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Racconti Erotici Etero

Estremo Oriente. 2) La domestica

By 3 Dicembre 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

Avevo diciotto anni, quando il mio istitutore mi portò alla casa di Shizue, e lì conobbi Aruko. Di quell’esperienza, di quella notte intera passata tra le braccia di una donna esperta e vogliosa, porterò con me un ricordo indelebile, per sempre. Inutile sottolineare come, da quel giorno, presi l’abitudine di andare da Shizue il più spesso possibile, per quanto consentisse il mio borsellino ed i miei impegni nell’educazione. Dall’anziana geisha, conobbi anche le altre quattro ragazze: Naomi dal kimono nero, una bellezza sottile ed elegante, con due seni appena pronunciati ed il sesso completamente depilato; Kaori col kimono rosso, dall’aspetto della sana contadina di paese, florida e carnale; Kyoko ed il suo kimono verde, che possedeva il deretano più bello di Edo, e due gambe infinite; e poi Yu dal kimono blu, quella che somigliava alla figliola del nobile Kawagame. Di lei ricordo con affetto i seni perfetti, e le labbra meravigliosamente disegnate. Ovviamente Aruko rimaneva la mia preferita, ma lei stessa mi aveva incoraggiato ad accoppiarmi anche con le sue compagne. Un uomo che si ferma solo alla prima portata di un pranzo non &egrave un uomo saggio, mi diceva col suo sorriso speciale. Seguendo quel consiglio, di portate ne provai a dozzine, in verità. Non solo le dame di Shizue, ma anche le puttane da pochi yen del quartiere dei piaceri…. a volte, spesso per la verità, quando ebbi qualche anno in più, andavo da Shizue e mi prendevo due ragazze, o tre. Una volta, le volli tutte e cinque.
Ricordo che Shizue, alla mia richiesta, rise fino a piegarsi in due, abbandonando il suo algido contegno. Dopo di che, mi chiese seriamente se facevo davvero. Alla mia risposta affermativa, mi lanciò uno sguardo che chiedeva chiarimenti, così le spiegai che di lì a pochi giorni sarei divenuto ufficialmente un samurai, investito dall’imperatore in persona. Volevo festeggiare, e volevo il meglio. Quello che non aggiunsi, ricordo, fu che avevo accettato di pagare un prezzo esoso da Shizue pur di non avventurarmi nel quartiere dei piaceri. Lì avevo preso i pidocchi all’inguine, e non volevo ripetere l’esperienza. Basta puttane da pochi yen!
Di quell’esperienza eccezionale con cinque donne, non posso parlarne, perch&egrave i miei ricordi sono confusi. Rammento solo un numero incredibile di seni grandi e piccini, natiche sode ed invitanti, bocche che si contendevano il mio pene con fiera determinazione, ed il mio sesso infilato in ogni orifizio di ogni ragazza, a turno. La mia lingua, il mattino dopo, mi faceva male da quanto l’avevo usata, mentre il mio membro per qualche giorno non diede segni di vita. Porterò con me per sempre il ricordo confuso di sei corpi avvinghiati nel piacere, ma di certo non riesco a descriverlo nei particolari. Quel che importa, invece, &egrave che quest’orgia influì profondamente sulla mia concezione del sesso, e dell’amore. Di questo Aruko aveva cercato di avvertirmi, quella volta, ma la mia fregola non mi concedeva tregua. Di fatto, avevo dichiarato la resa di fronte al mio piacere, non controllandolo più. Ed il piacere si era impossessato del mio cervello, per cui ancora adesso mi capita spesso, nonostante la mia età non sia più quella del giovane sedicenne che stava diventando un samurai, di pensare con il pisello, piuttosto che col cervello. E proprio questo portò vergogna e disonore su di me e la famiglia Kumamasu. Venni meno a me stesso, a mio padre ed al mio signore Tokugawa, perch&egrave incontrai una donna, una sola. Quando la vidi, il mio membro imprigionò il mio cervello e poi, quando potei di nuovo pensare, al posto del mio pene ragionava il mio cuore. Ragionare con membro e cuore &egrave, per un samurai, una iattura indescrivibile.

Quando ebbi vent’anni, ero stato richiamato da mio padre alla corte di Ieyasu Tokugawa il quale, al timone da parecchi anni, ormai, stava diventando un vecchio inacidito e rancoroso, sebbene la sua intelligenza politica non fosse minimamente intaccata dall’età o dal rancore. Era mio dovere servire come ufficiale nell’esercito dello shogun, per fare esperienza sul campo. Non fui assegnato, come &egrave ovvio, all’esercito di mio padre, ma a quello di Akira Mori, un uomo vigoroso e simpatico, discendente ed erede della grande famiglia che si era contesa il potere prima dell’avvento dei Tokugawa. Akira era stato mandato a reprimere una rivolta di ronin, i samurai senza padrone, nel sud del paese. Il regno del nostro shogun era un periodo piuttosto pacifico, ma le rivolte da qualche parte spuntavano sempre, quindi per noi giovani samurai c’era possibilità di fare esperienza e carriera, nonostante tutto. Mi comportai bene, al mio battesimo del sangue, comandando una carica della cavalleria e togliendo dai guai proprio Akira Mori. Il villaggio nel quale si erano asserragliati i ronin non era particolarmente difficile da conquistare, né fortemente difeso, quindi lo prendemmo in meno di mezza giornata, battaglia compresa. Il saccheggio che ne seguì fu scarso, tutto sommato, cosa della quale mi rammaricavo. In compenso, ci furono stupri a volontà, cosa che mi rattristò ancora di più. Sebbene io sappia che lo stupro &egrave conseguenza di ogni saccheggio, personalmente non l’ho mai praticato, ritenendolo aberrante. Se c’era una cosa che Aruko mi aveva insegnato, era che il piacere per essere completo va preso, ma soprattutto dato. La prepotenza e la viltà dello stupro, invece, sono l’esatto opposto, e non mi darebbero nessun piacere. Ciononostante, sapevo che gli altri guerrieri la pensavano in modo diverso, e prendersi con la forza le donne dei ribelli era loro diritto. Perciò, saggiamente rinunciai ad ogni rimostranza verso Akira, e mi cercai un alloggio per la notte.
Lo trovai in una piccola casupola ben tenuta, ai margini del villaggio. Non era stata toccata dalle fiamme del saccheggio, che in fondo si erano spente presto, e sembrava deserta. Potevo dormire lì, con il mio attendente a farmi da guardia, lasciando il mio cavallo fuori. Il giorno dopo saremmo partiti. Entrando, notai che la casetta, sebbene piccola, era divisa in tre ambienti, divisi da pareti in carta di riso. Nelle spesse pareti esterne invece erano stati ricavati degli armadi. La prudenza mi fece esplorare gli ambienti, scoprendoli deserti, e aprire gli armadi. Fu solo per prudenza che la mia katana era rimasta sguainata, quando aprii l’armadio. Non mi aspettavo niente, invece ne venne fuori una figura che cercò di accoltellarmi alla gola, fredda e decisa, silenziosa come un gatto. Non era pesante, tuttavia, così me ne scrollai con facilità, quindi abbassai la lama affilata. La figura si scansò, e così invece della gola tagliai un braccio. Una ferita non profonda, in verità, ma lunga e dolorosa, che strappò un grido alla figura. Un grido inequivocabilmente femminile….
Ora che la furia del combattimento era cessata, potei guardare meglio l’aggressore, e scoprii che in effetti era una donna. Una bella donna. Era accovacciata, piangente, tenendosi il braccio ferito, avvolta in un kimono da lavoro color marrone, rattoppato in più punti, ma si intravedevano senza difficoltà le forme generose, ed i lunghi capelli scuri le coprivano il viso solo quel tanto che bastava per far venire voglia di vederlo meglio. Piangeva, e cercava di strisciare via, senza nemmeno guardare dove andava. Doveva aver paura di essere stuprata. Mi avvicinai, cercando di trattenerla, ma lei si scostò, e mi guardò con fiero cipiglio. Era bella sul serio. Un bel viso rotondetto, dalla forma a cuore, che finiva in un mento affilato ed era poggiato su un collo lungo e tornito. I suoi occhi erano grandi e luminosi, le ciglia lunghe ed affusolate, mentre le labbra erano leggermente sottili.
Aveva paura, questo era chiaro, non poteva sapere che non cercavo altro che un posto dove dormire. Non volevo spaventarla ulteriormente, così rinfoderai la spada, e la poggiai a terra con delicatezza, facendo seguire la spada più corta ed il pugnale, le tre lame dei samurai. Le dissi: “Non aver paura, non ti faccio niente. Non voglio niente da te”. Notai che mi guardò interdetta. Forse si aspettava che le saltassi addosso, ma non era successo.
“Senti, non ti farò del male. Non scappare, non voglio violentarti. Sono qui solo perch&egrave cercavo un posto per la notte”. Mi avvicinai, ma la donna strisciò ancora via, andando a sbattere contro una parete divisoria. Quando si girò, al contatto con la parete, mi chinai su di lei e la tenni ferma. Lei fece per urlare, ma io la prevenni: “Devo fasciarti il braccio, la ferita non &egrave profonda, ma &egrave grave. Fidati, non ti faccio niente”. Mi guardò strano, poi decise che poteva rispondermi. “perch&egrave mi curi? Ho appena cercato di ammazzarti!”.
“Lo so. Non posso certo biasimarti per questo. Anzi, ti ammiro perch&egrave hai avuto un grande coraggio. Ma ora, appurato che non voglio niente da te, fatti curare, poi io me ne andrò a cercare un altro letto”. Lei annuì, non so con quanta convinzione, ma si lasciò stracciare la manica logora, per scoprire un taglio lungo quanto il braccio. Non era profondo, ma sarebbe rimasta la cicatrice. “Ti fa male?”, chiesi
“Ora molto meno. Prima mi bruciava come l’inferno”.
“La mia lama &egrave molto affilata, sai. Sei stata fortunata. In genere non sbaglio un colpo così ravvicinato”. Pulii la ferita con un po’ del sak&egrave che avevo nella borsa, poi la bendai con alcune strisce di tessuto che avevo a portata di mano per me. Lei, a quel punto mi sorrise. Aveva un bel sorriso, simpatico e cordiale, nonostante tutto.
“Mi chiamo Rumiko”, mi disse.
“&egrave un bel nome. Io sono Hiroshi Kumamasu. Ora ma ne vado, ma ascolta un consiglio. Non uscire di qui, non accendere un fuoco, nasconditi di nuovo. Ci penserò io a non far avvicinare altri soldati, ma tu sii prudente”. Mi alzai e feci per uscire, ma lei mi chiamò. Quando mi voltai, lei mi disse: “Signore, ti sono grata per il rispetto che mi hai portato, e per le cure. Vorrei che ti fermassi qui, questa notte. Sarò più al sicuro se con me c’&egrave un ufficiale, non trovi?”. In effetti aveva ragione, dovevo ammetterlo. Inoltre, non mi andava di cercare un altro poto. Così sorrisi di rimando, e mi accomodai su un cuscino che mi offriva. Ora che c’ero anche io, potevamo accendere il fuoco e preparare la cena. Mi raccontò della sua vita, e della venuta dei ronin dal nord. Lei era la figlia di un pastore, e si era nascosta nell’armadio quando il padre era stato reclutato a forza nella battaglia. Scoprii che era una donna piacevole, oltre che bella. In sintesi, molto desiderabile, ma non potevo approfittarne quella notte. Non dopo averle assicurato che non le avrei fatto forza. Quindi, mi accomodai in una stanza, lei nell’altra. Mi feci una certa violenza, per non andare da lei e cercare di possederla, ma mi astenni. Al di fuori, il mio attendente montava la guardia, mentre io dormivo nella stessa casa di una bella donna senza approfittarne.

Tornai a casa un paio di giorni dopo, non troppo carico d’onori ma di certo ben considerato dal mio shogun e dal mio genitore. Ero felice, la mia carriera andava bene, anche se a volte mi mancava Edo e la corte imperiale, e le ragazze di Shizue. Ora che non vivevo più nella capitale, mi arrangiavo nei bordelli che trovavo, o con le servette della mia casa, che sceglievo tutte molto graziose. Non ero soddisfatto, però. Mi mancava il fascino che provavo con Aruko e le altre e, sebbene alcune donne che frequentavo fossero abili, avvertivo solo dovere nei loro gemiti, e nessuna passione. Le ragazze di Shizue invece erano appassionate, o almeno, mi dicevo, simulavano bene una passione che non provavano. O forse era solo che prendevano piacere dal puro atto sessuale? A vent’anni questi interrogativi fanno pensare un giovane uomo, specialmente un giovane uomo sciocco come ero io.
Comunque, riflettevo, la mia vita stava per cambiare del tutto. Mio padre mi aveva promesso alla giovane figlia di Kentaro Kamigata, suo vecchio commilitone. La ragazza si chiamava Yumi, ed era molto bella dovevo ammetterlo. Diciottenne, appena giunta all’età da marito, con una boccuccia deliziosa e le gambe più lunghe del mondo. Ero soddisfatto della mia promessa sposa, anche se ci saremmo uniti solo dopo un anno. Ed in quell’anno di transizione, successero parecchie cose.
Erano passati due mesi da quando avevamo preso il villaggio dei ronin, da quando Rumiko mi aveva quasi ammazzato, e spesso mi capitava di ripensarci. Chissà come se l’era cavata quella giovane? Il suo destino mi stava più a cuore di quanto volessi ammettere, e non capivo perch&egrave. Quel che successe dopo, nel racconto può sembrare lungo, ma accadde piuttosto in fretta. Era inverno pieno, quando mi trovavo nel campo di addestramento della mia dimora, intento a duellare col mio maestro d’armi. I colpi risuonavano per tutta la casa, legno contro legno delle nostre pesanti spade da allenamento, grida soffocate dalle pareti, e tonfi di corpi caduti. Non mi accorsi nemmeno quando il mio attendente venne a chiamarmi. Il mio maestro si fermò di colpo, vedendo l’uomo fuori dalla porta che attendeva rispettoso ed io, accorgendomi della sua esitazione, mi voltai.
“Cosa c’&egrave?”
“Signore, mi dispiace disturbarti, ma alla nostra porta &egrave arrivata una donna che vuole vederti. Ho cercato di mandarla via, signore. &egrave di certo un’altra puttana che vuole farti riconoscere il figlio bastardo, ma sta insistendo e facendo il diavolo a quattro. Non so cosa fare”.
Aggrottai le sopracciglia, confuso. Era vero, dovrei dirlo a mio disonore, che la città era piena di figli illegittimi che quasi sicuramente erano miei, ma era un po’ che non venivano più a chiedermi un riconoscimento impossibile. Mi scusai col maestro e dissi all’attendente di fare entrare la donna.
Quando entrai nel salone di ricevimento, dopo essermi cambiato, vidi una donna vestita con un bell’abito azzurro, non pregiato ma di buona fattura, ed un’acconciatura che metteva in risalto i suoi lineamenti a cuore, ed il mento affilato
“Rumiko?”, chiesi, esitante. La vidi alzare lo sguardo, e sorridermi col suo sorriso caldo e affascinante.
“Allora ti ricordi di me, signore?”. Sembrava stupita che la ricordassi. Forse si era preparata un discorsetto per rammentarmi di lei, perch&egrave fece per parlare, poi scosse la testa e richiuse la bocca.ci pensò un momento, poi mi disse: “Signore, sono felice che ti ricordi di me. Pensavo che voi samurai vi scordaste presto delle persone del popolo, come me.”
“sei una bella donna, Rumiko, perch&egrave dovrei scordarmi di te? E poi il nostro incontro non &egrave stato dei più tradizionali”, risposi.
“Già, &egrave vero. Mi dispiace, signore, di averti aggredito. Non mi meritavo la tua gentilezza…”.
scossi la testa, come a voler sotterrare la sua ultima frase, poi le offrii, da buon ospite, da mangiare e da bere. Quando fu rifocillata, le chiesi: “Come mai sei qui?”.
“Cerco un lavoro, signore. Il villaggio &egrave distrutto, come sai, e non ho più di che vivere. Prima di entrare in un bordello, se ce ne fosse uno che mi prendesse, vorrei provare ad entrare a servizio in una casa di signori. E così ho pensato a te, e a quanto sei stato buono”.
“tutto qui, Rumiko? Vuoi lavorare? Non c’&egrave affatto problema. Da oggi sei una domestica. Quando avremo finito, ti porterò dal mio attendente e lui ti assegnerà un alloggio. Avevo bisogno di una persona in più”, le dissi. In realtà ne avevo fin troppe, e stavo pensando di mandare due persone alla casa di mio padre. Poco male, riflettei, ne avrei mandate tre. Rumiko si chinò più e più volte, quasi non si aspettasse il mio assenso. Quando la feci rialzare, le sorrisi e la riaccompagnai dall’attendente, dando gli ordini del caso. Poi la lasciai e ripresi le mie attività. Solo che, quando mi mettevo sulle carte per esaminarle, con la testa andavo alla bella donna che avevo assunto….

Notte fonda, mi sveglia un rumore. Accadde due giorni dopo aver preso Rumiko a servizio. Ho sempre avuto il sonno leggero, e lo scricchiolio della porta leggera mi destò in un momento. Non si vedeva niente, perch&egrave la luna era coperta, ma sapevo per istinto dove avevo la spada, la notte. La presi, e scivolai silenzioso dietro la porta che si apriva lentamente. Quando si aprì del tutto, uno spiraglio di luce entrò, illuminando una figura non alta, che entrava incerta. Appena varcò la soglia, l’afferrai per il collo e posi la lama sulla gola. Un grido soffocato mi avvertì che era una donna, e che era svenuta. Andai fuori nel corridoio e presi una lampada, poi tornai indietro. Quando illuminai la figura immota, vidi che era Rumiko. Chiusi la porta e mi chinai su di lei, facendola riprendere. Quando si fu svegliata, le porsi un po’ d’acqua, e le donna riprese colore.
“cosa diavolo fai, donna?”, chiesi, irritato.
“Volevo entrare….”, cominciò lei.
“Ma perch&egrave a quest’ora, e perch&egrave non hai bussato? Potevo ammazzarti!”.
“oh, signore, non ci ho pensato…. ma volevo solo entrare”. Scoppiò a piangere, ed il corpo fu scosso dai singhiozzi. Non sapendo perch&egrave, la presi tra le braccia e la cullai piano, finch&egrave si riprese. Poi la guardai, alla luce della lampada. I suoi occhi erano belli quando piangeva.
“Perché?”, le chiesi ancora, improvvisamente consapevole del suo profumo di mughetto, e del suo seno che poggiava sul mio avambraccio. Lei si rilassò visibilmente, sospirando. “Perché”, rispose esitando, “Perché volevo… dirti che ti sono…grata…per quello che hai fatto al villaggio…e per quello che mi hai dato qui in casa tua”.
“non &egrave necessario che tu faccia questo, Rumiko”, risposi con voce roca. Ero conscio di desiderarla, ma non volevo che lo facesse per un senso di debito nei miei confronti.
“Lo so. Hiroshi san, se tu avessi voluto prendermi senza che lo volessi io pure, lo avresti fatto quella notte al villaggio. Nemmeno allora ti avrei respinto, sai? Sono qui perch&egrave lo voglio io, Hirsohi san. E spero che tu voglia me”. Se la volevo? Diamine, la volevo da mesi, ormai. Pensavo così spesso a lei, da quando ero tornato a casa, che il desiderio era diventato un dolore sordo al basso ventre, costante e fastidioso. La desideravo talmente che non pensai affatto che poteva essere lì per tagliarmi la gola. Il mio uccello prese il sopravvento, almeno per un po’. Ecco la lezione di Aruko che non ho mai imparato del tutto!
Accostai la mia bocca alla sua, stringendola un poco più forte, mentre lei si protese verso di me, cercando le mie labbra con le sue labbra sottili. Quando le toccai, un fremito mi corse lungo la spina dorsale, per finire sul membro. Aveva una bocca calda e morbida, una lingua vellutata come quella notte scura di pieno inverno, ed una passione bruciante. Attorcigliò la sua lingua alla mia per minuti interminabili, esplorando il palato con perizia e dedizione, lasciandomi in bocca il suo sapore di menta fresca. Quando ci alzammo, la tenni di fianco a me, poi la scortai sul futon. La baciai ancora, ed ancora, mentre le carezzavo le forme morbide ed accoglienti da sopra la stoffa grossolana del kimono. Sentii i capezzoli che si inturgidivano, e mi venne voglia di assaggiarli. Ma questa lezione da Aruko l’avevo imparata fin troppo bene. Frenai il mio istinto con uno sforzo quasi doloroso, e le sciolsi i capelli lunghi e morbidi, liberando quella cascata castana ad incorniciare il volto a cuore, la mandorla degli occhi ben disegnata, il collo lungo ed invitante. Lo baciai, passando la lingua nella fossettina dello sterno, ed in quelle tra le clavicole. Era sensibile in quei punti, notai con soddisfazione, mentre con la mano destra scioglievo la cintura dell’abito. Era un vestito semplice, niente a che vedere con gli elaborati kimono delle donne nobili, così riuscii presto a scoprire il suo corpo, il ventre morbido, le gambe tornite e sode, irrobustite dai lavori nei campi, i seni generosi ancora coperti da una fascia, ed il pube nascosto dalla sua biancheria. Tolsi il kimono, e poggiai una mano sulla sua coscia, vedendola rabbrividire, un po’ per il freddo ed un po’ per l’eccitazione. Le mie dita andarono su, lentamente e con metodo, carezzando la pelle serica e delicata, sorprendentemente delicata per una contadina, e per una domestica, pensai. La guardai e la vidi con gli occhi socchiusi, la bocca semiaperta, un gorgoglio che le usciva dalla gola, che si trasformò in ansito quando poggiai la mano sul suo sesso, sopra il cotone grezzo delle mutande. Strofinai delicatamente, dapprima, poi con una certa energia quando assecondai il movimento del uso bacino, intuendo il suo bisogno. Non si poneva nemmeno la questione se aspettare o no. La tortura era da scartare, perch&egrave il suo desiderio era troppo davvero. Così scostai la stoffa, e carezzai un sesso pieno di folti peli morbidi, un sesso bagnato ed accogliente, che attendeva il mio dito e la mia attenzione. Gli ansiti di Rumiko divennero più forti, e si trasformarono in gemiti quando toccai il clitoride, facendola sobbalzare. “Oh, Hiroshi, ti prego…non smettere, ti supplico!”, mi sussurrò lei, accostando la sua bocca al mio orecchio. Il suo respiro mi fece eccitare ancora di più, e spinsi con più foga, fin quando lei si strappò di dosso le mutande, esponendo il suo sesso folto e setoso, con una massa di peli scuri lisci come la lussuria, bagnati dai suoi umori odorosi. Mi chinai a leccarla, assaporando il gusto pungente del suo piacere. Notai che, al di là delle sue secrezioni, il suo sesso odorava di pulito, un odore naturale che &egrave raro trovare nelle donne, intente spesso a coprire una scarsa igiene con profumi di vario genere. Toccai con la lingua il nodulo eretto del suo piacere, sentendolo inturgidirsi, strappandole un ansito quasi doloroso nella sua intensità. Quando ebbe l’orgasmo, il suo gemito fu quanto di più vicino ad un urlo potevo aspettarmi da una donna nella sua posizione in casa di un uomo circondato da guardie. Se avesse urlato, sarebbero accorse in massa. Apprezzai la sua discrezione, e per ringraziarla, decisi che potevo soffermarmi sulla sua passera un momento di più, giusto il tempo di affondare due dita nel pozzo profondo, e scoprire che non era vergine affatto, perch&egrave dopo un secondo venne ancora, tremando. Quando si quietò, risalii baciandole il pube, l’ombelico, la pancia. Quindi sciolsi la fascia che copriva quello che più di tutto volevo. Il suo seno, pieno e meraviglioso, deliziosamente curvo, pesante, morbido. Aveva due capezzoli grossi come ciliege, e due areole scure e grandissime. Toccandola, mi accorsi che la mammella era soda, nonostante la dimensione. Leccai i capezzoli con lenti movimenti circolari, di quando in quando mordendo e prestando attenzione a succhiare quando la sentivo rilassarsi. Rumiko tornava subito in tensione, e mi chiedeva di continuare. Unii le due mammelle, come per gioco, e sorridendole presi in bocca entrambi i capezzoli. Il suo sussulto quasi me li tolse di bocca…quasi. li leccai e li torturai come meglio riuscivo, gratificato dai suoi rumori e dalle sue suppliche a continuare. Dopo un poco, con la mano scesi e le toccai ancora il clitoride, finch&egrave non venne. Dopo il suo orgasmo, mi alzai e mi spogliai, mostrandole la mia virilità eretta. Lei sorrise, ma non disse niente. Soltanto si avvicinò e prese il bocca il mio membro, inumidendo l’asta con sapiente esperienza, succhiando e leccando la punta, mentre con la mano andava su e giù. Sentivo montare l’orgasmo, ma non volevo che andasse così. Per questo la scostai, e le dissi: “Ora basta giochini, Rumiko. Ora ti voglio tutta”. Per tutta risposta, si sdraiò sul futon, e spalancò le gambe. Oh, sembrava quasi oscena, con le gambe aperte ed il sesso in vista, come in attesa di essere coperta da uno stallone! Ma in quella notte, con quella donna, nulla poteva essere osceno, soltanto appropriato. Mi sdraiai sopra di lei, e col membro cercai la sua apertura. Non faticai a trovarla, e penetrai con facilità nel sesso già lubrificato per tutta la lunghezza. Era caldo, caldo, caldo! La sua vagina era calda come mai avevo notato in una donna, per quanto fosse eccitata, e quando, ritraendomi, abbandonai quel calore, provai come un senso di abbandono, che colami subito dopo, riaffondando in lei. “Oh, Hiroshi, Hiroshi, Hiro….shiiiiii!”, gemeva intanto lei, quasi incapace di trattenere il suo grido, mentre la cavalcavo con tutte le mie forze. Sì, la cavalcavo, non ci facevo l’amore. Il mio cervello aveva chiuso bottega, ed era rimasto solo l’istinto dell’accoppiamento, come uno stallone che copre la giumenta, e così spingevo, mi ritraevo, spingevo, mi ritraevo… non so per quanto tempo durò il tutto. So solo che Rumiko ebbe diversi orgasmi, mentre si dibatteva sotto di me, graffiandomi la schiena con le sue unghie ed aumentando il mio piacere. Ricordo soltanto che, quando mi afferrò per le natiche e mi spinse ancora più a fondo dentro di lei, le spruzzai tutto il mio sperma in corpo, mentre lei aveva il suo ennesimo orgasmo. Affondai ancora qualche colpo, svuotandomi del tutto, poi uscii dal suo corpo, e mi sdraiai al suo fianco. Lei mi sorrise, e mi disse: “Oh, Hiroshi, &egrave stato magnifico! Non avevo mai avuto tanto piacere da un uomo”.
“Anche per me &egrave stato bellissimo, Rumiko”, risposi, “Ma non credere che sia finita qui. Abbiamo ancora diverse ore prima dell’alba…”.

(continua)

Il secondo capitolo &egrave arrivato un po’ in ritardo, spero mi scuserete. Come al solito, critiche e suggerimenti, opinioni e consigli, a bluebard@hotmail.it

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