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Ferrovie dello stato

By 14 Giugno 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Sono un pendolare, e la cosa in sè non è così straordinaria. Sono curioso, paziente e posso dire che a tutti gli effetti mi piace viaggiare in treno, mi piace viaggiarci spesso. E questa, forse, è una cosa già più straordinaria.

Fatto sta che quel giovedì sera, come tutti i giovedì sera, mi aspettava il solito regionale per Genova. Ma complice il traffico e soprattutto una collega ammiccante che, se corteggiata, prometteva scintille, il treno non aspettò me e il mio ritardo. Arrivai pochi minuti dopo l’orario di partenza, sufficienti a lasciarmi con un palmo di naso sul binario: avevo perso il treno, il prossimo era un Eurostar e la stazione era quasi deserta.

Bighellonai tra la sala d’attesa, la biglietteria a un bar in chiusura dove incrociai un paio di prostitute in cerca di clienti: le stazioni, da sempre, sono luoghi pittoreschi. Finalmente la voce annunciò l’Eurostar e fu con un certo entusiasmo che scoprii di convidere il posto con una ragazza piuttosto intrigante, in una carrozza deserta. La salutai con un cenno del capo e lei rispose con un sorriso tutto fossette. Mi sedetti e socchiusi gli occhi: adoravo fingere di dormire, mi piaceva l’idea di rubare attimi di intimità, soprattutto alle belle ragazze.

Quella davanti a me doveva essere alta intorno al metro e settanta, forse qualcosa in meno. I capelli raccolti,castano chiaro, le ricadevano a piccoli ciuffi sulle spalle nude e un paio di occhiali dal telaio nero, insieme al piercing sul labbro sinistro, facevano del suo volto la perfetta icona di un porno amatoriale. Approfittando di un sussulto del treno scesi con lo sguardo, gli occhi sempre a mezz’asta: aveva un top bianco che lasciava intravedere le spalline nere del reggiseno. Un lembo di pancia scoperta, non un ventre piatto ma leggermente arrotondato, e con un neo delizioso accanto all’ombelico, univa il top a una gonna bassa, larga e in stile Hair, perfetto musical anni settanta. Non vedevo cosa indossava ai piedi ma la carnagione lattea già mi aveva conquistato.

La osservai ancora un po’ cullandomi nel ricordo delle sue fossette, dipintesi sulle guance quando mi aveva sorriso, e mi appisolai, questa volta sul serio.

Non so per quanto tempo dormii ma, abituato alla mia strategia di guardone ferroviario, non mi mossi e aprii piano gli occhi: ci mancò poco che scivolassi dal seggiolino!

Volevo studiare bene la scena, prima di decidere cosa fare. La ragazza aveva il capo inclinato a destra e gli occhi chiusi. Gli occhiali leggermente sconnessi come dopo una corsa e il viso rosso, porpora, come dopo una scopata. Alcuni ciuffi di capelli ribelli le ricadevano sulla fronte, madida di sudore. La bocca semiaperta era tormentata da piccoli morsi sulle labbra, addolciti dalla lingua che a intervalli regolari le leccava in un modo voluttuoso. Le dita della mano destra stavano strizzando con forza un capezzolo che sporgeva dal top (il reggiseno era misteriosamente sparito, mi parve) mentre l’altro, per il momento abbondanto, spuntava come una promessa di sogni lussuriosi. Mossi appena la testa, non visto.

L’altra mano della ragazza si era tuffata tra le gambe. Intravedevo frammenti di pelle color latte, cosce nascoste dalla stoffa che apparivano e scomparivano al ritmo dei suoi movimenti. La mano saliva e scendeva, ne ero certo, in cerchi a volte larghi, a volte più stretti. Il volto di lei si contraeva in stupende smorfie di lussuria, seguendo il ritmo dei suoi affondi. 

Ero ipnotizzato, completamente rapito da quello spettacolo surreale e mozzafiato. Lei schiuse gli occhi, sprofondando ancora di più la mano tra le gambe, per poi richiuderli subito: non si era accorta che non dormivo più.

Quando la mano che si stava torturando il capezzoli si sollevò, percorse lenta e sensuale la spallina del top, lo spinse di lato liberando un seno bianco e sodo, dall’aerola piccola e rosa, i miei pantaloni divennero stretti come non mai.

Adesso il top era sceso appena sotto il seno, sfregando sul capezzolo, mentre la mano si era tuffata intorno alla tetta, stringedola. Un mugolio di piacere, appena accennato ma che non mi poteva sfuggire, si infilò come una stilettata nel mio inguine: fin dove si sarebbe spinta? E io avrei resistito, immobile?

 

Non sapevo davvero cosa fare. Tante volte avevo fantasticato sognando di trovarmi in una situazione del genere ma adesso che c’ero, adesso che avrei potuto vivere le mie fantasie, sollevavo il mio finto sonno come scudo contro l’imbarazzo. Stavo sudando, lo sentivo, e temevo da un momento all’altro lei aprisse gli occhi accorgendosi che il ragazzo seduto nel posto di fronte era ben sveglio, e la stava spiando.

Ma il vortice di trasgressione del quale era prigioniera le lasciava tempo solo per controllare che non arrivasse nessuno: si sentiva tranquilla, protetta e non vista in quel crescendo di piacere.

Mi rilassai un pochino, ma di sicuro il mio cazzo non la pensava allo stesso modo.Fortuna che il tavolino, in parte, mi copre, pensai. Ma la stessa protezione di cui godevo io mi impediva di sbirciare come avrei voluto ciò che stava accadendo tra le gambe della ragazza fossette e occhiali scuri davanti a me.

Decidi di concentrarmi su ciò che potevo vedere bene. Adesso la spallina del top era del tutto scivolata in basso scoprendo completamente il suo seno. Lei continuava a torturare, stringere, strizzare il capezzolo e l’intera tetta con larghi a sapienti massaggi. Il rosa chiaro, latteo, della sua pelle aveva ceduto il posto a un colorito più acceso. E adesso alcune gocce di sudore le scendevano dal collo, tuffandosi tra quelle meravigliose tette. 

Non gemeva con forza ma il respiro si era fatto più pesante. Non so quando aveva iniziato, ma non avrebbe resistito ancora a lungo. La sua mano accelerò. Sollevo la gamba destra e la gonna le scese sulla coscia mostrando ciò che speravo di vedere: le dita si infilavano sotto un paio di mutandine nere. Strisciavano, stringevano l’intimo trasformandolo in una corda sottile con la quale tormentare il clito. 

Ecco. Con un movimento abile ed esperto si infilò sotto il pizzo nero mentre scostava la gamba ancora di più a destra, aprendo una visuale ancora maggiore. E adesso due dita, forse tre, avevano preso a entrare e uscire dalla figa, scorrendola in tutta la lunghezza.

Mi pareva completamente depilata ma non potevo e non riuscivo a vedere bene come avrei voluto.

Un affondo, due, tre. La gamba si sollevò ancora e la sua lingua presce a scorrere sulle labbra carnose in modo osceno. Io avrei voluto alzarmi, scavalcare il tavolino e prendere il posto della sua mano tuffandomi poi su quella lingua che prometteva piaceri e lussurie senza nome. Avrei voluto farle sentire quanto quello spettacolo mi eccitava ma invece rimasi immobile, sempre più sudato, e sempre più ossessionato da quello che vedevo.

Aumentò la velocità con la quale si stava accarezzando in furiosi affondi e vidi anche la seconda mano correre in soccorso della prima, che era scesa più in basso a solleticare il culo. Era lì, con un seno scoperto, sudata, a occhi chiusi, intenta a godere in silenzio. 

Ne studiai ogni più piccola espressione e quando finalmente l’orgasmo la travolse, costringendola a emettere un muto grido, a stringere le gambe bloccandosi da sola il movimento della mani, come a censurare qualcosa di cui aveva perso il controllo, io quasi venni insieme a lei.

Non vi nascondo che il suo picco di piacere fu un sollievo: credevo di impazzire vedendola in quel modo e mai, e dico mai, avevo sentito pulsare il sangue sul mio glande, sul cazzo.

La gamba sollevata scivolò sotto il tavolo, di nuovo. Lenta, risollevò la spallina ma ancora non aveva la forza di riaprire gli occhi. Il respiro si rifece regolare.

E io? Quando avrei potuto riaprire gli occhi per decidere come comportarmi?

Adesso lei era lì, davanti a me, sembrava persino dormisse. Se qualcuno fosse passato in quel momento e l’avesse vista o occhi chiusi, degnandola solo di uno sguardo distratto, non avrebbe avuto idea di ciò che era appena succeso.

Invece io, fortunato nell’averle sottratto attimi di intimità, leggevo ovunque tracce del violento picco d’estasi che solo pochi secondi prima aveva trasformato quel vagone in un ricettacolo di lussuria. I ciuffi di capelli ancora attaccati alla fronte umida, il petto sudato, i capezzoli che solo adesso stavano iniziando a perdere il loro turgore, il chiaro odore del sesso, la gonna un po’ troppo bassa, ben sotto l’ombelico.

Passarono i minuti. Due, tre. Cinque. Dieci. E io non avevo il coraggio di muovermi. Fu quando il suo braccio scivolò dal sedile, nell’inequivocabile gesto di chi è caduto nel sonno dei giusti, che decisi di potermi alzare. Per quegli interminabili minuti, mentre la mia erezione non accennava a diminuire, avevo pensato di fare la stessa cosa.

Masturbarmi lì. Su quel sedile. Dove poco prima la ragazza si era concessa un travolgente orgasmo. Sarebbe stato un po’ come scoparla, seppure separati da molti minuti, i nostri ansimi si sarebbero mescolati lì. Ma da un lato, sapere che non mi avrebbe spiato come avevo fatto io, rendeva la cosa ben poco attraente.

Perciò aprii gli occhi, mi mossi lento e silenzioso. Dovevo andare in bagno per dare giusta soddisfazione al mio desiderio. Mossi i primi passi e l’urgenza di tenerlo in mano, di farmi una sega, si era fatta irresistibile. Anche attendere lo scorrimento della porta automatica mi sembrava una perdita di tempo.

Entrai in bagno, chiusi la porta e abbassai i pantaloni. Fu un sollievo che quasi mi fece venire. Era lì, libero, duro, con le vene pulsanti gonfie e impegnate a pompare sangue. Il glande scoperto. Non potevo fare a meno di pensare come doveva essere appoggiarlo su quella lingua che poco prima avevo scoperto intenta a dorare di salive due labbra carnose e oscene. 

Lo presi alla base, pensando che quella mano fosse la sua. Non ero superdotato ma, negli anni, mai nessuna si era lamentata. Iniziai a salire, lento, dalla base sul glande e poi giù, fino a sfiorarmi le palle. Non era la mia mano. Era quella della ragazza. Dalle dita lunghe e affusoiate, ancora bagnata dei suoi umori, ancora arrossata da quanto aveva giocato con il clito. Si abbassava e saliva, indugiando sul glande. Girandoci intorno. Vedevo anche la sua bocca avvicinarsi, senza mai sfiorarlo, al mio cazzo. La vedevo guardarmi da dietro quegli occhiali spessi mentre la lingua si appoggiava quasi alla mia capella. Era lì, che me lo segava, sorridendo.

Giù e su. Mi appoggiai con la mano libera al lavandino. Mi tremavano le gambe e sentivo l’ondata di brividi che precedeva l’orgasmo. Adesso me lo aveva abbassato, puntantolo sulla sua bellissima tetta. Giù e su. Più veloce. A un centimetro dalla sua pelle. 

Mi ricordai appena in tempo di spostarmi sul water, prima di venire. Fu un getto liberatorio. Meglio di molte brutte scopate che avevo perseguito con il fanatismo di chi non sa apprezzare il sesso come arte. Trattenni a stento un forte gemito e per alcuni secondi mi sentii veramente appagato. 

Cosa succedeva? Il treno stava rallentando. Ah, una fermata. A me mancava ancora molto ma non so perchè fui preso da una certa urgenza. Mi asciugai in fretta, cercai di ricompormi e uscii. Solo in tempo per vedere un lembo della gonna che poco prima si era schiusa rivelando un mondo di erotismo, svolazzare mentre scendeva dal treno. 

La ragazza era scesa, e io non avevo avuto il tempo di guardarla negli occhi per comunicarla, complice e muto, ciò che avevo visto. Raggiungi il mio posto e adesso, di fronte a me, il vuoto mi sembrava insopportabile.

34 e 35. Memorizzari quei due numeri. Aggrappandomi alla magia della matematica come ci si stringe a un compagno di viaggio. Fu l’ora più triste della mia vita.

Passò una settimana e non vi su giorno che non dedicai alla ragazza le mie masturbazioni. Non ero innamorato, ovvio che no. Ma quei frammenti rubati erano meglio di qualsiasi porno avessi mai visto. Venne il tempo di riprendere il treno, venne il tempo di tornare a Genova.

Non so perchè, questa volta la collega non c’entrava, ma decisi di prendere l’Eurostar. Decisi di prenotare lo stesso posto, alla stessa ora. A costo di spendere di più e a costo di arrivare più tardi. Avevo un po’ l’impressione che fosse come andare a puttante, o meglio che fosse come mercificare quel meraviglioso incontro. Ma non potevo farne a meno, proprio non potevo.

Salii sul treno. 

Ci credete? Lei era ancora lì. Allo stesso posto. Ben prima che arrivassi al 34, ne incrociai lo sguardo. Sorrideva. Fossete e lussuria.

Prima di realizzare che stava sorridendo a me, e quindi prima di dovermi preoccupare delle mie reazione, ebbi il tempo di darle una rapida occhiata. Stessi occhiali scuri, stesso piercing. Questa volta, complice un clima un po’ meno torrido, niente top ma una maglietta dal collo largo, sportiva. Intravedevo anche una gonna simile a quella che tanto mi aveva fatto impazzire solo sette giorni prima.

E comunque, passo dopo passo, ebbi conferma che quel sorriso era proprio per me. Senza poterci fare nulla credo di essermi tinto di rosso da capo a piedi ma, non so come, riuscii a sfoderare un sorriso rassicurante.

Tre metri, due, uno, Mi fermai e abbassai gli occhi, sempre sorridendo. Li scostai subito dalla scollatura generosa perchè, mi era parso, la ragazza non portava il reggiseno. Il calore che provavo al viso scivolò, in basso, tra le gambe. Dovevo sedermi in fretta. 

“Ciao” dissi, alzando gli occhi da quelle splendide tette e incrociando il suo sguardo.

“Ciao” rispose. Una voce allegra.

“Credo di essere qui” sistemai la borsa sul portavaligie e mi assesati, con una certa foga.

“Come la settimana scorsa, giusto?” continuò la ragazza, mi parve con un’ombra di malizia.

Dovevo riorganizzare le mie difese se non volevo fare la figura dell’imbecille che arrorisce al primo soffio di vento e che balbetta sciocchezze. Finsi di sistemare lo zaino per ordinare le idee. Mi bastavano pochi secondi, ero in grado di tenerle testa, se di una sfida si trattava. O forse la mia fantasia viaggiava troppo?

“Giusto” allargai il sorriso “Non volevo sembrare il classico tipo che ci prova sul treno, ma anche io ti ho riconosciuto. Che caso eh?” conclusi.

“Proprio un caso, buffo no?” adesso mi guardava da sopra gli occhiali “Io prenoto sempre questo posto, una specie di scaramanzia”.

Vediamo se buttando l’amo…”Vista la fortuna della scorsa settimana, ho tentato anche questa volta e mi è andata bene”.

Se nelle mie parole avesse trovato qualche allusione allo spettacolo di sette giorni prima, non lo diede a vedere. Si sistemò gli occhiali, invece, e allungandosi sul tavolino allungò la mano. Nel farlo piegò la schiena e di nuovo la generosa scollatura della maglietta fece il resto. Era vero, non portava niente sotto il cotone rosso e bianco. Mi allungai, questa volta non togliendo subito lo sguardo da quella finestra sul paradiso.

“Piacere, Marta”.

“Piacere, Marco” le presi la mano facendo scivolare prima le dita, per qualche istante, sul palmo. La sua fu una stretta energica. Non chiedetemi perchè, ma già mi immaginavo quella piccola mano, morbida, stretta intorno al mio cazzo. Che, nel frattempo, aveva già superato il livello di guardia.

Parlammo del più e del meno ma devo ammettere che, seppure ascoltavo con attenzione quello che diceva, molta della mia attenzione era impegnata nel cogliere provocazioni, segnali, qualsiasi cosa che potesse spingermi a fare la mossa successivva. Per un attimo fui persino tentato di fingere un colpo di sonno. Ma questa volta il vagone non era così deserto, perciò accantonai l’idea. Più volte lei si chinò, frugando nello zaino per una bibita o un pezzo di cioccolata, e ogni volta il rosa delle sue tette mi trasportava in un’altra dimensione. Dove io le mordevo i capezzoli e la prendevo su quel tavolino, strappandole la maglietta.

Fu quando si chinò per la terza volta che notai, senza ombra di dubbio, un turgore già note che le pizzicava la fruit. Non so cosa fosse successo, ma adesso due chiodini, inequivocabili, le spuntavano da sotto il rosso della fruit.

“Marco, io vado un attimo in bagno, puoi dare un occhio alla mia roba” chiese, facendomi trasalire.

“Certo!” risposi, forse con troppo entusiasmo. 

Si alzò, lenta, e sistemò la gonna abbassandola più di quanto potessi immaginare. Adesso le scendeva ben sotto l’ombelico e quel neo, che la settimana prima mi aveva così colpito, adesso sembrava indicare il percorso verso la lussuria. Ecco. Mi stava guardando mentre lo faceva, e quelle fossete, di nuovo, lasciavano intendere molto di più che il sorriso per una piacevole conversazione.

Scivolò fuori dal posto 34 e mentre mi oltrepassava, la sua mano sfiorò la mia spalla.

“Grazie, Marco”.

La osservai che se andava, ancheggiando. Contai fino a dieci, forse meno, e mi alzai. I pantaloni mi stavano stretti adesso e aveva ricominciato a sudare. Non potevo essermi inventato tutto. Mi guardai intorno. Il vagone non era deserto, ma nemmeno così affollato da dovermi preoccupare di un furto.

Camminai veloce e finii quasi correndo. Superai la porta scorrevole e mi piazzai davanti al bagno. Stavo per bussare quando la porta si aprì. Vuoto.

Rimasi sconcertao e per questo non sentii lo scorrere di una seconda porta, alle mie spalle. Una mano mi scivolò sulla schiena e poi sui pantaoloni, stringendomi forte il cazzo, duro. 

“L’ho visto, prima. Ogni volta che mi chinavo lo vedevo sempre lì, duro. E non ce l’ho più fatta. Lo so che mi hai vista le settimana scorsa”.

Feci per voltarmi, per ribattere, ma lei mi blocco.

“Indovina. Il vagone qui vicino è fuori servizio. Completamente deserto. Un guasto fastidioso no?” e mentre diceva questo mi stava trascinando nell’ombra alle sue spalle. La mano, intanto, aveva fatto saltare due bottoni e si era infilata nelle mie mutande. Al contatto con quelle dita, che già conoscevo a memoria, non potei fare a meno di sussultare.

Lei lo sentì, gonfiarsi tra le dita.

“Allora, me lo vuoi presentare?”

Mi voltai, mentre lei letteralmente mi stava tirando dal cazzo. Lo faceva, tra l’altro, dando piccoli colpetti verso la base, e poi facendo scivolare la mano per tutta la sua lunghezza. Il risultato era che lo sentivo esplodere.

Mi condusse, come fossi al guinzaglio, attraverso lo scomparto tra le due carozze e alla fine nella veleta tenebra che animava il vagone fuori servizio. Era incredibile lo spettacolo: frammenti di luce entravano da alcuni finestrini proiettando ombre scure che si infrangevano, come contro un muro di notte, dal lato opposto. Sembrava di essere sospesi in una lattiginosa crema scura. Un girone infernale, forse, ma un girone di lussuria.

Mi trascinò ancora qualche metro, fino ai sedili 34 e 35. Che adorasse la numerologia, lo avevo capito. Si sedette sul tavolino, tirandomi un po’ a sè, sempre segando piano e scorrendo tra le mie game. Si sedette sul tavolo e la perdita del contatto con le sue dita quasi mi fece grugnire. 

“Come stavo facendo, quando mi spiavi?” chiese, maliziosa. E lo fossette esplosero di nuovo travolgendomi. 

“Così?” continuò, sollevandosi la gonna e accarezzandosi piano la coscia nuda.

“Così?” con l’altra mano si era intrufolata sotto la maglietta. Potevo vedere il suo seno gonfiarsi al ritmo delle strette e dei massaggi che si faceva.

“No” dissi io, facendo un passo avanti. Era il punto di non ritorno, ed ero pronto.

“Così” non era una domanda, quella che avevo appena fatta. Le misi le mani sulle spalle, spingendola piano fino a sdraiarla. La mia mano seguì il suo braccio, in una carezza mista a piccoli graffi. Il polso, e si infilò sotto la gonna. Non resistetti e presi ad accarezzale le cosce.

Salivo, piano. Adesso con entrambe le mani. Delicatamente lo spostai il braccio: volevo tutto quello che si trovata sotto quella gonno solo per me. La feci salire e le mie dita, lente e veloci al tempo stesso, avevano preso ad accarezzarla da sopra le mutandine. La maglietta le si era sollevata fin sotto i seni, rivelando una pelle chiara che le luci dall’esterno rendevano argentata e lattea.La sua bocca era semiaperta, gli occhi chiusi. La lingua scivolava fuori, leccando.

Continuai a massaggiarla con entrame le mani. I miei movimenti si facevano concentrici e con il pollice, quasi in modo casuale, a ogni cerchio, scivolavo un po’ sotto quello che sembrava un perizoma. Era depilata. Liscia, ne percepivo il calore e l’eccitazione. Mossi entrambe le braccia e le passai i palmi lungo tutta la lunghezza del ventre, salendo e sbucando da sotto la gonna sulla sua pancia. Poi scesi, una due, tre cinque volte facendo sempre più pressione.

Le allargai le gambe mentre la gonna, quasi del tutto, era salita intorno alla vita. Mi inginocchiai e presi a baciarle i polpacci. Piano, a piccoli morsi. Salivo, seguendo immaginarie linee di piacere con la lingua. Mordevo, sentento i suoi muscoli che guizzavano sotto le mie labbra.

Un bacio, un morso, un piccolo cerchi di saliva. Le cosce scorrevano sotto la mia bocca e salivo, ancora. Iniziavo a percpire il profumo del suo piacere e lei si contorceva, sotto i miei baci. Le arrgai ancora le gambe e feci scivolare le mani sul sedere, sotto, intorno alle natiche.

Senza prevviso, affondai, leccando con forza il perizoma. Fremette, forse un gemito. E allora piano, con la linga, cercai di vincere le resistenze del perizoma. La infilavo di fiano, la arrotolavo sul tessuto, e la spingevo a fondo. Poi mi spostava, sempre leccando. Presi tra i denti il borso superiore dell’intimo e lo tirai verso il basso, mentre con il mento di nuovo le solleticai il clitoride. Un altro gemito. Sentivo il mio ventre in fiamme, tanto ero eccitato.

“Ti prego…” sussurrò. Indifesa, voluttuosa, desiderio condensato in due parole.

Fu come se il mondo si colorasse all’improvviso. Le mani strinsero il perizoma e lo abbassarono, veloci. Era depilata come pensavo. In quella penombra sembrava una promessa di lussuria, irresistibile.

Mi tuffai, questa volta con foga, tra le sue gambe. La lingua saettava, si attorcigliava, le labbra stringeva, baciavano, piccolissimo morsi. Un turbine. Lei sollevò il ventre e me lo spinse ancora di più in faccia. 

“Ah…” gemette “Ti prego…ancora” sussurò.

Non mi aveva ancora sfiorato, e quasi stavo per venire. La sollevai, le gambe sulle mie spalle e spinsi la lingua più a fondo che potevo mentre stringevo le natiche, le graffiavo.

Alzai gli occhi e vidi un riflesso allo specchio. Era incredibile. Lei, curva, piegata mentre io bevevo il nettare di un piacere che prometteva meraviglie.

La maglietta salì ancora, liberando i capezzoli. Li intravedevo. Lei si allungò, chissà come, e tirandomi in avanti, raggiunse il mio cazzo con le dita. Lo strinse.

“Ancora” ordinò, questa volta. Mentre aveva iniziato ad andare su e giù con la mano.

“Ancora”

Percepivo la sua eccitazione attraverso i tremiti che, da quando la mia lingua e le mie labbra si era avventurate tra le sue gambe, ne squassavano il corpo.

Era terribilmente eccitante sentirla incapace di muovere la mano, di continuare a farla scorrere intorno al mio glande, perchè travolta dal piacere. E quando sembrava ricquistare un barlume di controllo, e ricominciava a muoverla avanti e indietro con più convinzione, io affondavo ancora di più, aiutato dalla stretta delle sue gambe intorno alla mia testa.

Con una mano le avevo abbandonato le natiche, facendola scorrere sulla sua pancia, fino allo spazio tra i seni, ora quasi completamente scoperti. Un piacevole velo di sudore le aveva coperto la pelle. Con l’altra scivolavo dalla schiena al sedere, scavando sempre più in profondità, in cerca di un altro modo per darle piacere. 

A poco a poco sentii che la pressione delle sue gambe aumentava, mi stava spingendo verso il basso, lenta ma inesorabile.

La assecondai, non avrei potuto fare niente di diverso. Lasciò il mio cazzo e mi trovai in ginocchio, con un’erezione spaventosa e la lingua ancora immersa nei suoi caldi succhi.

Si scostà indietro leggermente, lo spazio sufficiente per sollevare la gamba e passarmela intorno alla testa. Fu rapida, volottuosa e ammiccante nel voltarsi. 

La ritrovai, in pochi secondi, a pancia in giù. Le gambe divaricate e il sedere sollevato. La gonna le pendeva dal corpo come un mantello di lussuria destinato a coprire pochi lembi di pelle ma a scoprire tutta la sua provocante bellezza. Adesso, davanti al mio viso, si trovavano le sue natiche bianche e sode.

Presi a carezzarla dalle caviglie fino alle cosce, salendo fino al ventre. Allungai la testa, piegandola di qualche centimetro, e con lunghe, devote e intense leccate le percorsi dal clitoride fino a dove si poteva intravedere il piccolo buchino del suo culo. Lì soffermandomi, e spingendo, come potevo.

Ogni passaggio la sua pelle fremeva.

A ogni passaggio un gemito non trattenuto:”Ahhhhh…” e quando sostavo più a lungo nel solco del suo meraviglioso fondoschiena tutto si trasformava in un prolungano mugolio:”Mmmmmmmh…”.

Continuai. Felice di potermi dedicare in quel modo al piacere di un’altra donna. L’erezione non accennava a diminuire ma pulsava, come le luci del mondo che scorreva intorno a noi.

Si sollevò, e la gonna scivolò su di me, avvolgendomi la testa. Ero nel buio della sua initimità, avvolto dal sapore del suo sesso e dal profumo della sua eccitazione. Furono istanti magici, nei quali leccai ancora più furiosamente. Percepii che si era voltata e sentii le sue mani che mi singevano verso il tavolino. Sempre avvolto da quel drappo di erotico delirio mi fece sedere, con le spalle appoggiate al tavolino, a inclinato indietro, con la schiena leggermente piegata.

Continuavo a passarle la lingua, e ora le dita che erano salite lungo le gambe, sul clitoride e sull’intera figa depilata.

Lì, nell’oscurità, intuii che si stava piegando in avanti.

Fui costretto a fermarmi quando sentii un umido solletico sul glande. E poi qualcosa che assomigliava a un piccolo morso. Con le mani le sollevai la gonna.

La scena era mozzafiato: piegata in avanti aveva raggiunto l’equilibrio appoggiando una mano sul pavimento. Ondeggiava, al ritmo della mia lingua, e nel farlo ogni tato raggiungeva la punta del mio pene, dritto e turgito, pulsante e desideroso. Da lì potevo poi vedere l’ombra delle sue bellissima tette, capezzoli turgidi e rosa solo quando una luce particolarmente forte correva a illmuninarli.

Le sue labbra erano vicinissime al mio frenulo, adesso. Riuscii, con un colpo di reni, a salire di qualche centimetro infilandolo bella sua bocca che si schiuse, calda e irresistibile, e lo avvolse come il più caldo dei piaceri.

Resistetti dieci secondi così, con i muscoli tesi. Dieci secondi nei quali i suoi gemiti si infransero sul mio glande, misti a saliva, calore, desiderio.

Dieci secondi nei quali mi schiacciò ancora di più il corpo contro la faccia.

“Mmmmmmmmmmmmmmmh….” gemette, quando il mio cazzo le uscì dalle labbra, come se avesse assaporato un dolce buonissimo. E piegò la testa, guardandomi da sotto la spalla.

Adesso era il mio turno di giocare.

La spinsi in avanti, non smettendo mai di toccarla per continuare in quella danza di godimento.

Lei mi assecondò, sollevandosi, fino ad appoggiare le mani su un seggiolino.

Mi alzati.

Adesso il mio cazzo era dritto, a pochi centimetri dalle sue natiche, dal suo sesso.

Lei aveva allungato tutte le braccia e piegato la testa in avanti. Adesso stava alterando quella posizione a piccoli sobbalzi, quando si metteva in punta di piedi.

Il suo culo, splendido e bianco nella penombra del vagone, si alzava come per offrirsi a me e al mio desiderio. Impazzivo all’idea di prenderla subito, senza indugiare neppure un secondo. Ma la magia di quel momento era così tanta che il mio unico desiderio era di protrarla ancora, e ancora e ancora.

Come aveva detto lei.

Feci un passo avanti e, contraendo i muscoli, il mio pene, turgido, duro e pulsante si impennò scorrendo nello stretto solco tra le natiche. Oscillai in avanti, e indietro, scorrendo e spingendo. Quando mi allontanavo lo facevo di qualche centimetro in più ogni volta, in modo da far scorrere il cazzo fino allo spazio tra le sue gambe. Bagnato e caldo. Era incredibile vederla mentre si contorceva quando, scendendo, le sfioravo poi da sotto il clitoride. Si abbassava, quasi come a volermelo abbracciare con le labbra della sua bellissima figa depilata.

Continuai una, due, tre, quattro volte. Persi il conto, concentrato com’ero nel godimento di Marta.

Marta. Pensai il nome mentre mi concentravo su ogni suo piccolo movimento.

La vidi che si piegava in avanti, proprio mentre stavo risalendo dopo l’ennesimo contatto tra il mio sesso e il suo, ma ero così preso nell’intessere lussuria e estasi con il suo nome che non feci caso al movimento.

Ricominciai a salire e sei si abbassò, per poi dare un colpo indietro.

La penetrai, si sorpresa, come se avesse teso una trappola. Fu da mozzare il fiato. Il mio cazzo, lubrificato dalla sua saliva prima, dal suo nettare e dal sudore poi scivolò dentro di lei. Istintivo strinsi le natiche e tutto il mio membro rispose impennandosi mentre entrava. Fu come sfiorare le porte del paradiso, e mi accorsi che Marta provò la stessa cosa. Per un secondo le tremarono le ginocchia dal piacere inclinandosi e stringendosi verso l’interno e si piegò, rendendo ancora più estatico quello che sentivo sprigionare dal ventre.  Fu come se una calda mano rovente si chiudesse sul mio cazzo.

Approfittai iniziando a penetrarla, piano e a fondo. Mi spingevo in avanti, il più possibile, mentre le mani le scorrevano sulla schiena a ogni stoccata di lussuria sui seni, stringendoli, per poi ritirarsi fino alle natiche.

Così facendo però rischiavo di venire subito, tanto era la mia eccitazione. Perciò rallentati ancora, uscendo quasi del tutto. Solo il glande adesso indugiava all’interno e iniziai a contrarre le natiche, di nuovo, dando piccoli colpi lì e trasmettendo le vibrazioni al clitoride. Lei indietreggiava, per avermi dentro e io mi ritraevo, fuggendo e dettando il ritmo del gioco. Era bellissimo vederla godere, vederla sofferente per un orgasmo che ancora non volevo darle, e non volevo concedermi.

Venne ancora verso di me, e io arretrai per poi, all’improvviso, affondare con forza. Lo scroto, le palle, sbatterono con forza contro il suo culo.

“Ooohhhh…” quasi gridò, lo sentii distintamente. Diedi un altro colpo, con la stessa forza, e poi mi ritirai di nuovo. Questa volta una mano scese sul suo ventre, accarezzò il neo e sfiorò più volte il clitoride in fiamme.

Stava impazzendo, in pratica mi supplicava di scoparla, ma io non volevo cedere.

Vidi che piegava la testa e incrociò il  mio sguardo, lanciandomi fiamme di malizia.

Lenta, con una mano lasciò il seggiolino. Corse lungo il suo fianco, fermandosi su un seno e tirando con forza il capezzolo. Poi scese ancora, salì sulla schiena e si indugiò sulle natiche. Ma non si fermò.

Ne seguì il solco, allargò ancora le gambe e mise in mostra il suo piccolo buco. Nella penombra si intravedeva tre le natiche chiare.

Iniziò a girarci intorno con il dito, intriso di sudore e dei miei umori.

Mi guardò, negli occhi e li chiuse di colpo. Il dito era entrato, per tutta la lunghezza della falange.

“Vuoi giocare ancora, o vuoi….questo?” chiese, sfilando il dito.

 

La verità, la semplice verità, è che non avevo mai preso nessuna donna in quel modo. Qualche maldestro tentativo, con ragazze poco vogliose di sperimentare il mio membro nel culo, era finito in malora.

O la complicata logistica della cosa aveva finito col mandare a monte tutto, oppure qualche gridolino di dolore e una tensione palpabile in ogni centimetro della mia amante del momento, mi avevano dissuaso. Le tre o quattro vote che ci avevo provato, tutto si era ridimensionato in una normale esperienza sessuale.

Ma Marta, da come si muoveva, da come si atteggiava, sembrava non essere nuova a queste cose. Per niente.

“Allora?” disse ancora. Era la nostra parola magica, alla quale nessuno dei due si poteva sottrare.

Mi feci avanti, con un po’ troppa foga credo, e le piazzai la punta del glande proprio lì, sul buchino che si era momentaneamene richiuso, dopo l’abbandono del suo dito. Lei non si ritrasse ma anzi, ondeggiò leggermente il bacino facendomelo sbattere con le natiche. Latee e morbide.

Non chiedetemi come, ma si accorse in un secondo che non l’avevo mai fatto. E fece l’ultima cosa che mi sarei aspettato: la sua mano destra scivolò di nuovo sulla pelle, sulla parte bassa della schiena, sulle sue natiche e andò a stringere il mio cazzo. Di nuovo, il contatto con quelle mani, mi fece sobbalzare. 

Lo strinse, verso la base, come a tastarne la turgidità. E poi, oh Mio Dio, iniziò a ruotarlo proprio sull’ingresso del suo buco proibito. Ne bagnò la punta, mescolandola a sudore e sesso, bene, e strinse ancora più forte: ero certo potesse sentire le pulsazioni del mio cuore, che andava a mille, attraverso le larghe vene che percorrevano il membro. La cosa le piacque perchè, seppure senza farmi male, aumentò la stretta.

Lo tirò piano, in modo lento ma inesorabile, proprio lì. Dapprima sentii un po’ di resistenza ma non riuscivo a concentrarmi sulle sensazioni che sprigionavano dal ventre: era tutto troppo pazzesco. Però, quando la punta, quando il glande entrò, allora me ne accorsi. Fu una sesnazione strana, e potente. Era stretto, mi abbracciava con una forza che prima, nella sua figa, non avevo provato.

Lo accompagnò ancora qualche millimetro e poi lo lasciò. Io non mi ero mosso, per paura di rovinare il momento. Ci pensò lei. Prese ad andare avanti, e indietro. Piano, lenta. E a ogni oscillazione entravo sempre di più dentro di lei.

Era incredibile. Meraviglioso. Pazzesco. Non so quanto andò avanti, forse pochi secondi, forse decine di minuti. Non riuscivo nemmeno ad aprire gli occhi tanto le sensazioni che provenivano dal cazzo erano forti.

“Adesso” sentii dire a Marta “Adesso scopami. Voglio che mi scopi. Ancora.”

Fu come se il mondo esplodesse in mille colori. A quelle parole le presi i fianchi e percepii nitidamente che adesso il mio cazzo scorreva, lubrificato, senza difficolta, tra le sue natiche. Presi a spingere, dapprima in modo timido, poi con più convinzione. Lei gemeva, mugolava, ansimava. E io continuavo. La stringevo  e me la spingevo contro, e mi spingevo dentro in lunghi affondi. Adesso il rumore della carne contro la carne sovrastava quello del treno.

La gaurdai in volto e mi parve di scorgere un’espressione di dolore. Le stavo facendo male? Mi fermai, e feci per uscire. Ma quando sentii le sue dita che si conficcavano nelle mie natiche, unghie nella pelle, e mi spingevano ancora dentro, non capii più nulla.

Persi il controllo e ripresi, in un’estasi incontrollata, a spingere, spingere, spingere.

“Ohhhh…sì….sì” la sentivo “Scopami” sussurrava.

Ancora, ancora, e ancora.

“Sì….sì…..sìììììììììììì” la sentii contrarsi in un orgasmo fortissimo. Quasi crollò in ginocchio.

Fu con l’ultimo guizzo di razionalità che si doveva essere nascosto non so dove che, un attimo prima di venire, uscii. Le appoggiai il cazzo sulla schiena e un getto caldo, rovente, sprigionò dal mio membro.

“Oddddiiiooooooooooooooo…” le feci eco mentre il mio sperma, il mio orgasmo, la inondava.

Mi accasciai su di lei. Due corpi sudati che tremavano, travolti da un piacere che sembrava averli del tutto prosciugati.

Avevo la testa appoggiata sulla sua schiena e lo sguardo perso tra le ombre del vagone. 

Fu un guizzo di luce, insolito, che attirò la mia attenzione. Cosa c’era nascosto nel buio?

Un altro bagliore e qualche lampo di luce che proveniva dall’esterno parve illuminare qualcosa che non mi piaceva. Sagome, ombre e riflessi. Lucenti di metallo?

Mi staccai da Marta mentre l’adrenalina stava prendendo il posto dal quieto torpore che accompagna ogni orgasmo.

“Cosa c’è?” chiese lei, con tono troppo malizioso mi parve.

Recuperai i pantaloni e in pochissimi secondi fui di nuovo vestito.

“Chi c’è?” dissi rivolto sia a lei che alle ombre, in fondo al vagone.

La mia voce parve rimbombare ben più forte del rumore del treno. Passarono interminabili secondi prima che un’altra voce rompesse l’incantesimo.

“Non ti pare una situazione assurda?” fu però Marta a parlare. Nel frattempo, anche lei si era rivestita ma portava ancora i segni di poco prima: la gonna molto bassa, la maglietta sconnessa e formata. Se non fosse stato per l’inquietudine che provato, l’avrei trovata tremendamente sexy.

“Come?” chiesi.

“Non credi che tutta la situazione sia stata un po’…particolare?”

“In…in che senso?”

“L’incontro. Il treno. L’avermi scopata così.”

Dove voleva andare a parare?

“Non credo di capire” intanto continuavo a guardare in fondo al vagone ma il buio della campagna aveva ripreso il sopravvento.

“Dai andiamo, da come mi hai sbattuta non sei uno sprovveduto! Ti sembra normale incontrare per la seconda volta una ragazza su un treno e finire in un vagone vuoto ma aperto, e fare quello che abbiamo fatto?”

Non aveva tutti i torti. Ma quindi?

“Non ti pare” continuò “un situazione da…”

I bagliori. Il suo modo di fare. La sua grande esperienza in tutto. E quanto si era dimostrata disinibita. Quei riflessi non erano metallo. E quelle sagome.

“…una situazione da…film?” completai io.

“E bravo Marco!” chiocciò, allegra, Marta mentre mi si avvicinava e mi affibbiava un bacio sulla guancia.

“Potete uscire ragazzi!” gridò, rivolta al buio.

Dalle tenebre un fondo al vagone sgusciarono fuori due tizi, armati di videocamera, con un sorriso sornione.

“E bravo ragazzo” disse il primo mentre l’altro gli dava di gomito.

Mi guardai intorno, incredulo.

E adesso?

 

Sono passati due anni da quell’episodio. Io ovviamente non ho acconsentito all’utilizzo di quel materiale, nemmeno per fare quattro risate a una proiezione tra amici. Ma non avevo niente in mano (se mi passate il gioco di parole) e di sicuro non avevo avuto la prontezza di denunciare la cosa. Fui assicurato da loro che si trattava di un canale di distribuzione riservato, che non avrei rischiato nulla, e che anzi ci potevo fare soldi. Ma io niente, morivo dalla vergogna alla sola idea. Perciò, vi lascio immaginare i primi mesi da quella bellissima, ma terribile, notte di sesso in treno. Passavo in rassegna tutti i portali porno temendo, da un momento all’altro, di trovare un filmato dal titolo “Sesso in treno” o “Ferrovie dello stato” o chissà quale altro titolo accattivante. Se doveste incapparci voi, per favore, fatemelo sapere.

Sono passati due anni, per l’appunto.

E da allora, non ho mai più preso il treno.

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