’è fila davanti alla stazione della seggiovia. Sulla pista battuta dai gatti delle nevi passano un paio di sciatori, sollevando un suono appena percettibile, come se fossero ben più lontani di un tiro di sasso. Ci mettiamo in fila davanti al tornello e sul volto dell’addetto all’impianto si stampa un sorriso.
«Mh, Katia. Ci sei domani sera al falò di fine anno?»
La ragazza annuisce. «Come sempre.»
«Fate un ultimo giro prima di andare a pranzo?»
La maestra supera la barriera passando un guanto sul sensore e si avvicina alle seggiole. Stefano le è subito dietro, anche lui ha adottato lo stesso metodo, ritagliando il chip e incollandolo nella manica della giacca. «No, ci fermiamo al Focolare Alpino a mangiare e facciamo dopo la nostra ultima discesa insieme.»
L’uomo annuisce e afferra il bracciolo di una seduta per rallentarla. Katia e Stefano – bastardo, si siede accanto a lei per tutta la salita! – si mettono in posizione e la seggiola li raccoglie come un cucchiaio. «Fai attenzione che il meteo ha messo nebbia nel pomeriggio.»
La donna si volta verso di lui. I lunghi capelli biondi schiaffeggiano il caschetto di Stefano. «Il meteo non indovina in montagna.»
L’uomo scuote la testa e sussurra qualcosa che lo sferragliare del motore della seggiovia soffoca.
Francesco e Nicola sono passati per il tornello e rinfilano in tasca gli skipass. Me ne sono dimenticato! I due si mettono in posizione e si voltano verso di me. «Vieni, Emanuele, che saliamo insieme.»
Getto le mani nelle tasche della giacca. Vuote! Dove cazzo l’ho…
«Occhio…» L’addetto prende per la spalliera la seggiola che arriva.
Metto le mani nei pantaloni, le dita non incontrano nulla se non il telefono e le chiavi dell’auto. Non l’avrò lasciato in… È al collo, per non perderlo!
Abbasso la zip e l’aria mi gela il sudore che sta inzuppando la canottiera. Tiro fuori lo skipass e sollevo lo sguardo. Francesco e Nicola vengono catturati dalla seggiola che dondola per il loro peso.
Sollevo la mano. «Io… prendo il prossimo.»
Nicola si volta verso di me. «Ci vediamo in cima.»
Stringo le labbra. Che sport di merda, lo sci.
Il resto della compagnia è accanto alla stazione di monte, intento a guardare il panorama. Katia indica con uno dei bastoni, descrivendo qualcosa. Stefano si volta verso di me intento ad uscire dalla recinzione dell’arrivo della seggiovia. Un lampo corre nei suoi occhi. Ti è piaciuto stare accanto alla maestra, eh, cocco bastardo?
Da questa posizione si scorge tutta la Valscighera, coperta di neve fino al fondovalle, dove giace Santa Elisabetta, con i camini che sollevano fumo e poche auto in movimento sulle strade ghiacciate. Il cielo azzurro senza una nuvola contrasta con il mondo in bianco e nero sotto di lui. Non c’è un filo di aria e il freddo mi sta mordendo la pelle delle guance.
Prendo il telefono da una tasca e scatto una foto allo scenario. Accedo a Instagram per caricarla come storia, ma compare la scritta “Rete non disponibile”. Rimetto in tasca il telefono: in questa zona riceve sempre male. Al diavolo.
Katia abbassa il bastone. «…e li è dove mio padre mi ha insegnato a sciare a quattro anni.» Si volta verso di me e mi sorride. «Bene, ora andiamo a mangiare che ho proprio fame.» Si avvia verso l’edificio ad una decina di metri di distanza, una baita a due piani con mezzo metro di neve sul tetto. I muri sono coperti di sassi e davanti, accanto ad un cartello in legno con la scritta “Il focolare alpino” ci sono quattro tavolini vuoti. Chissà se serve anche oggi al bar la ragazza con i capelli neri?
Faccio scivolare i rebbi della forchetta dalle labbra, il sapore deciso della carne del cervo al salmì si diffonde nella mia bocca, coperto appena dalle spezie che pizzicano la lingua. Non mi sarei mai aspettato fosse così buona la cacciagione…
Infilo la forchetta nella polenta gialla screziata da puntini neri e la sollevo con uno sbuffo di vapore, il profumo della pietanza si spande fino al mio viso.
«…e allora ho suonato il clacson…» Francesco gesticola troppo e qualche goccia di sugo di carne finisce sulla tovaglia. «…e gli ho detto: “Va che il senso della strada è l’altro!»
Tutti gli altri presenti al tavolo scoppiano in una risata. Non ho ascoltato una sola parola della storia, ma lo faccio anch’io per non sembrare maleducato. Per lo meno, nessuno di noi ha la risata sguaiata della donnona qualche tavolo più in là.
Stefano si pulisce la bocca con il tovagliolo e lo appoggia sul tavolo accanto al bicchierone di birra. Ha la mia età, o forse un anno in più, di certo non ha finito l’università, ma si atteggia come uno che ha visto il mondo. «A me una volta è successo che…»
Sospiro con il naso e sollevo la forchetta, la polenta sembra neve gialla, calda e gustosa. Non usano la farina del supermercato dove va mia madre a fare… Il telefonino in tasca emette un trillo: si è agganciato al WiFi del ristorante con la password che la barista mora mi aveva confidato di nascosto qualche giorno fa. È il terzo messaggio che ricevo da quando siamo qui al ristorante: non voglio sembrare maleducato prendendo in mano il telefono durante il pranzo, ma Katia e gli altri due sono incantati ad ascoltare le cazzate di Stefano. E per quello che mi importa delle mirabolanti avventure del cocco della maestra…
Metto in bocca la forchettata di polenta – mhm, divina… – e mi sporgo dietro sulla sedia. Dalla tasca della giacca prendo il telefono. Le notifiche mostrano alcuni messaggi arrivati da quando sono salito sulla cabinovia nella stazione a Santa Elisabetta. Apro il primo.
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Luisa
Ciao Manu, come va in montagna? Non prendere freddo, ma tanto poi ti scaldo io quando torni 😘 |
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Trattengo un sorriso. Avevo promesso a Luisa di portarla fuori al cinema quando sarei tornato a casa. Devo controllare se c’è qualche film interessante in programmazione. Sollevo le spalle: tanto la nostra concentrazione sarà rivolta ad altro…
Passo al successivo.
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Michela
Spero che tu nn stia facendo il simp con qualke zoccola sulle piste da ski, pisellone, o sono guai sia per te ke x lei! |
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Devo ancora capire se chiudere il rapporto con Michela. Non ho mai conosciuto una ragazza così gelosa, mia sorella dice che una simile mi farà finire nei guai. Trattengo una smorfia: quando non è gelosa, Michela succhia e ingoia come la migliore delle pornostar, e sono certo che usa il sesso per farmi dimenticare le altre.
Apro il messaggio di Bianca con un’immagine. Abbasso il telefono perché nessuno veda la sua foto nuda. Ma non ho ancora imparato che non devo aprire mai la sua chat in presenza di altre persone? Per lo meno non manda vocali, perché sono certo che sarebbero molto imbarazzanti.
Attorno al tavolo, sono tutti intenti ad ascoltare le balle di Stefano, nessuno mi sta considerando. Sollevo appena il telefono. Bianca è a pecora, in primo piano il suo inguine con la figa e il buco del culo in bella vista. Il suo viso è appena sfuocato, sorride sapendo che questa è la mia posizione preferita. Zoccoletta…
Spengo lo schermo e rimetto il telefono nella tasca della giacca. Domani sono di nuovo a casa, ma non so se voglio uscire la sera a festeggiare il Capodanno con qualche ragazza. O magari invito Bianca da me…
L’immagine, per quanto vista solo di sfuggita per mezzo secondo, mi ha ringalluzzito. Un senso di eccitazione mi infastidisce, il cazzo si è dato una stirata ma non è ancora che barzotto. Il seno di Katia guadagna diversi punti interesse, sorpassando anche l’ottimo cibo del Focolare Alpino. Un sorriso cerca di sfuggirmi sulle labbra nello studio di come la maglia della maestra si deforma all’altezza del petto…
«…e la ragazza stava gelando,» Stefano è ancora immerso nel suo racconto inventato, come tutti gli altri, nemmeno viva le avventura di Nathan Drake o Jack Reacher da mattina a sera. «Le ho messo addosso una coperta termica – quelle argentate, avete presente? – che tengo sempre in auto per ogni evenienza.»
Certo, come no. Poi l’hai operata con un coltello di plastica…
«Hai una coperta termica in auto?» Francesco non è meno dubbioso di me. Mi ha raccontato di essere un paramedico, e lui di queste cose deve intendersene.
Stefano ha la forchetta davanti alla bocca, un pezzo di salsiccia fuma in cima ai rebbi. Solleva le spalle. «Gli anni passati nei boy-scout mi hanno insegnato molte cose, compreso essere sempre pronto a qualunque evenienza.» Si mette in bocca il pezzo di carne e mastica.
Katia gli sorride. «Bravo, Stefano, bisogna saper trovare sempre un modo per risolvere i problemi.»
Conficco la forchetta in un cubetto di cervo. Il mio fiato sibila nel naso.
Nicola abbassa il bicchiere di birra e si passa una mano sui baffi a manubrio grigi per pulirseli dalla schiuma. «Io l’avrei scaldata come gli eschimesi.» Una mezza risata scuote il suo pancione.
Gli lancio un’occhiata. Come si scaldano gli eschimesi? Aprono la pancia di un orso polare e ci si infilano dentro, come Han Solo con il tauntaun quando vuole salvare Luke dal congelamento? Francesco si ferma a metà di un boccone, solleva le sopracciglia e inclina la testa con la forchetta ancora in bocca.
Stefano si fa avanti sul tavolo. «Cioè, come fanno?»
La risata dell’uomo si fa più forte. Gocce di birra gli schizzano dalla bocca. «Si spogliano nudi e scopano come ricci!» Nicola si tiene il pancione, che si scuote come una gelatina.
Stefano si ritrae, sbattendo gli occhi. Si volta verso Katia. «Ma è vero?»
Chiudo le palpebre e mi stringo la radice del naso. Davvero devi chiederlo? Secondo te, sul pack, con trenta gradi sottozero, per salvare qualcuno dall’assideramento lo spogliano e se lo ciulano? Ma nemmeno se fanno una gang bang…
Piccole rughe compaiono sulle labbra della maestra chiuse a “O”. «Così dicono…»
Stefano annuisce. «Capisco.»
Sospiro, spero per lui di non avere mai il bisogno di essere soccorso dagli eschimesi nell’Artico. O magari no…
La cameriera, la stessa che serve al bar e mi ha confessato il codice del WiFi, si avvicina a noi e mi fa l’occhiolino. Ha in mano un block notes e una penna. «Come sta andando il pranzo?»
La situazione all’esterno non è migliorata, ma è pure riuscita a peggiorare: il freddo dell’aria passa attraverso i vestiti da sci e una nebbia fitta si è alzata, bloccando la vista ad un tiro di sputo. Tutto è sparito, il suono della seggiovia è qualcosa di alieno e le voci di chi è attorno a noi sembrano quelle di fantasmi. È come essere nella puntata di Star Trek dove la dottoressa Crusher deve fuggire da un universo alternativo che sta collassando attorno a lei e tutto si riduce a una sfera bianca.
Scendere per la pista è un suicidio: se non finisci nei boschi che la delimitano, prendi in faccia uno dei piloni della seggiovia.
Katia, davanti a noi, si volta. Trattengo una smorfia al suo riuscire a girarsi con un paio di sci ai piedi come se fosse scalza. «Siete pronti?»
Francesco avanza di un paio di metri spingendosi con i bastoncini fino a raggiungere l’inizio della discesa, come se volesse assicurarsi che si veda qualcosa di più del nulla assoluto. Scuote la testa, punta i pastoncini davanti a sé e retrocede fino a quando si ritiene al sicuro dal vuoto bianco. «Io passo, torno giù con la seggiovia.»
La maestra arriccia le labbra. «Sei sicuro? Sei un ottimo sciatore, Francesco.»
Lui solleva una mano. «Grazie, ma…» Il retro dello sci che sposta per girarsi si appoggia su quello rimasto fermo, si libera con uno strattone. «Meglio di no.»
Nicola indossa solo gli scarponi. «Mia moglie mi ammazza se torno in albergo con le ossa rotte, scendo anch’io con Francesco.»
Trattengo un sorriso: meno male che anche loro sono del mio stesso avviso. Mi sarei vergognato ad essere l’unico che si cagava addosso di fronte a questo nebbione alla Mist.
Katia mi interroga con lo sguardo. I lati della bocca sono abbassati, la mascella contratta.
Mi spiace, Katia. Sei il mio sogno erotico ma ci tengo alla vi—
«Io vengo.» La voce di Stefano è fin troppo alta, sembra rimbombare tra le pareti bianche che ci circondano. Francesco e Nicola lo fissano a occhi spalancati. Dai miei devono uscire le fiamme. Bastardo…
Katia gli sorride. «Sapevo che eri il migliore, Stefan—»
«Vengo anch’io!»
Tutte le teste si voltano verso di me. Gli occhi di Katia brillano, quelli di Stefano si chiudono. Mi ritrovo con la bocca che si sta ancora muovendo e la “o” finale che sta terminando di uscire dalle mie labbra. Il cuore mi fa un balzo. Cazzo… l’ho detto davvero?
La maestra si abbassa gli occhialoni sul volto e si gira. «Perfetto! Allora andiamo!» Si lancia nella pista.
Lo sguardo di Stefano resta per un istante di più su di me. Adesso è dai suoi, di occhi, che escono le fiamme. Peccato siano solo metaforiche, o mi scioglierebbe la brina che si è formata sulla mia schiena. Non dice una parola, ma si getta anche lui nella discesa.
Le due figure perdono colore, il suono dei loro sci sulla neve si attenua. Francesco e Nicola mi fissano come se fossi matto. Io mi sento più un coglione suicida.
Afferro gli occhialoni, me li sistemo alla meglio sugli occhi e mi spingo. Il nulla si apre davanti a me.
Lo sci, che sport del cazzo!
Stefano è davanti a me, un’ombra nera che si sposta da sinistra a destra e poi a sinistra per tutta la larghezza della pista da sci. Per quanto volesse apparire come il migliore sciatore a mondo, nemmeno lui sembra a suo agio con la nebbia: cerca di non andare troppo veloce, come i giorni scorsi, e prende ogni precauzione.
Pure io riesco a stargli dietro.
Katia è appena visibile, una macchia azzurra nel bianco.
Cosa cazzo mi è venuto in mente di fare? Dovevo scendere con gli altri due usando la seggiovia, mica stare qui a fare lo scavezzacollo per un bel paio di tette ed un culo carino. Le mie ragazze che mi aspettano a casa cosa direbbero se tornassi ingessato?
La macchia azzurra si ingrandisce. Un bastoncino rosso si muove in aria. «Ragazzi, fermatevi!»
Stefano fa un ultimo tornante e rallenta davanti alla maestra, io mi accosto a loro scavando un paio di solchi nella neve fin troppo cedevole.
Muovo la mascella per riattivare la circolazione sulle guance in fiamme. Spero che ci fermiamo qui e Katia chiami un gatto delle nevi a recuperarci. Magari con un paio di litri di cioccolata calda quanto la lava e il riscaldamento della cabina al massimo.
La ragazza si toglie un guanto, stringe le mani a pugno e ci soffia dentro. Il suo viso non è meno rosso di quanto dev’essere il mio.
Stefano si guarda attorno, come se la sfera bianca fosse scomparsa. «Non mi sembra che siamo ancora sulla pista.»
Cosa? Cazzo! Degli steli di erba gialla si alzano dalla coltre di neve, cumuli simili a quelli lasciati dalle talpe rovinano il manto. Dove siamo finiti?
Le parole di Katia prendono forma come nuvolette di vapore. «Sì, temo che siamo usciti dalla zona battuta dai gatti delle nevi.»
Fantastico! Adesso ci serve davvero un tauntaun colpito da un orso alieno e una spada laser se non vogliamo gelare, altro che finire contro un traliccio della seggiovia!
«Cosa facciamo?» Stefano balbetta: che sia il freddo o anche lui si è reso conto che non valeva la pena?
Katia indica più avanti con il bastone, dove la fila di abeti si interrompe prima di essere inghiottita dalla nebbia. «Se non mi sbaglio, da lì dovremmo raggiungere la pista.»
Stefano annuisce. «Va bene, guidaci.»
La maestra mi lancia un’occhiata. «Andiamo, Emanuele?» Un brivido la scuote.
Una serie di pregiudizi sessisti sulla capacità delle donne di orientarsi si affollano nella mia mente, ma… Sospiro. «Andiamo.»
Una crosta spessa quanto una pellicina provocata dal freddo non sostiene gli sci. Affondano, la neve fresca li copre, li appesantisce. Li sollevo per girarmi: i chili di acqua ghiacciata gravano sulle mie gambe. Metterseli sotto un braccio e scendere a piedi – scivolare sul culo – sarebbe più semplice e comodo.
Questa non è la pista più di quanto lo era dieci minuti fa…
Stefano è davanti a me, volteggia, o almeno fa finta di farlo. La pelle delle sue guance è rossa, ma non per il freddo. Il vetro degli occhialoni è appannato dal sudore. Si ferma, pianta i bastoncini in una spanna di neve e si piega in avanti, la bocca aperta che erutta nuvole bianche come un treno a vapore. Abbassa di una decina di centimetri la zip della giacca, la tira su con un brivido.
Già, non è una grande idea, lo so per esperienza. Fuori fa freddo e non vedi una sega, dentro stai sudando come in una sauna…
Prendo lo smartphone e accendo lo schermo. Niente segnale, ancora… Scuoto la testa e lo rimetto in tasca.
La voce di Katia proviene dall’oltre bianco. «Ehi! Ci siete?»
Stefano solleva la mano, dalla bocca gli esce un suono simile a qualcuno con un enfisema. Abbassa la mano e si appoggia di nuovo al bastoncino.
Io ho un po’ più di voce. «Sì, siamo qui.» Qui, dove, però, non lo so.
«Ho trovato qualcosa!» Le parole della maestra sono attutite, come se avessi le orecchie tappate. A parte il respirare affannato del mio compagno di corso, sembra che abbiano dimenticato di aggiungere una colonna sonora al mondo. E di colorarlo: gli unici indizi che non siamo finiti in una pellicola in bianco e nero è la macchia gialla della tuta di Stefano e i suoi occhialoni da videogioco punk.
Lui mi guarda ancora adagiato sui bastoncini, inspira a fondo e solleva il busto. Si dà una spinta e riprende a scendere, sebbene ad una velocità minore di prima e senza troppi virtuosismi.
Di certo non possiamo restare qui. «Arriviamo!» Mi spingo anch’io in avanti e gli sci riprendono a scavare trincee parallele nella neve. Mi chiedo se arriveremo da qualche parte, prima o poi: quella donna ha la capacità di orientarsi sulla montagna dove lavora tutti gli inverni talmente bassa che non mi meraviglierei se il prossimo edificio che incontriamo è un monastero buddista con tanto di statua d’oro e bandierine colorate che garriscono al vento…
Arrivo all’altezza della donna con le gambe stritolate dai crampi e le caviglie che implorano la soppressione. Stefano è accanto a lei che guarda verso il basso, la bocca aperta e il fiato che ghiaccia portato via da una brezza gelida che s’infila nel colletto.
Katia è eretta, non si appoggia ai bastoncini e il viso non è rosso per il freddo. Indica verso il basso, dove i due boschi che delineano il pascolo si perdono nella nebbia. «Laggiù c’è un’ombra… Sembra una baita.»
Mi sporgo in avanti e stringo gli occhi. Il velo di vapore sugli occhialoni non aiuta ma… sì, c’è un’ombra bassa che spezza la linea dei pini con il terreno innevato. È troppo squadrato per essere un masso erratico o un albero caduto.
Stefano si solleva con fatica dai bastoncini. «Cos’è?»
La maestra si volta verso di lui. «Dev’essere un baitèl, dove un tempo mettevano i formaggi prodotti in malga, o una stalla di capre.»
Anche un buco nel terreno con un tasso mi andrebbe meglio dello starmene in mezzo a questo inferno bianco e ghiacciato. «Si potrà entrare?» Ma soprattutto, ci si potrà restare?
«Temo che non si siano altre scelte che vedere se ci riusciamo.» E Katia si lancia giù per la discesa.
Stefano si stira e la segue.
Sospiro. «Ho già detto che lo sci è uno sport del cazzo?»
Non mi aspettavo la casa del nonno di Heidi nell’anime degli anni ’80, ma questo è un rudere di primo ordine: sassi neri scheggiati sono appoggiati uno sopra l’altro a formare una struttura quadrata non più grande di un box auto, ragnine tra gli interstizi che hanno catturato fiocchi di neve sono sferzate dalla brezza gelida. Il tetto è di lamiera, da cui pendono piccole stalattiti. Sopra ci si è accumulata una spanna di neve. Spero sia rimasta tutta sul tetto…
La porta è di metallo, con delle scritte rossi e blu scolorite fatte con delle bombolette spray – chi cazzo se ne va nei pascoli a fare graffiti? – e la maniglia di metallo è accompagnata da un chiavistello conficcato in un buco praticato in un sasso dell’uscio. Il viso congelato mi duole nell’accenno di sorriso nel notare che manca un lucchetto.
Katia usa la punta dei bastoncini per premere la leva dell’attacco degli sci e se li sgancia. Affonda per metà dello scarpone nella coltre bianca. Si avvicina alla porta e afferra il catenaccio.
Volta il viso verso di noi, come se ci stesse chiedendo se aprire o meno. Io annuisco, ma sono pronto a scommettere che non ci andrà…
La mano della donna si muove e la barretta di metallo esce dal foro nella pietra. Lei sorride. «Devono lasciarlo aperto per chi si perde in montagna…»
Tipo le discese in sci nella nebbia? Pesto la punta del bastoncino sulla leva dell’attacco un paio di volte per sci e mi libero anch’io di questi dannati aggeggi. Li prendo e li appoggio accanto a quelli di Katia e Stefano.
Abbasso la testa sotto l’architrave di legno tarlato. L’interno è buio, vuoto. Le mura interne sono sempre pietre, ma ogni buco è tappato da cemento o qualche altra cosa grigia. Il pavimento è terra battuta, con sassolini più grossi, forse quanto è rimasto dal materiale usato per tappare i muri.
Chiudo la porta alle mie spalle e la baita… o il baitèl, come l’ha chiamato Katia, sprofonda nella notta più buia. La luce di un telefono si accende, mi acceca e si sposta nella stanza fino a illuminare una torcia elettrica che pende da una trave del tetto.
«Dici che funziona?» Stefano si abbassa la zip della giacca. Sotto indossa una maglia verde e azzurra di lana.
La maestra non solleva la torcia ma sposta un cursore sotto e si accende. Una fortuna che le batterie siano cariche.
Una luce gialla riempie la baita. Una baita vuota, senza alcun oggetto, se non un cumulo di ghiaietta e un plaid alla scozzese rosso e blu pieno di buchi abbandonato sopra.
Le guance mi bruciano. Non è come essere nel bar dopo le lezioni di sci della settimana scorsa, ma rispetto all’esterno sembra comunque di starsene ai tropici. Mi tolgo gli occhialoni e il sudore che avevo attorno agli occhi mi cola lungo il viso.
Prendo il telefono dalla tasca. L’icona del segnale del cellulare ha una croce sovrapposta. Apro la app di escursionismo che mi è stata consigliata: la mappa mostra la zona degli impianti di risalita, al posto del puntino è presente un grosso cerchio che ci posiziona ad un tiro di schioppo dalla stazione di mezza quota. Scuoto la testa, l’ultimo aggiornamento dev’essere di quando siamo partiti con la seggiovia e poi ha perso il segnale. Inutile.
Katia si siede sulla coperta lurida. «Dovete essere sudati, è meglio se vi spogliate.» La guardiamo tutti e due. «Se il sudore dei vestiti vi ghiaccia addosso, rischiate di ammalarvi.»
L’idea di restare nudo in una baita simile mi piace poco, ma un brivido mi corre lungo la schiena. La canottiera è zuppa e non è affatto calda. «D’accordo.» Mi sfilo la giacca, i polsini sono bagnati e ghiacciati: la getto a terra. Tolgola maglia e ve la getto sopra.
Stefano, a fianco a me, è più titubante.
«Non è freddo.» Mi sfilo la maglietta. Pesa per il sudore della sciata fuoripista. Tra un paio di ore puzzerà come quelle che uso in palestra? «Non troppo freddo, comunque.»
Resta un istante con le mani sulla zip della giacca, mi fissa mentre mi tolgo la canottiera. Abbassa gli occhi e se la apre. Cos’è, fa il pudico davanti alla maestra da cui cercava lodi fino a mezz’ora fa?
La testa mi esce dallo scollo della canottiera. L’aria umida ma tiepida della baita solletica il mio sudore. «Tu Katia non sei…»
Katia si stringe le braccia al petto, ha le spalle sollevate e trema.
La canottiera mi pende da una mano. «Katia, hai freddo?»
I suoi denti tremano sotto le labbra. Accenna un sorriso e abbassa gli occhi. «Confesso che.. che sto gelando.»
Stefano appoggia la maglia sulla sua giacca e si avvicina a lei. «Se sei sudata, spogliati anche tu. Non… non preoccuparti per noi.» Bella tecnica di seduzione, gliel’avranno insegnato ai boy-scout anche questo o l’ha letto sul manuale delle Giovani Marmotte?
Katia si sfrega le braccia. «Non sono sudata, ma ho davvero freddo.»
Per il prossimo inverno, oltre ad una torcia elettrica, magari è meglio lasciare anche una stufa e del combustibile. Non possiamo nemmeno darle i nostri vestiti, visto che peggiorerebbero solo la situazione.
La voce della donna si abbassa. «Ma voi continuate pure a togliervi gli abiti bagnati, o vi ammalerete.» Si siede sulla coperta a scacchi colorati e si stringe tra le spalle.
Il pelo interno dei pantaloni da sci è umido, ma non so se è la situazione di restare in mutande. Soprattutto considerando che effetto mi fa lì Katia. Blocco una smorfia: non è il momento più adatto.
Stefano torna accanto ai suoi abiti e si leva maglietta a maniche lunghe e canottiera in una volta e le getta sul suo mucchio. Si siede a sua volta sulla sua giacca. Non è muscoloso quanto me: con gli abiti addosso sembrava più grosso, ma una volta sbucciata la cipolla è rimasto poco. La pelle è priva di peli, e non so se per motivi estetici o se perché non gli crescono di natura. Un guizzo sotto la pelle della schiena e un brivido lo scuotono.
Il mio braccio ha la pelle d’oca, i peli sono sollevati e trattengono il poco calore che c’è qui dentro. Le mie ragazze si lamentano che dovrei depilarmi, ma sono felice di aver sempre rimandato il passaggio dall’estetista.
Katia si sdraia sulla coperta bucata e si volta da una parte. Trema. La cosa è peggio di quanto pensassi… Avvolgerla in quello straccio sporco e mangiato dai topi avrebbe ben pochi effetti. Ci ha cacciati in una situazione assurda – dispersi in montagna con una maestra di sci su una pista dove hanno fatto i Mondiali negli anni ’90, come mi aveva detto il barista della stazione di mezza quota – ma vederla soffrire…
Mi inginocchio e afferro la giacca. Potrei coprirla con questa: non sarà il massimo, ma aiuterà comunque…
Stefano mi richiama con un sibilo. Tiene le braccia premute contro il corpo, un tremolio lo scuote appena. Con un cenno del capo indica la maestra. «Facciamo qualcosa.»
Le mie mani stringono il tessuto della giacca. L’interno è bagnato di sudore. «Sì, io…»
Lui sussurra per non farsi sentire, ma siamo a un metro e mezzo di distanza dalla donna. «Ricordi quando parlavamo a pranzo di come riscaldare le persone congelate?»
Siamo in una cazzo di stalla per capre abbandonata, non vedo coperte termiche. Ma c’è la mia giacca e potrebbe essere un passabile sostituto. «Io stavo pensando di usa—»
«Ricordi cos’ha detto Nicola?»
Nicola spara scemenze una dietro all’altra. Se non avesse fatto l’elettricista avrebbe potuto fare il politi— Sgrano gli occhi: questo scemo non starà davvero pensando che…
Stefano si infervorisce. «Ricordi cosa diceva degli eschimesi?»
Lo fisso. Sta scherzando? «Certo che lo ricordo, ma…»
Lui si alza in piedi e si inginocchia accanto a Katia. Si vedono le costole nella schiena. È talmente magro che deve congelare non meno della ragazza, ma sta cercando di non darlo a vedere. D’accordo che è una bella figa, ma pensare di scopartela come ultimo atto prima di morire assiderato mi sembra un po’ eccessivo.
E poi lei non accetterebbe mai. Sarebbe ridicolo!
Stefano le stringe una mano. Lei è girata di spalle. «Katia… mi senti?»
Le parole della ragazza sono bocconi morsi dal battere dei denti. «Stai… stai bene, Stefano?»
«Sei gelida, Katia. Devo scaldarti.»
C’è della dolcezza nella voce della maestra, come se parlasse con un bambino scemo. «E come potresti? Non ci sono fonti di calore, qui dentro.»
Non glielo dirà, non può essere così sprovveduto da credere davvero…
Stefano prende con entrambe le mani quella di Katia. «Con il mio corpo. Come gli eschimesi.»
Scuoto la testa. Non ci credo… Adesso si becca una sberla da Katia che…
La mano libera della ragazza si solleva e impatta contro un braccio di Stefano. «Lo… lo faresti davvero?»
Sgrano gli occhi. Cosa?
Katia si volta sulla schiena. Ha le labbra aperte che tremano. Fissa il suo cocco come se fosse un eroe che ha attraversato una tempesta per raggiungerla. «Mi salveresti…» Gli accarezza una guancia, lo guarda negli occhi e muove le labbra senza pronunciare una parola.
Sei sempre stato il migliore…
Il freddo scompare dal baitèl, l’aria arroventa attorno a me al ritmo del battito del mio cuore che rimbomba nelle orecchie. Le dita mi fanno male nei due pugni che ho stretto. Quel figlio di puttana non solo è migliore di me a sciare e ha tutte le attenzioni di Katia, ma adesso se la ciula pure! «No!»
I due si voltano verso di me. La ragazza ha abbassato la cintura della tuta da sci bianca e azzurra fino alla vita, una maglia di lana rosa è deformata dal suo seno prosperoso, Stefano le sta tendendo i lembi della zip per spogliarla.
Il calore del baitèl scompare, lasciando il gelo. La bocca diventa secca, il fiato mi si blocca nel petto. «No, intendo…» La mia voce è un pigolio. La alzo a volumi meno imbarazzanti. «Intendo che da solo non riusciresti a scaldarla.»
Le pupille che mi punta contro Stefano sono i fori di due pistole cariche e pronte a spararmi contro. Sembra che abbia appena rivelato il trucco dietro ad una magia. Katia, invece, allunga una mano verso di me. «Hai ragione, Emanuele… uno davanti e uno dietro… mi scalderete al meglio.»
Un sorriso idiota solleva gli angoli della mia bocca. Non può essere vero: sono di fuori nella neve, sto morendo congelato e il cervello è partito per la tangente e me lo sto sognando…
Katia si gira su un fianco, Stefano si sposta per starle davanti. «Emanuele, abbassami la tuta dietro, per cortesia.» Le spalle le tremano in un brivido.
Mi inginocchio sulla coperta, afferro il colletto della tuta e lo abbasso fino al sedere di Katia. Avrei potuto avere un’agonia peggiore…
Il corpo di Katia è magro, slanciato. Il seno è grosso ma senza essere eccessivo sul suo busto stretto. I capelli biondi le arrivano fino alle spalle, tranne un paio di ciocche che raggiungono l’altezza dei capezzoli. La figa è depilata… nelle mie sessioni di sesso solitario l’ho sempre immaginata con un ciuffo di pelo ben curato…
La ragazza si inginocchia davanti a me, gattona sulle mie gambe, le sue tette dondolano, il bisogno di afferrarle diventa insostenibile. Lei si gira, mostrandomi la schiena; le sue mani afferrano il mio cazzo in piena erezione, la cappella fuori dalla pelle per tutta la sua lunghezza. Le dita sono affusolate e fredde.
Katia volge il viso verso di me, mi guarda sopra la spalla. Un sorriso pieno di malizia si disegna sulle sue labbra. «Mhm… è bollente. Mi scalderà.»
Tiene il mio uccello in posizione eretta e cala con il suo bacino. La punta s’insinua in una cavità, che si apre e l’interno di Katia mi accoglie. Un gemito roco esce dalle labbra della maestra mentre si impala.
Trattengo un sospiro. Non è quella che speravo, ma mi farò andare bene anche il suo culo…
La ragazza si sdraia sul mio corpo, il plaid sotto la schiena non fa molto contro i sassolini sparsi sul pavimento del baitèl. Muovo una spalla per non trovarmi un pezzo di ghiaietto conficcato nella colonna vertebrale.
Allungo una mano e prendo una tetta, soda e dalla pelle vellutata. Stringo un po’, il battito del cuore della maestra si riverbera tra le mie dita. Chiudo gli occhi, un prurito nelle palle si muove lungo l’asta del cazzo.
Katia solleva le braccia verso il mio compagno di corso. «Vieni, Stefano, scaldami.»
La luce fioca della lampada elettrica non nasconde il sorriso soddisfatto del cocco della maestra. Il suo cazzo eretto fa una curva verso l’alto a metà della sua lunghezza. Nudo è magro quanto la ragazza. Si inginocchia tra le nostre gambe, afferra il suo uccello e si sdraia su di noi. A stento percepisco il suo peso. Qualcosa che si muove contro il mio cazzo, invece, sì.
Katia espira con il naso, un lungo soffio. «Ah… Ora scaldatemi, ragazzi…»
La afferro per le anche e inizio a muovere il mio bacino contro le sue chiappe sode. Quante volte ho immaginato una scena simile, nell’ultima settimana, con un fazzolettino di carta sulla cappella? Il suo retto è caldo, il buco del culo che lascia scivolare senza sforzo l’asta del mio cazzo. Trattengo un insulto. E un bacio sulle labbra di Katia. La mano dalla tetta non la sposto.
Il cazzo di Stefano pompa nella ragazza con foga, la riempie e la svuota come il pistone di un motore. Le sue braccia si mettono tra il mio petto e la schiena di Katia, la stringono come se fosse solo sua.
La vuole solo per sé, vuole escludermi dalla scopata.
Cha cazzo altro vuole, ‘sto bastardo? Si è beccato la parte migliore della scopata con Katia, io sono sotto a fare da materasso e lui sopra a fotterla.
Stringo una mano sul collo della ragazza. Il suo cuore batte come un tamburo, riempie i polmoni con un fiato breve ed espira con un gemito che le sfugge dalle labbra.
Stefano non è da meno: ansima, ringhia, spinge troppo e con troppa veemenza. Non trattiene la sua eccitazione. Sembro io le prime volte a sedici anni.
Una figa come Katia va amata con metodo: scopata con dolcezza per portarla alla sua massima eccitazione, e poi sottomessa con forza come merita una troia come lei.
Le bacio la mascella, le accarezzo il collo. Lui sarà bravo con gli sci, ma poi mi dirai chi è davvero capace con il cazzo… «Ti stai scaldando?» Mordo e inghiotto un “amore” che stava per sfuggirmi.
Lei volge appena il capo verso di me. Le sue labbra sono ad un tiro di bacio dalle mie. Deglutisco.
«Inizio a sentire qualcosa, ma…» Ansima. «…ma non fermatevi.»
Il cazzo di Stefano scuote la membrana tra la vagina e il retto come il vibratore che usa Bianca quando la inculo, ha l’energia di un chihuahua arrapato che fotte la gamba di una sedia. Non è una gara di sci, coglione, non vince chi arriva prima.
Lui si ferma per un secondo. Spinge fino in fondo e inizia ad ansimare. «Katia… Katia!» Emette un ringhio e sembra svenire, con i muscoli che perdono rigidità.
Respira a pieni polmoni, come se avesse appena fatto venti rampe di scale di corsa. Si solleva con il busto da Katia, le sorride. «Ti sei scaldata.»
Anche i muscoli della ragazza contro i miei pettorali sono più flaccidi, il cuore batte meno forte. «Sì, un po’…»
Stefano si alza in piedi, Il cazzo pende tra le cosce e una goccia bianchiccia dondola dalla punta. «Bene, allora abbiamo fini—»
Parla per te, mezzasega. Lo fisso. «La scaldo un altro po’ io, Katia…» Lascio il collo della ragazza e faccio scivolare la mano lungo il suo busto.
Lo sguardo del cocco della maestra si fa più duro del suo cazzo, gli occhi diventano brace, mi scagliano contro fulmini
La ragazza si volta verso di me. «Grazie, Emanu…» Si interrompe, le labbra della bocca le si aprono nel percepire due mie dita penetrarla.
La figa è bagnata e bollente, la sborra collosa di Stafano si spande tra le mie falangi. Appoggio il polso sul cappuccio del clitoride e inizio a muovermi dentro il suo sesso e nel suo culo. Un suono viscido ritmato rimbalza tra le mura di pietra .
Katia emette un gemito mordendosi le labbra, si irrigidisce a tal punto da staccare la schiena dal mio petto.
Avvicino la bocca al suo orecchio. «Ti piace così, troia, eh?» sussurro.
Le è a denti stretti. Sembra fare fatica a parlare. «N-non fermarti, ti prego!»
«Voglio vederti sudare, puttanella…»
Katia non risponde, gli ansimi sono troppo forti, coprono quasi il suono bagnato che il movimento delle mie dita sollevano dalla sua figa.
Stefano si è seduto ancora nudo sulla sua giacca. Ha le ginocchia sollevate e ci si è appoggiato sopra. Sul suo volto c’è un’espressione di rabbia e disgusto, ma il cazzo gli punta verso l’alto, incapace di nascondere l’eccitazione di vedere il suo sogno erotico venire scopata senza rispetto.
Il fastidio alle palle cresce, un formicolio all’uretra che conosco alla perfezione inizia a farsi sempre più forte. Cazzo, non voglio venire in culo a Katia. Non davanti a quello stronzo che le è venuta in figa!
Interrompo il movimento nel suo retto ed esco dalle sue chiappe. L’aria fresca del baitèl aggredisce il mio cazzo che fino ad un istante prima stava al calduccio. Scivolo fuori da sotto la ragazza e mi metto al suo fianco, stringendola con il braccio che termina sulla sua tetta e continuando a fotterla con le dita.
Abbasso la testa e prendo tra le labbra il capezzolo libero e lo succhio, poi passo a baciare il collo di Katia.
Lei mi mette una mano su una chiappa e me la stringe. Ha la bocca aperta, il respiro è roco e breve. «Fo-fottimi, Manu!» Lancia un grido, trema, il fiato le si blocca in gola. I muscoli della sua figa sembrano volermi masticare le dita. Katia ha gli occhi spalancati ma le pupille castane spinte verso l’alto.
Emette un sospiro e cede, come se svenisse. La tetta che stringo è sconquassata dal battito del cuore, il petto è bagnato di sudore e una goccia le corre lungo la fronte, tuffandosi tra le ciocche bionde della tempia.
Non riesco a trattenere del tutto un sorriso di soddisfazione. «Sei abbastanza calda, adesso, Katia?»
Lei sorride e annuisce. «Grazie, Manu…»
Sorrido a mia volta. «Meno male… ma adesso vorrei scaldarmi un po’ anch’io.»
Stefano si muove, i suoi occhi si socchiudono e le labbra si fanno stretta. Katia annuisce. «Mi sembra giust…»
La prendo per una spalla e la volto prona. Lei emette un gridolino di sorpresa. La afferro per le anche e le sollevo dalla coperta lurida.
Stefano appoggia una mano a terra e si prepara a balzare in piedi, ma si ferma. I suoi occhi sono spalancati, non si staccano da noi, non sa se intervenire o meno. Il rispetto che ha verso la maestra è troppo per immaginare di metterla a novanta? O qualche lato voyeuristico o di cuckold della sua anima si sta risvegliando?
Ti piace vedere la tua amata maestra scopata come l’ultima delle troie, eh, Stefano?
Il buco del culo di Katia è ben visibile, ma è la figa che voglio, adesso: le piccole labbra sono marroni, gonfie, grondano umore sessuale femminile sporco di sborra. Afferro il mio cazzo, appoggio la cappella nell’orifizio e spingo. Le pareti della fregna si aprono al mio passaggio, scivolose per l’orgasmo che le ho appena dato.
Katia non resta impassibile, arcua la schiena verso il basso come una che è esperta della posizione, discosta appena le cosce. Emette un gemito quando il mio cazzo sprofonda dentro di lei.
Stringo i suoi fianchi, allontano il suo bacino dal mio quanto basta per lasciarle dentro solo la mia cappella e la spingo verso di me. La ragazza solleva la testa. «Ah!»
Prendo il ritmo, il mio cazzo scivola nella sua vagina bagnata, il suo umore scivola fino alle mie palle e cola sulle sue cosce. Il suono delle sue chiappe contro i miei pettorali riempie il baitèl, copre gli ansimi di Katia, circonda Stefano, che si stringe le braccia attorno alle gambe e affonda il viso tra le ginocchia.
Il suo cazzo resta duro e pende tra le cosce.
Lascio con la mano il fianco della ragazza e le prendo i capelli biondi che le sono scesi oltre la spalla. Glieli tiro, le sollevo la testa. «Ti stai scaldando?» Strattono le ciocche. «Ti stai scaldando, troia?»
Lei ansima, le sue mani stringono la coperta lurida. «No-non fermarti, Manu!»
Mollo i capelli e le stringo una tetta, l’altra mano si infila tra le sue cosce e prendo con due dita il suo clitoride in erezione, uscito dal cappuccio. Glielo sego, lo premo, lo faccio ruotare.
Il grido di Katia potrebbe causare una slavina. Stefano stringe gli occhi e distoglie il viso.
Qualcuno mi scuote una spalla. «È ora si svegliarsi, Emanuele.» Una voce femminile attraversa il buio delle mie palpebre chiuse. Una voce che riconosco… è…
Apro gli occhi. Katia è inginocchiata accanto a me. Scosta lo sguardo dal mio.
La ragazza indossa la tuta da sci.
Il soffitto dietro di lei è una serie di travi di legno che sorreggono delle lamiere, una pesante penombra nasconde buona parte del tetto. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale.
Mi metto a sedere. Sono nudo, i peli del mio inguine e il mio cazzo sono sporchi di sborra secca e…
Mi volto verso la maestra di sci, che si sta mordendo le labbra e fissa un angolo del baitèl. Alle sue spalle, Stefano sta indossando la giacca nera. Il suo sguardo è più duro di quello della ragazza, stringe la bocca come se volesse evitare di dire qualcosa di sconveniente.
Cazzo! Non è stato un sogno! Trattengo un sorriso, l’unico calore che sento crescere è nel mio uccello al ricordo di come ho ciulato Katia dopo che quella mezza sega del suo cocco aveva finito tutte le cartucce in un unico colpo. Il sorriso me lo concedo al ricordo della ragazza che, dopo l’orgasmo a pecora, si è impalata sopra di me e mi ha cavalcato fino a farmi sborrare di nuovo.
Dev’essere in quel momento che mi sono addormentato, vinto dalla stanchezza della scopata e della discesa in sci nella neve non battuta. I polpacci e i quadricipiti si svegliano con un lamento.
Katia continua a trovare interessante quell’angolo polveroso della baita. «Dobbiamo andare,» la voce è bassa, «la nebbia è calata e sarà meglio tornare alla stazione prima che cali anche il sole.»
Mi alzo in piedi, mi stiro la schiena e il cazzo mi resta barzotto davanti alla maestra. Qualcosa emette un crack all’altezza dei dorsali. «Va bene, mi vesto subito.» Mi passo una mano tra le scapole, sui segni lasciati dal ghiaietto sotto il plaid.
I vestiti sono asciugati un po’, per lo meno non è ghiacciato il sudore. Mi vesto senza troppe cerimonie, gli altri due non dicono una parola. Tiro su la zip della giacca. «Ok, sono a posto.»
Il mio compagno di corso non mi ha tolto gli occhi addosso per un istante, e non certo per ammirare quell’ombra di muscoli che lui non ha; Katia non ha alzato lo sguardo una sola volta.
«Va bene.» Apre la porta ed esce, seguita da Stefano come un cagnolino.
L’aria che entra è gelida, è come aprirsi il freezer di fronte al viso. Varco la porta e la neve scricchiola sotto i miei scarponi. La vista spazia senza impedimento, cime innevate di cui non conosco il nome si stagliano contro il cielo azzurro. Il sole è un paio di dita sopra la montagna dietro alla quale si tuffa tutti i pomeriggi che passo sulle piste da sci.
Il pascolo continua a scendere tra due boschi per un centinaio di metri, fino ad innestarsi nell’altra pista del complesso sciistico. Le seggiole della funicolare che, al posto del ristorante, porta al laghetto artificiale, salgono silenziose, un paio di sciatori si muovono lungo la pista. Dietro le cime dei pini alla nostra sinistra si intravedono delle lettere scritte in rosso su un muro bianco. È il nome della stazione di mezza quota…
Cazzo… Aveva ragione il cellulare: eravamo a meno di cinquecento metri dall’arrivo quando ci siamo rifugiati qui…
Katia chiude la porta con il catenaccio, Stefano fa scattare gli attacchi degli sci con due schiocchi.
Prendo i miei dal muro del baitèl e li indosso. Giuro che è l’ultima volta che metto questi attrezzi di tortura, poi una volta a casa li metto in vendita su Internet anche a un decimo del loro prezzo. Anzi, pago pure il corriere al demente che se li prende.
La maestra appoggia i suoi sulla neve e sprofondano un po’. Li indossa come se mettesse un paio di pantofole. Si spinge per un metro con i bastoncini, pronta a lanciarsi giù per la discesa, ma si ferma. Si volta verso di noi, ci fissa i piedi. Apre le labbra, se le morde, le ci vuole qualche secondo prima di parlare.
Espira a bocca aperta, una nuvola bianca sfugge rapita dalla brezza. «Ragazzi… Stefano, Emanuele… sono dispiaciuta per quanto è successo.» Si interrompe, sposta lo sguardo sulla neve accanto a noi. «Quanto è accaduto oggi è qualcosa che non doveva succedere.»
Non so cosa dire, ma non vedo nulla di così negativo per quanto riguarda gli eventi successi nella baita. Non è morto nessuno. E spero non nasca nemmeno nessuno, in effetti…
Stefano, come al solito, deve dire la sua. «Non preoccuparti, Katia, è stato…»
La ragazza non solleva gli occhi. «No, Stefano, lasciami finire. Non sono stata in grado di gestire la situazione e ho rischiato di farvi finire in qualche pericolo. Il mio è stato un comportamento inqualificabile, inadatto ad una maestra di sci. Quanto poi accaduto lì dentro…» Indica con un cenno della mano guantata l’edificio abbandonato. «Spero vogliate perdonarmi.»
«Non devi preoccuparti.» Stefano le sorride.
Se ti metti ancora a novanta, puoi farmi smarrire pure sugli Urali. «Non diremo nulla a nessuno, Katia.» Anzi, potrei pure consigliarti a qualche amico. «Sei un’ottima maestra.»
La ragazza trova la forza di guardarci in faccia. Un sorriso che non raggiunge i suoi occhi solleva le sue labbra. «Grazie, siete fantastici.» Il sorriso si allarga e raggiunge gli occhi, ma questi si abbassano. «Siete stati fantastici.» Si volta e si spinge fino al bordo dello spiazzo davanti alla baita. «Andiamo!» Si lancia giù lungo la discesa, la sottile crosta di ghiaccio sulla neve che crepita sotto i suoi sci.
«Ce ne avete messo di tempo a scendere.» Il viso di Nicola è rosso per i grappini che ha bevuto mentre lui e Francesco ci aspettavano al bar. «Avete avuto qualche lezione privata con Katia, eh?»
Sospiro. Da sobrio è insopportabile, da ubriaco non voglio nemmeno scoprirlo. Stefano, sullo stesso sedile di Nicola nella cabina della funivia, si mette gli indici a croce sulle labbra. «Ci ha insegnato un paio di tecniche segrete.»
Il fiato dell’elettricista puzza come una distilleria. «Io l’unica tecnica che vorrei conoscere è quella per palparle quelle due tettone!» Scoppia in una risata.
Francesco, accanto a me, sospira con il naso. Mentre noi tre stavamo scop… cercando di scaldarci, lui si è dovuto sorbire per quasi tre ore Nicola. La discesa nella nebbia acquista di momento in momento sempre nuovi aspetti positivi.
La cabina ondeggia passando sui rulli al termine dell’hangar della stazione e i muri della stessa restano dietro di noi. Mi volto e appoggio la fronte alla plastica trasparente della finestra posteriore. La terrazza del bar scivola sotto di noi, diverse persone sono ai tavolini o camminano parlando tra di loro. Due tute bianche e azzurre spiccano tra le altre. Una con i capelli castani attraversa lo spiazzo, diretta verso una con lunghi capelli biondi.
È Katia! È appoggiata – abbandonata – contro il parapetto, ha tra le dita una sigaretta che fuma. Ha la testa inclinata in avanti, fissa dei rovi coperti di neve. La stanchezza della giornata scende su di me come una coperta bagnata. Povera ragazza, in che situazione si è trovata… prima la vergogna di perdersi, poi dover accettare di essere scopata su quella coperta lercia per non gelare.
E io ne ho approfittato.
Sospiro. Non vorrei mai trovarmi in una situazione simile a quella di Katia…
La cabina scende, mi trovo all’altezza del viso di Katia. Lei solleva la testa, io alzo una mano per salutarla. Lei distoglie lo sguardo e abbassa il capo.
Un groppo mi stringe la gola.

Una mano si posa sulla spalla di Katia. La voce è quella della sua collega Daniela. «Hai una sigaretta anche per me.»
Katia non abbandona con lo sguardo la cabina che si allontana ed emette un suono metallico mentre scivola sopra i rulli del primo pilone. Prende dalla tasca il pacchetto di Marlboro e lo solleva sopra la spalla.
Daniela ne prende una e se l’accende con l’accendino che ha in tasca. La brace sulla punta s’infiamma in un punto rosso e la donna emette un soffio di fumo. «Mi sembri pensierosa. È andato tutto bene?»
Katia si appoggia con le mani sulla ringhiera. «Sì.»
La collega le si accosta. Guarda anche lei la cabina scomparire oltre la punta dei pini. Un altro pennacchio di fumo esce dalle sue labbra. «Un paio dei tuoi clienti sono scesi con la seggiovia.»
«Sì.»
«Hanno avuto paura della nebbia?»
«Sì.»
Daniela si volta e si appoggia con il sedere all’inferriata. «Solo i due più giovani sono scesi con te?»
Una folata di vento fa staccare un pollice di cenere dalla sigaretta di Katia. «Sì.»
«Li hai messi uno contro l’altro tutta la settimana, eh?» Daniela ride. «Una volta o l’altra si incazzeranno e ci andrai di mezzo tu!»
Katia lancia con un movimento delle dita il mozzicone di sotto. La punta luminosa volteggia un paio di volte nella caduta e scompare in un roveto coperto dalla neve. «Devo andare.» Si avvia lungo il piazzale del bar.
L’amica si mette in piedi. «Allora, ha funzionato metterli in competizione?»
Katia si volta. Sorride e gli occhi le brillano. «Come sempre: se avessi visto che impegno hanno messo ognuno dei due per scoparmi meglio dell’altro.»
Daniela scuote la testa. «Devo provarci anch’io, una volta o l’altra.»
«E dobbiamo fare qualcosa con i topi nel baitèl: si stanno mangiando la coperta.»
La risata dell’amica è accompagnata da nuvole di fumo. «Domani io e Federica saliamo con una decina di allievi. Se va come speriamo, quella coperta la possiamo anche bruciare nel falò di domani sera!»

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Bel racconto ed anche divertente, bravo
Ti ringrazio, sono felice che ti sia piaciuto 😄