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Racconti Erotici Etero

Il Capoluogo della Virginia

By 12 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

I know how to inflame you…

how to make you incandescent

Henry Miller, Tropic of Cancer

Mi piaceva stare così, con la guancia sul suo grembo. Sfiorare con la bocca quei fili morbidi come seta, prenderli tra le labbra, baciarli. Esplorare con la lingua curiosa quel delizioso solco tiepido, intrufolarvisi ad incontrare il piccolo bocciolo, turgido al più lieve tocco.

Il suo grembo fremeva, palpitava, cullava la mia gota sull’onda che incalzava sempre più. La bonaccia diveniva uragano sconvolgente.

Dischiudeva lentamente le gambe, svelando lo scrigno prezioso, il giardino delle delizie, le alzava piano, i piedini mi carezzavano i fianchi, scendevano sulle natiche, risalivano. Serrava la mia testa tra le eburnee cosce tornite. Sollevava, invitante, il bacino.

La lingua, golosa, traversava il vibrante sentiero dell’amore, penetrava nella meravigliosa reggia incantata, attesa, accolta ingordamente con avidità suggente.

Quel protendersi e ritrarsi, sollevarsi e abbassarsi, indicava alla carezza viva la ‘via erotica’, dal fondo della schiena, lungo il ricamo del perineo, sul palpitare irrefrenabile della piccola escrescenza, fino al congiungersi delle grandi labbra.

Il ventre era squassato dal piacere, come oceano in tempesta.

Passato il turbine, placato l’uragano dei sensi, l’onda andava pian piano acquietandosi.

Risalivo lentamente la valle del desiderio fino al meraviglioso fiore ancora pulsante, timidamente nascosto sotto il monte di Venere, splendida dea mai paga.

Si, mi piaceva stare così: la mia guancia sul pube, la sua mano tra i miei capelli.

Avvicinai la bocca all’interno della coscia, la morsi piano. S’irrigidì appena. Strinsi più forte. Pose l’altra gamba sulla mia nuca. Seguitai a stringere.

‘Ah!’

Quasi un lamento; flebile.

Alzai la testa.

Sedette sul letto, nella sua maliarda nudità.

Si abbassò a guardare.

Sulla carne rosea appariva, nitida, l’impronta dei denti.

Mi fissò negli occhi, con uno sguardo pieno di passione.

‘E’ la linea dei gioielli’ -sussurrò- ‘ suggello d’amore, di voluttà, per le donne di Andhra.’

‘E per te?’

‘Se fossi nata in India avrei voluto essere di Andhra. Per me é la tua testimonianza, l’impronta che mi lega a te. Il ricordo del piacere.’

Strinse il mio volto al seno.

Afferrai il capezzolo, rosso scuro, eretto, tra i denti, lo mordicchiai, lo succhiai come un bimbo affamato.

Mi cullò dolcemente, mi carezzò. La spalla, il ventre. Incontrò la mia eccitazione. La racchiuse tra le sue dita sottili. Si distese lentamente, tenendomi stretto a lei, godendo l’avida, bramosa poppata che la svuotava languidamente.

Lui era rigido, fremente, irrequieto, agitato, come stallone scalpitante in impaziente attesa, incandescente, (yes I know how to inflame a cunt, how to ream out every wrinkle in a cunt…) lo condusse dov’era stata la mia lingua, lo inghiottì lentamente, lo nascose in lei, cullandolo dolcemente, come cullava me, delicatamente. Poi con maggior foga, gagliardamente, appassionatamente, freneticamente, convulsamente, come a volerlo strappare, svellere, sradicare, impossessarsene quale trofeo conquistato.

Restai ansante, sudato, su di lei, baciandole gli occhi.

* * *

Il balcone era semiaperto, la tenda oscillava appena al ponentino.

Eravamo supini, deliziosamente ebbri d’amore.

Nina allungò la mano, la posò sul mio petto.

‘Ah! sei tu! Sei qui! Credevo che non ci fossi.’

‘Infatti, non c’ero. Sono appena venuto.’

‘Ti ho sentito!’

‘Che ne diresti d’una doccia?’

‘Non insieme.’

‘D’accordo. Prima tu, sei più lenta…’

‘Oggi non puoi proprio dirlo.’

Mi dette una manata tra le gambe e sedette sul letto.

Mi accostai e le lambii la schiena.

‘Carlo.. ma non avevi parlato di doccia?’

Si alzò, si stiracchiò.

‘Ti prego, Carletto, non venire di là.’

Andò nel bagno.

Così com’ero, andai dietro al balcone. Cominciava a far scuro, si accendeva qualche luce, risaltavano i fanalini rossi delle auto che frenavano.

Il balcone, all’ultimo piano, occupava gran parte dell’angolo smusso dell’edificio, tra via della Polveriera e via del Fagutale, il clivo occidentale dell’Esquilino. Sotto, un piccolo spicchio di verde, più giù Via degli Annibaldi, di fronte il Liceo Cavour, e, più in alto, sulla via delle Carine, la scuola elementare e l’Istituto per il Turismo. Verso sinistra, uno scorcio del Colosseso, l’Arco di Costantino, un angolo del Tempio di Venere e Roma, voluto da Adriano per celebrare Venere, madre di Enea da cui sarebbero discesi i fondatori di Roma.

Nina, scalza, più scoperta che coperta dal corto accappatoio, era giunta alle mie spalle e guardava la strada sottostante.

Sentii i capezzoli sfiorarmi la schiena.

‘D’ubertà ridono i clivi… Ricordi Carducci, Nina?’

‘Ma che c’entrani i clivi?’

‘Giù, il Fagutale.’

‘Ma non vedo niente di ubertoso, giù.’

‘Il processo mentale di associazione é rapido e spontaneo, istintivo. Il clivo, Carducci, l’ubertà, il tuo seno che mi carezza la schiena…’

Si allontanò verso la poltrona dov’erano i suoi vestiti.

Andai verso la doccia.

‘Non farla troppo calda.’

Gridò Nina, ironica.

‘E tu come l’hai dovuta fare?’

‘Freddissima! Anzi, usciamo presto prima che finisca l’effetto!’

Dopo pochi minuti eravamo pronti.

Uscimmo.

La sera non era troppo calda, si camminava bene.

Voltammo per via Eudossiana, raggiungemmo piazza di San Pietro in Vincoli, dove sorge la Chiesa in cui sono custodite le catene di San Pietro. Si dice che siano state rinvenute a Gerusalemme, da alcuni sudditi di Eudocia, moglie di Teodosio II, e da questa regalate alla figlia, Eudossia, moglie di Valentiniano III che fece, per conservarle, ricostruire un antica basilica che sorgeva su rovine di edifici romani di varia epoca.

Qui c’é anche la mia vecchia Facoltà, dove Nina, ancora liceale, veniva ad attendere il fratello, Mario, mio compagno di studi

Scendemmo le scale della Salita Borgia, che segue all’incirca il percorso del Vicus Sceleratus, dove la leggenda afferma che Tullia passò col cocchio sul cadavere del padre, Servio Tullio.

Girammo a sinistra, sulla via Cavour, attraversammo, superammo la vecchia via dei Serpenti, proseguimmo verso la Torre dei Conti.

Andammo ad affacciarci sul Foro di Cesare, al di là della via dei Fori Imperiali.

A destra il Tempio di Venere Genitrice, che Cesare , prima della battaglia di Farsalo, promise alla dea dalla quale la Gens Julia si vantava di discendere.

Guardavo le pietre antiche, e il rumore del traffico intenso mi sembrava il rotolare di cocchi. Quello era il tempio dedicato a Venere, donna bellissima, sensuale, simbolo di grazia e di leggiadria. Venere, stella del firmamento che domina i segni del Toro e della Bilancia.

Nina era a fianco a me, si mise sottobraccio.

‘Cosa stai pensando, Carlo?’

‘A Venere.’

‘In che senso?’

‘A te, perché tu sei la mia dea dell’amore.’

‘Come sei romantico, questa sera, ingegnere. Sentimentale, sognante, pieno di fantasia, un po’ malinconico. Non é trascorso molto, però, da quando, mi é sembrato che tu cercassi e apprezzassi qualcosa di meno etereo. Poi sono io l’accusata di materialismo. E pensare che tu sei uomo delle costruzioni concrete, dei calcoli, della pietra, e io, per mia scelta, dovrei avere soprattutto una particolare attitudine per il sogno, l’immaginazione pura, la fantasia, l’irrealtà, l’illusione. Non so se in effetti io possegga tale inclinazione. A volte mi sembra vivere nell’illusione: forse sbaglio nel credere e spero vanamente.’

La voce, seria, manifestava una certo nervosismo.

Cercai di attenuare la tensione.

‘Splendida e sapiente Minerva, in cosa temi di credere erroneamente e di sperare invano?’

‘In noi, Carlo. E non sono Minerva, altrimenti non verrei assalita da dubbi e dallo sconforto. Saprei tutto.’

‘Sono serio, tesoro. Devi avere massima fiducia in noi. Devi affidarti a me, perché non solo ti amo ma ti voglio bene, tanto bene. Amore e bene sono fondamenta incrollabili per l’edificio che abbiamo costruito, e che il mio e il tuo amore rinsalderanno sempre più.

Mi piace quando mi definisci sognatore concreto, perché é così: ti sogno, poi mi desto e ti sento vicina, meravigliosa, palpitante, vera.’

Si strinse a me.

La baciai sugli occhi umidi.

‘Bambina bella, andiamo a farci una pizza.’

Tirò su col naso, mi sorrise, annuì col capo.

La solita pizzeria era vicina. A Largo Ricci.

Ce ne sono due, una di fronte all’altra.

Noi, come d’uso, andammo a quella vicino alla torre: non aveva pretese estetiche, non era meta di gruppi di turisti, e faceva pizze ottime a prezzi contenuti.

Data l’ora c’era abbastanza posto. Sedemmo al tavolo verso il muro, il più lontano possibile dalla strada, dai rumori e dagli scarichi delle auto.

Remo, il vecchio cameriere, venne subito.

‘Er solito ingegné? Anche a lei signora?’

Al nostro piccolo cenno d’assenso andò subito a ordinare ‘due margherite e due medie!’

Nina mi toccò il ginocchio. Sussurrò appena che quasi non la sentii.

‘Foscolo!’

‘Chi?’

‘Foscolo, non fare il finto tonto, che hai capito. Fiorir sul caro viso… veggo la rosa!’

‘Ah! la solita storiella.’

‘Vedi, é alla cassa. Credo che ci abbia visto.’

‘E allora?’

‘Allora… niente! Credo che la cotta non le sia passata. Ti lancia certe occhiate…’

Risposi seccato:

‘Si, mi scopa con gli occhi.’

‘Se potesse, lo farebbe. Del resto non sei stato tu a dirmi delle sue lettere dove, con abbondanza di particolari, ti raccontava i suoi sogni che, in fondo, erano tutte scopate con te?’

‘Si, in sogno.’

‘Questo lo dici tu.’

‘E quindi la fonte é certa.’

‘Certezza e sincerità non sono la stessa cosa.’

‘Niné, sei proprio una pizza, a pensarci bene era inutile venire qui.’

‘Ma perché te la prendi tanto. Ma é vero o no che Rosa ti scriveva lunghe lettere roventi di passione, traboccanti di desiderio?’

‘Si, Nina, mi scriveva, e tanto.

Allora abitavo qui accanto, al 325, e la mia cassetta delle lettere era sempre piena delle buste profumate che vi infilava. Ma scriveva a sé stessa, in una forma di autoesaltazione molto simile alla masturbazione. C’é gente che si esalta, scrivendo, cose fantasiose, soltanto frutto dell’ immaginazione, e raggiunge persino l’orgasmo. In effetti, i dettagli erano tali e tanti che chi non era al corrente delle cose avrebbe potuto anche crederci.’

Erano arrivate le pizze e i due boccali di birra.

Remo augurò buon appetito e disse che ci avrebbe portato alcune ascolane fatte allora allora dalla sora Rosa.

‘Ma tu’ -insisté Nina- ‘non l’hai mai fatto con Rosa?’

‘Mai, te lo giuro.’

Mi guardò in modo strano.

‘Neppure a letto?’

‘Ma che cavolo dici?’

Proseguì con un’aria di falsa ingenuità.

‘Beh, potevi averlo fatto sul prato, in auto, che sò, in ascensore…’

La interruppi tra il seccato e il divertito.

‘Oppure nel forno caldo! Sai che é proprio ganza l’idea il forno caldo? Dobbiamo pensarci. E poiché non abbiamo un forno grande abbastanza lo potremmo fare sul barbecue, che ne dici?’

‘Ottima idea. Però sotto ti ci metti tu!’

E scoppiò a ridere.

‘Ti eccita il barbecue, eh?’

‘Soprattutto mi scalda…’

E giù altre risate, che le uscivano le lacrime dagli occhi.

Mi guardò, scoppiò di nuovo a ridere.

‘Penso a Rich sul barbecue!’

‘Ma pensa alle chiappe tue arrosto!’

‘No, ingegné, sotto ci stai tu, é tutta roba tua quella che s’arrostisce…’

Allungò la mano, sotto il tavolino, la mise sulla patta dei miei pantaloni.

‘Povero Rich, finire arrosto!’

* * *

II

Erano trascorsi tre anni da quel giorno.

Avevo deciso di parlare chiaro.

Si trattava della sorella di Mario e non volevo porre in pericolo la nostra lunga, profonda, fraterna amicizia.

Nina mi piaceva. Tanto.

Lo abbordai risoluto.

‘Senti, Mario, vorrei invitare Nina a prendere un gelato. Tu che ne dici?’

Mario sorrise.

‘Credo che lei aspetti solo questo. E da tempo. Non me lo ha detto, ma parla solo di te. Fin da quando era ragazzina. Se sapeva che venivi a casa nostra, a studiare, si metteva in ghingheri e cercava ogni scusa per interromperci. Ricordi?’

‘Va bene, ma tu cosa ne pensi?’

‘In certe cose sai essere molto serio, e agire a seconda delle circostanze.

Nina é la pupa di casa ed é veramente una bambinona. Allegra, socievole, ha un invidiabile humour: prende le cose con ironia, cerca di riderci sopra di sdrammatizzarle. Ma é anche sensibile, gentile, facile a commuoversi e nel contempo decisa, determinata, risoluta.

Ha conseguito la maturità con sessanta e si é iscritta a lettere moderne col proposito di laurearsi entro quattro anni e col massimo dei voti. Vedrai che ci riuscirà.

Chiediglielo tu, di uscire con te.

Certo, però, povera Nina, padre e fratello ingegneri, adesso anche il ragazzo…’

La sera telefonai a casa Stefani. Rispose Nina. Andava bene per il gelato. Mi avrebbe aspettato a casa, l’indomani, quando uscivo dall’ufficio.

‘Ma Nina’ -dissi- ‘domani é sabato, io non vado in ufficio. Lavorerò un po’ a casa, per il resto sono libero.’

Preparavo un progetto per la ristrutturazione di un edificio monumentale di Siena, di proprietà del Comune. L’interno doveva essere ammodernato, senza, però, alterarne la volumetria. L’esterno doveva rispettare l’originale, perfino nel colore.

‘Allora alle dieci, va bene Carlo ?’

‘Benissimo, ciao.’

Lasciai l’auto proprio davanti al suo portone. Era un parcheggio riservato, ma col contrassegno del Comune non rischiavo contravvenzioni.

Citofonai. Mi disse che sarebbe scesa subito.

Avevo pensato che volesse farmi fare, prima, quattro chiacchiere con la simpatica madre che, del resto, conoscevo bene essendo da quindici anni uno dei più stretti amici del figlio.

Nina uscì dall’ascensore con l’aria sbarazzina di sempre.

‘Ciao Carlo.’

‘Ciao, Nina. Come sei sportiva, oggi. Stai proprio bene.’

‘Grazie.’

Salimmo in auto.

Le proposi: ‘Che ne pensi della casina Valadier?’

‘E se, invece, andassimo al Gianicolo? Potremmo gustare i gelati di fronte allo spettacolo del tramonto su Roma.’

‘Ma Nina, é mattino!’

‘Ah, già, però al Gianicolo si sta bene lo stesso. Vuol dire che avremo il sole negli occhi.’

Attraversammo l’Eur, percorremmo viale Marconi, Trastevere, e sù, fino al piazzale Garibaldi.

Mettemmo l’auto alle spalle del monumento e ci avviammo verso il chiosco. A fianco il teatro delle marionette.

‘A me crema e cioccolato’ -disse Nina- ‘e non troppo grosso.’

‘Ma non vuoi sedere a un tavolino?’

‘No, meglio andare a guardare il panorama. Più tardi spareranno il cannone, vero?’

‘Si, a mezzogiorno.’

Ordinai i gelati. Per lei crema e cioccolato, per me fragola e pistacchio.

L’uomo al banco chiese se volessimo la panna. Nina scosse la testa. Il gelataio prese due bicchieri di plastica, li riempì con i gusti richiesti, in ognuno infilò una specie di cucchiaino di legno e me li porse.

Nina volle subito il suo, e mentre andavamo verso il parapetto ne assaggiò il contenuto: prima la crema, poi il cioccolato.

‘E’ buono, sai?’

Arrivati al basso muretto dal quale ci si affaccia su gran parte di Roma, allungò il suo cucchiaino verso il mio gelato.

‘Fa assaggiare. Posso?’

‘Certo.’

‘Devo assaporare separatamente, però, o non ci capisco nulla.’

Prese prima il pistacchio, poi la fragola.

‘Anche questi sono buoni, ma preferisco crema e cioccolato. Prova?’

Riempì di gelato il cucchiaino e lo avvicinò alla mia bocca.

‘E’ vero, é meglio il tuo.’ -dissi- ‘Hai veramente buon gusto.’

Mi guardò maliziosamente.

‘Certo, altrimenti non sarei qui con te.’

Divenne un po’ rossa, e seguitò a mangiare il gelato guardando lontano, verso i colli Albani, Monte Cavo.

Sotto di noi Regina Coeli, il Carcere. Alzando lo sguardo, il Pantheon, il Quirinale, Santa Maria Maggiore, San Giovanni. A sinistra, San Pietro, Castel Sant’Angelo e, spostando l’occhio, il Palazzo di Giustizia, Villa Borghese, il Pincio, Villa Medici…

Mi avvicinai a Nina e le misi la mano sulla spalla. Poggiai il mio bicchierino sul parapetto.

Non si mosse, seguitò a mangiare il gelato.

‘Non ti piace? Non lo finisci? Non lo hai quasi toccato!’

Strinsi un po’ la mano per accostarla a me. Sentivo il suo fianco morbido.

Alzò la testa per guardarmi.

‘Se non lo vuoi lo mangio io.’

Presi il bicchierino e glielo porsi.

‘Sono contento che ti piaccia. Mangialo tu, é come se lo gustassi io attraverso la tua bocca. Lo mantengo io, mentre lo mangi.’

‘No, il bicchierino lo reggo io, e tu mi tieni la mano perché non mi cada.’

Quando finì, raccolsi i vuoti e li gettai nel cestino dei rifiuti.

Presi dal taschino il fazzoletto candido, ne avvicinai un pizzo vicino alla sua bocca, e ne tersi piano gli angoli che recavano il segno del cioccolato.

Mi guardò con dolcezza.

‘Mi tratti proprio come una bambina.’

‘Tu non lo ricordi, ma la prima volta che sono stato a casa tua, avevo 12 anni, mi venisti incontro e mi domandasti se ero il compagno di Mario, come mi chiamavo, che tu eri Nina e cosa ti avessi portato. Poi alzasti le spalle e te ne andasti.

Il giorno dopo ti portai un gianduiotto. Lo scartasti, lo mangiasti golosamente. Mi dicesti di pulirti la bocca altrimenti la mamma se ne sarebbe accorta e non voleva che tu mangiassi cioccolato.’

Nina fissava il vuoto.

‘Lo ricordo benissimo. Avevo solo cinque anni, ma quel regalo nascosto mi fece sentire tua complice ma non colpevole di disobbedienza. Insomma, eri tu che mi avevi dato il gianduiotto, non potevo certo rifiutarlo.

Nascosi la carta dorata nella tasca del grembiulino, poi la misi nella scatoletta dei miei segreti, nel mio cassetto. E’ ancora li.’

Le cinsi il fianco e la strinsi ancora di più.

‘La piccola Nina che conserva la carta dorata, ricordo del suo peccatuccio. E ne hai tanti di questi ricordi nella tua scatoletta?’

‘C’é solo quello, ma c’é tanto spazio…’

‘Carta dorata’ -proseguii- ‘come la terra del colle di Giano, il Gianicolo, per tale ragione detto Mons Aureus.’

‘Lo so che c’é sempre qualcosa da imparare, da te.’

‘E per questo hai accettato di uscire con me?’

Mi guardò stringendo le labbra, graffiando leggermente, con le sue piccole unghie rosa, la mano che le stringeva il fianco.

‘Posso dire a un ingegnere che o c’é o ci fà?’

‘Non capisco.’

‘Allora ci fai!

Lascia stare, andiamo a vedere la quercia del Tasso, non dev’essere lontana.’

La presi sottobraccio.

‘Andiamo in auto fino a un certo punto.’

Salimmo in macchina.

Aprii un po’ i finestrini.

‘Ti da fastidio l’aria, Nina?’

‘No, anzi.’

Le misi una mano sul ginocchio.

Non disse nulla. Sentii che s’irrigidiva.

Le parlai sottovoce.

‘Nina, é la prima volta che usciamo insieme. Posso sperare in una seconda?’

Annuì con la testa.

‘E in altre ancora?’

Seguitò ad annuire, più decisamente. Sulla mia mano cadde qualcosa di deliziosamente tiepido. Nei suoi occhi brillavano due lucciconi, come splendidi diamanti.

Mi chinai su lei, accostai le mie labbra ai suoi splendidi occhi, sentii il sale delle sue lacrime che, ora, sgorgavano copiose.

La sua voce era soffocata da piccoli singhiozzi, mi guardò negli occhi, tra le lacrime, tirò sù col naso.

‘Non prendermi in giro, Carlo, ti prego. Non farmi questo. Lasciami nel mio sogno, nella mia illusione…’

Le sua piccola bocca vermiglia tremava.

Incurante dei possibili passanti, la baciai sulle labbra. Mi strinse il volto tra le mani e ricambiò il bacio, così, con le labbra strette.

Prese il mio fazzoletto dal taschino, e tornò la piccola sbarazzina di sempre: vi si soffiò sonoramente il naso, lo ripiegò, lo rimise al suo posto.

‘Non scherzare, ingegnere. Ripeto, non giocare. Non farmi del male. Non ridere di me accorgendoti che non so baciare, che non ho mai baciato nessuno.’

‘Non sono mai stato serio come adesso, Nina. Dobbiamo parlare, a lungo. Perché non lo facciamo subito? Andiamo a pranzo insieme, in un luogo dove non ci sia troppa gente. Vuoi?’

‘Ma a casa sanno che sono uscita con te, devo tornare per il pranzo.’

‘E tu telefona. Prendi il cellulare. Telefona.’

Mi guardò interrogativamente.

Prese il telefono, formò il numero di casa sua.

Dopo qualche istante sentii rispondere.

Nina mi fissava, come a trarne forza.

‘Mamma, sono a spasso con Carlo… sì, é qui con me, sto telefonando col suo cellulare… ti saluta… Mi ha invitato a restare a pranzo con lui… No lo so dove… no, certo non a casa sua, del resto chi avrebbe cucinato? Credo che andremo al ristorante… Carlo dice che conosce un bel posticino… Che fà, posso andarci, mamma? Lo so che sono maggiorenne, mamma, ma che significa che me lo ricordi? Dici sempre che fino a quando sto a casa tua la maggioretà non conta… Ma mamma, sto con Carlo… Certo mamma, certo… Grazie.’

Chiuse il cellulare.

‘Mamma ti saluta e mi raccomanda di non fare tardi.’

‘Andiamo al mare?’

‘Andiamo.’

Accesi il motore, mi mossi lentamente. Uscii dal Gianicolo. Porta san Pacrazio, Aurelia Antica, poi l’Aurelia Nuova fino all’Arrone, l’antico Aro, che esce dal lago di Bracciano, voltai a sinistra, lungo la valletta del fiume.

Guidavo senza fretta.

Mi sentivo a disagio.

Temevo di apparire solenne, fino al punto di apparire ridicolo.

Non ero preparato a un discorso del genere. Almeno non per oggi. Guardavo ostentatamente la strada. Per darmi un tono mi raschiai, piano, la gola. Nina, di quando in quando, mi guardava di sottecchi. Comunque dovevo parlare.

‘Nina, tu lo sai, mi sembra di conoscerti da sempre. O forse é proprio così, ti conosco da sempre. Del resto abbiamo già ricordato che avevi cinque anni quando ho cominciato a studiare con Mario, a casa tua. Ti portavo qualcosa, di nascosto, e tu mi ringraziavi con un bacetto.

Dopo, quando ti aiutavo a fare i compiti, alla media, mi ringraziavi con un sorriso. Al liceo, dicevi di non capire la matematica, che tuo padre e tuo fratello non sapevano insegnartela. Ed era bello sentirti accanto a me, con la tua testolina vicina alla mia per seguire le dimostrazioni di geometria.

Hai iniziato l’Università. Ho creduto perderti, proprio quando più che mai desideravo vederti, stare con te, parlare con te. Temevo che tu avessi per me solo una cordiale amicizia. Non altro.

Quando ieri hai accettato di venire a prendere un gelato, con me, dapprima sono stato felice, poi sono stato assalito dal dubbio: solo per il gelato, per una passeggiata?

Oggi mi hai detto che potremo rivederci ancora.

Ho sentito la tua bocca tremare mentre le mie labbra la sfioravano.

Ti amo, Nina, sento che tu sei la mia donna.

Vuoi esserlo?’

Nina non mi guardava più. La testa bassa, il mento sul petto, gli occhi chiusi, aveva giunto le mani, come stesse pregando. Si dondolava lentamente, avanti e dietro.

Gonfiò il petto in un lungo sospiro.

‘Quanto tempo ci hai messo, Carlo!’

E seguitò quel suo dondolio, come un rituale.

Ancora un profondo respiro.

‘Quanto tempo!’

Staccai la mano dal volante, la tesi a lei. L’accolse tra le sue, la portò al seno, a sinistra.

‘Ha sempre battuto per te, Carlo. E non chiede altro che seguitare a farlo… per te!’

Così, sempre a velocità ridotta, giungemmo al viale della Pineta, al piazzale sul mare.

Appena fermi, scese lentamente, andò sulla spiaggia. Tolse le scarpe, camminò verso il mare, sollevando la sabbia al lieve vento del sud.

La seguii.

Giunta alla battigia, lasciò che l’acqua le lambisse i piedi. Si chinò, immerse la mano nella leggera schiuma dell’onda, si voltò verso me e con le dita bagnate mi carezzò la fronte, poi le passò sulla sua, sugli occhi, sul naso, sulla bocca, sulle orecchie.

La voce aveva qualcosa d’irreale, sembrava giungere da lontano, sommessa ma chiara, dolcissima.

‘L’infinito del mare non basta per dirti quanto ti amo, con la mente, con tutta me stessa. E la sabbia di tutte le spiagge e di tutti i deserti non é sufficiente a testimoniarti quanto io desideri di essere la tua donna. Per sempre.’

Si strinse a me.

‘Tienimi tra le braccia, Carlo, con te. Per sempre.’

Le detti la mano, come ad una bambina, e ci avviammo alla rotonda del ristorante.

‘Voglio sedere di fronte a te e di fronte al mare. Come ho sognato tanto.’

Una nube le attraversò la fronte.

‘Ti sogno sempre.

Una volta, mentre ti guardavo, il tuo viso ha iniziato a svanire in una nebbia sempre più densa, fino a sparire del tutto, il mare s’é ingrossato, é divenuto furioso, sempre più. Le onde si sono trasformate in cavalloni che mi hanno travolta, sentivo di precipitare verso il fondo. Ti invocavo: Carlo… Carlo… E mi sono svegliata in preda allo sgomento.’

Era bellissima, i lunghi capelli splendenti intorno al viso delizioso, ancor più incantevole per il sorriso raggiante che svelava l’iridescenza dei piccoli denti. Gli occhi più azzurri e profondi del mare limpido dei tropici. Le labbra, perfettamente disegnate, della tenera bocca i bei rubini.

Strinsi tra le mie la piccola mano tremante.

‘Sono qui, Nina, nessun maroso può strapparti a me.’

Mi guardava emozionata. La bocca tremante, che amor la intenerisce. Cantava Ariosto.

E fui sommerso anch’io da una soave commozione.

III

Si, tre anni da quel giorno di tarda primavera quando ci fermammo oltre il Lungomare, dopo piazza Pedaso, dove alcuni pini formavano quasi un’isola verde tra le onde.

Scendemmo e ci accostammo all’acqua.

La mia mano aveva trovato rifugio nel tepore della sua ascella e le dita carezzavano dove cominciava la sodezza del seno.

Rimanemmo un po’ a rimirare il mare, ad ascoltare il lieve sciacquio dell’onda.

Tornamo all’auto.

Sedetti sul sedile posteriore, le tesi la mano e l’attirai dolcemente sulle mie ginocchia, accogliendola tra braccia.

‘Ecco la mia bambina.’

Appoggiò la testa sulla mia spalla, con gli occhi chiusi, il volto verso me.

Poggiai la bocca sulle sue labbra, le lambii piano cercando di disserrarle, e all’esitante e incerto dischiudersi di quel delizioso scrigno di perle, m’insinuai furtivo ad incontrare l’inebriante miele che distillava dalla sua lingua morbida. Dapprima immobile, poi appena timida, e quindi voluttuosamente guizzante, vibrante alla mia suggente golosità.

Si staccò da me, guardandomi apprensiva.

‘No, Nina, non pò sta che faccia male,

io credo, invece, che ridia la vita…

E’ Trilussa, che lo dice, a Nina.’

E ripresi a baciarla con passione, sentendo quanto sia facile e naturale ricambiare l’amore.

Avvertivo il calore del suo corpo, il suo muoversi spontaneo, il suo profumo.

La mia mano s’intrufolò sotto la gonna, le carezzò la coscia, salì lenta, allontanò piano il pizzo che ornava, civettuolo, il bordo delle mutandine. La baciavo sempre con maggior calore. Le dita incontrarono il delizioso batuffolo serico che sbocciava tra le gambe strette. Lo carezzarono piano.

Mossi appena la testa per sussurrarle: ‘E’ la più bella seta che abbia mai sfiorato…’

Si staccò da me, prese dolcemente la mano che la carezzava e la portò al seno, sulla camicetta bianca.

‘Senti questa seta, tesoro….’

Fece un profondo respiro, come a riprendere fiato.

‘Ascolta, Carlo, tu non sai quanti e quali sogni io abbia fatto. E in tutti c’eri soltanto tu.

Sogni meravigliosi, sconvolgenti, provocanti, eccitanti, conturbanti, inebrianti, che nel contempo mi procuravano sgomento, smarrimento, trepidazione, ansia. Al risveglio, ricordavo tutto, e pur non rivivendo la stessa voluttà mi sentivo quasi in peccato. Poi pensavo che era stata con te e ogni colpa si dissipava.

Comprendi, Carlo, cosa tu significhi per me?

Mi sembra quasi di sognare ancora.

Essere qui, sulle tue ginocchia, baciarti, sentirti come ti sento.

Lasciami il tempo di realizzare che vivo qualcosa di reale.’

Mi poggiò la testa sul petto, prese la mia mano e, tra una parola e l’altra, mordeva piano i polpastrelli. Si muoveva piano col bacino, non so quanto consciamente provocante. Era la versione di Nina la monella.

‘Ti ho detto che non ho mai baciato un ragazzo prima di oggi. E’ vero. Gli unici baci che ho dato sono stati per i miei genitori, mio fratello.

Sono moderna ma strana, direbbe qualcuno. Non so quello che dirai tu.

Moderna e tradizionale, forse. Come gli Stati Uniti.’

Mi prese la mano che mordicchiava e la portò sulla fronte.

‘Ad esempio, questa é Washington, dove si pensa a tutto.’

Scese, pianissimo, sulla gola.

‘Qui siamo in Louisiana, terra del canto.’

Passò al seno.Ammiccò maliziosamente.

‘Wisconsin, the dairy belt.’

Sul ventre.

‘New York, insaziabile.’

La poggiò, premendo, tra le sue gambe.

‘E questa é la Virginia…’

Lasciò la mano e mi guardò.

‘Lo ricorderai?’

Mi spostai un po’, la feci sedere su una sola delle mie gambe. Afferrai la sua manina, la portai decisamente sull’evidenza della mia eccitazione. La tenni così. Sentii che lo stringeva, insicura, perplessa, titubante. Indecisa se e come reagire. Sorpresa, curiosa di esplorarne le particolarità. Lo serrò con più forza, guardandomi negli occhi.

Non intendevo essere gentile.

‘E questo, Nina, é Richmond, il capoluogo della Virginia.’

Scoppiò a ridere, allegra. Era la Nina che sdrammatizzava tutto.

Mi si mise, scomodamente, a cavalcioni, con le ginocchia sul sedile.

‘Sei meraviglioso, Carlo, lo sapevo che saremmo andati d’accordo.’

Spostai il bacino in avanti, sentii, o mi parve sentire, che mi accoglieva tra le sue belle gambe.

Mi abbracciò con un lungo e più esperto bacio.

Si staccò un po’.

‘Forse é meglio riavviarsi verso casa, Carlo, altrimenti…’

Aprì lo sportello, andò sul sedile anteriore. Sedetti al suo fianco, le mani sul volante. Parlai, senza voltarmi dalla sua parte.

‘Forse ci vuole un caffé. Che ne dici bimba?’

‘Forse ci vuole una camomilla!’

Non risposi nulla.

Lentamente, tornai verso il paese. Fermai vicino a un chiosco-bar, lungo il viale alberato.

Feci cenno a Nina di scendere.

Si attaccò al mio braccio, proprio come una bambina.

‘Carlo, per favore, non mettiamoci a sedere. Se vuoi qualcosa prendila al banco.’

‘Tu cosa desideri?’

‘Nulla.’

‘Sei sincera?’

‘Nulla… al bar!’

‘Una spremuta d’arancio?’

‘Buona idea, quella si.’

Ci avvicinammo alla grossa donna che stava al bancone.

‘Due spremute d’arancio, per favore.’

Ci guardò, prese delle arance da un cestino, le lavò, le tagliò e, una metà per volta, le mise nello spremitore elettrico ponendo i bicchieri sotto al beccuccio dal quale usciva il liquido. Intanto, canticchiava:

Per le bimbe innamorate,

arance comprate,

hanno il magico sapore,

d’un bacio d’amore…

S’interruppe, guardò Nina.

‘Nun je date retta alla canzone, signorina mia, li baci so’ baci e le arance so’ arance!’

I bicchieri erano pieni. Pose due piattini di metallo sul banco e sopra essi le aranciate.

Bevemmo senza fretta.

Pagai.

Mentre stavamo tornando in auto, la donna ci gridò dietro, allegramente:

‘Aricordateve de quello che v’ho detto!’

Alzai la mano in segno di saluto, senza voltarmi.

Ci rimettemmo in auto e ci avviammo alla volta di Roma.

Dopo poco imboccammo l’autostrada.

‘Carlo, non sei arrabiato con me, vero?’

Le poggiai la mano sulla gamba.

‘Perché mai, tesoro. Hai detto cose bellissime: che vuoi essere la mia donna, per sempre; che devo stringerti tra le mie braccia, per sempre. E l’acqua del mare ha sacralizzato il nostro incontro, il nostro amore.

Sono pazzo di felicità: perché non sapevi baciare (ma stai imparato prestissimo); perché sei…. come quando ti ho visto la prima volta, la deliziosa bimba con le treccine.

Scusa, tesoro, se sono stato un po’ volgare, se…’

‘Carlo, amare é anche desiderare, lo capisco, lo provo anch’io. Se si ama si vuole, anch’io ti voglio. E si vuole tutto per sé, solo per sé. Io non voglio qualcuno, voglio te, da sempre. E voglio che sia tu a insegnarmi a baciare, ad amare. Ti ho atteso tanto.

Nulla di volgare, amore mio. L’attrazione, il possesso, la passione, sono l’essenziale dell’amore.

A Venezia si dice che in amor no ghe vol respeto.

Sono felice che tu mi desideri. E oggi ho capito quanto io desideri te.

Sarà bellissimo.

La prima volta che saremo l’uno dell’altro sarà un momento unico, irripetibile. Voglio prepararmi ad esso, per viverlo intensamente, perché dovrà essere indimenticabile, incancellabile…’

A mano a mano che parlava, s’infiammava, s’infervorava, gioiva, esultava.

Mi guardò con gli occhi corruschi, la nari frementi.

‘Sarà bello, Carlo, deliziosamente bello. Tu mi coccolerai, vero? Comprenderai se mi sentirò insicura, mi aiuterai a mostrarti quanto ti amo?.’

‘Ti cullerò, piccola Nina, ti terrò sul mio petto, ti bacerò, ti farò riposare sul mio cuore.’

Mi guardò maliziosa, con fare birichino.

‘…dopo, però!’

Risposi con lo stesso tono.

‘E quanto tempo dovrò attendere per il… prima? Sulla tua scrivania, l’ho visto l’altra settimana, hai lasciato un libro, di Pratolini, aperto e con una frase evidenziata: coronar con le nozze il primo amore.’

‘Si, Carlo, ho sottolineato io quelle parole.

Le nozze sono il coronamento dell’amore, e per me del primo amore. E dev’essere l’unico.

Nozze é una parola importante, ma per me non ha nulla a vedere con funzioni e riti, religiosi o civili. E’ celebrazione e glorificazione dell’amore, realizzazione d’un desiderio, inizio di una nuova vita, e i protagonisti sono lui e lei, che si vogliono bene.

Perché se non si vogliono bene é solo…’

Fui abbastanza rude.

‘Una scopata!’

‘Appunto!’

‘Beh, Nina, ti amo così tanto che sarai tu, e solamente tu, a dirmi quando. E le nostre saranno le nozze che tu intendi, e che io intendo.

Il sacerdote potrà benedirle, e l’ufficiale di stato civile dovrà registrarle, se e quando vorremo noi.’

‘Io lo voglio, Carlo. Io voglio essere Caterina Sereni. E quando la gente ci vedrà dovrà dire: ecco i Sereni! Perché noi lo saremo, e non solo di nome!’

‘Mi piaci Nina, sei quella che fa per me.’

Eravamo giunti al suo portone.

Mi guardò come una gattina sorniona.

‘Carlo, vorrei telefonare alla mamma.’

Prese il cellulare sorridendo.Compose il numero. Sentii il clic della risposta.

Parlò sottovoce, come se temesse di essere udita da qualcuno.

‘Mamma, sono prigioniera di Carlo, sono legata, non credo che riuscirò a liberarmi. Aiutami, mamma.’

Cambiò tono.

‘ E… se ti affacci puoi salutarlo…’

E giù la sua risata, gioiosa e allegra cascatella argentina.

Scendemmo dall’auto.

La mamma di Nina era al balcone. Mi fece cenno con la mano. Risposi chinando il capo.

Nina mi si aggrappò al collo, con un bacio che disse alla madre quello che non avrebbe richiesto spiegazione.

‘Ciao, amore. Carletto mio. Andiamo al cine domani sera?’

Annuii.

L’accompagnai nell’androne. Ancora un bacio.

IV

Uscì dal portone bella come non mai.

Sul balcone la signora Ada, la madre, stava a guardare.

La salutai e le andai incontro. La baciai sulla guancia. Mi porse le labbra.

Sedette in auto. Prima di salirvi anch’io, guardai la signora Ada con un sorriso un po’ idiota.

Appena fui al mio posto, si sporse verso me, mi abbracciò e mi baciò a lungo, aprendo la sua bella bocca, cercando la mia lingua.

Appena mi fu possibile, le sussurrai.

‘La mamma ci vede.’

‘Ma lo avrà fatto anche lei, no?

Allora, Carlo, sto imparando?’

‘Puoi dare lezione.’

‘Te ne darò!’

Ci staccammo dal marciapiede lentamente.

‘Hai scelto il cinema, Nina?’

‘Che ne dici se prima parliamo un po’? Al cine possiamo andarci dopo.’

‘E adesso dove vuoi andare?’

‘Andiamo verso… verso il giardino degli aranci, il Parco Savello. Vuoi?’

‘D’accordo. Ieri Gianicolo, oggi dall’altra parte del Tevere.’

Raggiungemmo San Paolo, percorremmo l’Ostiense, oltrepassamo la piramide di Caio Cestio, a piazza Albania girammo per salire sull’Aventino. Potei parcheggiare quasi vicino all’ingresso del parco.

Si mise sottobraccio.

‘Visto Carlo? Ieri un colle, oggi un altro. Che bella questa chiesa. Io l’ho visitata. A lungo, con la scuola, all’ultimo anno del liceo. Santa Sabina, una santa umbra. Entriamo.’

Mi prese per mano e s’avviò verso il portale.

L’interno era in penombra.

S’avvicinò all’acquasantiera, vi bagnò appena la punta delle dita e me le porse. Si fece il segno della croce e si voltò per assicurarsi che lo facessi anch’io.

Andò alla navata sinistra, entrò nella Cappella d’Elci, dove sull’altare é rappresentata la Madonna del Rosario, tra San Domenico e Santa Caterina, la santa della quale porta il nome.

S’inginocchiò, mi fece segno di andarle vicino, mi prese la mano e la strinse tra le sue, giunte in preghiera, appoggiandovi la testa.

I capelli scendevano sul lungo cuscino paonazzo del poggiamano. Era seria in volto, pensosa.

Dopo poco, un lungo profondo sospiro, mi baciò le dita della mano che stringeva, si alzò e mi guardò sorridendo dolce, con gli occhi lucidi. Mi bisbigliò:

‘Il segreto sospiro del cuore, dice Manzoni.’

Tenendoci per mano andammo verso l’uscita.

‘Si, Nina, ma si coeur soupire n’as pas ce qu’il désire.’ Mi guardò, mutando la sua espressione, allegra. Ancora due lunghi sospiri. Si strinse a me.

‘Ma, si coeur soupire souvent il est content.’

E strinse le labbra.

Entrammo nel piccolo giardino. Andammo verso il fondo, ad affacciarci sul Tevere.

‘Siamo venuti nel luogo della cultura, Nina, che ricorda San Tommaso, Sant’Anselmo, Sant’ Alessio, i loro studi, le loro ricerche.’

‘Sai Carlo, che anch’io ho fatto una ricerca oggi?’

‘E su che cosa?’

‘Ora te lo dico. A me quello che hai detto ieri non convince troppo…’

‘Che ho detto?’

‘Mi hai… presentato Richmond, come capoluogo della Virginia…’

‘Scusa, sono stato…’

‘No, caro mio, non si tratta di quello che puoi credere. A me Richmond sarebbe andato benissimo, ma ho scoperto che Richmond non solo sta in Virginia, ma anche in California, Indiana, Kentucky, Texas, Canada, Australia, Sud Africa, Nuova Zelanda… Non ti sembra che… stia in troppi posti?’

Mi misi a ridere.

‘Va bene, ma della Virginia é il capoluogo…’

‘Non girare intorno…’

‘Aspetta, ragioniamo. Ci sono tanti Richmond, d’accordo. Ma quello della Virginia é uno e uno solo, va bene? E se sta nella Virginia non può essere altrove. D’accordo?’

Non capivo se scherzava o faceva sul serio, ma il suo sguardo era adirato.

‘Dai, Nina, non fare la sciocchina.’

‘Sciocchina un cavolo. Io non ti chiedo il passato, ma sono inflessibile sul futuro. Per me non esistono deroghe, scuse, comprensioni, perdono od altro. Io sarò tua dum vivam et ultra. E lo stesso pretendo da te.’

Non scherzava, era accesa in volto, coi pomelli vermigli.

Mi misi dietro a lei, stringendola dolcemente contro il parapetto, con le mani sulle spalle.

Ne sentivo, turbato e attratto, le rotondità gagliardamente sode.

Mi abbassai al suo orecchio. Lo baciai, lo tenni un momento tra le labbra. Le parlai a voce bassissima.

‘Caterina Sereni, il mio passato é scialbo, grigio, e non ve n’é traccia nel presente. Il mio futuro ti appartiene e nessuna forza umana potrà dividermi da te.’

Si strusciò a me, possessiva. Si voltò lentamente, mi cinse con le braccia, stringendomi con forza. Mi fissò con uno sguardo intenso, penetrante.

‘Carlo Sereni, la Virginia é tutta da scoprire, dal Maine alla Florida, da Est ad Ovest. Ancora tutta da percorrere: colli ubertosi, valli lussureggianti, canyons incantevoli. E voglio che sia tu il mio solo esploratore, e dove pianterai la bandiera sarà tuo, per sempre.’

Mi attirò a lei con veemenza.

‘Capito, Carlo Sereni?’

‘Se stringi così finirò col non capire nulla…’

Si strofinò provocante.

‘Capito?’

‘Messaggio ricevuto.

Dal Maine delizioso del tuo volto, alle vette superbe del tuo seno, all’Ovest malioso, ti esplorerò voluttuosamente, ma Richmond é, e resterà, il capoluogo della Virginia, la terra promessa.’

‘Sfacciato d’un ingegnere!’

Avvicinai le labbra al suo orecchio.

‘Tra l’antre tu cosette che un cristiano

ce se farebbe scriba e fariseo,

tienghi, Nina, du’ bocce e un culiseo,

proprio dar guarnì er letto ar Gran Zurtano.’

‘Ci diamo alla crudezza veristica, ingegnere.’

‘E’ la spontaneità del Belli. Diceva le cose come le sentiva, senza falsi pudori.Sono espressioni pure, limpide, ma non incorporee.

Ch’in degn de guarnì on lett de imperator!’

‘E questo chi é?’

‘Il Porta, come vedi o a Milano o a Roma, la bellezza é sempre cantata allo stesso modo.’

‘E sei anche modesto! ti senti sultano, imperatore!’

La tenevo stretta, che quasi respirava a fatica.

‘No, Nina, sei tu che mi fai imperatore e sultano.

Dio ve n’arrenni merito, sorella,

proprio ve so’ obbrigato de la vita.

E’ sempre il Belli.’

‘Ma parlano solo di questo?’

‘E che c’é di più bello dell’amore?’

‘Io, invece, domani ho l’esame sulla poesia religiosa del duecento.’

‘E che, forse non si faceva l’amore nel duecento? Forse che non si cantavan potta e poppe?’

‘Ma Carlo, sei monotematico, oggi.’

‘Non é vero, siamo passati dalla geografia alla letteratura.’

‘Si, ma sempre con lo stesso argomento.’

‘Ma l’argomento mio sei tu, Nina.’

Mi sembrava perdermi nel profondo dei suoi occhi, dolcissimi, languidi. La sua voce era un sussurro.

‘Non stringermi troppo, Carlo, non respiro.’ l’argomento… mi schiaccia, mi turba, mi eccita… Ti ho pregato di lasciarmi il tempo di pensare, di prepararmi.’

Allentai la stretta.

Mi carezzò col suo grembo fremente.

‘Andiamo, Carlo, andiamo al cinema.’

Tornammo all’auto.

‘Quale cine?’ -Chiesi.-

‘Guida lentamente, ci sto pensando.’

‘Va bene, ma verso dove devo avviarmi?’

‘Al Colosseo?’

‘E dov’é il cinema Colosseo?’

‘No, non al cinema, ma proprio al Colosseo.’

La guardai sorpreso, senza chiedere nulla.

A piazza Albania voltai a sinistra, poi diritto. Parcheggiai,un po’ abusivamente, non distante dall’arco di Costantino, dove sostano gli autobus turistici.

Nina si attaccò al mio braccio.

‘Tu abiti lì di fronte, vero?’

‘Si, dall’altra parte, sul colle. Avvicinandoci al Colosseo vedrai meglio.’

‘A che piano?’

‘All’ultimo.’

‘Come sei riuscito ad avere un appartamento dal Comune?’

‘E’ uno di quelli destinato ai dipendenti.’

‘E’ grande?’

‘Abbastanza?’

‘E come mai lo hanno assegnato a te, che sei scapolo?’

‘In un primo tempo dovevo andarci ad abitare con la famiglia, poi loro ci hanno ripensato. Inoltre, poiché molto del mio lavoro, specie progettuale, lo svolgo a casa, necessito di uno studio piuttosto ampio.’

‘E’ tutto arredato?’

‘No. Per ora, di completo c’é solo il mio studio. In una camera c’é un divano letto, armadio… insomma una specie di camera da letto. Poi c’é qualcosa anche in cucina.

Devi venire a vederlo. Vogliamo andarci adesso?’

‘No, meglio un altro giorno.

Desidero visitarlo, ma oggi non sono dell’umore adatto. Facciamo un giro nel Colosseo, poi, per favore, riaccompagnami a casa, voglio dare un ultimo ripasso ai libri. Domani ho l’esame.’

‘Quanti ne farai in questa sessione?’

‘Ancora uno e sono in regola.’

‘Brava, così potrai riposare un po”

Annuì con la testa.

‘Si, devo riposare e pensare, e fare qualche altra cosa.’

Entrammo nell’anfiteatro, ci fermammo a guardare i ruderi che sorgono dove, si dice, vennero martirizzati i cristiani.

Le cinsi la vita.

Girammo tutt’intorno.

Fummo di nuovo all’auto.

Nina non disse una parola.

Una volta saliti, le misi una mano sulla gamba.

‘Qualcosa non va?’

Restò pensosa, guardando dinanzi a sé.

‘No, va tutto bene. Forse troppo.

In poche ore tutto é cambiato per me, e in me.

Sono confusa, stordita.

Ho sognato tanto, desiderato tanto, di essere baciata da te, carezzata, ma non immaginavo il turbamento, lo sconvolgimento, l’ebrezza che mi avrebbero pervasa.

Mi sento come ubriaca.

Mi piace la tua mano sulla gamba, ma mi sento rimescolare internamente, travolgere dai sensi, dal desiderio. Non é proprio come immaginavo. Che sia malata?’

Strinsi appena la mano, la sentii sobbalzare.

‘Malata d’amore, tesoro. Ed é meraviglioso. Io sono immensamente felice per quello che dici.’

‘Malata di te, Carlo. Basta che tu mi sfiori perché in me si scateni la brama di baciarti, di toccarti, di averti. Non é naturale.’

La carezzai piano sulla gamba.

‘E se ti sfiora un’altro?’

Scattò come una molla.

‘Ma che mi frega degli altri. Sei tu la droga. E sento che ne sarò perdutamente dipendente.’

Le baciai gli occhi, le labbra.

‘E’ la cosa più bella che tu potessi dirmi.’

‘Portami a casa, Carlo, per favore.’

Guidai così lentamente che, sorpassandomi, qualche automobilista mi guardò con un senso di compassione.

‘Eccoti a casa, Nina.’

‘Sali un momento, a salutare la mamma.’

V

Era quasi mezzogiorno, del giorno dopo.

Il telefono, quello diretto, squillò.

‘Pronto, parla Sereni.’

‘Carlo, trenta e lode.’

‘Bravissima, congratulazioni, devo darti un premio, lo meriti.’

‘Davvero? Allora vengo subito a prenderlo. Aspettami.’

Prima ancora che avessi potuto dire qualcosa aveva riattaccato.

Dalla facoltà al mio ufficio, a quell’ora, ci voleva parecchio. Doveva prendere l’autobus, che faceva un lungo giro, e poi salire al Campidoglio.

Fra l’altro, era una giornata abbastanza calda.

Il mio problema era farle trovare il premio. Cosa? Glielo avrei dato l’indomani. Intanto ci avrei pensato

Era passato poco più d’un quarto d’ora. Un breve busso alla porta, ed ecco Nina, raggiante.

Richiuse la porta, buttò i libri sulla scrivania, vi girò intorno e venne a gettarmi le braccia al collo, con un lunghissimo bacio. Un po’ ansante, con gli occhi sfavillanti, la felicità che sprizzava da ogni poro.

Quasi aggrappata a me, si staccò un po’, mi sorrise soddisfatta, con aria infantile.

‘Oh! ecco il premio che volevo. L’unico.

M’inviti a pranzo?’

‘Certo. Telefona a casa.’

‘Già fatto. Ho detto tutto.’

‘Tutto cosa?’

‘Che avevo preso trenta e lode, che venivo da te, che sarei restata a pranzo con te.!’

‘Ah!’

‘Dove mi porti, ingegnere?’

‘Ci vogliono ostriche e Champagne. Andiamo a Fiumicino, in un posticino che so io.’

‘Se adesso festeggiamo così, alla laurea cosa faremo?’

‘Un interminabile viaggio nell’Eden, nel gan’edhen, nel giardino della felicità.’

Mi strinse la mano.

‘Si, andremo sempre in quel giardino…’

‘Allora, Fiumicino?’

‘OK, ma voglio anche visitare il tuo appartamento. A proposito, potremmo viverci insieme, volendo?’

‘Certo signora Sereni, quando vorrai.

Adesso, però, andiamo a Fiumicino, al ritorno passeremo per casa… nostra.’

‘Puoi uscire subito?’

‘Il tempo di avvertire il capo.’

Gli telefonai, non ebbe nulla in contrario.

‘Così, Nina, fra tre anni la laurea, eh?’

‘Se tutto andrà bene, fra tre anni e qualche giorno. Le tesi si discutono a luglio.’

Uscimmo tenendoci per mano.

* * *

Non c’era molta gente.

In fondo al molo, il ristorante bianco, con qualche pretesa di stile arabo, era quasi tutto per noi.

‘So che vuoi vedere il mare, Nina, siedi là.’

‘Ma voglio vedere anche te.’

‘Siederò di fronte a te.’

‘Vado la rinfrescarmi un po’.’

Tornò con i capelli tirati indietro, il visetto acqua e sapone, nessuna traccia di rossetto sulle labbra.

Mi alzai, accogliendola, l’aiutai a sedersi.

Levò il volto verso di me, protese le labbra. La baciai, felice.

Il Maitre si avvicinò sorridente, ci porse le liste.

‘Prima di tutto’ -gli dissi- ‘vorremmo delle ostriche, se sono ottime, e dello Champagne.’

‘Le ostriche sono veramente super, signore, e lo Champagne può sceglierlo sulla lista dei vini.’

Aprì la lista e me la dette, si avvicinò alle mie spalle:

‘Mi permetto, signore, di suggerirle questo’ -indicò un sec millesimato- ‘é particolarmente indicato per le ostriche.’

Gli restituii la lista.

‘Per dopo, signore, comprendendo che vorrete gustare un pasto leggero, le proporrei dell’aragosta in bellavista. Sono vive e piene al punto giusto.’

Guardai Nina.

Mi sorrise con gli occhi, assentendo gioiosa.

Quando il Maitre fu andato via, si sporse verso me, attraverso la tavola.

‘Ma ti costo un patrimonio, Carlo.’

‘Signora Sereni, per donarli a lei neppure i diamanti sono costosi.’

Mi inviò un bacio con le labbra.

‘Sai, Nina, che così, senza ombra di trucco, sei più bella che mai? E’ come ti vedevo a casa tua, e di questa Nina, soprattutto, sono innamorato.’

‘Allora, niente trucco?’

‘Puoi fare come vuoi, a me piaci sempre e comunque.’

Giunsero le ostriche.

Il sommelier stappò lo Champagne, lo versò nelle coppe, attese l’approvazione, si allontanò discretamente.

Preparai la più grande delle ostriche e la porsi a Nina.

‘Prendila con la posata, ponila in bocca senza ingoiare. Fa un sorso di Champagne e dopo un istante assapora il tutto. Si dice che sia meglio d’un bacio d’amore.’

Nina seguì attentamente il mio consiglio.

‘E’ veramente delizioso, Carlo, ma tutte le ostriche del mondo non valgono un bacio. Tuo… s’intende!’

Mi raccontò dell’esame, di come avrebbe sgobbato per essere in regola con gli esami, senza nulla sottrarre, però, al tempo che voleva trascorrere con me. Di alcune idee che stava maturando. Che non era proprio necessario attendere la laurea per sposarci. E tante altre cose.

Insomma un discorso serio, concreto, come fossimo una coppia che si frequentava da lungo tempo. Ed erano solo pochi giorni.

‘Il fatto, Carlo, é che ti conosco da sempre, e da sempre sei l’uomo col quale ho deciso di passare tutta la mia vita. Il padre dei miei figli…’

‘Beh, se lo hai deciso tu!’

Sorrise maliziosa.

‘Ma io sapevo che tu… ci saresti stato! Mi guardavi in un certo modo. Mi hai allevata a cioccolato e caramelle! Solo che credevo che la cosa, in fondo, sarebbe stata piuttosto… calma. Lo conosco da tanto, mi dicevo, lo vedo sempre. Vivere con lui sarà la prosecuzione di quando viene qui, a studiare con Mario, a farmi ripetizione… Non immaginavo di rimanere sconvolta e travolta da una passione che non sapevo neppure di poter provare, e non so se sarò capace di dimostrarti.’

I frutti di bosco furono degna corona all’aragosta.

Nina non volle il caffé. Non lo presi neppure io. Restammo qualche minuto sul molo, a guardare l’acqua, Poi risalimmo in auto.

Era ancora abbastanza presto.

Andammo verso Ostia, un tratto del lungomare, poi la via dei Pescatori, lungo il canale, il piazzale della Villa di Plinio, la pineta di Castelfusano. La strada, stretta, correva, tortuosa, tra gli alberi. Ogni tanto un viottolo s’inoltrava negli alti cespugli.

‘E’ bello qui, Carlo.’

‘Vuoi fermarti ?’

‘Si, voglio baciarti.’

Mi immisi in una delle stradicciole laterali, fermai l’auto in uno slargo.

Nina scese, trovò un breve tappeto d’erba e d’aghi di pino, sedette per terra.

‘Aspetta, piccola, ho un plaid.’

Lo presi e lo distesi a fianco a lei. Da dietro, la sollevai per le ascelle e la deposi sulla piccola coperta. Le fui accanto.

Venne a sedersi sulle mie gambe, mi prese la testa tra le mani e cominciò a baciarmi il viso, dolcemente, delicatamente, lambendomi gli occhi, le orecchie, le labbra.

‘Ti amo, Carlo, non sapevo che si potesse amare così…’

La baciai perdutamente, scesi sulla gola, nella scollatura della blusetta, sbottonai cautamente qualche bottone, spostai, piano il reggiseno, le mie labbra si posarono sul capezzolo sodo, lo strinsero piano, la lingua lo lambì, e succhiai, sempre con maggiore intensità.

Lei rovesciata la testa indietro, si lasciò scivolare sul plaid.

Le labbra insistevano frementi, la mano s’insinuò sotto la gonna, superò le mutandine, carezzò dolcemente la morbidezza che custodiva tra le gambe. Un piccolo movimento del bacino, un impercettibile dischiudersi di quel meraviglioso tesoro, mi dissero del suo piacere. Il respiro sempre più affannoso, il sussultare del ventre, il disserrarsi del cespuglio, il fremere del piccolo bocciolo nascosto tra le pieghe voluttuose, il roco mormorio che usciva dalle sue labbra, il grido soffocato, un sobbalzo, dissero il culmine della sua eccitazione.

Mi carezzò il volto, lo attrasse a sé, lo carezzò.

‘Carlo, non capisco niente. E’ meraviglioso, bellissimo, come non credevo potesse essere. Grazie, Carlo, grazie. Non hai approfittato della mia debolezza, del mio abbandono. Non te ne pentirai. Grazie.’

Rideva tra le lacrime.

Si aggiustò il reggiseno, riabbottonò la camicetta. Mi guardò con una luce nuova negli occhi.

‘Dimmi, Carletto, é difficile per te dominare i sensi?’

‘Non sono i sensi che devo dominare, Nina, ma reprimere l’amore per te.

I sensi rispondono ad esigenze che possono soddisfarsi in tanti modi, come la sete, la fame. L’amore, invece, pretende una ed una sola sorgente nella quale poter spegnere la fiamma che lo avvampa. Non so se mi sono spiegato bene.’

‘Ti comprendo perfettamente, tesoro.

Il brivido di piacere che hai saputo donarmi, ha reso ancor più forte il desiderio di te. Ed ho capito che ogni istante che non trascorriamo insieme, amandoci, più ritornar non puote.’

Si alzò, rassettò la gonna.

‘Andiamo a vedere casa tua.’

Non parlammo molto, fino al Fagutale.

L’edificio era stato completamente restaurato.

Entrammo nell’anticamera.

‘Ti faccio strada, Nina.’

Mi guardò sorniona.

‘Il bagno, per favore.’

Vieni.

‘Questo é il bagno che uso io, l’altro non é arredato. Gli asciugamani puliti sono nell’ armadietto. Ti aspetto nello studio, uscendo, a destra, in fondo al corridoio.’

Riapparve presto. Si era rifatta la coda ai capelli, il viso era più disteso, ora, più sereno.

‘Questo é il tuo studio? Bello, hai tante cose. Anche il computer…’

‘E’ il minimo, Nina. E’ un tipo professionale per disegni e calcoli.’

Le feci visitare il resto dell’appartamento, per ultimo la camera dove dormivo.

‘E’ molto ampio, Carlo, ci sono camere completamente vuote. C’é posto anche per i bambini che avremo.’

Si mise sotto braccio.

Guardò attentamente la mia camera da letto, si avvicinò al grande balcone d’angolo.

‘Io vorrei cominciare ad arredare questa camera, tu potresti, intanto, utilizzarne una più piccola.

E vorrei sceglire l’arredamento insieme a te.

Sai che ho molti risparmi da parte?’

‘E che ne vorresti fare?’

‘Comprare l’arredamento per questa camera.’

‘Facciamo così, Nina. Scegliamolo insieme, io l’acquisto e se avrò bisogno del tuo aiuto te lo dirò.’

‘Ma io, Carlo, volevo acquistare tutto a nome di tutti e due, e sarebbe stato un mio regalo.’

‘Allora facciamo così, le fatture le facciamo intestare a Caterina e Carlo Sereni, e il regalo te lo faccio io.’

‘Non voglio che questo sia un tema di discussione tra noi, Carlo. Arrediamo la camera, la casa, e regoliamoci di volta in volta.

Io qui ci vedrei un bel letto d’ottone, e mobili d’un certo tipo…’

‘Idee chiare e precise, eh?’

‘Oh, si, tesoro, ed ho i cataloghi di tutto. Questa sera, a casa, te li farò vedere. E’ bello, qui. Ci staremo bene.’

Mi accorgevo che, come sempre, Nina aveva già deciso tutto.

‘Carlo, andiamo in via Barberini, c’é un negozio di ottima biancheria, coperte, e tante altre cose.’

‘Adesso?’

‘Perché sei occupato?’

‘No, Caterina, ma vedere la biancheria prima dei mobili?’

‘Ma ti ho detto, Carlo, che per i mobili é già tutto posto. Basta farli venire dalla fabbrica. Ci vorrà al massimo una settimana. Ah, dimenticavo, ho già idea sulle luci, e anche sui mobili della cucina. Per ora credo che basti camera da letto, studio e cucina. Forse é meglio arredare anche l’altro bagno.

Allora, Carlo, andiamo in via Barberini?’

Si avviò alla porta, prima di uscire s’alzò sulla punta dei piedi e mi baciò.

Nel negozio scelto da lei, forse uno dei più belli di Roma, sapeva muoversi benissimo. Si fece mostrare degli articoli che indicava con esattezza. Tipo, colore, misure, quantità.

Si voltò verso di me.

‘Carlo, quando possono portare il tutto?’

‘Dove?’

‘A casa nostra, no?’

‘Forse é meglio di sabato, al mattino.’

Si volse al capo commesso.

‘Allora sabato, tra le 11 e le 12. Ci saremo.’

Si fermò di colpo.

‘Per favore, avete una camicia da notte in bisso? Mi piacerebbe una specie di tunica, lunga, senza troppi ricami.’

La guardai sempre più sorpreso, ma non dissi parola.

Avevano quello che lei desiderava.

‘Ecco, prendo questa, é una specie di tarcisiana, semplice ma molto bella. Il tessuto é ottimo.’

‘Posso pagare, Nina?’

‘Veramente io…’

‘Posso pagare, Nina?’

‘Si, grazie, Carlo.’

Il conto non era modesto, ma le mie finanze erano abbastanza floride.

Uscimmo.

‘Se andiamo a casa mia ti faccio vedere le fotografie dei mobili. Tu, però, non dire nulla di quello che stiamo facendo. Né ai miei genitori né a Mario. Diremo che guardiamo le foto per curiosità.’

La signora Ada ci aprì con un sorriso che non finiva mai.

Era felice per il voto riportato dalla figlia, lieta di rivedermi. Ci chiese dove fossimo andati a pranzo e cosa avessimo mangiato. A sentire che s’era cominciato con ostriche e Champagne, congiunse le mani e alzò gli occhi al cielo.

‘Ma Carlo, se l’abitui così finirai sul lastrico.’

Assunsi un’aria volutamente distaccata, cinica.

‘Ma essere stati una volta a pranzo insieme non costituisce base per un’abitudine, signora. Chissà se e quando ci ricapiterà.’

La signora Ada mi guardò con la bocca semiaperta. Deglutì, guardò la figlia. Si sforzò di sorridere.

‘Perché, Carlo, non ci sarà una seconda volta?’

Sempre serio, stiff direbbero gli Inglesi, la guardai con sussiego.

‘Certamente no, signora… almeno fino a… domani’

E giù a ridere.

La signora Ada riacquistò un po’ del suo colorito.

‘L’avevo capito che scherzavi, Carlo. Sei sempre il solito mattacchione.’

Si rivolse alla figlia che scuoteva la testa.

‘Nina, offri qualche cosa a Carlo, senti quello che vuole.’

‘Mamma, Carlo vuole sempre la stessa cosa… lo dovresti aver capito anche tu.’

Mi guardò con aria canzonatoria.

‘Vero Carlo che la vuoi?’

Feci di sì con la testa.

La mamma ci guardava incuriosita, sorpresa.

‘E io te la do’.’

Si alzò, e poco dopo rientrò con un vassoio sul quale v’erano dei bicchieri e una bottiglia d’aranciata.

La signora Ada abbozzò un sorriso.

‘Non sapevo che ti piacesse tanto, Carlo. A me non l’hai mai chiesta in tutti questi anni.’

Nina fu presa da una crisi di tosse. O forse di ilarità. Posò il vassoio sul tavolino, e si asciugò gli occhi.

Ada riempì un bicchiere e lo porse a Carlo.

‘Ne vuoi Nina?’

‘No, grazie, mamma. Ne farò un sorso da Carlo. Adesso vado a prendere delle foto da fargli vedere.’

Riapparve con un grosso catalogo.

‘Vieni a sedere sul divano, Carlo. Mamma, se hai da fare non preoccuparti per noi.’

‘Eh, sì’ -disse la signora Ada- ‘ho tante cose che mi aspettano. Ci vediamo dopo, Carlo.’

Si alzò e uscì dalla stanza.

Sedevamo vicini, sentivo il caldo delle sue cosce. Aprì il catalogo.

‘Ora ti faccio vedere quello che mi piace.’

In effetti erano mobili molto belli, semplici ed eleganti, con un letto di ottone disegnato con molto gusto e perfettamente inserito nel tutto.

‘Questo, però, lo pago io, Carlo. Ho tanti soldini da parte, e non lo sa nessuno. Nonno mi passa una generosa paghetta, da sempre, e ogni tanto mi regala parte degli interessi sui suoi titoli.’

‘Allora, ripeto quello che ti ho già detto. Come sai, oltre al lavoro al Comune ho una buona attività professionale. Mi reputano abbastanza bravo per la soluzione di certi problemi che spesso si presentano nell’edilizia. E i compensi generalmente sono liberali. Quando sarà necessario il tuo intervento te lo dirò.

Caterina Sereni, ti prego di non tornare più su questo tema. Me lo prometti?’

Mi baciò sulla guancia.

‘Allora, Carletto, che ne dici?’

‘E’ tutto molto bello.’

Girai qualche pagina. Vi era la foto di una splendida cucina.

‘Questa, Nina, andrebbe bene da noi. Il vano é sufficientemente spazioso, e a me piacerebbe un tipo del genere. Quel tavolo é l’ideale per una cenetta in due, al lume di candela.’

Mi baciò ancora.

‘E c’é anche il posto per un seggiolone!’

La strinsi a me.

‘Adesso prendo nota degli articoli e domani telefono in fabbrica.’

‘Non c’é bisogno, Carlo, a Roma c’é il rappresentante, che é anche un loro designer.’

‘Chi é?’

‘Marco Verni, architetto.’

‘Marco Verni? Ma é stato compagno mio e di Mario.’

‘Si, ma Mario non deve sapere nulla di quello che facciamo.’

‘Bene, ci parlo io. E affiderò a lui il compito di provvedere alle luci. E gli dirò che mi piacerebbe anche un bel soggiorno. Do you agree honey?’

‘Yes, I do, darling.’

E questa volta il bacio fu sulle labbra.

‘Anzi, sai che faccio, Nina, gli telefono adesso, a casa. E’ più confidenziale, siamo vecchi amici.’

Marco fu lieto di sentirmi. Disse che era tanto che non ci si vedeva. Quando seppe cosa volevo acquistare mi assicurò che avevo fatto la scelta migliore. Anche il soggiorno sarebbe stato intonato al resto. Semplice, moderno, accogliente. Avrebbe fatto caricare il tutto sul TIR che partiva dalla fabbrica l’indomani sera, e due giorni dopo avrebbero potuto montare tutto a casa. Accettò con piacere di interessarsi delle luci. Mi avrebbe fatto fare uno sconto del cinque per cento.

Quando riferii a Nina il contenuto della conversazione, non stava in sé per la gioia.

‘Fra pochi giorni, quindi, sarà tutto a posto.

Sarà una casa bellissima, non mancherà nulla.’

‘Ci mancherai tu, bimba.’

Strinse le labbra, e sembrò percorsa da un brivido.

Dopo qualche settimana, eravamo a metà luglio e il caldo si faceva sentire, tutto era in ordine. Alcune stanze arredate: ingresso, camera da letto, studio, salotto soggiorno, cucina, bagni. Luci sistemate, pavimenti lucidati a specchio, tende montate.

Aveva pensato a tutto Marco.

Una volta piombò a casa che c’era anche Nina, tutta indaffarata. La guardò, sorpreso.

‘Ma tu sei la sorella di Mario!’

Lo pregammo di essere discreto perché era un segreto di Nina e mio.

Rispose che… non sapeva di cosa parlavamo.

Il mio conto in banca era diventato anemico. Ma i clienti avrebbero presto pensato a rinsanguarlo.

‘Andiamo al mare, domani, Carlo?’

‘Ma domani é venerdì.’

‘Appunto, non ci sarà il solito affollamento festivo.’

‘Va bene, telefono in ufficio per avvertirli.’

‘Carlo, ricordati di lunedì. Santa Marinella. A casa mia. Ci saranno anche i tuoi genitori. Papà annunzierà il nostro fidanzamento.’

Assunsi un tono seccato.

‘Ma Nina, ci frequentiamo solo da un mese…’

Rispose con lo stesso piglio.

‘Ma Carlo, lo sappiamo da una vita…’

In effetti, accompagnato dai miei, avevo già acquistato l’anello e speravo che le piacesse.

‘Nina, te lo immagini Carlo Sereni che si fidanza ufficialmente con una ragazzina che non ha ancora venti anni, alla quale puliva il nasino quand’era piccina, e… qualche volta le tirava sù le mutandine?’

‘No, non lo immagino, voglio proprio vedere che faccia farà. E sono curiosa di sapere se me le tirerà sù ancora! Allora, domani al mare?’

‘Al mare!’

‘A che ora devo venire a prenderti?’

‘Ti aspetto alle nove.

Ora, per favore, riaccompagnami a casa.’

* * *

La giornata era splendida, non molto calda. Un vento leggero soffiava dal mare.

Nina indossava gonna e camicetta, e portava una piccola sacca colorata.

‘Il costume l’hai addosso?’

‘No, perché mi pizzica, sono un po’ allergica a certe fibre. E tu?’

‘Lo stesso.’

Imbocammo presto la strada per il mare.

Non era molto trafficata.

Entrammo nel parcheggio riservato ai clienti, consegnammo le chiavi al custode, con la preghiera di non farla stare al sole. Prendemmo le nostre sacche.

Allo sportello chiedemmo una cabina in muratura, con servizi, un ombrellone, possibilmente presso la riva, e due lettini per prendere il sole.

Il bagnino ci accompagnò alla cabina, l’aprì, mostrò che tutto era pulito e in ordine. Ci chiese se volessimo dei teli di spugna, per i lettini e per la doccia. Li avremmo trovati sotto l’ombrellone.

La mancia lo fece sorridere soddisfatto e ringraziare.

Ci consegnò la chiave della cabina e se ne andò.

‘Vai prima tu, Nina?’

‘Entra pure, non ho difetti da nascondere.

Anzi, é bene che te ne accerti.’

‘Era per farti sentire a tuo agio.’

‘Lo sono sempre con te.’

Era inutile seguitare, sarebbe stato un colloquio a perdere, come dicevo io.

Entrammo, lasciai la porta aperta.

Nina la richiuse.

Poggiammo le sacche sul tavolino. Sedetti sulla panchetta di legno che v’era accanto.

Nina aprì la sua sacca, ne trasse il costume, slip e reggiseno, a fasce iridescenti su fondo quasi arancione.

Lo mise sull’attaccapanni.

Immaginavo che sarebbe andata a cambiarsi nell’angolo dove, dietro a un muretto ricoperto internamente di piastrelle maiolicate, v’era la doccia.

Andò a guardarsi nello specchio, sciolse i lunghi capelli, lasciandoli cadere sulle spalle scuotendo la testa.

Con la massima naturalezza, disinvolta e spontanea, sbottonò la blusa, la tolse e la poggiò sul tavolo. Aprì la chiusura della gonna e la fece cadere a terra. Restò in reggiseno e con un piccolo triangolino semitrasparente, che s’ombrava dove le gambe si congiungevano.

La guardai estasiato, deglutendo a fatica.

Prese gonna e blusa e andò ad appenderle all’attaccapanni.

Slacciò il reggipetto, lo gettò sul tavolo.

Era la prima volta che la vedevo così. Una statua perfetta, con il seno aggraziato, sodo, armonico, seducente.

Sentii le gambe tremarmi, la gola secca, riarsa.

Lasciò cadere a terra le minuscole mutandine, si chinò a raccoglierle e le mise vicino al reggiseno.

Tornò allo specchio. Si alzò in punta di piedi per guardarsi in un occhio.

La potevo ammirare in tutta la sua prepotente, provocante, splendida bellezza.

Ventre piatto, levigato, fianchi magnifici, linea superba, affascinanti natiche più deliziose che nella Venere callipigia.

Prese dalla sua sacca un fazzolettino di carta.

Si voltò verso di me, che l’ammiravo incantato, ammaliato, estasiato, rapito.

‘Carlo, mi sembra avere qualcosa nell’occhio, forse un moscerino o solo un granello di sabbia.’

Mi tese il fazzolettino.

Mi alzai a fatica, avevo la sensazione di camminare sulla bambagia, mi avvicinai a lei, guardai bene nell’occhio. Sentii i suoi capezzoli premere sul mio petto. Passai piano l’angolo del fazzolettino lungo il bordo della palpebra.

‘Va meglio, piccola?’

Batté le palpebre.

‘Si, grazie.’

Mi baciò sulla guancia.

Prese lo slip e l’indossò.

Mise il reggiseno.

‘Carlo, per favore, mi aiuti ad allacciarlo?’

Fui alle sue spalle, con dita incerte riuscii ad annodare i due lacci.

L’attrassi ponendole le mani sul petto.

Si strinse a me muovendo procace il suo sederino d’oro. Alzò la testa per farsi baciare sulla bocca, dolcemente.

‘Devi cambiarti, Carlo. Ti precedo sotto l’ombrellone.’

Uscì dalla cabina.

* * *

Era sdraiata sul telo azzurro chiaro, che aveva posto sul lettino. Aveva gli occhiali da sole, i capelli raccolti sotto la nuca.

Mi salutò con la mano.

‘Siedi vicino a me.’

Si spostò un po’, e quando sedetti si voltò su un fianco. Sentivo le sue gambe, il suo ventre.

Mi curvai su lei.

‘Sei bellissima Nina, non sapevo quanto sei bella, perfetta…’

‘Visto che non avevo nulla da nascondere?’

‘Si, amore, sei incantevole.’

‘Carlo Sereni, hai visto com’é semplice sentirsi veramente una coppia? Io mi sono sentita perfettamente a mio agio, ho visto come mi guardavi, e ne ho gioito. Mi guarderai sempre cosi?’

‘E non mi limiterò ad ammirarti…’

‘Lo spero bene…

Carlo, immergiamoci insieme, vicini, tuffiamoci e riemergiamo, torniamo sulla sabbia…’

Si alzò, tolse gli occhiali, legò i capelli, mi dette la mano, e andammo verso l’acqua.

‘Quando usciremo dal mare, avrai lasciato in esso tutto il tuo passato, Carlo. Dovrà essere come se tu rinascessi in quel momento…’

‘Anche tu lascerai nell’acqua il passato…’

‘Io non ne ho, io nasco effettivamente oggi, dalla cresta dell’onda.’

‘Come Venere.’

‘La tua Venere, amore, nel giorno a lei dedicato, oggi, venerdì, consacrato all’amore.’

Quando uscimmo, così, bagnati, tornammo ai nostri lettini. Nina si mise accanto a me, tra le mie braccia. Le baciavo piano i capelli salsi. La sua testolina poggiava sul mio braccio. Si assopì dolcemente.

Rimanemmo così, fin quando non si destò, come uscisse da un sogno. Si voltò.

‘Che bello, Carlo, ho dormito tra le tue braccia. Allora é vero che sono la tua bambina.’

Gli occhi ridenti, il volto luminoso.

‘Andiamo via, Carlo.’

‘Così presto?’

‘Si, andiamo via. Voglio fare la doccia, lavarmi i capelli.’

Prendemmo le nostre cose, i teli, e tornammo in cabina.

‘Vuoi fare prima tu la doccia, Carlo?’

‘No, Ninetta, va pure, poi, mentre ti asciugherai i capelli sarà il mio turno.’

Si liberò del costume, lo sciacquò nel lavandino, lo strizzò appena e lo mise in un sacchetto di plastica che ripose nella sacca da dove prese due flaconcini. Uno lo poggiò sul ripiano della doccia, l’altro lo mise sul tavolino.

Comparve anche un minuscolo asciugacapelli.

Girava nuda, scalza, come se io non esistessi.

Sembrò leggermi nel pensiero.

‘Per me, Carletto, é perfettamente naturale comportarmi così. Tu per me sei sempre esistito, sei sempre stato con me. Non é immodestia o impudicizia, la mia, é spontaneità, abitudine a vivere con te, da sempre, per sempre.’

Andò sotto la doccia, ne regolò il getto.

Prese lo shampoo, ne versò nel cavo della mano, lo passò nei capelli.

Un po’ di schiuma le entrò negli occhi. Annaspava con la mano cercando di rimettere il flacone sulla mensola.

Mi avvicinai, e presi la bottiglietta dalla sua mano.

‘Carletto, aiutami a lavarmi i capelli…’

Immersi le dita nella schiuma e strofinai piano.

Ero anch’io sotto la doccia, alle sue spalle.

La sentivo vicinissima.

‘Sei anche un bravo sciampista, Carlo. E’ delizioso sentirmi carezzare dalla tue dita, così, con gli occhi chiusi.’

Le sue natiche sfioravano il mio slip che non riusciva a contenere la mia eccitazione.

‘Grazie, Carlo, adesso posso fare da sola.’

Arretrai un po’ restando a guardarla.

Presi un lenzuolino e rimasi in attesa che uscisse dalla doccia.

Mi venne incontro sorridendo.

‘Asciugami, amore, piano, come sai fare tu.’

Le mie mani tremavano, mi sentivo confuso, impappinato. Si avvolse nel telo e andò verso il tavolo, dov’era il phon. La precedetti, infilai la spina nella presa e glielo porsi.

‘Io vado a fare la doccia, Nina.’

Non rispose.

Feci scorrere l’acqua, fredda, piano sul corpo. Era un balsamo. La confusione che s’era impadronita di me andava scomparendo, come il dissiparsi dei fumi di un ubriacatura. Aprii gli occhi.

Nina, avvolta nel suo telo, mi guardava reggendo il mio asciugamano.

Chiusi l’acqua, tesi la mano per prenderlo.

Scosse negativamente la testa.

‘Vieni, Carletto, ci penso io.’

La sua mano, lieve, curiosa e titubante, scivolava sul mio corpo, sostava, s’insinuava, in attenta ricognizione, a conoscere e riconoscere, ad accertare, studiare.

Il suo volto, serio, attento, manifestava interesse, non curiosità, le sopracciglia che a volte s’arcuarono rivelarono qualche sorpresa.

Mi consegnò l’asciugamano, mi baciò sulla guancia, andò a finire di prepararsi.

‘Carlo, avranno delle ostriche, qui?’

‘Non credo, ma potremmo vedere in qualche altra parte.’

‘Vorrei gustare qualche ostrica e una sola coppa di Champagne.’

Andammo all’auto.

Il custode era appisolato, all’ombra. Aveva messo l’auto sotto una tettoia di canne ricoperte da rami verdi e aveva lasciato aperti i finestrini.

Era l’ora più calda.

Gli detti ancora una mancia e gli chiesi dove poter trovare delle ostriche.

M’indicò un locale poco distante.

Salimmo in macchina, accendemmo il climatizzatore, ci avviamo verso il luogo indicatoci.

Era una trattoriola dall’aspetto molto modesto.

Rallentai ma non fermai.

Nina capì il mio tentennamento.

‘Non importa, Carlo, sarà per un’altra volta.’

‘Importa a me, mia deliziosa imperatrice, mia sultana. Vedrai che saprò contentarti.’

Ripresi la strada per Roma, quasi deserta. Noi stavamo bene, l’aria fresca non ci faceva soffrire il caldo.

‘Dove andiamo, imperatore?’

‘Wait and see!’

E seguitai a guidare.

Nina si strinse nelle spalle.

Mi guardò fisso quando uscii dalla strada principale, una stretta curva e ancora un tratto asfaltato, verso un edificio che comparve quasi d’incanto.

L’ingresso era riparato da un’artistica tettoia sagomata con gusto.

Ci venne incontro un addetto che prese la chiave dell’automobile e mi dette un contrassegno.

L’ingresso era vasto, luminoso, accogliente e, quel che più conta, deliziosamente fresco.

Mi avvicinai alla reception, e chiesi se così vestiti, informalmente, da mare, potevamo accedere al ristorante.

‘Certamente, signore.Il ristorante é da quella parte.’

E indicò, con la mano, dove dovevamo dirigerci.

Fummo accolti con molta gentilezza, dissi che non avevo prenotato.

‘Non ha importanza, signore. L’accompagno al tavolo. Va bene con vista sul green?’

‘Si grazie.’

‘Le mando subito il Maitre.’

Il campo di golf era molto bello, ben tenuto. Malgrado la stagione, l’erba conservava il colore dello smeraldo.

Dissi al Maitre che desideravamo ostriche e Champagne e ci affidavamo a lui.

‘E per dopo, signore?’

Guardai Nina.

Con un sorriso disarmante, disse:

‘Gelato di crema e cioccolato.’

L’uomo seppe nascondere il suo stupore, e si allontanò.

Le ostriche e lo Champagne furono all’altezza delle più esigenti aspettative.

Nina, prima di assaporare golosamente il suo gelato, disse al Maitre di farne portare uno anche a me, di fragola e limone.

‘Prenderei un caffé, Carlo.’

Ne ordinai due.

All’uscita si mise al mio braccio.

Detti la contromarca al ragazzo e dopo poco giunse l’auto, fresca, lucida.

Nina respirò profondamente.

‘Andiamo a casa, Carletto?’

Tornai sull’autostrada, alla volta dell’EUR.

Stavo per imboccare la via dove lei abitava.

‘Dove vai, Carletto?’

‘A casa tua.’

‘Ma io intendo a casa nostra.’

Proseguii, Terme di Caracalla, obelisco di Axum Colosseo, via Salvi, San Pietro in vincoli.

La casa era in penombra, il condizionamento dell’aria la rendeva un’oasi riposante.

‘Carlo, ci dev’essere dell’aranciata in frigo. Perché non ne versi in un paio di bicchieri, mentre io mi rinfresco?’

Presi dal frigo una lattina di aranciata, l’aprii. Misi due tovagliolini di carta sul tavolo della cucina, vi poggiai sopra due bicchieri, li riempii con la bibita.

Voltandomi verso il corridoio, la chiamai.

‘Nina, l’aranciata é pronta.’

‘Portala qui, per favore.’

‘Qui, dove?’

‘In camera.’

Quando fui sulla porta della camera da letto, quasi mi caddero i bicchieri dalle mani.

Le luci sui comodini erano accese, la lampada a piantana, a fianco della toletta, era pure accesa e ammantata con un evanescente foulard rosa.

Vicino alla toletta, in piedi, Nina indossava la sua candida tunica di bisso. I capelli neri le coprivano le spalle e il petto. Il volto raggiante, come avvolto in un nimbo, una splendida nuvola luminosa.

‘Carlo…’

Non seppe dire altro.

Lasciai i bicchieri sul basso tavolino e andai da lei.

Mi tese le braccia, tremante, e gli occhi erano lucidi e radiosi.

Si rannicchiò in me, mi poggiò la testa sul petto. L’alzò lentamente. Mi guardò senza parlare, annuendo.

‘Torna tra un minuto, Carlo.’

Ero attonito.

Non sapevo se avessi compreso bene, cosa dovessi fare. Decisi di mettermi in pigiama.

La voce di Nina mi invitò a tornare.

Rientrai nella camera.

Nina era nel letto. Il lenzuolo sotto al mento, tenuto stretto dalle sue manine, bianche per lo sforzo, e mi guardava con i suoi occhioni splendidi spalancati, le labbra lievemente contratte. Volse appena il capo indicandomi il cuscino vuoto, accanto a lei.

Mi misi al suo fianco, le presi le mani, disserrai piano le sue piccole dita, feci scendere lentamente il lenzuolo.

Era nuda, sdraiata sulla tunica di bisso. Vidi la sua gola muoversi, deglutire, le sue labbra che volevano dire qualcosa, ma si limitavano a palpitare.

Le baciai la bocca, il collo, il seno, il serico prato del pube. Scesi lentamente, cautamente, attendendo di essere accolto. Percepii il disserarsi cauto delle sue gambe. Seguitai a baciarla, a lungo. La lingua la cercò avidamente, indugiò sul suo piccolo bocciolo germogliante e fremente. Sentii muoversi i suoi fianchi. Le mie dita salirono a stringerle dolcemente i capezzoli rigidi, protesi.

La lingua scese sempre più verso la porta del paradiso, vi girò intorno, la esplorò, ne sentì il pulsare, il sussultare, il fremere di labbra affamate.

Nina sollevò lentamente le gambe, poggiandosi sui calcagni, le divaricò, il suo ventre sembrava impazzito, squassato da forze sopranaturali.

Con gli occhi chiusi, le nari frementi, le labbra semiaperte, annuiva…

M’ero liberato da ogni inutile impaccio.

Mi posi su di lei, tra le sue gambe.

Poggiai il glande dove la lingua aveva assaporato il suo desiderio.

Spinsi piano, ancora un po’…

La sentii inarcarsi, un piccolo gemito dalla sua bocca, mentre teneva un labbro tra le perle dei sui piccoli denti.

Ancora una lieve spinta…

Intrecciò le gambe dietro la mia schiena,e accolse, golosa, ingorda, meravigliosa.

Come a placare una fame antica, mi cercò avida, fino a quando non giacemmo entrambi sfiniti, sudati, voluttuosamente affranti.

Si voltò verso di me, su un fianco, mise la sua gamba sul mio pube, con la mano, cercò il mio sesso, lo strinse. Si avvicinò all’orecchio. Con voce roca, bassa, passionale, sussurrò:

‘Richmond, sei il capoluogo dell’universo! Te lo dice Caterina Sereni.’

La carezzai tra le gambe.

‘Virginia, ora sei più Florida che mai.’

Nina strinse ancor più le piccole dita.

‘Vado a prenderti l’aranciata che hai lasciato sul tavolino.’

Sedette sul letto, si alzò ma si risedette subito.

‘O Dio, mi gira la testa.’

‘Vado io, amore.’

‘No, voglio servire il mio sultano.’

Un po’ barcollando, nuda, andò a prendere i due bicchieri.

Ne dette uno a me e poggiò l’altro sul comodino.

Si guardò nello specchio.

‘Che faccia, che ho, come posso piacerti Carlo?’

‘Vieni qui e te lo dico.’

‘No, ne morirei. Ma… fammi morire! E tornò a letto.’

Era quasi sera quando ci ricordammo che, purtroppo, doveva tornare a casa.

Si alzò di nuovo piegò accuratamente la tunica di bisso, non più immacolata, andò a riporla nel primo cassetto del comò.

‘La conserverò per tutta la vita, così. E quando andrò via per sempre, voglio che me la facciano indossare.’

Tornò ad essere la piccola Nina birichina.

Prese il telefono, formò un numero.

‘Pronto, mamma. Qui é la signora Sereni che parla… Scusa, ero distratta, …lo so che il mio cognome é Stefani, signorina Stefani, lo so…

Stiamo per tornare a casa.

Dove sono?

In un posto delizioso, più del paradiso terrestre. Ciao, ci vediamo presto.’

Mi guardò con un sorriso furbesco.

‘Dove preferisci fare la doccia, Caterina Sereni?’

‘Non voglio fare la doccia, desidero conservare il tuo profumo su me, in me, il più a lungo possibile, almeno fino… alla prossima volta.’

La baciai sul collo. Canticchiai le parole d’una vecchia canzone.

‘Bimba, tu sei più bella del sole. Più del sole dai calor…’

Sussurrò:

‘Love is a many splendour thing…, si, tesoro é una cosa meravigliosa, una cosa, non soltanto sentimento astratto.’

‘Bimba… sono stato imprudente, ma tutto é stato così improvviso, mi ha colto di sorpresa… una splendida sorpresa. Avrei dovuto usare delle precauzioni…’

Mi interruppe con decisione.

‘Ma manco per sogno, é stato come doveva essere… anzi più bello. E non é accaduto all’improvviso, amore, casualmente.

Lo sapevamo da sempre e lo abbiamo preparato con l’entusiasmo, la passione e la cura che l’irripetibile evento meritava.

Potrà e sarà anche più bello, in seguito, ma mai come oggi.

Ho atteso a lungo che dinanzi a me si schiudesse la strada che sognavo percorrere. E i primi passi, pur se entusiasti, sono stati guardinghi. Ma ho compreso che era la mia, la nostra strada. Tra noi non dovevano esserci barriere, di nessun genere. Eravamo un uomo e una donna. Ho voluto sperimentare momenti di intima confidenza, avere la conferma di quanto e come, pur nel tuo amore appassionato, tu avresti saputo esaudire i miei desideri, saper attendere che fossi pronta.

Un’attenta preparazione, la mia.

Amore profondo, brama indescrivibile, ma coscienza della realtà.

Da alcuni giorni prendo la pillola, e se non funzionerà non m’importa, vorrei dire che sarebbe una cosa bellissima. Ci pensi, Carlo, un bambino nostro, tuo e mio.’

Era ancora nuda, mi volgeva la schiena. Le carezzai il pancino, sorridendo. Che cosa splendida, un bambino mio nel pancino di Nina.

Cercai di tornare in me.

‘Ci sarà, Ninetta, ci sarà…’

‘Devo tornare a casa, Carlo, mi aspettano.’

VII

Il tempo trascorreva velocemente.

Troppo in fretta per un verso, e sembrava fermo sotto altri aspetti.

Dopo il meraviglioso giorno del bisso, come lo chiamavamo, ne erano seguiti tanti, e altri ne attendevamo, uno diverso dall’altro, ognuno più bello del precedente, desiderato con la stessa ansia, o maggiore.

Con mille sotterfugi riuscivamo ad avere, di quando in quando, una notte tutta per noi.

Nina dormiva rannicchiata tra le mie braccia, o riposava con la sua testa sul mio petto, come quella prima volta.

Si alzava per prima, al mattino, preparava la colazione e veniva a consumarla, a letto, insieme a me. Poi metteva il vassoio sul comodino e mi tendeva le braccia.

‘Attendo il buongiorno, Rich!’

‘Ma te l’ho dato all’alba.’

‘Si, ma adesso é mattino!’

Non lasciava mai l’anello che le avevo dato a santa Marinella, salvo casi eccezionali, e non avrebbe tolto mai neppure la collana che le avevo regalato per il suo compleanno, ma… in certe occasioni era d’impiccio.

Nessuna limitazione al nostro amore.

A leto no ghe vol respeto.

Ma noi non l’avevamo in nessun luogo!

Il rito sulla riva del mare, l’acquasantiera, l’inginocchiatoio, non influivano, nel modo più assoluto, sul modo di intendere e vivere l’amore.

La sua iniziativa e ispirazione erotica, estrosa e a volte bizzarra, senza limiti, la totale assenza di inibizioni e di complessi, la rendevano disinvolta, fino a farla sembrare, a volte, quasi spregiudicata, a chi non la conosceva.

Era la donna del mio cuore, una compagna deliziosa, un’amante voluttuosa.

Qualche tempo dopo il giorno del bisso, mentre con la testa sul mio petto godeva l’interludio, come diceva lei, mi espose il suo pensiero intorno alla morale.

‘La morale’ -disse- ‘é il complesso dei precetti che regolano il comportamento, la condotta, in base alla coscienza di ciò che é bene e di ciò che é male. E’un principio che condivido pienamente. Ne deriva, quindi, che in una coppia che si ama e si desidera, é bene ciò che entrambi vogliono, ed é male quello che non vogliono.’

Mi baciò piano sul petto, mi carezzò tra le gambe.

‘Per questo, mi sembrano troppo limitative le sutra del kama, le decrizioni di Miller, o cose del genere.

Io voglio averti, sentirti, possederti, sempre, in continuazione, in qualsiasi modo. E non v’é loco, in me, che non desideri d’esser posseduto da te.

E’ desiderio, passione, brama, che nulla hanno a vedere con momenti di fregola, con periodi di foia.’

Non v’era, infatti, parte di me che non conoscesse, angolo di lei che non avessi esplorato e non tornassi a farlo.

Chissà se e quando sarei uscito da quello stato di beatitudine, di inesauribile e infinito desiderio di lei.

* * *

Carnevale.

Eravamo andati a ballare a casa di alcuni amici.

Nina mi propose di godere il tepore della nostra alcova.

‘Al-qubba, la chiamano gli arabi. Luogo d’intimità amorosa. Che ne dice il mio sultano?’

‘Che tu sei la mia unica favorita.’

‘Allora, Carletto, al-qubba?’

‘Al-qubba!’

Salutammo e andammo a casa nostra.

I suoi erano a Santa Marinella, e sapevano, o fingevano di credere, che sarebbe rimasta a dormire da una collega d’università.

La casa era calda.

Appena a letto, tolse la velata camicia da notte che aveva indossato per pochi istanti, e mi venne vicina.

‘Scaldami, Carletto, ho il sedere gelido.’

E lo accostò al mio grembo.

Quella dolce rotondità, così, sulle mie cosce, premuta contro il pube, fece bel presto il suo effetto.

Restò così, ma afferrò Rich e se lo pose tra le gambe.

‘Carletto, che dici, il figlio lo facciamo prima o dopo di essere sposati?’

‘Spiegati meglio.’

‘Noi stiamo bene insieme, le nostre litigate sono brevi acquazzoni estivi, ci amiamo, ci vogliamo bene, ci conosciamo profondamente.

Noi, secondo Vatsyayana, siamo cerva e toro, quindi abbiamo unioni elevate, e intense per desiderio e passione, e questo é verissimo. Si vede che Vatsy aveva previsto il nostro incontro.

Abbiamo saggiamente cercato, nel far l’amore, qualcosa che non ci piacesse. Non l’abbiamo trovato.

La maniera delle fiere ci eccita, e così seduta su te, con Rich che preme la frontiera del west, é solo l’annuncio del godimento che m’attende, specie quando la tua mano mi frugherà fremente.

Mi manca un’esame per la laurea, la tesi é pronta.

Cosa aspettiamo?

Anzi… aspetta… adesso…

Voglio vederti in volto.

Voglio bearmi di te.

Voglio essere la cerva sul toro.

Voglio sentire l’invasione della Virginia.’

Mi spinse dolcemente, supino, si fece penetrare con languida lentezza, mi cavalcò con appassionata voluttà. Si lasciò cadere sul mio petto.

Ancora col respiro grosso, sussurrò.

‘Carletto, voglio un figlio da te.

Subito.

Decidiamo. Sposarci o non sposarci? Ma non aspettare tanto.

Sta in campana…’

Rise di cuore, scuotendo il ventre, dove Rich, affaticato, ma non sconfitto, era pronto a imbaldanzirsi ancora.

‘E quando ci dovremmo sposare?’

‘A luglio, dopo la laurea, nella ricorrenza del giorno del bisso.’

‘Sai anche dove?’

‘Certo, a San Cosma e Damiano. Domani andiamo a visitarla, poi lo comunichiamo ai nostri genitori, fissiamo la chiesa, un piccolo ricevimento per pochi intimi, e dopo la cerimonia torniamo qui per mettere in cantiere il primo dei nostri figli.’

‘Quanti?’

‘Almeno tre.’

‘E come farai per l’attività professionale che hai in mente di svolgere?’

‘Nei ritagli di tempo, tra un incontro d’amore e l’altro, tra pannolini e pappine, tra un esercizio di matematica e l’altro.’

‘Che c’entra la matematica?’

Sfoggiò il suo sorriso furbetto, ammiccando con gli occhi.

‘Ma io voglio fare sempre gli esercizi di matematica con te, ingegnere.’

‘Di matematica?’

‘Si vede che hai lasciato da tempo l’università. Che hai dimenticato…’

‘Si, ho dimenticato. Ricordamelo tu.’

Si agitò, piano, con sapiente erotismo.

‘Lo racchiudo tra parentisi, lo elevo alla massima potenza, ne estraggo la radice ennesima, lo riduco ai minimi termini.’

Le detti una pacca sul sedere. E sbandierai la mia boria mascolina.

‘Non é facile ridurlo ai minimi termini.’

Seguitò a muoversi.

‘Per mia fortuna lo so, ma so anche che ci riesco! Aspetta e vedrai!’

Spento il suo ardore, si sdraiò sulla schiena.

Con aria trionfale mi frugò tra le gambe.

‘Come volevasi dimostrare, ingegnere!’

E scoppiò a ridere.

* * *

Entrammo nel vestibolo, verso il Foro Romano, costituito dal Tempio del Divo Romolo, seguimmo il lungo corridoio e un tratto del chiostro. e fummo nella chiesa.

Al centro del soffitto la Gloria dei Santi Cosma e Damiano; nell’abside, antichi mosaici del VI secolo: l’Agnello mistico fra sette candelabri, e, tra l’altro, la processione delle pecore verso l’Agnello.

Nina fu graziosamente civettuola col vecchio religioso che, sfogliando l’agenda, disse di essere felice di poter accogliere il desiderio della signorina: per la data prescelta non c’erano precedenti impegni.

Si, certo, una cerimonia semplice, improntata all’importanza dell’evento. Una lieve musica d’organo, ai momenti giusti, con brani scelti per l’occasione.

Si, le spese erano tante, ma l’offerta era lasciata alla generosità degli sposi. Certo, avrebbero potuto pensare loro all’addobbo, rispettando lo stile e le caratteristiche della chiesa.

Avrebbero anche curato di non far accedere i curiosi prima che tutti gli invitati fossero regolarmente sistemati.

Avevamo detto ai genitori che era nostro desiderio provvedere direttamente alla chiesa, ai fiori, ecc., quindi avevo preparato in precedenza un assegno. Lo consegnai al frate.

Quando lesse la cifra gli occhi gli si illuminarono.

‘Molto generosi, figlioli miei, Dio ve ne renda merito e grazie a nome dei tanti poveri che aiutiamo quotidianamente. Dio vi benedica.

Vi raccomando di prendere accordi con me per qualche breve incontro preparatorio al matrimonio.’

Lo rassicurammo in proposito.

Ci accompagnò alla porta.

Uscendo, Nina m’indicò, a destra i resti d’un tempio.

‘Il suo nome indica quello che solo io devo essere per te.’

Il tono era serio, ma c’era qualcosa negli occhi che non mi convinceva.

Forse era la mia immaginazione. Non poteva essere burlona appena uscita dalla chiesa dove ci saremmo sposati.

La guardai interrogativamente.

‘E’ il Foro della Pace…’

E sbottò a ridere.

Mi prese sottobraccio.

Era allegra, più del prevedibile.

‘Sai Carlo la differenza tra la colomba di Picasso, la donna e il vecchio?’

Scossi la testa.

‘Allora. La colomba di Picasso é l’uccello della pace, la donna é la pace dell’uccello, e il vecchio é un uccello in pace.’

Cercai di trattenere l’ilarità per non darle soddisfazione.

‘Quanto sei antipatico, non ridi per farmi dispetto, ma lo so che ti piace.’

Con aria distratta chiesi:

‘Cosa?’

‘Quella cosa li,’ -indicò il vecchio tempio- ‘il foro della pace.’

E si avviò, altezzosa, verso la grande strada.

* * *

Non erano molti, gli invitati. I parenti più stretti, gli amici più intimi.

La chiesa era magistralmente illuminata, ponendo in rilievo le preziosità architettoniche, i mosaici. L’addobbo floreale, con prevalenza di piante, esaltava il luogo, ne sottolineava lo stile.

La lunga guida rossa portava dall’ingresso al ricco inginocchiatoio: poltrone per gli sposi, sedie per i testimoni.

Puntualissima, apparve Nina, al braccio del padre, in un semplice, ricco ed elegante abito bianco. Non troppo attillato. Un lungo strascico sorretto da un diadema di piccoli fiori. Le note dell’organo, in sordina, accompagnarono il suo regale incedere verso l’altare, seguita dal breve corteo.

L’attendevo presso l’inginocchiatoio.

Il frate che fungeva da cerimoniere, in cotta di lino, con larghe maniche, orlata di merletti, con garbo e col volto serenamente sorridente, fece accomodare ognuno al proprio posto.

Entrarono tre sacerdoti: al centro l’anziano frate che ci aveva accolti quando eravamo andati a prenotare, e che aveva condotto gli incontri preparatori; ai lati due frati più giovani.

Tutto si svolse ordinatamente.

La benedizione degli anelli, una breve omelia, con il più cristiano augurio agli sposi: di amarsi nella buona e nella cattiva sorte, di accogliere la prole che Dio avesse loro mandato, di allevarla secondo i principi del Vangelo. Fu data lettura degli articoli del Codice Civile.

Molti, oltre gli sposi, si accostarono alla Comunione, con evidente soddisfazione del vecchio frate.

All’uscita un allegro grandinare di riso, un breve arrivederci negli eleganti saloni di uno dei più esclusivi alberghi, da dove si dominava piazza di Spagna.

Nina ed io salimmo nella lussuosa auto a noi riservata.

Come fu seduta accanto a me, mi prese sottobraccio.

‘Ciao, ingegnere, che ne dici di tua moglie?’

‘Sei più bella che mai, signora Sereni. Il matrimonio ti giova.’

‘E’ il marito che mi giova. E siamo solo all’inizio.’

Divenne più tenera, affettuosa, soave.

‘Come stai, Carletto?

E’ da più di una settimana che i preparativi non ci hanno concesso di incontrarci come mi sarebbe piaciuto, vero?

Mille cose da fare, e sempre piccole difficoltà da superare.

Tanti giorni trascorsi come due estranei.’

Le strinsi il braccio.

Mi mostrò la fede, lucente. La baciò, la portò alle mie labbra.

Prese la mia mano, e portò alla bocca l’anello nuziale.

‘Non devi mai toglierla dal dito, Carlo, mai.’ Eravamo al luogo del ricevimento.

L’autista aveva fatto un lungo giro per consentire agli invitati di giungere prima di noi, per accoglierci.

Ci fu molta composta allegria.

Girammo per i vari tavoli, una prima volta per una foto e alla fine per consegnare le bomboniere.

Le ore erano trascorse rapidamente.

Fuori, malgrado l’estate, era buio.

Ancora un ultimo brindisi e salutammo tutti.

La mamma di Nina si avvicinò a noi. Ci prese in disparte.

‘Allora, partite subito?’

Nina assunse un’espressione innocente e canzonatoria.

‘Ma che partire, mamma, sono stanchissima, emozionata, ansiosa, ho bisogno di comprensione, di riposo.

Andremo nella nostra casetta.’

‘E il viaggio di nozze?’

‘Ci penseremo domani. Del resto Carlo non può assentarsi per molto.’

‘E dove andrete?’

‘Si, ti telefoneremo da lì.’

Un bacione alla mamma e al padre, a Mario che mi strinse vigorosamente la mano, e via.

* * *

Il frigorifero era pieno di ostriche, salmone affumicato, caviale, Champagne.

A Roma e nei dintorni ci sono ottimi ristoranti.

La temperatura della casa era deliziosa.

Nina entrò in camera e lanciò le scarpe verso il balcone, tolse lo strascico e lo mise sul letto.

Mi venne incontro, rifugiandosi tra le mie braccia ancor prima che potessi liberarmi della giacca.

‘Lo sai, Carletto, che sotto al vestito indosso la tunica di bisso?’

‘E quando l’hai presa?’

‘Sono venuta un mattino, furtivamente, mentre tu non c’eri, durante i giorni della nostra lontananza.

E’ stato duro non sentirti mio per tanto tempo.

sai? Se dovrai andare fuori Roma per lavoro, devi sempre condurmi con te. Prometti?’

‘Prometto.’

‘Ho dovuto restarti lontana.

Non si deve rischiare il concepimento appena si cessa di prendere la pillola. Devono trascorrere almeno cinque giorni. Ed esistono anche dei farmaci che servono a ripristinare rapidamente e in modo naturale la normalità.’

La scostai un po’ da me per guardarla in volto.

Era divinamente bella, l’espressione della serenità, della beatitudine, della pace.

La baciai teneramente sulle labbra. C’era qualcosa di nuovo, di profondamente nel desiderio, nella passione, di appagante.

‘Carlo, sei ancora vestito di tutto punto. Ti ho sequestrato egoisticamente. Ora sì che ci vuole una doccia. Separare quanto é meravigliosamente stato da quanto ancor più incantevolmente sarà.

Ci sono delle bottiglie piccole di Champagne. Brindiamo ancora. Noi due, soli. E poi voglio sentirmi tua, perché so che sarà più bello che mai.’

Ci volle pochissimo tempo per spogliarmi, passare sotto la doccia, indossare la mia vestaglia nuova e preparare la bottiglia di Champagne e le coppe.

Misi tutto sul piccolo tavolo, in fondo al letto, sedetti in poltrona ad attendere Nina.

La porta dl bagno si aprì e apparve una nuvola bianca, vaporosa. Nina avvolta nel suo lungo strascico, l’unico indumento che indossava. Venne a sedersi sulle ginocchia.

‘Brindiamo, Carlo.’

Stappai la bottiglia, riempii le coppe, ne porsi una a Nina.

Levò in alto il bicchiere.

‘A Caterina e a Carlo Sereni, e ai loro figli!’

Incrociammo le braccia e bevemmo.

Nina andò a scoprire il letto.

Vi stese il suo strascico, vi si sdraiò sopra.

Neppure Goya avrebbe saputo ritrarla più bella, più seducente.

‘Vieni, Carlo, tua moglie t’aspetta.’

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