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Racconti Erotici Etero

Conca del piano

By 23 Maggio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Non ricordo da quanti anni non percorrevo quella strada.
Di solito seguivo la ‘nazionale’ senza deviazioni.
Quel giorno mi venne in mente di voltare a sinistra per andare in un luogo che ricordavo vagamente.
Dopo circa un chilometro, una indicazione con la freccia: Conca del Piano.
Mi fermai, incredulo.
Una targa quasi nuova, un nome che mi riportava a tanti anni fa.
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Una piccola chiesa, chiamata pomposamente ‘Chiesa Madre’ perché in campagna c’era la Chiesa della Fontana, poco più di una cappella.
Pochissimi abitanti.
Un nome quasi più grande del paese: Conca del Piano.
Proprio in una conca, a circa 700 metri sul mare, circondata da monti più alti.
Luce elettrica fortunosamente ottenuta grazie anche alla collaborazione degli abitanti, che si sono dovuti accollare l’onere fisico ed economico di trasportare il grosso trasformatore. Una fatica immane, perché non c’&egrave carrozzabile tra Conca del Piano e la strada che scorre a valle, cinquecento metri più in basso.
O si va a piedi, e i più aitanti percorrono l’erta di ‘rignamusso’, o si deve percorrere il sentiero che parte dalla ‘portella’, il passaggio scavato tra due rocce sul crinale del monte, e si snoda a zig-zag verso il grosso paese sottostante.
Chi dispone di una ‘vettura’ scende a cavallo di essa, perché la ‘vettura’ &egrave un quadrupede, in genere un robusto mulo, il più adatto a trasportare persone o some.
Conca del Piano, sconosciuta ai più, ma non trascurata dalla diabolica perfidia bellica che l’aveva resa quasi irraggiungibile, circondandola con una fitta cinta di mine sia sul versante verso la valle che verso l’agglomerato di case. Mine micidiali, tedesche, del tipo ‘S’, con congegni che le fanno esplodere per pressione, a strappo, a rilascio di tensione. Dal contenitore viene proiettata una serie di pallettoni metallici, schegge, che seminano morte e distruzione.
Ero il giovane ufficiale che comandava la sezione per la bonifica di quella zona. Bonifica campi minati.
Cavalcavo un mulo superbo, scuro di manto, tenuto sempre lucido e pulito dal mulattiere.
Una delle prime tappe del mio giro, era la casa delle maestre, chiamata così perché era quella dove abitava la maestra del borgo ed ora anche la figlia, tornata da poco dalla città dove aveva studiato col suo bel diploma magistrale.
Cecilia.
Una figura dolcissima, bionda, con un corpicino che non aveva ancora raggiunto il pieno del suo rigoglioso sviluppo. No, le tettine dovevano ancora crescere, sicuramente, e il sederino arrotondarsi maggiormente. Comunque, era un fiore di ragazza, e la sua bellezza era in piena fioritura, arricchita ed esaltata da una grazia deliziosa.
Scendevo dalla cavalcatura, lei era lì, sull’uscio, baciata dal sole che faceva splendere i suoi capelli dorati, con sorriso incantevole. L’istinto era di stringerla tra le braccia e baciarla.
Non era istinto paterno.
Io avevo ventisei anni, lei stava per compiere i diciotto.
Ormai era quasi un rito quello che si compiva.
Il grande vano a piano terreno, col massiccio tavolo al centro, le sedie intorno. Da una parte quelle che si chiamavano le ‘fornacelle’, dove si cucinava; a fianco la ‘cucina economica’. Andava a legna e da un lato aveva un contenitore con l’acqua che era sempre calda, quando la legna ardeva logicamente. Un lavandino di graniglia, dove scendeva l’acqua dal serbatoio messo sul solaio e riempito dalla pompa che tirava su dalla cisterna. A fianco la porta che dava nel cosiddetto bagno: wc, bidet, cipolla metallica della doccia (col buco di scolo sul pavimento), lavabo.
Io entravo, Cecilia mi porgeva un asciugamano pulito, andavo nel bagno, mi rinfrescavo e tornavo nel salone dove, sulla tavola, aveva preparato latte, caff&egrave, burro e marmellata fatti in casa, ottimi biscotti che, mi assicurava Cecilia, erano stati impastati e infornati da lei.
Sedeva dall’altro lato del tavolo. Mi guardava con infinita tenerezza.
Ogni tanto una frase un po’ galante.
‘Sono belli e buoni, ma non quanto te.’
Lei perfino arrossiva, si scherniva, e diceva che la mamma li sapeva fare meglio.
‘Non lo so, comunque preferisco te!’
Ce n’era voluto per convincerla a darmi il ‘tu’.
Una delle ragioni per cui voleva seguitare a rivolgersi a me, chiamandomi addirittura signor tenente, era il fatto che giù, nel paese a valle, mi aspettavano la mia giovanissima moglie, il mio primo bambino, e Buck, il pastore tedesco che era rimasto a guardia della famiglia.
Fu una cosa lunga, quel lavoro di sminamento. Lunga e pericolosa. L’insidia era nascosta dovunque. Purtroppo, costò anche una vita umana!
Il giorno che restituimmo bosco e campi alla loro naturale destinazione, ci fu grande festa. Un pranzo luculliano, all’aperto, su lunghi tavoloni improvvisati, al quale parteciparono tutti, abitanti e sminatori.
Il Sindaco voleva assolutamente che dicessi qualcosa. Gli risposi che eravamo felici di essere riusciti a farli rientrare nella piena disponibilità dei loro poderi e che non avevo niente da dire. Il prete celebrò la messa, ricordò il nostro caduto.
A me dettero una pergamena con parole auliche e la firma di tutti quelli che sapevano scrivere.
In effetti, ero commosso anche io.
Prima di lasciare definitivamente il paese, nel momento che stavo per salire sulla cavalcatura, Cecilia mi dette un cestino coperto con un tovagliolo candido.
‘Sono i biscotti che ti piacciono’ falli assaggiare anche a tua moglie’ al tuo bambino”
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
C’era tutto il paese a salutarmi.
Lei si avvicinò a me. Non resistetti. L’abbracciai.
Salii in sella, mi avviai verso valle.
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Ora, in auto stavo percorrendo la ‘via nuova’, la strada che avevano realizzato, e che raggiungeva Conca del Piano. E là finiva.
Saliva lentamente, la ‘via nuova’ con larghi tornanti. Molti di quei campi li conoscevo, quando erano abbandonati ora erano coltivati.
Come se il tempo non fosse trascorso, andai a fermarmi dinanzi alla grossa casa, la più grande del paese, la ‘Casa delle Maestre’.
Scesi dall’auto, rimasi a guardare l’edificio che non era mutato in nulla, salvo che per la ripulitura della facciata.
La porta a vetri si aprì.
Oltre venti anni furono cancellati di colpo.
Sull’uscio, una splendida donna, bionda, bellissima, con lunghi capelli che le incorniciavano un viso celestiale, e profondi occhi azzurri che mi fissavano, stupiti, increduli.
‘Piero’sei tu!’!
‘Cecilia!’
Ci abbracciammo con una commozione e una emozione che i nostri occhi lucidi non riuscivano a nascondere. Fu spontaneo baciarle gli occhi, assaporare il salato delle sue lacrime.
‘Vieni, Piero’entra.’
Mi prese per mano, mi condusse in casa.
Lo stesso vano di allora, lo stesso tavolo, le stesse sedie.
Qualche mobile nuovo, una moderna cucina a gas liquido, lavello in acciaio, frigorifero, TV.
Non appena richiuse la porta fu naturale abbracciarci di nuovo. Teneramente.
‘Come mai qui, Piero, dopo tanti anni?’
‘Ero diretto al capoluogo, mi &egrave venuto spontaneo di voltare a sinistra, lungo il corso del rio, poi ho visto l’indicazione ‘Conca del Piano’, non sapevo neanche che avessero fatto la strada. E’ stato spontaneo dirigermi verso la tua casa, fermarmi qui.
Allora’era la prima tappa’ ricordi?… la più bella”
Eravamo seduti vicino al tavolo, vicini che quasi i nostri corpi si toccavano. Cecilia aveva posto la sua mano, affusolata e bella, come sempre, sulla mia.
‘Come non ricordare? Anzi, chi lo ha mai dimenticato!
Tu eri il mio principe azzurro”
Sorrisi.
‘Solo che invece di un cavallo bianco montava un mulo quasi nero!’
‘Io guardavo il cavaliere”
‘E lo colmavi di dolcezza e di dolcezze’ Te ne sono sempre grato, Cecilia.’
‘Come sta la tua famiglia?’
‘Il mio primo figlio sta per laurearsi, il secondo ‘perché ne &egrave nato un altro- frequenta ancora lo scientifico’ E tu, ti sei sposata? Hai figli? Cosa fai?’
Mi guardava con occhi splendenti, un’espressione radiosa.
‘Ho sposato Aldo. Forse lo ricordi.’
‘Si, lo ricordo, molto in gamba ma un po’ nervosetto, mi sembra”
‘E’ lui.
Siamo subito andati a Roma, dove era stato assegnato dopo la vincita di un concorso nello Stato.
Da allora, ormai sono diciotto anni, non ci siamo mai mossi dalla capitale.
Non ho figli.’
‘E i tuoi genitori? Tuo fratello? Tu insegni? Perché sei qui invece che a Roma? Scusa sa, per l’assalto verbale, ma desidero sapere tutto di te.’
Scosse lentamente la testa, sorridendo, carezzandomi la mano.
‘Sempre il solito, vero signor tenente?
Vuoi tutto e subito.
I miei, purtoppo, ci hanno lasciato prematuramente, l’una dopo l’altro, quasi all’improvviso. Mia madre ha osservato fino all’ultimo il suo detto, ricordi? Ubi Gaius ibi Gaia! Lo ha raggiunto subito, Sembrava quasi contenta di morire.
Dario, mio fratello, &egrave in Sicilia, dove esercita la sua attività. E’ magistrato.
Io non insegno, Aldo &egrave contrario.
Sono qui perché ogni tanto ho bisogno di un ‘ritorno alle origini’, nella mia casa natale, a rivivere, almeno col pensiero, i ricordi di un tempo.’
‘Scusa’ come vanno le cose tra te e Aldo?’
Alzò le spalle.
‘Mi sembra, con lui, di percorrere una lunga strada, avvolta nella nebbia. E’ un rettilineo, in pianura. Non c’&egrave nulla di nuovo, né a destra né a sinistra. A malapena si riesce a procedere, lentamente. Anche se ti volti indietro non c’&egrave nulla da vedere, da ricordare, tanto meno da rimpiangere. E davanti c’&egrave nebbia, solo nebbia.
Qui, almeno, ricordo il sole del passato ed ora vivo il sole del presente.
Sono felice di averti incontrato.’
La strinsi a me, con infinita tenerezza, commozione, affetto.
Ci guardammo, emozionati, quasi due innamorati al loro primo incontro.
A ben pensarci, era il nostro ‘primo incontro’.
‘Quando tornerai a Roma, Cecilia?’
‘Sono giunta questa mattina, mi tratterrò un paio di giorni. Venerdì pomeriggio rientro alla base.
E tu, che programma hai?’
‘Dovrei andare nel capoluogo”
‘Devi proprio?’
‘Posso anche posporre l’appuntamento”
‘Resta un po” sei appena giunto, come un’apparizione, e già te ne vuoi andare?’
Eravamo seduti vicinissimi, le nostre gambe si toccavano, sentivo il suo calore.
Feci un profondo respiro.
‘Ho visto un cartello, lungo la nazionale, ‘Ardo, Hotel-Ristorante’. Posso invitarti a cena lì? O ti secca che ti vedano con me?’
‘Se vuoi, possiamo anche rimanere qui’ ho qualcosa”
‘Per me va bene, ma troverò, poi posto in Albergo?’
‘Perché, non vuoi restare con me?’
Me lo disse con un tono che mi colpì profondamente.
L’abbracciai d’impeto, la baciai sulla bocca, dolcemente.
‘Devo avvertire chi mi attende nel capoluogo.’
‘Ho il telefono, &egrave sulla credenza. Mentre telefoni vado a prepararti la camera degli ospiti.’
‘Veramente”
Cecilia si era alzata. Era bella come allora, più bella, nel fulgore della sua meravigliosa maturità.
La presi tra le braccia.
” veramente non vorrei essere considerato un ospite”
Mi sorrise.
‘Agli ordini, signor tenente’ vado su a darmi una sistemata, mi sento sconvolta!’
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Dire che s’era instaurata un’atmosfera equivoca non sarebbe esatto. Non c’era niente di equivoco, ambiguo, incerto. Eravamo perfettamente consapevoli di come le cose si sarebbero svolte e del sospirato epilogo che pur ci teneva in tensione. Come bambini attratti dalla marmellata che, però, &egrave loro proibita, e pur sanno che non resisteranno alla tentazione.
Forse era da sempre che lo sapevamo, che lo attendevamo, che lo avevamo sognato.
Cecilia era china, vicino al forno dove aveva messo ad arrostire il giovane capretto che le aveva portato il pastore. Io alle sue spalle. Come lei si alzò, l’abbracciai, le afferrai forte il seno tra le mani, la tenni stretta a me, aspirando il profumo dei suoi capelli, del suo corpo. Era la prima volta che accadeva.
Cecilia rimase ferma, col le sue mani sulle mie.
‘L’ho sempre desiderato, Piero. Non ho mai immaginato che sarebbe accaduto. Ma lo speravo. Spes, ultima dea’!’
Non fummo molto loquaci a cena.
Poi, l’aiutai a gettare gli avanzi, a sparecchiare.
Era una notte tiepida, senza luna, con tante stelle che brillavano.
Uscimmo sullo slargo davanti la casa, dove avevo lasciato l’auto. C’era un sedile di pietra. Sedemmo, vicini, tenendoci per mano. Non passava nessuno. L’unica luce era quella, un po’ rossastra, della lampadina della pubblica illuminazione. All’angolo della casa.
Rimanemmo in silenzio, quasi pregustando ma anche intimoriti per quello che si andava svolgendo.
Cecilia ed io.
Tenevo gli occhi chiusi, ricordavo la piccola acerba Cecilia di allora.
La guardai. Aveva gli occhi chiusi.
Si avvicinò a me, senza aprirli.
‘Ti rivedo come allora, Piero, quando mi sembravi un nume circondato dall’alone del coraggio: toglievi gli ordigni di morte dalle terra, la redimevi, la restituivi alla vita, al seme che l’avrebbe fecondata. Per me eri tu il dio della vita.’
‘Ero’.’
Si abbracciò a me, incurante di qualcuno che poteva passare.
‘No, tesoro, sei. Sei sempre il mio dio il dio della mia vita.’
Eravamo commossi, più dell’immaginabile.
Ci alzammo, ci prendemmo per mano, rientrammo.
Cecilia chiuse l’uscio.
Così, sempre tenendoci per mano, salimmo le scale, andammo nella sua camera.
Lasciò che, con infinita lentezza, le togliessi i vestiti, fino a restare nuda, completamente nuda, di fronte a me, coi capelli dorati che le giungevano alla vita. Mi guardava con un’aria felice.
Era magnifica, al di là di ogni immaginazione.
Un corpo meravigliosamente modellato, il viso ovale, le belle spalle, il seno eretto, rosa, con un lampone al centro di ogni appetitosa mammella; ventre piatto, fianchi rotondi, sedere tondo, alto, sodo, gambe meravigliosamente tornite. Il pube era arricchito da una fitta selva di riccioli d’oro scuro.
La sollevai di peso la deposi sul letto.
Rimase così, distesa, la testa un po’ sollevata, attendendo che mi liberassi, rapidamente, degli abiti.
Mi avvicinai a lei, evidentemente eccitato.
Le fui vicino.
Ci abbracciammo ci baciammo.
Volli sentire il sapore dei suoi capezzoli, nascondere il volto nel suo grembo. Baciarla, lambirla, frugarla con la lingua, sentirla fremere, sobbalzare, gemere.
‘Ti voglio’Piero’ ti voglio”
Fui su lei, in lei.
Sensazione divina, attesa per oltre quattro lustri.
Eravamo in preda una travolgente frenesia che andava sempre più sconvolgendoci, in un incredibile accordo, un’armonia dei sensi spontanea e naturale che ci condusse al piacere nello stesso momento, un orgasmo sublime, appagante, riposante.
Sembravamo giovani alle loro prime sfuriate erotiche. Ma non era furia la nostra, era una carica rimasta imprigionata in noi troppo a lungo, che voleva rifarsi del tempo perduto, anche sfidando i limiti della natura.
Le prime luci dell’alba ci trovarono ancora pieni di desiderio, ed il sole era già alto quando ci risvegliammo, abbracciati, con i corpi che volevano sempre essere un tutt’uno.
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Non potevo lasciare Cecilia, per andare all’appuntamento.
Telefonai, dicendomi rammaricato, inventando un malessere che non passava, rinviando l’incontro.
Rimanemmo asserragliati nella nostra splendida fortezza.
Pazzi d’amore, di sesso, di piacere.
Tornammo insieme, in città, il venerdì sera.
Avevamo intrapreso, insieme, una strada meravigliosa e non ci interessava quanto sarebbe stata lunga, dove ci avrebbe condotto.
Volevamo solo percorrerla. Insieme.
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