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Racconti Erotici Etero

Il Collezionista di Apricale

By 23 Luglio 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

Il Collezionista di Apricale
Di Ippolito Edmondo Ferrario
Frilli Editori, 215 pag.
9,50 euro

Festino nella città del Festival

Cenammo alla Capanna Da Bacì un ristorantino che trasudava atmosfere francesi da tutti i pori, a cominciare da quelli del suo proprietario visibilmente accaldato per il soverchiante numero di clienti. Si chiamava Alessandro, milanese d’origini e apricalese d’adozione. Era un tipo che il suo mestiere lo sapeva fare alla grande. Nella vita si era prefissato una sola grande missione: spacciare alta cucina a prezzi modici. Anche per questo andare a mangiare da lui mi piaceva.
Trovammo posto per miracolo. Godemmo di una splendida vista sulla valle annegata dal diluvio. Io mi riempii come un profugo del Biafra, infischiandomene di ogni regola salutistica. Sasha mi guardava sbranare le portate divertita. Chiusi in bellezza la serie di portate con zabaione caldo e pansarole, il dolce tipico di Apricale. Non parlammo molto, ma ci studiammo con sguardi che assomigliavano a radiografie. Dopo il conto per nulla salato, barcollai fuori dal ristorante, risalendo a fatica la scala che fungeva da accesso.
-Andiamo con la tua macchina. Io sono arrivata in treno- decise lei, monopolizzandomi.
Ero in condizioni fisiche penose, ma acconsentii. Risalimmo il paese per tornare al parcheggio. Aveva smesso di piovere. L’aria frizzante mi rianimò. Più che entrare in macchina, mi ci accasciai dentro.
-Destinazione?- sospirai ossigenandomi.
-Sanremo. Andiamo ad una festa-.
Escluse le feste di nostalgici come me e i festini, non andavo ad una festa vera e propria dai tempi del liceo. Al contrario in molti avevano tentato di recente di farmi la festa. Primo fra tutti il suvvista incrociato a Castelvecchio di Rocca Barbena.
Ero preparato a tutto.

V

Durante il viaggio lei fumava e mi dava indicazioni sulla strada. Scivolammo giù da Apricale, passando per Isolabona e Dolceacqua. Con la sera era anche calato il silenzio. Era una notte da lupi, di quelle da trascorrere ad ululare alla luna o al limite a trombare.
Arrivammo in corso degli Inglesi a Sanremo, l’elegante zona residenziale che conoscevo bene. Condomini prestigiosi e ville con lussureggianti e lussuriosi giardini traboccanti di gnomi da giardino si affacciavano sulla strada fecendomi sentire un morto di fame, anche se non lo ero. Ci fermammo in prossimità di una villa della bella epoque cinta da un muro simile a quello caduto a Berlino.
-Aspetta- mi disse Sasha scendendo e suonando il campanello.
Rimasi a guardare mentre il cancello si apriva. Entrammo parcheggiando in uno spiazzo ghiaioso accanto ad altre auto. Intorno a noi si estendeva un giardino tropicale che avrebbe fatto invidia alla giungla di Sandokan. Sbirciai intorno constatando che avevo la macchina più scassata. Me ne fregai, non essendo tipo da fermarsi alle apparenze.
Salimmo due gradini che portavano all’ingresso della casa.
Sasha suonò per la seconda volta. Aspettammo ben poco.
Una donna ci aprì. La individuai come la padrona di casa.
La sconosciuta, alta come un polo della luce, ma decisamente più appetibile, era avvolta da una tuta di lattice rosso fuoco e indossava una maschera dello stesso materiale dalla quale spuntava una lunga chioma bionda. Sorvolai sulla tenuta da pompiera, ma l’esemplare che teneva al guinzaglio m’incuriosì. Un ragazzo tutto muscoli, e non saprei dire sul cervello, stava inginocchiato nudo, ai piedi della padrona. Per nulla intimorito dalla nostra presenza non faceva mistero delle sue generose pudende. Se ne fregava del sottoscritto. Per il suo menefreghismo da manuale rischiai di appellarlo ‘camerata’, ma dubitai che lo fosse.
-Morde?- m’informai presso la padrona.
-A volte. Bisogna saperlo tenere a bada- puntualizzò sarcastica.
Entrammo nella dimora.
-Buono Fido- dissi passando accanto all’incatenato colosso.
Non ebbe né reazioni né erezioni. Buon per lui e buon per me.
La casa era accogliente, arredata con mobili antichi, frutto di un’oculata raccolta durata nel tempo. Mi soffermai su una ribaltina del Settecento veneziano che solleticava i miei appetiti di estimatore d’arte.
L’accarezzai vagamente eccitato.
-Ma che fai??- mi chiese Sasha annichilita.
-Ne controllo l’autenticità.
-Guarda che sei proprio un bel tipo. Non ti ho portato per comprare mobili- disse prendendomi per il braccio e portandomi dietro alla padrona e al suo schiavo lungo un corridoio in penombra. I ritratti dei presunti antenati della proprietaria mi guardavano severi, quasi adirati. Avrei voluto dire loro che non c’entravo con la decadenza della loro prosperosa postera. Ne avrei approfittato e basta.

VI

Arrivammo in una grande salone illuminato da un bellissimo lampadario di Burano. Questa volta altre scene traviarono il mio interesse per i manufatti artistici. Di Fido ce n’era un esercito, sia al maschile che al femminile. Di padrone pure. Ero sceso nel girone degli amanti della frusta e la cosa non mi dispiaceva. Mi luccicarono gli occhi per l’emozione. Mi sentivo come Pinocchio nel paese dei Balocchi, col risultato che non mi si allungò il naso, ma qualcos’altro.
-Ti piace il nostro mondo?- mi chiese Sasha bisbigliandomi nell’orecchio.
Deglutii cercando di tenere i nervi saldi.
-La carne &egrave debole, vero?- insistette soddisfatta.
-Quando il pesce &egrave forte- le feci notare ricorrendo ad una battuta da me abusata più volte.
-Dai accomodati. Scegliti uno schiavo o una schiava- m’invitò la padrona di casa che in quanto a ospitalità non era inferiore a nessuno. La sala era arredata con divani di leopardati, paesaggi inglesi alle pareti alternati a scene di caccia. Nel mezzo della sala una bella gabbia di ferro serviva a ospitare gli schiavi più lussuriosi e al tempo stesso indisciplinati.
Per non offendere la signora, mi scelsi una ragazza bionda, ammanettata dietro la schiera e seduta su uno dei divani.
-Ma &egrave tutto legale?- le chiesi resuscitando l’uomo di legge che era in me. Ero un vero disseppellitore di cadaveri.
-Siamo tutti adulti e consenzienti.
-Perfetto- le dissi accomodandomi accanto alla ragazza che indossava solo le manette e dimostrava una ventina di anni. Visto che era già immobilizzata, passai alla perquisizione. Naturalmente prima le chiesi il permesso. Anche Sasha le si mise vicino e le tuffò la lingua in bocca. La scena mi mandò in orbita come lo Shuttle. Mi trovai faccia a faccia con due natiche dure come il marmo di Carrara, buone come il lardo di Colonnata. Non capivo più nulla. La ragazza però non cercava esplorazioni, ma punizioni.
L’accontentai con sonore sculacciate che la facevano vibrare dal piacere. Con severità, perseverai nella correzione della mia nuova allieva.

VII

L’orgia collettiva e correttiva durò fino all’alba. Mi sostenni con qualche Campari servito servizievolmente dal Fido della padrona di casa.
Sasha durante l’intera nottata adoperò la frusta meglio di Moira Orfei, sculacciò e sodomizzò chiunque le capitasse a tiro, eccetto il sottoscritto. Io mi scelsi due fedelissime schiave alle quali dedicai tutte le mie attenzioni.
Come nelle migliori favole, o nei peggiori incubi, col sorgere del sole tutto ebbe termine. Non fu il canto del gallo a mettere fine alla kermesse, ma il suono del campanello. Ci fu un fuggi fuggi generale al quale assistetti impassibile, anche perché non potevo fare diversamente. Ero esausto come Ercole dopo le sue sette fatiche.
I nuovi invitati sfondarono la porta poco dopo, dimostrando di non conoscere le buone maniere. Li accolsi in costume adamitico, sprovvisto pure della foglia di fico e menando la frusta a destra e a manca. Mi sentivo Indiana Jones in una delle sue fantomatiche avventure. Quando tirai la frusta verso di me, con grande sorpresa mi accorsi di aver rimediato un capello da carabiniere.
Forse il tema della festa era cambiato e ora si giocava a guardie e ladri.
A mettere fine ai miei etilici vaneggiamenti arrivò il più ebete degli investigatori, il terrore di tutti gli intestini, essendo un tipo lassativo.
Io stesso temetti per la mia incolumità e cercai di trascinarmi verso il bagno.
-Lei. Ancora lei’- proruppe lo scappellato carabiniere, in quanto testa di cazzo senza più cappello.
-Mio Dio- invocai apocalittico di fronte ad uno dei peggiori incubi non della mia infanzia, ma del mio passato prossimo.

VIII

Il maresciallo Guastatore, protagonista delle indagini sul pietrificatore di Triora, riemergeva come uno stronzo che si ribella al suo destino deciso dallo sciacquone.
Gli porsi il cappello preso in prestito, accennando ad un saluto militare degno di Sturmtruppen. Poi collassai sul divano cantando l’inno della Decima Flottiglia Mas alla quale mi sentivo idealmente devoto.

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