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Racconti Erotici Etero

Digione

By 23 Giugno 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

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Me ne stavo lì, appoggiato a una colonna, la sigaretta in bocca, il cappello abbassato sugli occhi, e quando arrivavano a portata di voce, io mollavo uno scaracchio e su il cappello. Nemmeno mi curavo d’aprir bocca e d’augurare buongiorno o buonasera. Sottovoce dicevo: ‘In culo, Jack!’ e basta così.
Era passata una settimana e mi sembrava d’esser lì da tutta la vita. Era come un incubo del cazzo che non ci si riesce a scuotersi di dosso. Entravo in stato comatoso al solo pensarci. Da pochi giorni ero arrivato. Cade la notte. Gente che fila a casa, come fanti sorci, sotto le luci nebbiose. Gli alberi scintillano d’una cattiveria che ha la punta di diamante. Ci avevo ripensato mille volte. Dalla stazione al liceo pareva una passeggiata nel corridoio di Danzica, tutto spigoloso, crepato, innervato. Un vicolo d’ossa morte, di figure curve, striscianti, avvolte in un sudario. Spine dorsali fatte di lische di sardina. Il Liceo medesimo pareva sorgere da un lago di neve minuta, una montagna alla rovescia, puntata verso il centro della terra dove Dio o il Diavolo lavora di continuo in camicia di forza a macinare per quel paradiso che non &egrave che un venire in sogno.
Se brillasse mai il sole non lo ricordo.
Ricordo Mary. La stanza dove facevamo all’amore era piuttosto grande, con una stufetta a cui s’innestava un tubo contorto che faceva gomito proprio sopra la brandina di ferro. Vicino alla porta un grosso ripostiglio. Le finestre davano su una fila di casette misere, tutte di pietra, dove abitavano il droghiere, il fornaio, il macellaio, etc., tutti cafoni dalla faccia di idioti. Guardavo sopra i tetti verso le spoglie colline dove sferragliava un treno. Il fischio della locomotiva suonava lugubre e isterico.
‘Tom, abbracciami, ho freddo”.
In quel pozzo di stanza filtrava dalla strada una luce bluastra. Ascoltavo passare i camion fragorosi e fissavo con occhi vuoti il suo corpo. Mi sentivo libero ed incatenato a un tempo ‘ come ci si sente poco prima delle elezioni, quando tutti gli imbroglioni sono stati iscritti sulle liste e ti pregano di votare per l’uomo giusto. Le ombre nella stanza si scurivano. Era un silenzio pauroso, una quiete tesa che mi tirava i nervi. In sottofondo il suo respiro. Rocchetti di neve appigliati ai vetri delle finestre. Di lontano mi giunse lo strillo acuto d’una locomotiva.
‘Tom, accendi la stufa? ho freddo tesoro”.
Poi ancora silenzio di morte. Cominciavo a scorgere il chiarore della stufa, ma calore non ne veniva. Non avevo soldi, né risorse, né speranze; mi sentivo l’uomo più felice sulla terra.
‘Tom’ Ho voglia di fare all’amore…’.

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Siccome il fuoco mi si spegneva sempre, finii presto la mia razione di legna. Era un lavoro del diavolo strappare un po’ di legna ai colleghi. Alla fine mi ci arrabbiai tanto da mettermi in giro per la strada a cerca di legna da ardere, come un arabo. Incredibile quanta poca legna si trovasse per le strade di Digione. Ma in ogni modo, queste piccole scorrerie di foraggiamento mi portarono in ambienti strani. Imparai la strada che porta il nome di Breverick Josh ‘musicista morto, credo- dove era un’infilata di casini. Sempre allegria da quelle parti: c’era odor di cucina, e biancheria appesa ad asciugare. Ogni tanto scorgevo quelle povere mezze sceme che oziavano là dentro. Se la passavano meglio delle disgraziate del centro, nelle quali m’imbattevo recandomi ai grandi magazzini. Lo facevo spesso, per stare al caldo.
Tornavo all’alloggio. Il palazzo ducale cadente, pietra a pietra, membro a membro. Gli alberi striduli di gelo. Incessante trapestio di zoccoli di legno. L’università che celebra la morte di Goethe. Idiozie. E tutti sbadigliano e si stirano e si ritirano.
Dal viale entro nel cortile e mi piomba addosso un senso di abissale inutilità. Dovetti aspettare almeno mezz’ora prima che il vecchio custode finisse il suo giro ed aprisse il portone. Mi guardavo attorno calmo e tranquillo, assorbendo ogni cosa, l’albero morto davanti la scuola coi suoi rami contorti, la casa oltre la strada che durante la notte aveva mutato colore. All’improvviso, fuori dal nulla, comparvero due amanti: ogni tanti metri si fermavano ad abbracciarsi, e quando non potei più seguirli con gli occhi seguii il rumore dei loro passi, sentii la sosta improvvisa, e quindi ancora il lento passo serpeggiante. Sentivo i loro corpi piegarsi e cedere contro la staccionata, sentivo le scarpe scricchiare quando i muscoli si tendevano nell’abbraccio. Per la città vagavano, per le strade contorte, verso il canale vitreo dove l’acqua giace nera come il carbone. C’era qualcosa di fenomenale in questo. Mi avvicinai. Scorsi lei, di schiena, inginocchiata, come se si trovasse all’altare. Scorsi lui, gli occhi chiusi, un sorriso da ebete, come se si trovasse in paradiso. Mi appoggiai alla corteccia di un albero, rimanendo concentrato per udire i loro gemiti.
La notte incombeva cupa, puntuta come una daga, ubriaca come un folle. Eccola, l’infinitezza del vuoto. Percepivo il rumore sordo della pelle che si ritrae dalla cappella per poi ricoprirla. Lei pregava la divinità, affinché la ricoprisse di fede e lui, emerito imbecille, non aspettava altro che le porte del paradiso si spalancassero, inondando la sua inutile esistenza di una luce, sinonimo di piacere. Non ce n’erano due come loro in tutta Digione.
Intanto il vecchio faceva il suo giro; sentivo il tintinnio delle chiavi, lo scricchiolar delle scarpe, il passo fermo, automatico. Alla fine lo sentii venire verso l’ingresso per aprire il portone, un portale anzi, mostruoso, arcuato, senza fosso davanti. Accesi una sigaretta, deciso a rientrare.

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