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Racconti Erotici Etero

Il territorio del sogno

By 9 Gennaio 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Il sogno era sempre uguale, emergeva dal subconscio senza preavviso e mi si stampava nella memoria, inciso a fuoco nella mente. Ogni riflessione su di esso non aveva dato esito alcuno e mi sono dovuto arrendere che forse non esisteva alcuna spiegazione logica e che il sogno era pura e semplice causalità. impulsi ormonali misti ad ambientazioni scelte causalmente dal subconscio.
Oppure no? O c’era un senso? Di certo la mia mente non é in grado di elabrorare siffatta possibilità da sola!
Ergo, ve lo racconto.
Forse spiegandovi quanto accaduto renderò più facile per voi accettare gli eventi successivi e le verità atroci in essi contenuti.

Il sogno inziava sempre con la giungla. un muro di verde in cui mi immergevo, un nulla vegetale capace di annichilire i sensi umani. Mentre m’inoltravo nella vegetazione, un canto lontanissimo mi catturava, mi ammaliava. Cantato da voce di donna eppure privo della melodia tipica di simil voce, conteneva una traccia bestiale e parlava una lingua che non conoscevo. Il canto mi giungeva distorto dalla distanza e il velo del sogno m’impedisce di ricordarlo tutt’ora, sebbene alla luce degli eventi successivi posso dire di conoscere quel canto sin troppo bene.
Seguivo la melodia terribile lungo le rive di un fiume, un fiume enorme come potevano essere il Nilo, il Gange, il Mekong o altri rivi di grandi dimensioni e affluenza di liquidi. Camminavo lungo la riva e sorridevo sentendo quella melodia più vicina.
Camminando, giungevo finalmente all’origine del canto e rimanevo basito nel vedere una donna, splendida e nuda, cantare danzando.
Il suo corpo mi é rimasto impresso, anche al risveglio tale bellezza era causa di eccitazione febbrile.
Oltre a essere giovane e tatuata in tutto il corpo con scritte che non capivo, era anche sexy: seni pronunciati, quasi troppo per una vietnamita (e io posso dire di conoscere bene il Vietnam avendoci svolto il mio servizio militare durante gli anni ’60).
Quei seni sono stati la prima cosa che ho notato, nel sogno parevano rilucere oliati.
Il resto del corpo non aveva un grammo di grasso ed era ricoperto da tatuaggi che non capivo ma che rendevano solo più bella quella donna misteriosa.
L’eccitazione nel sogno mi coglieva potente quando lei mi guardava e sorrideva al mio indirizzo, invitandomi a venirle più vicino. I suoi occhi erano bicolori, le pupille eterocrome. Una marrone color nocciola, l’altra azzurra, penetrante lo sguardo di un’aquila reale.
Sentivo il mio membro svegliarsi dal suo torpore e mi accorgevo della mia nudità.
La volevo. La volevo con ogni fibra del mio essere.
Lei sorrideva, il viso incorniciato da capelli corvini che le arrivavano sino alle reni. Mi si avvicinava e, graffiandomi sensualmente il petto con le unghie, scendeva con una mano sino al mio membro, toccandolo in modo tanto sottile e leggero da farmi gemere. Sussurrava qualcosa in inglese, una frase che doveva significare qualcosa ma che, attraverso la coltre del sonno, non manteneva che un’eco distorta di parole che potevo dire certamente anglofone.
Solo dopo aver detto quella frase, si era inginocchiata e me l’aveva preso in bocca con quella maestria che le donnine di Cholon e Saigon non avrebbero mai potuto imitare, una lingua calda e diabolica mi stuzzicava il frenulo nelle sue parti più sensibili.
Così facendo non sarei durato molto….
Cercavo di farglielo notare e lei pareva capire poiché si scansava e, sdraiandosi nella vegetazione, spalancava le gambe, invitandomi a possederla con muta richiesta mentre si toccava la vulva glabra.
Ed era un invito che, spinto da un’eccitazione che non sentivo dalla morte di mia moglie, accettavo con gioia.
Il sogno terminava crudelmente con il mio membro che scivolava dentro la sua rovente intimità, mentre da lontano, il canto ricominciava.

Ora, questo era il sogno. Ogni volta mi svegliavo col membro eretto, tanto eccitato da dovermi liberare in qualche modo. Ma per qualche ragione, il sesso non pareva più soddisfacente come un tempo.
Mi domandavo perciò se non avessi dovuto cercare quella femmina e farla mia per poter placare simil tormento. Ma cercarla dove, poi?
La giungla pareva vietnamita ma avrebbe potuto anche essere laotiana, cambogiana o tailandese. Avrei potuto spendere tutta la mia vita a cercarla senza trovarla mai. Eppure…
Che avevo da perdere? Questo mi chiesi.

A questo punto é doverosa un’intrudzione. Il mio nome é Edward Blackwall e sono un onesto impiegato.
Ho servito con fierezza il mio paese in Vietnam, sopravvivendo agli orrori di una guerra che solo dopo ho capito essere ingiusta. Dalla fine di quel conflitto, sono passati dieci lunghi anni.
Incubi dovuti alla guerra? Sì, ne ho sofferto, ma lentamente e inesorabilmente il contenuto dei miei sogni é mutato sino a divenire quello che vi ho sopra citato. Non che la cosa mi sia dispiaciuta ma sicuramente ha generato un certo imbarazzo e sono dell’idea che qualunque psicoterapeuta si sarebbe sfregato le mani dalla contentezza se avessi deciso di affidarmi al loro sistema per decifrare ciò che mia mente cercava di dirmi.
E qualora vi chiediate se io abbia mai usurpato alcune giovane durante il mio servizio in Vietnam, la risposta é no, anzi ho persino impedito che la mia compagnia si sfogasse su un villaggio a seguito di una trappola dei Vietcong. Quindi direi che non ho nulla da rimproverarmi, ergo, probabilmente il sogno é qualcos’altro. Qualche residuo dell’LSD che mi ero fatto in gioventù? Improbabile.
Unitamente agli interrogativi cresceva anche la volontà di scoprire la verità e, nell’anno 1983, chiesi a un mio conoscente di procurarmi documenti falsi che mi permettessero di raggiungere il Vietnam.
Edward Blackwall, cittadino USA, reduce di guerra e vedovo scomparve lasciando il posto ad Armin Blackwall, turista inglese interessato al passato culturale del Vietnam.

E fu lì che iniziò. La notte dopo aver fatto i biglietti ed aver preparato le valige, notai che il sogno era cambiato. Ora il viso della donna mi sussurrava una parola chiara. Una parola che confermava le mie ipotesi e allo stesso tempo mi portava a credere al potere dell’autosuggestione.
“Trovami”.
Non importava quanto cercassi di comunicare con lei: non potevo. Il Sogno finiva lì.
Ora dovevo cercarla nella realtà, sempre che esistesse. Ma alla fine non avevo molto altro da fare: l’azienda per cui lavoravo era messa male e nei tagli al personale era evidente che mi avrebbero licenziato in breve tempo. Non avevo nulla da perdere, se non i soldi che sinceramente non m’interessavano.
Era da quando mi ero sposato con la mia defunta moglie che non ricevevo uno stimolo simile ad agire.
Partii a cuor leggero.

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Il Vietnam degli anni ’80 era il figlio menomato di un ideale bagnato del sangue di migliaia di morti, il bambino mal nato dell’ultima vergognosa guerra combattuta dall’America.
Fortunatamente i soldi sono sempre soldi, anche in un paese dichiaratamente comunista come il Vietnam postbellico, ergo nessuno fece storie quando giunsi là e chiesi ad alcuni membri del Partito Comunista di poter svolgere ricerche sulle tribù degli Altipiani Centrali che reputavo essere la zona in cui avrei potuto scoprire qualcosa sulla tribù di appartenenza della donna che sognavo.
A differenza di molti, anzi troppi miei commilitoni, durante il mio periodo in Vietnam avevo cercato di conoscere quel popolo e le sue usanze, non solo imparandone la lingua ma anche vari dialetti. Ovviamente non ero fluente come avrei voluto ma ne sapevo abbastanza da poter essere capito almeno per quanto riguardava l’oggetto della mia ricerca.
Minh Na Trag, un giovane sociologo che l’avvento del nuovo regime non aveva scoraggiato dal continuare lo studio e i tentativi di realizzare un’intesa pacifica fra le tribù degli Altipiani e il Vietnam civile si era offerto di aiutarmi nella mia ricerca. Il mio primo giorno a Ho Chi Minh, capitale del Vietnam un tempo chiamata Saigon fu speso ad analizzare libri, tesi e diverse ricerche. Senza alcun risultato. A suo merito, Minh non mi chiese molto. Evidentemente nutriva una grande passione per quel suo lavoro, o forse era abbastanza prudente e saggio da non chiedere. A posteriori, dopo aver visto ciò che ho visto, farei lo stesso.
Ma sto divagando. Il secondo e il terzo giorno si consumarono nella ricerca finché non convinsi Minh che uno studio ravvicinato, la ricerca di tale tribù, fosse la sola opzione valida.
Avremmo potuto scartabellare per tutta la vita senza trovare alcunché.

Grazie a Minh Na Trag, il nostro allontanarci da Ho Chi Minh non fu ostacolato dalle autorità, peraltro alle prese con una guerra prossima con la Cina, o così si vociferava. Trovavo bizzarro che quelli che erano parsi alleati naturali, improvvisamente si combattessero tra loro per scopi infimi e di poca importanza. Tuttavia l’incandescente situazione politica sul confine con la Cina era di enorme vantaggio per il sottoscritto: nessuno avrebbe badato a una spedizione guidata da un inglese riguardo le primitive e ancestrali usanze delle tribù montane.
Così, due giorni dopo partimmo. Minh aveva organizzato tutto in modo maniacale: equipaggiamento, scorta (quest’ultima composta di due amici di Minh che non si presentarono mai a me ma interloquirono sempre e solo con il loro socio sebbene si capisse che erano chiaramente dei reduci del recente conflitto vietnamita), un Sampan di discrete dimensioni e provviste. La nostra partenza fu talmente rapida che ci mettemmo solo un giorno a risalire parte dei un affluente del Mekong e a raggiungere il villaggio montano della tribù del Capo Roq. Roq era un capo Montagnard, un’etnia che aveva combattuto a fianco degli americani durante la guerra. A differenza dei suoi compatrioti, avevano scelto la neutralità. La sua scelta gli aveva evitato orribili ritorsioni di cui mi parlò, ignorando che conoscevo già quella parte della storia per averne vissuto il sanguinoso inizio.
Il villaggio di Roq sorgeva sulle sponde del fiume e sopravviveva grazie a pesca, allevamento e coltivazioni. Ogni tanto qualcuno degli abitanti veniva contattato dall’esercito governativo ma pochissimi avevano abbandonato la loro terra. Roq disse che non era loro compito andare a combattere per un governo o per l’altro. Non erano guerrieri, diceva. Nonostante ciò, durante la nostra breve permanenza vidi diversi uomini con cicatrici e ferite da armi da fuoco.
No, non erano guerrieri, almeno non più.
Ma la nostra permanenza lì finì rapidamente: Minh prese a conversare con Roq, spiegando ciò che stavamo cercando. L’espressione del capo Montagnard fu prima perplessa, poi apparentemente scivolò in un’apparente preoccupazione per poi attestarsi nell’apatia.
-Dice che non esiste tribù così.-, disse Minh, -Ma che esisteva. Anni e anni fa.-.
-Dove vivevano?-, chiesi, impaziente di verificare l’ipotesi e la veridicità dei sogni che avevo fatto e che di recente avevo continuato a fare. Minh tradusse. La risposta fu lunga e agitata.
-Dice che non c’è più la tribù e che cercarla è stupido oltre che pericoloso. Non erano…-, il sociologo si fermò, aggrottando la fronte e cercando le parole, -come noi.-, concluse infine.
-Intende vietnamiti? Erano di un altro paese? Migratori?-, chiesi a raffica io. Non capivo.
L’espressione di Minh pareva ora inquieta, angosciata.
-Umani.-, sussurrò. E in quel momento pensai che fosse esagerazione pura, la fantasia sfrenata d’indigeni ancora incatenati alla superstizione delle ere passate e mai morte nel loro piccolo mondo. Ma vedere che Minh, un uomo civilizzato, moderno e difensore dei valori della logica, mostrasse simile apprensione e preoccupazione davanti a quelle superstizioni mi fece credere che il capo gli avesse rivelato ben più di quanto dettomi.
La scorta di Minh, due uomini armati con SKS vecchi almeno quanto loro, pareva altrettanto scioccata. Appena c’imbarcammo sul Sampan, il trio si lanciò in un conciliabolo in vietnamita che seguii a stento. Mi parve chiaro che i due reduci non prendessero simili superstizioni tanto alla leggera e, complice anche la mia fretta di trovare risposte, proposi ai due un lauto pagamento. Uno dei due accettò, vinto dall’avidità, l’altro scosse il capo. Farfugliò una frase prima di scendere dalla giunca portandosi dietro il suo fucile.
-Che ha detto?-, chiesi. Non avevo capito molto. La paura o forse la rabbia avevano storpiato le parole, tradendo un’emozione primitiva che rendeva evidente lo sconvolgimento di quell’uomo (non più anziano di me) che doveva aver visto l’inferno in terra tanto quanto me.
-È dialetto del Delta. Dice che i morti non usano i soldi.-, rispose il sociologo. Pareva turbato.
-Non morirà nessuno. Lei è un uomo di scienza, o mi sbaglio? È o non è convinto che siano solo superstizioni?-, chiesi incalzandolo. Minh annuì, recuperando quella che pareva sicurezza e lucidità, -E allora non crede che dobbiamo continuare quest’impresa?-, domandai.
-Nessuno ha mai trovato la tribù. Ne hanno tutti solo sentito parlare. E Roq ha detto che è scomparsa.-, disse il vietnamita.
Io sorrisi con cortesia mista a euforia: sarebbe stata anche una scoperta! Sarei diventato famoso… O quantomeno avrei avuto la possibilità di diventare tale.
-Immagini, allora! Professor Minh, scopritore del lascito della tribù perduta! Ci pensi!-, esclamai. Il sociologo annuì e, dopo pochi istanti, riprendemmo il viaggio risalendo il fiume nell’intricato dedalo del Delta del Mekong.

Dopo una giornata di navigazione scendemmo dal Sampan, ospiti di un villaggio di contadini. Non erano una tribù, bensì gente che era stata rimossa dal proprio terreno solo per permettere alle forze armate del Sud Vietnam di continuare la loro caccia ai Victor Charlie…
Sradicati dalla propria terra, ora si erano adattati mediamente alla nuova dimora.
Minh negoziò l’ospitalità di una famiglia, una giovane madre e la figlia di pochi anni più piccola. Entrambe masticavano un po’ d’inglese e subito chiesero se fossi americano.
Risposi di no, ricorrendo al nome stampato sul mio documento fittizio.
Minh spiegò che la giovane aveva perso suo marito durante la guerra. Lei aveva anche combattuto. Mi parve bizzarro essere ospite di una donna che fino a qualche anno prima era stata probabilmente responsabile della morte di diversi commilitoni e forse anche amici…
Preferii non pensarci, limitandomi a notarne la bellezza. Avrà avuto una trentina d’anni e la figlia qualche anno in meno. Una ventina forse.
Mangiammo una zuppa servitaci con un sorriso. Minh parlava in vietnamita con la donna mentre io cercavo di parlare con la figlia, ma senza grande risultato.
La guardia era appoggiata alla parete, decisamente disinteressata alla situazione.
La cena finì dopo pochi minuti e, complice l’ora, chiesi di poter uscire a fare una passeggiata.
Scortato dalla guardia, osservai il villaggio. Dio, ci avevo anche combattuto da quelle parti. Poco lontano da lì, a Kei Hian avevo visto morire molti miei amici, durante un imboscata dei Vietcong. E ora ero lì, ospitato da una di loro. Minh mi raggiunse pochi istanti più tardi.
-Ci ospiterà per la notte. Non gli devi nulla. Ho già pagato io.-, disse. Ringraziai.
-Lynh è una dura. Sua figlia, Nguyen ora l’aiuta con la casa ma senza un uomo è difficile. Penso che Lynh non rimarrà qui ancora a lungo. Andrà nella capitale, a cercare aiuti…-, il tono del vietnamita era ammantato di dispiacere.
-Praticamente andrà a prostituirsi…-, dissi io. Minh annuì. Ma non doveva andare così per forza, no? Ci dovevano pur essere delle opzioni. Ma in fin dei conti non erano fatti miei…
Stavo però per dirgli che mosso da una certa compassione dovuta solo alla consapevolezza che quella fosse una donna in difficoltà, avrei lasciato molti più soldi alla giovane madre quando Minh spostò il discorso in modo inatteso.
-Lynh mi ha detto che c’è un posto a nordovest di qui, una tribù di Nung che il Governo ritiene pericolosa. Sono gente difficile ma Lynh è sicuro che siano amichevoli, se li prendiamo con mezzi giusti.-, disse.
-Ok. Ma loro sapranno qualcosa della tribù scomparsa?-, chiesi io. Parlavamo in Inglese in modo tale da non allertare i nativi che stavano rincasando, anche perché il mio vietnamita non mi sarebbe comunque bastato per riuscire a condurre una conversazione simile.
-Oh, sì. Lynh mi ha detto che uno di loro sa qualcosa. Se è ancora vivo ci dirà…-, disse Minh.
Era paura quella che sentivo nella voce di quell’uomo? Non indagai. Annuii soddisfatto.
-Bene. Allora possiamo anche andare a letto.-.

Il “letto” era un giaciglio scomodissimo. Le zanzare mi stavano divorando vivo e ringraziai dio di essermi portato alcune pillole contro la malaria e una buona dose di repellente per insetti.
Repellente che non sembrava così efficace. Mi rassegnai ad attendere.
Poi sentì qualcosa. Una sorta di ansimo sommesso. Un gemito. Mi preoccupai ma pensai che forse non fosse nulla finché non si ripresentò. Mi alzai e uscì dalla stanza per arrivare alla sala comune. Lo scenario, appena illuminato da una magra torcia, era a dir poco eccitante.
Lynh, nuda e bellissima, cavalcava Minh con foga da amazzone, emettendo quei gemiti che mi avevano svegliato. I capelli lunghi della donna arrivavano sino alle reni e i suoi piccoli seni erano stretti tra le mani del sociologo che pareva apprezzare quella cavalcata selvaggia.
Sospirai. Eccomi lì, a fare il terzo incomodo per quella scena da kamasutra con la consapevolezza che non mi sarebbe dispiaciuto farmela e che in un certo senso, Lynh si stesse già prostituendo. Un gemito prolungato della donna segnò il suo godimento, che arrivò in contemporanea con una frase smozzicata di Minh, pronunciata mentre stringeva i seni piccoli e puntuti di Lynh. Era finita, evidentemente. Certe cose si capiscono a tutte le latitudini.
I due si accoccolarono distesi l’una sull’altro, frementi e ansimanti.
Non c’era più nulla da vedere, o da pensare. Meglio così, pensai e tornai verso la mia camera.
Arrivai in camera mia e vi trovai una sorpresa. La giovane Nguyen. Mi guardava.
-Ci sono problemi?-, chiesi in francese. Poi lo domandai nuovamente in vietnamita.
Lei scosse il capo e sciorinò una frase di cui capì solo le parole “soldi” e “favore”.
-Non capisco…-, dissi. Lei attraversò lo spazio tra noi in un istante e mi mise una mano sul cavallo dei calzoni. Complice la scena a cui avevo assistito, avevo ancora un erezione, che il contatto con la mano della giovane non fece che accentuare.
Merda, non ero certo desideroso di scoparmi la figlia di una Vietcong ed ero più che sicuro che la madre mi avrebbe massacrato a mani nude se l’avesse saputo. Feci per fermarla, mentre lei mi abbassava i calzoni e mi accarezzava il frenulo.
-Aspetta… ferma…-, mischiai francese e vietnamita ma senza troppo successo.
-Soldi e io fa felice.-, disse lei. Aveva parlato in inglese. Dozzinale, primitivo e goffo.
-Non c’è bisogno.-, dissi io, cercando di farla alzare. Inamovibile, Nguyen mi sorrise mentre mi masturbava con lentezza. Dio, se fosse andata avanti sarei esploso.
-Soldi e io fa felice.-, ripeté. Dannazione! Riuscii a prendere una manciata di banconote di taglio bello grosso e gliele diedi. La giovane sorrise e si chinò a succhiarmelo. Fu una tortura bellissima: la lingua di Nguyen era un serpente diabolico. Sarei venuto presto, prestissimo…
I miei più nobili propositi svanirono quando decisi di arrendermi e con una mano accarezzai la testa della giovane dettando il ritmo mentre con l’altra afferravo i capezzoli di lei attraverso il camicione che vestiva.
Lei sorrise. Smise di succhiarmelo. Si alzò.
-Tu vuole…-, fece un gesto osceno con le mani per supplire allo scarso inglese.
-No… continua come prima…-, sussurrai. Mi ero fatto una mezza idea di quanto sarebbe stata dura per lei se fosse finita incinta di un americano. I figli di soldati americani e donne vietnamite erano trattati come scarti di vita, me lo aveva detto un mio amico. Le madri di quegli esseri innocenti erano considerate come prostitute dappoco e difficilmente avrebbero avuto una vita normale. Io non volevo che questo accadesse anche a Nguyen. La giovane continuò a succhiarmelo e nonostante non fosse all’altezza di una donna navigata, mi fece venire dopo pochi istanti. Ingoiò tutto, sorridendo mentre si voltava, le tasche piene delle banconote che le avevo dato. La presi per una spalla.
-Perché?-, chiesi.
-Madre. Segreto, ok?-, rispose lei in inglese stentato. Annuii.
-Segreto.-, lei sorrise. E io tornai al mio giaciglio per potermi addormentare.
Ripartimmo l’indomani verso quella tribù di Nung e nonostante tutto non potei evitare di notare lo sguardo di Lynh. Era quello di una veterana, ma c’era qualcos’altro.
Paura, un tale orrore da riverberare anche nei momenti più tranquilli… Per un solo istante mi domandai se fosse solo frutto degli orrori della guerra.
Poi conclusi che probabilmente lo era.
Ma “probabilmente” non era “certamente”.
C’era dell’altro ma non trovavo giusto chiederle di rivelarmelo. Quella giovane aveva già sofferto abbastanza, più di quanto paesi o bandiere dovessero chiedere a un essere umano. Lasciammo a Lynh e a Nguyen un generoso pagamento e i migliori auguri di un lieto futuro e riprendemmo a navigare verso la nostra destinazione.

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Mentirei se dicessi che, durante la nostra lenta percorrenza a ritroso del Delta, tutte le storie che fino ad ora avevo sentito non mi avevano inquietato. A dispetto del mio scetticismo dovevo riconoscere che quella paura che io avevo conosciuto solo durante la guerra e l’angoscia nei loro occhi mille volte più profonda e animale di quella in quelli dei miei commilitoni a Hué o durante le pattuglie nel Delta, dovevano essere in qualche maniera fondate. Poi forse erano esagerazioni, leggende, nondimeno non potevo evitare di pensare alle implicazioni di tutto ciò. A dispetto del piacevolissimo intermezzo con Nguyen, continuavo a desiderare di trovare quella donna che, contro ogni logica, continuava ad apparire nei miei sogni. I due giorni successivi mangiammo riso e pesce essiccato dando quasi fondo alle nostre scorte e arrivando al villaggio dei Nung nel primo pomeriggio. Faceva un caldo assurdo.
Dopo un breve conciliabolo nel loro brutale dialetto da parte del veterano che ci accompagnava e una rapida contrattazione pagammo un “dazio di soggiorno” non esattamente modico per lo standard vietnamita. Ci recammo subito a cercare quel Nung che Lynh aveva detto essere a conoscenza d’importanti informazioni riguardo la tribù perduta.
Chiedendo in giro ci fu detto che abitava appena fuori dal villaggio, in solitudine ed evitato da tutti. Ci recammo subito da lui.
Mi stupii di tre cose: in primis il fatto che il Nung fosse un vecchio di sessantasei anni suonati.
La seconda cosa che mi meravigliò fu la sua padronanza dell’inglese che poteva comodamente rivaleggiare con quella di Minh stesso. E infine mi sorpresero le braccia e il petto dell’uomo, scarificati e solcati da cicatrici che, dopo pochi istanti, intuii essersi inflitto da sé.
Minh fece per iniziare ma l’uomo sorrise. Un ghigno malvagio, facente capolino su di un viso rugoso in cui emergevano tra i solchi della vecchiaia gli occhi, terrorizzati da qualcosa…
-Siete qui per la mia storia.-, disse in perfetto inglese. L’accento vietnamita si sentiva meno del previsto. Mi stupii, così come si stupì Minh stesso. Il Nung invece pareva infastidito.
-Ho già detto alla mia gente tutto quel che potevo. Poi l’ho detto agli americani che sono passati di qui. E infine l’ho detto ai Nordvietnamiti.-, disse, -A voi dico solo di tornarvene a casa. Ora, senza guardarvi indietro e senza pensarci! Fatelo e vivrete.-.
-Ci stai minacciando?-, chiesi. Il Nung mi rise in faccia. Fu una risata senza gioia, breve.
-Io? No. No, no, no… Io sono un povero vecchio che cerca di tirare a campare ma sono inciampato su qualcosa di più alto di me. La tribù degli Shen, sono tutti pazzi… Si tatuano in modi che non ho mai visto…-, il tono della voce si abbassò in modo inquietante e giurerei tuttora che persino l’aria nella casupola parve divenire più fredda. Seduti davanti all’uomo, separati solo da un braciere in fase di estinzione, pendevamo dalle sue labbra screpolate.
-Dicci tutto, ti pagheremo.-, disse Minh. Un offerta che, in ogni altro caso aveva funzionato.
-Pagarmi… i soldi non mi servono a niente. A nulla! Ciò che ho visto… tutti i soldi e le ricchezze del nostro mondo non mi ridaranno la pace!-, esclamò con voce stridula il reduce.
-Cos’ha visto?-, chiesi. Lui mi guardò dritto negli occhi e riuscii a scorgervi il terrore, lo stesso che aveva marchiato gli altri visi…
-Loro non veneravano gli spiriti, né tantomeno il Buddha o il Dio di cui mi hanno parlato i missionari francesi che ho incontrato qualche decina di anni fa. Sono selvaggi, animali! E sono demoni! O lo sono, oppure hanno fatto patti coi demoni!-, sussurrò il Nung, orripilato al ricordare tutto ciò. Io annuii, perso in quel racconto. Inspirando oppio nebulizzato da una pipa accesa posta accanto a lui, il vecchio continuò il racconto.
-Era nel 1964. All’epoca lavoravo con gli americani. Eravamo di pattuglia e trovammo il villaggio. A prima vista pareva solo che quella gente fosse vissuta fuori dal mondo per cent’anni. Portammo loro medicine, addestrammo i giovani nell’uso delle armi da fuoco e poi… accadde.-, altro tiro dalla pipa. Mi sforzai di riportare il narratore alla narrazione.
-Cosa accadde?-, chiesi, ansioso di capire. Il vecchio si prese il tempo di un secondo tiro.
-Uno dei nostri, un tale… Paul… aveva iniziato a frequentare una giovane del posto. Nessun problema: gli americani lo facevano e ai membri della tribù non sembrava dispiacere. Ma quelli erano strani: i monaci buddisti che avevano provato a istallarsi da quelle parti erano morti in circostanze… misteriose. E i missionari francesi raccontavano storie di demoni. Erano impazziti totalmente. Comunque, Paul si vedeva con quella ragazza. Nulla di strano, se non che quando avremmo dovuto abbandonare il perimetro dopo aver addestrato chi di dovere e aver migliorato le condizioni di vita del villaggio, ci rendemmo conto che Paul, Samson, Liam e David erano spariti. Li cercammo naturalmente e trovammo solo Paul, nudo e tatuato come quei selvaggi, oltre che in coma.-.
-Che gli era successo?-, chiese Minh. Il Nung parve tremare.
-Non lo so. Era in coma ma poi si mise a parlare, come se l’avessero stregato. Delirava. Parlava di esseri che non si potevano vedere, riti ancestrali, sacrifici, cose così. Morì due minuti dopo. Io presi la situazione in mano e interrogai la giovane. Quella mi disse che mi avrebbe mostrato tutto. Fui condotto a un tempio. Era un edificio piccolo ma c’era qualcosa lì, qualcosa che mi faceva cacare sotto. Il Tempio era vecchissimo ma era pulito, come se ci vivesse qualcuno o qualcosa. Mi fu detto di bere qualcosa e io bevvi quella mistura. Vidi robe orribili, demoni che mi squartavano parlando da altri mondi… Cose che non capivo. Mi incisi il petto col coltello quando capii cosa stava succedendomi! E mi svegliai a terra, nudo. In un momento mi ero spogliato o forse lo ero stato. La giovane mi sorrise e mi piantò una lama in un braccio. Mi ha paralizzato. Lei e altri due giovani mi hanno sollevato su di un altare e poi hanno abusato di me… mi hanno usato…-, sussurrò il reduce.
-Usato? In che senso?-, chiese Minh.
-Si sono prese il mio seme. Più volte. Poi hanno sorriso e hanno detto che potevo andarmene. Anzi, che dovevo andarmene. Sono uscito dal Tempio e ho riferito al capitano che non c’era possibilità di ritrovare vivi i suoi soldati. Ovviamente non l’ha presa bene ma lì le cose si sono fatte difficili: i nativi ci hanno attaccati… E… io sono fuggito. Senza guardarmi indietro.-, concluse. Calò il silenzio, spezzato all’improvviso da un’ultima, inquietante rivelazione.
-Ho solo trentanove anni. Ma ne dimostro sessanta e più.-, disse il Nung.
-E… la tribù?-, chiese Minh, esterrefatto quanto me.
-Si sarà spostata o forse no. Forse sono solo molto bravi a nascondersi. Io so che chi cerca e trova quella gente, poi non torna più. I Vietcong hanno provato a reclutarli e sono morti in tanti. I comunisti hanno tentato di sterminarli, e sono morti. Datemi retta. Andatevene e non tornate indietro.-, disse il Nung. Poi scoppiò in lacrime, una scena terribile e pietosa che mi riempì di compassione. Ci alzammo e uscimmo lasciando il vecchio alla sua pipa d’oppio.

-Che ne pensa?-, chiesi. Minh non rispose. Non subito.
-Dice che la tribù se n’è andata… ma se così non fosse?-, chiese lui. Io rimasi zitto, avendo già capito dove volesse arrivare, -Questa storia è l’ennesima riprova del fatto che questa sua ricerca non finirà bene.-. Il suo tono era ammantato di timore. Era sudato, spaventato.
-Lei è un uomo di scienza. Ha studiato antropologia e storia umana all’università di Parigi, no? Allora perché si lascia influenzare da quelle che, evidentemente, sono solo dicerie?-, chiesi.
Non negherò di aver provato anch’io timore al racconto del Nung ma il suo racconto e quello del capo Roq differivano troppo. C’era incoerenza tra essi, un’evidente prova che erano solo suggestioni di qualche tipo. Io sarei andato avanti, ma non potevo farlo senza Minh, la barca e il nostro bodyguard. Senza di loro avrei dovuto basarmi solo sui miei mezzi che, sebbene consistenti, non mi avrebbero facilmente permesso di continuare quel mio viaggio alla ricerca di quella donna, proprio ora che i sogni si erano fatti più chiari.
-Ascolti, lei può dire quello che vuole ma io sono dell’idea che ci siano cose che la scienza non può spiegare. Questa è una di quelle e non voglio entrarci.-, disse il vietnamita.
-Le duplicherò il salario. La pagherò.-, era l’ultima carta ma dubitavo che avrebbe funzionato.
-No, la ringrazio. I morti non hanno modo di spendere soldi.-, disse Minh.
-E la scoperta? La nostra scoperta? La fama, la gloria? S’immagini!-, esclamai. Non intendevo cedere ma sapevo bene che stavo parlando a un uomo che aveva già scelto di abbandonare la nave. Strinsi i pugni dalla rabbia.
-Signor Minh, si tratta solo di riuscire a trovare tracce di quella tribù. Solo tracce!-, esclamai.
-Non le credo. Si vede che lei è spinto da ben altro. L’ho aiutata perché le sue affermazioni mi intrigavano e perché da quando il regime di Saigon è caduto non posso certo dire di essere richiestissimo per i miei servizi ma adesso basta! Io me ne vado.-, si voltò e prese ad andare verso la barca. La guardia del corpo mi guardò stupita poi seguì Minh.
Lo raggiunsi. Dovevo fargli cambiare idea, a ogni costo!
-Ascolti, sta calando la notte. Io direi di fermarci qui, dormire e riparlarne l’indomani.-, dissi.
Minh titubò. Complice l’odore di cibo cotto che si spandeva nell’aria, accettò. Piantammo una tenda rudimentale fuori dalla zona del villaggio e pagammo il cibo, consumando tra l’altro parte delle nostre scorte e offrendone agli indigeni. Fu persino piacevole, o almeno lo sarebbe stato se mi fossi goduto quel momento ma i miei pensieri erano ben altri.
Dovevo continuare. Minh non capiva, il suo terrore non gli permetteva di capire. Dovevo continuare o ne sarei uscito pazzo, questo mi dicevo. Ero ostinato, determinato a farcela.
Andai a letto arrovellandomi sul problema.

Il sogno si ripresentò ma stavolta fu molto diverso. La giovane correva davanti a me, le nudità scultoree bellissime e impudiche al sole del mattino, i tatuaggi che le ornavano il corpo erano un’aggiunta a tale bellezza. La desideravo con tutto me stesso e la rincorsi. Inciampai.
Mi rialzai, poi la vidi fermarsi e guardarmi. Pensai che l’intermezzo erotico onirico stesse per ripresentarsi ma lei mi guardò in viso e parlò.
-Vieni. Trovami. Non temere.-, disse. Poi il sogno finì.
Mi svegliai e notai che era ancora notte fonda. Ma fu il dettaglio, la consapevolezza di dover uscire, cercare quella donna finché ancora potevo che mi guidava.
Mi alzai e, con estrema cautela, mi mossi verso l’uscita della tenda, riuscendo a non svegliare nessuno. Uscii nell’aria umida della notte. Senza pensare, corsi verso la giungla. Inciampai, caddi, mi rialzai e ripresi a correre. Arrivai oltre la linea degli alberi, poi ancora più in là.
Non m’importava di venire ucciso e non m’importava di tornare indietro. Ero attirato da quel sogno. Mi aveva detto di venire lì e avrei obbedito, anche se non avevo idea di dove fosse il “lì”.
Non sapevo cosa stavo facendo né dove stavo andando ma non m’importava. C’era solo lei. La brama febbrile d’incontrare quella creatura celestiale mi intorbidiva il sangue.
Una frase in vietnamita mi raggiunse. Era stata esclamata dalla guardia. Mi aveva seguito.
Mi raggiunse, invitandomi a gesti a tornare indietro. Scossi il capo spiegando in un vietnamita appena comprensibile il mio sogno. Lui scosse il capo. Gli mostrai altre sei banconote da venti sterline (che avevo tenuto da parte per una simile evenienza). Per loro era l’equivalente di cinque anni di lavoro… Il bodyguard annuì e io ripresi a inoltrarmi nella giungla, aggirando ostacoli e rampicanti o scostandoli quando potevo. Sentivo di essere vicino.
Poi li vedemmo. Corpi. Parevano i resti di una battaglia ma non lo erano, lo capii dagli sguardi stupiti di chi non si aspettava la morte. Erano in venticinque, membri dell’esercito regolare del Nord Vietnam a giudicare dalle divise, morti da almeno qualche settimana, putridi e graveolenti. Attraversammo la distesa di corpi con rapidità dettata dal disgusto e dall’orrore.
Ma avevo già visto spettacoli simili durante la guerra, non mi spaventavano né tantomeno spaventarono il mio taciturno compagno. Superato quel pianoro c’immergemmo nuovamente nella giungla e fu allora che lo sentì. Un canto. Lontano ma abbastanza armonioso da poter essere quello che avevo sentito anche nel sogno. Sorrisi. Non condivisi la gioia della mia scoperta con il mio compagno ma procedemmo all’erta lungo la giungla. Poi tutto accadde in un lampo. Un ruggito, e una tigre balzò fuori dalla vegetazione sul bodyguard. Il vietnamita sparò ma, preso dal panico, mancò il felino che invece lo azzannò alla gola aprendogli il collo.
Io afferrai il revolver. Me l’ero portato come difesa personale, e mi era stato offerto da Minh come ultima risorsa. Sparai due colpi, abbattendo la tigre. Per salvare il bodyguard era comunque tardi: la tigre gli aveva aperto il collo. Era letteralmente soffocato col suo stesso sangue. Una morte orribile per un uomo che non la meritava. Mi chinai a chiudere gli occhi del morto pensando che avrei dovuto dare spiegazioni a Minh, se fossi riuscito a tornare al villaggio dei Nung. E che avrei dovuto anche sbrigarmi a tornare. Perché era evidente che la mia ricerca si era conclusa. Se Minh avrebbe potuto persino farsi persuadere a continuare, era sicuro che dopo la morte del bodyguard, avrebbe sicuramente deciso di tornare a Ho Chi Minh, per ignorare beatamente la possibilità di quella scoperta.
Non ero grato di essere vivo, ero rassegnato. Raccolsi l’SKS del morto. Poteva sempre essere utile, se altri predatori avessero voluto farsi vivi. Un fruscio mi fece capire che “se” non era la particella più indicata. Mi girai di scatto l’arma puntata davanti a me, pronto al fuoco.
Trovandomi davanti una giovane. Capelli scuri lunghi sino alle reni. Seni pronunciati, più di quanto sia lecito aspettarsi per la media vietnamita e gli occhi… bicolori. Come nel mio sogno. Era lei.
La guardai. Era vestita con una sorta di sarong tradizionale. Ma andava bene: notai dei tatuaggi, scritte incomprensibili lungo la sua mano destra che salivano verso il polso e oltre.
Era lei, senza dubbio. Sorrisi e anche lei sorrise di rimando.
-Ti cercavo.-, dissi in vietnamita. Lei sorrise di nuovo.
-Ti aspettavo.-, disse in perfetto inglese. Mi sorpresi.
-Parli la mia lingua?-, chiesi. Lei annuì.
-Il mio nome è May Lyn. Sono l’ultima della mia gente. Gli altri sono morti. Aiutami…-, era una preghiera, disperata, in ottimo inglese e accorata, ma mi parve quasi un ordine.
-Come sono morti?-, chiesi. Lei scosse il capo, i begli occhi diversi colmi di paura.
-Sono stati uccisi, ti basti sapere questo.-, disse lei. S’inginocchiò davanti a me e solo quello mi ricordò i miei sogni. Avevo un principio di erezione.
-Ti aiuterò.-, promisi. May Lyn sorrise.
-Voglio andarmene da questo paese. Qui non c’è più niente…-, sussurrò lei, -Mi aiuterai?-.
-Ti aiuterò. Non aver paura.-, la feci alzare. Lei mi abbracciò di scatto e stringendomi.
La volevo, avevo il membro durissimo. La bramavo, per questo non pensai minimamente alle possibili implicazioni delle mie azioni.

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Penserete che io sia pazzo? Forse. Ma d’altronde, tutti noi abbiamo sogni, no?
E alcuni di essi possono divenire realtà. Io ce l’avevo fatta, in tal senso. La donna che avevo cercato esisteva e ora, alle prime luci dell’alba, era poco lontano dal villaggio dei Nung.
Le avevo dato la mia rivoltella, più per precauzione che per altro ma pregavo non accadesse nulla. Se i Nung avessero deciso di assalirla… Al solo pensiero mi sforzai di calmare i battiti folli del mio cuore. No. Sarebbe andato tutto bene, mi dissi.
Raggiunsi la tenda di Minh e lo trovai in piedi ad aspettarmi. Mi guardò con furia malcelata.
-Dove diavolo è stato?-, chiese, -E dov’è Chun?-, fu la domanda successiva.
-Chun è morto. Una tigre. Ho fatto il possibile per aiutarlo ma non è bastato. Comunque non è questo che importa: mi segua. Devo presentarle qualcuno.-, senza attendere risposta, m’inoltrai nella vegetazione e sentii i passi di Minh seguirmi dopo pochi istanti. L’SKS l’avevo ancora in pugno ma non credevo mi sarebbe servito. Mi era sembrato giusto non abbandonarlo, non solo in memoria di Chun ma anche come precauzione contro eventuali problemi. Tuttavia mi pareva non vi fosse necessità di quell’arma.
Arrivammo da May Lyn. La giovane sedeva a terra, il revolver appoggiato sulle gambe incrociate. Meditava? No: vidi chiaramente che aveva gli occhi aperti. Mi sorrise e le sorrisi a mia volta. Si alzò venendo verso di noi con la grazia di una modella. Fissò Minh.
-Lui chi è?-, chiese in inglese.
-Un mio amico. Il signor Minh si occupa di antropologia… studia le tribù. E tu sei la prova che si sbagliava.-, mi rivolsi al vietnamita per spiegare, -May Lyn è la donna che le dicevo. Proviene dalla tribù di cui si sono perse le tracce ed è l’ultima di loro.-.
Il sociologo osò fare un paio di passi verso la donna del mistero. Lei rimase immobile, come avvertendo la sua sfiducia. Lui le fece un paio di domande in vietnamita. Lei rispose con frasi secche e brevi. Sfiducia da parte di entrambi, avrei detto.
-Già… Sicuramente è molto riservata sul suo passato.-, disse Minh in inglese.
-Non voglio che la gente s’impicci di ciò che non capisce. La mia gente è morta. Non voglio più ricordare. Vi prego… portatemi via di qui…-, sussurrò May Lyn.
Minh mi guardò. Dubbioso e preoccupato.
-Ha sentito? Dobbiamo portarla a Ho Chi Minh, qui prima o poi morirà…-, dissi.
-Prima le dica di darle la pistola. Non mi fido di lei.-, ribatté Minh. Con irritazione, la giovane mi consegnò il revolver, gratificando il sociologo di uno sguardo ostile.
-Bene. Non temere, May Lyn. Ti porteremo via.-, dissi.

Ovviamente non fu tutto così semplice. I Nung la guardarono con sospetto e più volte temetti fossero sul punto di assalirci solo per averla portata nel loro villaggio. Comunque tornammo sulla barca e iniziammo a navigare verso Ho Chi Minh.
Facemmo tappa in un secondo villaggio dove May Lyn poté rifocillarsi, anche se non aveva dato segno di patire la fame. Mangiammo e fummo ospitati da alcuni contadini.
Durante la notte mi parve di sentire qualcosa, come un canto. La voce era femminile e a tratti bestiale. Non pareva assolutamente quella di Lyn. Allora mi recai nella sua camera e la trovai alzata. Stava in piedi davanti al letto. Bussai per educazione.
-Chi è?-, chiese.
-Sono io.-, dissi, -Posso entrare?-.
-Certo.-, disse lei. Pareva sorridere, lieta della mia visita. Entrai guardandola.
Pareva stare bene. Notai che il canto echeggiava appena e si era già dissolto, pur essendo incomprensibile alle mie orecchie.
-Mi sembra un sogno! Non vedo l’ora di vedere la città!-, esclamò. Era eccitata come una bambina. Sorrisi con comprensione. Come spiegarle? Da dove iniziare e soprattutto come?
Come farle capire dei miei sogni e tutto il resto? Notai che la giovane indossava solo una canottiera e una sorta di corto pareo che doveva fungere da biancheria intima.
-Sei bellissima.-, dissi per rompere il ghiaccio. Lei sorrise.
-Anche tu. Sei forte.-, indicava i miei muscoli, rimasti abbastanza in forze anche dopo il Nam.
-Hai pensato a cosa farai?-, chiesi. Lei scosse il capo.
-Mi basta andarmene dalla giungla.-, ammise. Era splendida. Così vicina mi intorbidiva il sangue e già sentivo l’erezione alzarsi dal suo torpore. La volevo. Ma non ero un animale.
Eppure era difficile resistere al suo fascino. Mi accorsi di avere una mano sulla sua spalla.
Come c’era arrivata? L’avevo messa prima o dopo esserci seduti sul letto? E soprattutto, perché non ricordavo tutto ciò? Se a posteriori tutte queste domande mi furono spontanee, sul momento furono assolutamente prive di rilevanza per me. Tutto quel che importava era lei.
-Potresti venire con me… in America.-, dissi. Lei mi guardò sorpresa e per un istante temetti avrebbe rifiutato. Invece mi sorprese nuovamente.
-Perché ti preoccupi tanto per me?-, chiese. Io presi tempo. Come spiegare? Optai per la verità.
-Perché ti sogno, da molto. Da prima di venire in Vietnam.-, ammisi.
-E nel sogno… cosa facciamo?-, chiese lei. La sua mano ora era sulla mia gamba. Sulla coscia.
Cercai d’ignorare l’eccitazione che mi gridava di possedere quella femmina. Ardua impresa.
-Facevamo l’amore.-, confessai. Lei rimase in silenzio per un lungo istante.
-Presso la mia gente si dice che i sogni siano promesse degli spiriti. Se mi hai sognata, allora io sono tua.-, disse. Non era arrendevole, mi guardava con uno sguardo di fuoco.
L’avrei veramente avuta? Lì? Su quel letto e in quel momento?
-È quello che vuoi?-, chiesi. Non volevo forzarla: farlo avrebbe significato venire meno ai valori che sentivo miei. Lei annuì.
-Ti ho sognato anche io. Siamo legati.-, sussurrò. I nostri volti erano vicinissimi.
Prima di poter agire, fu lei a fare la mossa, avvicinandosi ancora e baciandomi. Un bacio lungo e lento. Improvvisamente l’universo perse d’importanza. Non pensai a come risolvere le cose, o a cosa dire a parenti e amici. Pensai solo a lei. Mentre le nostre bocche si cercavano, le lingue danzavano e i cuori galoppavano, decisi che non m’importava. Avevo trovato l’oggetto della mia ricerca. Tutto sarebbe andato bene, d’ora in poi. Sentii la mano di Lyn sul mio membro.
Mi accorsi che si era tolta la parte superiore dei suoi abiti, svelando un seno eccezionalmente voluminoso per una vietnamita, dai capezzoli scuri e puntiti. Eppure, qualcosa mi fermò. Quella capanna… non era il luogo adatto. Non so come ma lo pensai.
-Aspetta.-, sussurrai. Lei me l’aveva già tirato fuori e dovetti ripetermi due volte perché capisse. Mi guardò imbronciata.
-Non ti piaccio?-, chiese. Parve per un istante una delle escort di Cholon. Ma fu solo un istante.
-Mi piaci tantissimo e ti voglio, ma non qui. In un posto dove possiamo esser certi che nessuno ci disturberà.-, dissi, -Lì potrai avermi e potrò averti tutte le volte che vorrai.-, promisi.
Lei sorrise. Un sorriso malizioso che rischiò di farmi ritrattare il mio proposito e riprendere a possederla con foga animalesca. Ma resistetti.
-Va bene. Aspetterò. Ma sappi che, quando deciderai che il posto è giusto, ti farò mio tanto quanto tu mi farai tua.-, promise. E furono quelle parole a inquietarmi. Se non mi fossi concentrato solo su di lei ma mi fossi permesso anche di riflettere, forse avrei pensato. Forse avrei considerato. Forse avrei temuto. Invece no: sorrisi e le dissi che così sarebbe stato.
Poi tornai nella mia camera e, a dispetto dell’erezione, dormii un sonno senza sogni.

Il giorno dopo raggiungemmo Qung Tri, eravamo a soli 65 chilometri da Saigon e da lì procedemmo tramite mezzi terrestri. Corruppi un paio di guardie per permettere anche a Lyn di raggiungere Ho Chi Minh. Una volta giunti lì, ci furono molti meno problemi.
La guerra aveva reso il Vietnam un paese povero e arido ma la gente tirava avanti, con la stessa determinazione ferrea che avevano mostrato durante tutti gli anni di lotta.
Meritavano rispetto. Dovevo dirlo: non ero mai stato come i miei commilitoni, anzi rispettavo enormemente i comunisti vietnamiti e i grandissimi sacrifici che avevano saputo fare.
Giunti alla capitale, Minh iniziò a tempestarmi di domande. Mi limitai a rispondere succintamente. Quando il nostro alterco divenne un litigio in piena regola riguardo My Lyn, il mio limite fu pagarlo e a dirgli in maniera men che cortese che i suoi servigi non erano più richiesti. Litigammo arrivando alle mani e lui disse che non voleva più saperne né di me, né tantomeno di Lyn. Meglio così. Togliermelo di torno fu una soddisfazione.
Aveva fatto la sua parte, nulla di più né di meno. Ormai non era più necessario.
Noleggiammo una stanza in una pensione e May Lyn comprò alcuni vestiti oltre a permettersi una lunga giornata in cui si curò esclusivamente del suo aspetto fisico. La sera stessa ripartimmo per Londra e da lì per l’America.
May Lyn, complici le mie conoscenze, aveva un passaporto vietnamita con nome e tutto. Era in regola come chiunque altro. In America la situazione sarebbe stata più difficile. Ne parlammo in aeroporto e infine lei propose di fermarci in Canada.
Non ci volle poi molto: mio fratello Warren, già residente in Canada per sfuggire all’arruolamento per il Nam ci trovò una sistemazione in un palazzo di Halifax.
Passammo tutto il giorno a montare mobili.
May Lyn pareva felice, aveva gli occhi che brillavano di contentezza. Si soffermava a osservare i mobili e le comodità come l’acqua corrente. Poi si chiuse in camera da letto. A più riprese le chiesi di scendere ma lei disse che stava preparando qualcosa di speciale. Trafficò tra bagno e camera da letto per un po’ e uscì solo per la cena (pizza ordinata da un ristorante italiano).
Poi si chiuse di nuovo in camera, finché non arrivai io.
Erano le 20.30 di venerdì. Era una sera pacifica, nient’affatto tempestosa. Anzi, il cielo era sereno e c’erano pochissime nuvole. Entrai in camera con il cuore che già batteva forte e il membro turgido. Avevo una mezza idea di cosa avrei trovato ma rimasi ugualmente sorpreso.
Piacevolmente sorpreso, aggiungerei: al centro della camera, proprio davanti al letto matrimoniale, c’era My Lyn. Nuda. Il corpo tatuato era pieno di scritte. Alcune in caratteri vietnamita. Altri parevano più antichi, tribali. Eccettuate le sopracciglia e i capelli, era depilata ad arte. Era seduta sulle ginocchia, sorrideva al mio indirizzo, gli occhi diversi che parevano brillare di lussuria. Mi accorsi che sarei esploso se non l’avessi posseduta subito.
-Vieni a prendermi.-, sussurrò lei. Era un ordine, era evidente. Un ordine che sbloccò qualunque mia ultima possibile reticenza. Mi sedetti davanti a lei, baciandola. La lingua della giovane asiatica mi dardeggiò in bocca mentre la sua mano si chiuse sul mio membro.
-Bello duro…-, sussurrò. Lo manipolò giusto un istante, così, come per saggiarlo.
-Tutto per te, tesoro.-, sussurrai io. Ero perso in un universo oscuro e incomprensibile, gli occhi chiusi, assaporavo la bocca di May Lyn mentre le toccavo il seno oliato.
-Il letto è di gran lunga più comodo.-, le sussurrai.
-Aspettavo solo che tu lo dicessi…-, mi sussurrò lei. Sorrisi. La presi in braccio, deponendola sul letto. Improvvisamente sentii un tuono, lontano. Pensai solo che fosse strano, il cielo era sereno fino a poco fa. Ma alla fine non m’importava. Per niente.
C’era una sola cosa che m’importava, in quel momento ed era penetrare quella vulva che mi si offriva tanto impudicamente! Accarezzai il seno della giovane vietnamita mentre lei gemeva sussurrando frasi smozzicate che non capii in alcun modo. Scesi lungo lo stomaco. Volevo farmela, la volevo ma non volevo essere un bruto: meritava la sua soddisfazione.
Eppure, contrariamente a ogni mio buon senso, l’unica cosa che volevo era trapassarla col mio membro, affondarle dentro, annullarmi in lei sino a divenire un solo essere.
Dio, mai una donna era arrivata a portarmi in un simile stato. Mai! Neanche mia moglie, che in quel momento era lontanissima. C’era solo il presente. May Lyn e io, il letto era tutto lo spazio e l’eternità tutto il tempo concessoci da divinità che potevo solo lodare per aver messo quella fanciulla sulla mia strada. Accarezzai dolcemente l’interno coscia di lei, fermandomi appena prima della vulva. La volevo… Ma non volevo essere brutale. Lei mi prese la mano, poggiandosela sulla vagina rorida di umori. La sentivo schiudersi sotto le mie dita.
Muta supplica, non detto desiderio, ordine implicito. Ordine che beninteso intendevo adempiere ad ogni costo! Mi posizionai tra le sue cosce. Il pene era così rigido da dolere.
Eppure… lei pareva attendere solo quello ma volevo assolutamente gratificarla. Le strofinai il glande sul clitoride visibile. Lei gemette.
-Mettimelo dentro… Tutto…-, sussurrò, -Adesso.-. Sicuramente aveva già deciso che i preliminari erano terminati. Io sorrisi.
-Scusa, volevo solo darti piacere.-, dissi, ero imbarazzato. Lei mi sorrise di rimando, bellissima, discinta e maliziosa. Si toccò appena tra le cosce.
-Nulla mi piacerebbe di più che sentirti dentro di me!-, esclamò. Se le cose stavano così…
Puntai il membro all’imbocco della vagina e spinsi. Affondai nella fornace della sua intimità con impeto, spingendomi fino in fondo e sentii le unghie di May Lyn graffiarmi il dorso con foga. La vietnamita mormorò qualcosa che si perse nel rumore di un tuono. Poi di un secondo, mentre uscivo e rientravo, iniziando a dare il ritmo.
-Dai… Dai…-, mi sibilò lei a denti stretti. Mi graffiò il petto mentre le affondavo dentro.
Stava piacendomi tantissimo, mai avevo visto una donna così calda. Neppure le vietnamite che mi si erano offerte durante le licenze a Cam Rhan Bay si erano rivelate così profondamente eccitate. La vulva di May Lyn era una sorgente calda in cui m’immergevo spinta dopo spinta.
-Più forte…-, implorò lei. Ah, voleva il gioco duro, eh? La accontentai iniziando a martellarla.
Altri tuoni giunsero, più forti e la pioggia prese a cadere. Non m’importava: importava solo lei, le strinsi un seno. Gemette ad occhi socchiusi.
-Così ti va bene?-, chiesi con foga. Lei gemette mugolando una frase talmente smozzicata che non mi diedi la pena d’intenderla mentre continuavo. Sì, comunque era chiaro che le andasse bene. Sorrisi. E proprio mentre stavo per godere, lei si tolse.
-Stenditi. Lascia che ti faccia godere io.-, disse. Non rifiutai e mi distesi. La vietnamita mi salì sopra, impalandosi con un movimento tanto fluido da apparire il risultato di numerosi amplessi. Fugacemente e solo per un istante mi chiesi quanti altri c’erano stati prima di me.
Non m’importava, decisi. Perché rovinarmi il presente col suo passato?
Eppure se me lo fossi chiesto, se avessi ascoltato… A posteriori sembra molto facile pentirsi.
Ma sul momento le mie percezioni erano limitate alle nostre carni che si congiungevano, ai baci rubati, ai suoi capelli sul mio petto e ai suoi seni nelle mie mani.
-Dammelo tutto… tutto!-, esclamò lei mentre salmodiava una bizzarra litania che non capivo.
Quando le esplosi dentro la sentì urlare di piacere e godimento e proprio in quell’istante, un tuono più forte degli altri spezzò quel silenzio, prima interrotto solo dai rumori del nostro amplesso.
Schizzai dentro il suo ventre fiotti di sperma caldo, libagioni per la sua vulva.
May Lyn mi si accovacciò addosso. Ancora penetrata dal mio membro, si stese su di me.
Non osai muovermi, sapendo che quel momento era quanto di più perfetto avessi potuto avere da molto, molto tempo.

A posteriori avrei dovuto fare caso a diverse cose. Ai suoi sussurri, o all’incrementare della tempesta, giunta al suo apice con il suo orgasmo, al fatto che restammo fermi per un lunghissimo istante… Avrei dovuto notare tutto questo. Invece no: sopraffatto dal piacere, non ci feci caso e ancora adesso rimpiango la mia leggerezza!
Comunque, giacenti sul letto, rimanemmo immobili per un tempo che ancora non so quantificare. Ero sfiancato da quella cavalcata selvaggia ma May Lyn pareva volerne ancora.
-Ho ancora voglia, amore.-, disse. Eccola. Io avrei voluto poterla soddisfare ma il mio membro stava ancora riprendendosi. Era stato un orgasmo devastante, intenso come nessun’altro.
-Temo che dovrai aspettare, tesoro.-, dissi, costernato. La vietnamita prese a succhiarmelo, annidandosi tra le mie gambe. Iniziò una fellatio di qualità sopraffina e se inizialmente mi fu quasi fastidiosa visto l’orgasmo avuto, dopo pochi istanti il mio membro riprese una consistenza granitica. Ero stupito ma May Lyn mi sorrise, levandoselo dalla bocca con aria trionfante. Aveva negli occhi la stessa voglia. La stessa lussuria che pareva intatta nonostante l’amplesso di poco prima. Mi cavalcò con l’usuale foga, come ad attendere che io la prendessi.
E dopo qualche istante, confesso che iniziai a desiderare di domarla, di fotterla come un animale. A lei non pareva dispiacere quindi perché trattenermi?
La giovane vietnamita parve intuire il cambiamento in me. Si sfilò, mettendosi a carponi.
-Forza.-, disse soltanto, -Prendimi…-. Un invito. Non le risposi, limitandomi a posizionarmi dietro di lei e a penetrarla con foga. Seguirono cinque lunghi minuti di martellate penetrazione durante la quale sentii il mio membro pulsare, quasi dolorosamente.
Una fitta mi fece temere che stessi per avere un infarto ma ne dubitavo. May Lyn accoglieva i miei colpi con gemiti modulati, il viso schiacciato contro un cuscino e la chioma stretta nella mia mano. Continuai a pompare finché non le venni dentro, all’unisono con lei e con un tuono.
E come in un sogno, caddi sul letto, esausto, stremato e decisamente pronto al sonno.
Lei intanto aveva ripreso a sussurrare. Si toccava appena, come a volersi prendere gli ultimi rimasugli di piacere. Gemette e infine sentii la frase. La frase a cui non diedi alcuna importanza.
-Iä. Neknushan, Iä!-, ripetuta ancora e ancora. Come un mangiadischi rotto condannato a ripeterla all’infinito. Eppure sorrisi e mi addormentai, ignaro.

Il nostro matrimonio fu celebrato senza autorità religiose di sorta e la nostra prima notte di nozze, May Lyn sfoderò tutta la sua abilità erotica per compiacermi. Ci accoppiammo per ben tre volte, una più frenetica e selvaggia della precedente. La prima si concluse con la mia venuta sul corpo di lei. La seconda volta le godetti dentro dopo una cavalcata selvaggia che mi sfiancò, la terza invece ingoiò il mio seme al culmine di una fellatio degna di un primato.
Il giorno dopo non riuscii quasi a muovermi dal letto. Lei invece pareva leggiadra e lieta.
E la cantilena che mormorava durante i nostri amplessi assumeva toni bestiali, poco umani.
Ma ovviamente ignorai questi segnali: la vita in comune, il sesso e il lavoro che avevo trovato presso una fabbrica di automobili, mi assorbivano completamente.
Ci volle una persona da fuori ad aprirmi gli occhi.

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Non è corretto dire che io sia stato completamente cieco alle stranezze, ma è pur vero che esse si manifestarono lentamente. La prima cosa che mi colpì fu che May Lyn fu sin dall’inizio molto casalinga.
Non usciva quasi mai, se non per dirigersi in centro, in alcune librerie da cui tornava con pochi libri dei più disparati argomenti. Non vi diedi peso.
Per il secondo motivo di preoccupazione, si dovette attendere un mese di convivenza, durante la quale il sesso con May Lyn divenne più calmo, quieto. Curiosamente, la giovane non era ancora rimasta incinta sebbene molte fossero state ormai le volte in cui l’avevo posseduta.
La passione feroce e bruciante degli inizi aveva lasciato il posto ad amplessi sempre passionari ma più calmi, come se a May Lyn si fosse sostituita una sosia mal riuscita.
Quello mi preoccupò, leggermente. Certo, facevamo ancora sesso ma il pensiero che lei potesse avere un amante o addirittura aver perso interesse in me era un pugnale che mi trafiggeva in ogni istante. Indagai brevemente e scoprii che non c’era alcun amante o se c’era lo nascondeva decisamente bene.
Il terzo motivo d’inquietudine mi fu donato dal fatto che May Lyn avesse deciso di trasferirci in una casa più grande. Rapidamente si era impadronita di una stanza che teneva chiusa a chiave e nella quale entrava mentre io non c’ero. La nostra nuova vicina, la signora Puddler mi informò che il suo cane e anche altri del circondario avevano preso ad abbaiare in modo inconsueto la notte. Poi c’erano le cantilene. Durante i nostri rapporti, sempre alla fine, nel breve tempo in cui stavamo fermi, abbracciati, la sentivo sussurrare quella frase.
Quando le chiesi spiegazioni, lei disse che era una benedizione nella lingua della sua gente.
Ci credetti. Ancora una volta. Sebbene ormai fosse evidente che avrei dovuto insospettirmi, tergiversai, complice la logica che mi suggeriva che quella donna così eccitante e bella non poteva essere malvagia o latrice di alcunché di malvagio.
Passati due giorni dal nostro ultimo amplesso e rispettivamente almeno due mesi dal nostro sposalizio, allo specchio notai che il mio viso pareva invecchiato, come prematuramente.
Non solo: anche i capelli erano ingrigiti in modo precoce. Presi un appuntamento con un medico che sostenne fosse dovuto agli sforzi fisici eccessivi ed allo stress cui ero sottoposto.
La diagnosi non mi convinceva ma era la sola cosa che potesse razionalmente spiegare il tutto.
Smisi di pormi domande in tal senso ma una stranezza di fondo, interrogativi inquietanti che non riuscivo davvero a ignorare.

Pochi giorni dopo ricevetti una telefonata a casa. Era sabato ed ero da solo a casa.
-Pronto?-, chiesi sollevando il ricevitore.
-Il Signor Blackwall?-, chiese una voce dall’accento orientale.
-Sì. Chi parla?-, chiesi io.
-Sono Minh Na Trag, si ricorda?-, chiese la voce. Sì, ricordavo. Strinsi il ricevitore con rabbia.
-Che cosa vuole?-, chiesi, memore del nostro separarci rancoroso.
-Parlarle. Ho fatto delle scoperte riguardo la tribù da cui proviene May Lyn… Immagino che lei la frequenti ancora, vero?-, il tono tradiva una preoccupazione che l’interlocutore non si curava di nascondere.
-Sì.-, ammisi, -Siamo sposati da qualche mese.-. Sentivo di voler appendere quella chiamata. May Lyn era uscita ma sarebbe tornata presto e non volevo sapesse di quella chiamata.
-Mi ascolti, signor Blackwall. La prego di concedermi qualche minuto del suo tempo. La sua vita e quella di molte altre persone potrebbero dipendere da questo.-, Minh ora pareva supplicare. Io scossi il capo.
-Lei è pazzo!-, esclamai, -Non so come abbia avuto questo numero ma non osi richiamarmi!-.
-Aspetti!-, ribatté non meno veementemente il vietnamita, -Mi dica che non è invecchiato, che non ritiene strana tutta questa riservatezza da parte di sua moglie! Mi dica che ho torto quando credo che nasconda qualcosa. Me lo dica e la lascerò in pace. Ma se pensa, come me, che sua moglie stia nascondendo qualcosa, allora la invito al Central Café per domattina alle nove di mattina. Le dirò tutto quello che so. Sono convinto che capirà.-.
Riflettei. Mi permisi di riflettere per due lunghi minuti.
May Lyn non era stata totalmente chiara su molti punti e altri erano ancora da capire.
Io l’avevo cercata in seguito a un sogno e l’avevo trovata seguendo il sogno. Ma lei…
Lei mi aveva seguito così, attirata dalla necessità di una vita migliore… Oppure no?
Quale era la verità? Minh sosteneva di sapere qualcosa… Mi tornarono alla mente le storie sentite in Vietnam su quella tribù. Rabbrividii inconsciamente.
-Signor Blackwall? È ancora in linea?-, chiese Minh. Espirai, cacciando l’indecisione.
-Sì… Sì, ci sono. Ok. Domani alle nove al Central café.-, dissi. Minh appese senza dire altro.
Appesi il telefono. Improvvisamente sentii un gelo, un timore reverenziale e assoluto, la paura e la consapevolezza che niente, niente!, sarebbe mai più stato uguale.
Scossi il capo. Avrei ascoltato ciò che Minh mi avrebbe dovuto dire, poi me ne sarei tornato a casa, avrei trombato con mia moglie e sarei andato avanti con la mia vita.
May Lyn entrò, sorridendo. Aveva una borsa con dei libri. Libri di Latino, un dizionario, un libro dal titolo ignoto rilegato in pelle nera e altri libri di storia.
Mi baciò a tutta bocca, poi notò la mia aria non esattamente quieta.
-Tesoro, che succede?-, chiese. Io tentennai. Dirglielo o non dirglielo? Decisi.
-Nulla… un parente che sta male… Nulla di che. Domani ne saprò di più.-, dissi.
Avevo oltrepassato una linea, mentendole avevo infranto un tabù. Speravo che la verità di Minh valesse tutto ciò. Lei mi baciò di nuovo.
-Mi dispiace tanto, tesoro.-, poi salì le scale. Al piano superiore c’erano la sua camera privata (quella in cui io non potevo entrare e che lei diceva essere adibita a scopi religiosi) e la nostra camera matrimoniale. Rimasi fermo, poi semplicemente presi un respiro e andai a fare una doccia. Mentre l’acqua mi scorreva addosso, pensai che era un bel casino.
Sentii la porta aprirsi e May Lyn scivolò dentro. Entrò nella doccia e s’inginocchiò, prendendomelo in bocca senza una parola. Mi fece una pompa sublime che terminò con la mia venuta nella bocca di lei. Dopodiché, May Lyn disse una frase che mi fece male.
-Amore, so che tu non mi mentiresti mai.-, lineare, spietatamente calorosa come frase. Mi abbracciò. La abbracciai. E solo un irrazionale impulso m’impedì di dirle la verità.

Il giorno dopo alle 9.00 spaccate arrivai al Central Café. Mi ero dato malato al lavoro per quell’incontro ma ammetto che non era chissà quale decisione. Molte cose non quadravano ed era ora di avere delle risposte, se Minh realmente le avesse avute. Ma dal suo tono non pareva mentire, almeno non tanto male da farsi sorprendere. Era anche possibile che mi giocasse del tutto e che fosse lì per ricattarmi o chissà che altro, ormai però ero lì e dovevo andare a vedere il suo bluff, se poi di un bluff si trattava.
Entrai nel bar con passo calmo, analizzando la scena come quando, nella giungla, andavo a caccia dei vietcong. Due impiegati di qualche banca facevano colazione con una zuppa di pomodoro. Una donna sola sorbiva un café e, nell’angolo c’era Minh.
Il sociologo non pareva invecchiato di un giorno, cosa che mi ricordò la mia faccia. Ero invecchiato, precocemente. Anche quello non era normale… Che diavolo stava succedendo?
I dubbi si ripresentarono, mille e mille volte più forti. Furono quelli e nient’altro a farmi avvicinare al vietnamita che beveva un thé.
-Signor Minh?-, chiesi. Lui sollevò lo sguardo. La tazzina tremò nelle sue mani e un’espressione turbata si disegnò sul suo viso.
-Signor Blackwall… Lei è invecchiato orribilmente in fretta. Si sieda… Ora più che mai mi rendo conto di doverle dire tutto, anche se lei non mi crederà.-.
-La ascolto.-, dissi soltanto mentre sedevo e chiedevo un caffè. Minh estrasse da una cartella un faldone di dimensioni considerevoli e iniziò a spiegare.
-Dopo che lei se n’è andato sono tornato a trovare il vecchio Nung e gli ho raccontato tutto quanto. La sua reazione è stata terribile: piangeva invocando la pietà degli spiriti su di lei e sul suo paese. Ha iniziato a parlare di oscuri rituali, di interi eserciti persi nel nulla. Di orribili morti e riti inumani. Inizialmente ho temuto che stesse avendo una crisi di nervi ma poi si è calmato e ha detto che quella zona, la zona al limite della quale ha trovato May Lyn è maledetta. Da secoli. Solo i comunisti e gli stranieri vi si sono addentrati. Il più delle volte per non fare mai più ritorno. Volevo saperne di più e il Nung mi ha inviato a Chei Hoi, un villaggio poco distante. Mi ha detto di parlare con un prete. Il prete era francese e forse era stato nella Legione Straniera ma mi ha raccontato. Tutta la sua spedizione è stata spazzata via da loro, dalla tribù e dai suoi alleati che il prete stesso ha definito demoniaci. Mi ha fatto un breve schizzo, guardi.-, mi pose un foglio preso dal faldone sul tavolo. Sopra vi era disegnata la bozza di un essere dai molti occhi e dalle appendici tentacolari. Una cosa orribile a vedersi. Il caffè, arrivato e già iniziato, improvvisamente mi parve imbevibile.
-E lei teme che May Lyn sia… così? O che possa… chiamare a sé entità come questa?-, chiesi.
-Io non lo temo: io ne sono sicurissimo.-, ribatté Minh. Estrasse dal faldone un secondo foglio. La mappa della Provincia di Dong Hinh. In mezzo alla provincia c’era uno spazio contrassegnato come zona maledetta, (scritto in francese).
-Questa cartina è del 1910. Questa è del 1960.-, disse estraendone un’altra. La zona maledetta era ancora lì. Persino il nome era uguale. Rimasi in silenzio, assorbendo quelle informazioni.
-Il prete mi ha detto che, durante la lotta contro il Viet Minh, neanche la Legione osava più spingersi là dentro. Temevano che i comunisti vi avessero costruito rifugi o ripari ma mai, mai sarebbero andati ad attaccarli. Non dopo quel che hanno fatto alla spedizione del maggiore Villeneuve…-, Minh si fermò un istante per bere un sorso di te che non parve calmarlo minimamente, anzi. Gli tremavano le mani.
-Ho scavato più a fondo, cercato in vari archivi e interrogato gente che aveva tentato di entrare in contatto con quella tribù. Mi c’è voluto parecchio ma ho trovato questo.-, disse.
Mi passò una foto, no una serie di tre foto. La prima rappresentava un uomo con gli stessi tatuaggi di Lyn. La seconda invece era la foto di un tempio che non pareva costruito secondo le logiche e le consuetudini edili del Vietnam pre-coloniale.
Ma fu l’ultima foto a inquietarmi, a stringermi le viscere in una morsa gelida, facendo schizzare i battiti del mio cuore verso la tachicardia.
C’era un uomo, su una pietra che pareva un altare, con tutta la tribù attorno.
Donne e uomini avvinghiati le uni gli altri e i bambini che osservavano la scena. Tutti tatuati come May Lyn. E sull’altare l’uomo, il viso agonizzante, un coltello piantato in petto.
Più lontano, appena oltre il morente, pareva esservi una distorsione nell’aria. L’eterea presenza di qualcosa che increspava le onde dell’esistente. Qualcosa che non sarebbe dovuto essere lì. La mia parte razionale mi urlò che quella era solo una distorsione dovuta alla vecchiaia della foto, all’incuria… Ma non potei sopprimere un tremito.
-May Lyn e la sua tribù sono dei selvaggi, adoratori di forze oscure al di là della sua e della mia comprensione. La tribù è scomparsa e non vi è stato esodo o spostamento indotto dalle forze governative. La sola risposta è che la tribù dovesse morire, forse per permettere a May Lyn di venire qui, a trapiantare la sua religione…-, quella fu la goccia. Mi alzai, paonazzo.
-La smetta! Dannazione io… io non posso credere a tutto questo! È un’immensa montagna di cazzate!-, esplosi. Minh non fece una mossa, sebbene tutti guardassero malissimo sia me che lui. Continuò a bere il thé, impassibile finché non mi fui calmato e seduto.
-Lei dice?-, chiese, -Allora le chiedo di andare a casa sua quando sua moglie non c’è. Sono sicuro che troverà molti indizi riguardo la verità. Ancor meglio: la segua! Guardi dove va. Io sarò a Toronto, presso una mia conoscente che ne sa molto più di me per quanto riguarda queste cose. Se, anzi quando verrà a conoscenza della verità, non esiti a contattarmi.-, Minh bevette l’ultimo sorso di thé. Riprese le foto e i documenti, chiuse il faldone.
-Lei…-, iniziai io, -Lei…-. Non avevo parole.
-Lei sa cosa deve fare. Vuole le prove? Le cerchi pure. Ce ne sono, per chi sa guardare.-, detto ciò il tono del sociologo diminuì, -Ma stia attento. May Lyn e la sua tribù non sono sopravvissuti sino ad oggi grazie alla pietà e alla trasparenza.-, il vietnamita pagò il thé e uscì.
Le immagini di ciò che avevo visto e i miei sogni andarono a intrecciarsi in un caleidoscopio di pensieri che mi pareva davvero terribile. Bevvi il caffè con rabbia.
Ordinai un whiskey. Mi fu portato. Bevvi. L’alcool mi diede sollievo, allontanò lo spettro del terrore. E io pensai con lucidità.
Mi rifiutavo per semplice logica di accettare quanto detto da Minh ma non potevo negarne la validità sulla sola base della logica, non dopo le prove sottopostemi dal vietnamita.
No. Dovevo scoprire la verità. A ogni costo. E poi avrei deciso come agire.
Un passo alla volta, come nella valle dello Ia Drag. Non sarebbe stato facile.

Tornai a casa rapidamente, approfittando della mancanza di May Lyn.
Era uscita, probabilmente da qualche parte a recuperare libri. Entrai in camera nostra. La sua libreria ospitava solo una decina di volumi. Improbabile fossero tutti lì. Il sospetto mi venne fin da subito. Dov’erano gli altri libri? Aprii armadi, comodini, guardai sotto al letto. Niente.
Poi capii. La stanza segreta di mia moglie! Ecco dove! Arrivai davanti alla porta. Aprirla… ma come? Sarebbe stato difficile. La chiave… se fossi stato in lei l’avrei portata con me in ogni istante. E questo complicava tutto. Ma d’altronde dovevano pur esserci dei duplicati…
Cercai ovunque una chiave che andasse bene. Non la trovai e infine decisi di attendere.
May Lyn arrivò a casa. La vietnamita mi buttò le braccia al collo, baciandomi con ardore.
La volevo? Non ne ero più sicuro, non dopo quanto dettomi da Minh.
-Tesoro, stasera sono molto stanco. Domani…-, dissi. Lei parve capire. E salì al piano di sopra.
Sentii il rumore. Acqua che scorreva. Era in doccia. Dovevo approfittarne.
Appena fuori dal bagno aveva lasciato il suo vestito. Eccola. La chiave!
La presi e, circospetto come un gatto, la nascosi dentro a un comodino, mettendole in tasca la chiave di un’altra stanza. Per evitare che s’insospettisse avrei dovuto distrarla e sapevo bene che c’era solo un modo.
-Tesoro, che fai?-, chiese lei. Sorrisi, mettendo su la mia miglior faccia da poker.
-Mi sono accorto che non sono così stanco.-, dissi. Spogliatomi entrai nella doccia, strusciando il membro tra le natiche della giovane. May Lyn sorrise, gemette.
-Ora ti scopo.-, dissi recitando la parte del maniaco assatanato.
-Sfondami…-, sussurrò lei. C’era qualcosa di bestiale, d’innaturale in quella parola così oscenamente provocante ma non mi ci soffermai: farlo avrebbe implicato darle modo d’intuire che sospettavo qualcosa. Il mio membro, ritto e fiero, mi fu d’inestimabile aiuto poiché trapassò la vulva della vietnamita, affondandole dentro.
-Oh… Sì!-, esclamò lei. Feci avanti e indietro, mettendoci energia, torturandole i seni con le mani, sculacciandola e stringendole i capelli. May Lyn si lasciava fare, completamente dimentica di eventuali miei atteggiamenti sospetti.
-Vienimi dentro… dammi tutto…-, sussurrò lei con voce roca. Iniziò quella sua cantilena.
Ora mi metteva i brividi. Sentii un cane abbaiare furiosamente in lontananza.
Mi sfilai rapido e le venni sul sedere arrossato dalle mie pacche. Lei imprecò domandandomi il perché di quello spreco del mio seme. Ovviamente non potevo dirle la verità ma in meno di cinque secondi montai una balla credibile, frutto del momento.
-Era troppo bello tesoro… Stavo per dirti di succhiarmelo come sai fare solo tu, ma non è stato possibile resistere… Sei fantastica.-, dissi. Lei sorrise. Avevo dissipato i suoi dubbi? Non lo sapevo. Ma avevo la chiave. Che lei sospettasse o meno, potevo usarla. E l’avrei usata.

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La notte è sempre stata latrice di brutte notizie nel corso della mia vita.
Una notte mio padre è morto. Fu di notte che i Vietcong attaccarono la mia posizione e quella dei miei compagni durante la battaglia di Ia Drag e fu sempre la notte che mi fu rubato il portafoglio. Mia moglie morì durante la notte tra il 23 e il 24 di gennaio del 1975.
Insomma, la notte per me non si è mai rivelata favorevole.
May Lyn aveva accettato la mia versione ed aveva semplicemente mangiato. Dopo cena avevamo bevuto un po’ di vino, gentilmente offerto da un mio amico e lei si era affrettata a propormi di riprendere la piacevole esperienza nella doccia. Ero stanco e tutto ciò si era risolto in un prematuro ritiro a letto. Lei si era addormentata rapidamente, quasi troppo.
Io ho atteso. Un minuto, due, cinque, dieci, un’ora. Ho atteso finché il respiro di lei non mi ha dato a intendere che si fosse realmente addormentata.
Poi, lentamente, con assoluta furtività, presi a muovermi. Feci un passo per volta, circospetto come se fossi stato in pieno territorio nemico. Arrivai in corridoio e presi la chiave. La infilai nella toppa, pregando non vi fossero antifurto di sorta o chissà quale altra diavoleria.
Solo a posteriori, ammetto che sapendo cosa mi aspettava là dentro, avrei dovuto pregare per ben altro. Forse per la mia anima, o forse per impazzire, poiché dopo troppi orrori, la pazzia pare poter essere a suo modo misericordiosa.
Girai la chiave e la porta si sbloccò. Abbassai la maniglia ed entrai. Abbracciai la scena con lo sguardo. La stanza non aveva nulla di vietnamita. May Lyn l’aveva definita una stanza utile alle sue necessità religiose e Minh aveva sostenuto che la tribù fosse morta solo per permettere a quella giovane di venire in un nuovo posto a trapiantarvi le proprie credenze ancestrali.
Beh, sicuramente quelle di May Lyn non erano le credenze religiose tipiche del Vietnam.
Un cerchio bizzarro era dipinto in nero sul pavimento, all’interno del quale ve n’era un altro.
Nello spazio tra i due cerchi, caratteri illeggibili di una lingua impossibile.
“Cosa diavolo ci fa qui?”, la domanda mi saettò nel cervello e il mio sguardo fu attirato dalla libreria. Entrai nella stanza. Eccoli i libri che May Lyn aveva comprato.
Il Malleus Bestiarum, il celebre Dionisiacee di Livio Mellio Primo, il tristemente noto Necronomicon e altri libri che spaziavano tutti in argomenti attinenti la necromanzia e il demoniaco. Imprecai senza parlare. Avrei potuto leggere quei tomi ma un istinto irrazionale mi fermò. Mi voltai verso il comodino, posto all’angolo opposto della sala. C’era una lista di nomi su di esso. Afferrai la mia torcia tascabile e la accesi.

Donovan Pirk.
Jhon Silvermouth.
Ngo Vinh Vien.
Greta Gabel
Osvald Mund

Accanto a ogni nome c’era un visto. Non capivo. Ma memorizzai i nomi in breve tempo.
Non capivo, non riuscivo a capire quale fosse il nesso tra quei nomi e la passione di May per l’occulto. Scossi il capo, come a voler scacciare i pensieri ma non potevo più evitarli.
Era finita, le illusioni caddero come castelli di carta. Sarei caduto in ginocchio se non mi fossi aggrappato al comodino con la forza della disperazione.
E solo allora lo notai. Alla luce della torcia baluginava malignamente. Sangue.
Al centro del cerchio bizzarro c’era del sangue! Soppressi un grido.
May Lyn aveva ucciso? O si era ferita? No… non ricordavo ferite sul suo corpo, quindi la spiegazione doveva essere un’altra.
“Cosa ho fatto?”, mi chiesi. Avevo portato quella donna in America… le avevo permesso di continuare a praticare quella sua orrenda arte, indisturbata. E ora se la lista era quello che sembrava, anche altri cinque innocenti ci sarebbero andati di mezzo!
La decisione mi sovvenne rapida come un pensiero soltanto poteva essere.
Minh aveva ragione. Dovevo ritrovare il sociologo e capire cosa fare. Prima che fosse tardi.
Ma come fare? E cosa, soprattutto. Andare alla polizia sarebbe stato folle, sarei stato preso per un pazzo. Parlarne al prete sarebbe stato inutile. E uccidere May Lyn non era una soluzione.
Non stavo combattendo una guerra che potevo vincere a pistolettate e coltellate. Era una guerra combattuta con altri mezzi. Con differenti metodi.
In quel preciso momento, guardando nel vuoto, mi sentii osservato. Mi girai fulmineo.
Nessuno. Ero solo. Ma qualcosa mi aveva visto. Uno degli abitatori di chissà quale abisso, richiamati dall’empia magia di May Lyn, ultima della sua gente, mi aveva puntato.
Andarmene, ora! Ecco ciò che dovevo fare! Ma lo sguardo mi cadde su un libretto. Piccolo, appoggiato accanto al comodino. Lo presi sfogliandolo.
Era scritto in qualche dialetto vietnamita perché non capii una parola. Doveva essere una sorta di diario perché le date erano scritte a inizio pagina ed era ordinato e scritto in quella che potevo ritenere una buona grafia. Ma non c’era altro. Il sangue poteva essere umano come animale, ma era stato versato di recente ma era strano che non coagulasse e che non mandasse l’odore tipico dell’emoglobina. C’era troppo che non capivo, troppo che non volevo capire. Scossi il capo. Uscii dalla stanza dopo aver rimesso tutto in ordine. Chiusi la porta e rimisi la chiave nella tasca della veste di May Lyn, in modo tale che la giovane non sospettasse alcunché. Poi mi stesi a letto ma l’idea di condividere il letto con quella donna… con quell’essere abbietto mi provocava ribrezzo. Andarmene, subito. Ecco cosa dovevo fare.
Mi sarei inventato una scusa, qualcosa di plausibile, avrei raggiunto Minh e gli avrei chiesto aiuto, possibilmente coinvolgendo anche quella persona che il sociologo aveva detto essere molto più ferrata di lui. Poi? Poi saremmo andati avanti. Un passo dopo l’altro.
Guardai la giovane. Ucciderla? E per cosa? Per finire dentro? Per venire ucciso a mia volta da qualche suo amante? Ero sicurissimo che tra quei nomi ci fosse un amante, qualcuno abbastanza devoto a lei da uccidere e morire. E lei? Aveva qualcuno per cui morire? E se sì, chi era? Chi erano quelle entità orribili, a chi apparteneva lo sguardo che avevo sentito su di me?
Rabbrividii. Sapevo già che non sarei riuscito a dormire a lungo. Mi alzai di nuovo.
Preparai uno zaino. Poche cose: un cambio di vestiti, dei soldi e poco altro di prima necessità.
Pensai a una storia. Me ne serviva una e doveva essere a prova di bomba.
Ci pensai per ore, finché non mi addormentai. Mi svegliai un imprecisato tempo dopo e mi buttai in bagno. Svegliarla o no? Sì, decisamente. Aprii l’acqua della doccia e mi lavai sommariamente. Pochi istanti dopo, May Lyn si svegliò.
-Che succede?-, chiese, gli occhi ancora socchiusi dal sonno.
-Quel mio parente… Mio cugino… è peggiorato! Ho chiesto di poterlo raggiungere.-, dissi.
-Starai via a lungo?-, chiese lei. Io non ebbi bisogno di fingere un’apprensione e un timore che erano realissimi. Da parte sua percepii preoccupazione ma poteva perfettamente essere finta.
-Ancora non lo so. Ma ti chiamerò.-, promisi. La baciai. Lei rispose al bacio.
-Possiamo dirci addio come si conviene, no?-, chiese. Mi strinse il membro da sopra i calzoni del pigiama e iniziò a manipolarlo con la consueta abilità.
Resistendo le avrei spezzato il cuore ma obbedendo avrei potuto finire col perdere qualcos’altro. Era pur vero che si sarebbe insospettita…
Il nostro bacio stava divenendo indiavolato. Resistere era così difficile…
Scesi con una mano sino alle sue natiche, stringendole con foga. La volevo. E non sarebbe neppure stato sbagliato desiderarla. Eppure non potevo sfuggire a quella parte razionale che mi urlava di non cedere. Ma non cedere pareva impossibile mentre lei mi baciava masturbandomi. Il minimo che potevo fare era limitare i danni. Le infilai le mani sotto la veste, scostando le mutandine con rapidità quasi brutale. La vulva di lei era già schiusa e bagnata.
Invitante. Resistere era difficilissimo. La spinsi in ginocchio.
-Succhiamelo un po’ tesoro.-, sussurrai. Cercai di non pensare a tutto ciò che avevo visto ma sprazzi della mia esplorazione notturna si manifestarono mentre May Lyn mi suggeva il pene con golosità. Quando infine le venni in bocca pensai di aver superato un’altra prova. Pensai di potercela fare. Forse.
Lei mi sorrise, ingoiando l’intero carico che avevo depositato nella sua bocca.
-Quando tornerai dovrai scoparmi a morte.-, sussurrò.
-M’implorerai di avere pietà.-, risposi.

Mentre uscivo con lo zaino già pronto, pensavo che la mia risposta non era sbagliata: l’avrei davvero portata ad implorarmi. Arrivai al Central Café.
-Desidera?-, chiese la cameriera. Era la stessa del giorno prima.
Bene. Supponevo che Minh avesse disposto un modo per mettermi in contatto con lui in caso di bisogno. Qualcosa che non implicasse il rischio di una comunicazione telefonica. O almeno lo speravo. Se così non fosse stato sarei stato nella merda sino al collo.
-Il vietnamita che c’era qui ieri… Le ha per caso lasciato il suo numero?-, chiesi.
-Prego?-, domandò la donna. Sospirai. Mi ero spiegato male.
-Mi perdoni. Mi chiedevo se il signor Minh le avesse lasciato qualcosa per permettere al sottoscritto di contattarlo.-, dissi. La cameriera, bionda e piacente ma decisamente non troppo sveglia, fece del suo meglio per ricordare. Dopo qualche minuto annuì.
-Ha detto che, se lei è il signor Blackwall, deve chiamarlo a questo numero.-, disse porgendomi un foglietto stropicciato. Ringraziai e le lasciai una mancia, chiedendo di poter usufruire del telefono. Chiamai il numero. Suonò libero una, due, tre volte.
-Signor Blackwall. Ê lei?-, chiese Minh.
-Aveva ragione… È terribile… Io penso che stia cercando di coinvolgere qualcun altro…-, al solo pensiero di quanto visto sentivo il cuore rimbalzarmi in bocca.
-Ok. Raggiunga Toronto. Cerchi Monique Devaroux, in King Square. Chieda di lei.-, rispose il sociologo. Il nome non mi diceva nulla ma capii subito chi fosse.
-È la persona che aveva detto, vero?-, chiesi a bruciapelo.
-Sì. Mi troverà lì.-, disse il vietnamita. Uscii dal bar, presi il treno per Toronto e vi arrivai poche ore dopo. Arrivai a King Square due lunghe ore dopo.
-Mi perdoni, sa dove posso trovare Monique Devaroux?-, chiesi a un passante. Mi mandò al diavolo con tono irritato. Che gente… Decisi di riprovare, considerando che forse quello neanche abitava nel quartiere. Intercettai un’anziana
-Mi scusi, sa dove posso trovare Monique Devaroux?-, chiesi alla vecchietta.
-Prima casa sulla sinistra.-, disse lei, -Stia attento, non è tutta apposto.-.
-Che intende?-, chiesi. La vecchia sogghignò malignamente.
-Non lavora. Non la si vede quasi mai fuori di casa… Per me ha qualche amante o è ammanicata con qualche gangstar. Non si fidi, dia retta a me.-.
Il dubbio che Minh fosse stato irretito da qualcuno di simile a May Lyn mi sfiorò ma ormai ero lì. Avevo rischiato grosso per arrivarci e avrei dovuto giocarmi tutto in quell’ultima puntata.
Trovai la casa e suonai al campanello due volte.
-Avanti è aperto.-, disse una voce femminile. Era una voce sensuale e piacevole.
Entrai. Di fianco a me c’era una scarpiera in cui riposavano due paia di scarpe. Il corridoio curvava verso diverse camere. Ne aprì una appena. Camera da letto con letto matrimoniale. Normalissima. Niente da dire. La seconda porta dava su un bagno con doccia e vasca.
L’ultima dava su una stanza in penombra. Aprii.
-Ah, signor Blackwall. Ottimo. Possiamo iniziare.-, disse la voce. Apparteneva a una nera coi capelli mossi, il viso sorridente decisamente ben fatto e l’abito indubbiamente elegante.
-Monique Devaroux, presumo.-, dissi io tendendo la mano. Lei non la strinse.
-In persona. Mi perdoni se non le stringo la mano. Minh Na Trag mi ha avvisato di quanto le sta accadendo.-, disse, -Vorrei che si sedesse. Non abbia paura, Minh è uscito un attimo a prendere alcune cose. Tornerà tra poco e io non sono solita violare gli uomini.-, sorrise.
Sorrisi anche io. Fin lì pareva tutto bene. Mi sedetti sulla sedia di fronte alla nera. Eravamo separati da un tavolo. Attorno a noi c’erano diversi libri, pendenti con simboli esoterici, scritte, incenso che bruciava in un angolo e il tutto senza che nella stanza entrasse che un sottile raggio di luce da una finestra semi oscurata dalla tenda. Un vero antro da strega.
-Minh le ha parlato… quanto?-, chiesi, decidendo di capire la situazione, o quantomeno entrare in argomento. Monique sorrise, un sorriso che la rendeva più sexy di quanto credessi possibile. Ma in quel momento la mia libido era lontanissima.
-Abbastanza da capire che né la polizia né tantomeno le persone “normali” le potranno essere di qualche aiuto.-, ribatté la nera, -Lei ha a che fare con una donna pericolosa. Non di per sé ma a causa delle forze che serve.-. Io annuii, più che altri per spingerla a continuare.
Monique accese una sigaretta, facendo un tiro.
-Io ho già avuto a che fare con esseri così. Vengono chiamati gli Esterni e sono immensamente potenti e antichi. Esistono in uno spazio oltre la nostra dimensione e non necessitano di agire fisicamente per influenzare il nostro mondo e il nostro essere.-, spiegò, -Erano presenti prima che la nostra razza ereditasse questo mondo e attendono il giorno del ritorno.-.
-Mi risulta difficile credere che tutto ciò abbia a che fare con mia moglie.-, ammisi.
-Lo immagino. Ma si da il caso che purtroppo sia così. La tribù di cui mi ha parlato Minh è antica, esisteva all’epoca del Grande Impero Khmer. Ma questi esseri di cui le parlo sono ben più antichi, come le ho già detto. Hanno influenzato intere civiltà, spesso causandone la caduta.-, Monique si alzò rivelando un fisico da schianto e prese un libro.
-Ecco. Questa è una rara immagine della tribù da cui, stando a quanto dettomi da Minh, proviene May Lyn.-, disse la nera aprendo il libro.
Erano loro. Uomini e donne con gli stessi tatuaggi. La dicitura in inglese diceva testualmente.
“La tribù di Montragle”. Montragle… non avevo mai sentito quel nome ma non era importante.
Quel che importava era la verità, quella che non potevo più negare.
-Mi spieghi, la prego. Mia moglie… Io ho fatto dei sogni che mi hanno spinto a cercarla. E so, senz’ombra di dubbio, che ora altri potrebbero andarci di mezzo… la prego, mi aiuti!-, esclamai. Sentii dei passi. Minh doveva star tornando.
-La aiuterò, signor Blackwall.-, promise Monique. Il mio sguardo trasudava riconoscenza.
Poi Minh, arrivato da dietro con la furtività di un killer provetto mi piantò una siringa nel collo e precipitai in un vortice di colori incomprensibili mentre perdevo conoscenza.

I sensi tornarono a poco a poco, le percezioni si riallinearono con l’universo in modo graduale. Un ronzio lontano faceva da sottofondo a voci distorte, e su tutto imperava il canto sempre più flebile, le parole sussurrate da May Lyn al termine di ogni nostro amplesso.
-Iä. Neknushan, Iä!-. Sussurrato, sibilato, mormorato. Ancora e ancora ma sempre più distante.
-Si sta svegliando.-, disse una voce. Minh…
-Lo so. Ho quasi finito.-, disse Monique. Ora c’era una sensazione, un prurito al petto.
Tentai di grattarmelo ma scoprì di avere le mani legate.
-Fatto.-, disse la nera. Si alzò.
-Che diavolo mi avete fatto?-, ringhiai. Sul mio petto era tatuato un simbolo bizzarro, un pentacolo con qualcosa disegnato al centro, -Che diavolo è questo?-.
-Non si agiti. È un simbolo di protezione. Con questo, sua moglie e la forza che la comanda non potranno corromperla. I popoli antichi ne facevano largo uso. Il popolo di mia madre, gli Yoruba lo utilizzano tuttora.-, disse Monique, -Ora stia calmo. E vediamo di rimediare ai danni.-. Non capivo, non capivo perché sedarmi.
-Abbiamo dovuto sedarla: poteva opporre resistenza. E non potevamo rischiare che lei portasse dentro di sé i semi di quell’entità di cui ha mormorato il nome…-, disse Minh.
“Io ho mormorato cosa?”, ora sì ero preoccupato.
-Intende Neknushan?-, chiesi. Ero scioccato e spaesato. Tra la droga e le rivelazioni non mi sorprendevo assolutamente del fatto che le mie facoltà cognitive non fossero al massimo.
-Sì. Anche se ovviamente il suo vero nome è un altro.-, disse la strega. Mi piazzò una mano sul sigillo appena tatuato. E poi iniziò. Incominciò come un canto, poi fu un grido, un bombardamento sonoro di urla non concepibili dalla mia mente umana. Sembrava vi fossero mille voci in una e mille persone a urlare dai quattro angoli del mondo.
Incominciai a urlare anche io mentre il mio cuore batteva forsennatamente, il sangue nelle mie vene pompava, la bocca mi si asciugava e diveniva arida.
-Mi sta uccidendo, dannazione!-, lo gridai, o forse lo pensai soltanto. Non fece differenza, il canto continuò. Lentamente le mille voci parvero riunirsi in una sola e il canto decisamente inquietante e incomprensibile cessò un’eternità più tardi.
Tremavo, sentivo il cuore a mille, lo stomaco in subbuglio. Avrei dovuto tentare di alzarmi ma non ne avevo semplicemente la forza.
-Cosa diavolo mi avete fatto?-, chiesi, stremato.
-L’abbiamo salvata.-, disse Minh. Ne dubitavo non poco. Già ero invecchiato precocemente, con un simile rituale sarei potuto anche morire… Almeno così pensai finché non guardai la mia mano. La pelle stava riprendendo colore. Le vene erano meno in risalto e l’incarnato riprendeva una colorazione sana e giovane. Sorrisi.
-Mio dio…-, sussurrai, incapace di proferire altre parole.
-Ho eseguito una purificazione. Ora possiamo parlare di tutto quanto.-, disse Monique.
Minh mi aiutò ad alzarmi e io mi risedetti poco dopo al tavolo mentre la nera mi porgeva un bicchiere d’acqua e del pane. Ero assetato effettivamente e bevvi con avidità.
-Il vero nome di Neknushan, quello con cui gli adepti lo conoscono, è Shub-Niggurath. Il Capro dai Mille Cuccioli.-, esordì Monique mentre bevevo, -È presente in diverse credenze ancestrali e quella di May Lyn non è che una delle tante. Ne esisteva un culto in Amazzonia, uno in Siberia, uno in Groenlandia… Potrei continuare per ore ma penso che abbia capito il fulcro della questione. Shub-Niggurath usa gli umani come pedine. Siamo questo, solo pedine per i suoi schemi. Che ovviamente sono, come quelli dei suo fratelli preparare la via al ritorno.-.
-Il loro, intende.-, specificai io. Monique annuì. Prese un sorso dal suo thé alla menta e accavallò le gambe con fare pensoso, sebbene fosse decisamente una posizione eccitante e lei una bellissima donna.
-La tribù, questo posso solo sospettarlo, dev’essere scomparsa in seguito all’emarginazione subita. Io credo che qui, in America, privo di tale limite, Shub-Niggurath potrà operare indisturbato, preparando il rito del suo ritorno.-, continuò lei.
-Allora avvisiamo i federali. L’FBI o la C.I.A. Questa cosa… ciò che ho visto è orribile ma a quanto mi dice sarà anche peggio. Come posso fermarlo?-, chiesi.
-Lei da solo? Non può.-, rispose Minh. Il Vietnamita stava sorseggiando un caffè.
-Non credo che gli Esterni si facciano fermare da qualche proiettile.-, obiettò Monique.
-Praticamente mi sta dicendo che non c’è nessuno che possa fermarlo. O ha un piano?-, chiesi.
-Io ho un piano. Ma mi servirà il suo aiuto.-, disse la nera. Sentii una morsa fin troppo nota stringermi lo stomaco e le viscere. Paura, un terrore gelido e assoluto.
-Non posso… Insomma, quelle cose… Lei non ha idea…-, fui interrotto da Minh.
-Lei non ha idea. Monique ha fama di essere un’esperta in questo ambito. Ha esiliato l’Orrore di Sirme e posto fine alla Pestilenza di Yorktown.-, disse il Vietnamita, -Lei sa benissimo cos’abbiamo contro. E conosce bene il prezzo del fallimento.-.
-Ma… non c’è modo di fermarlo…-, sussurrai.
-No. Un modo c’é. Si fidi, Edward.-, disse lei. La guardai senza parole. Come poteva sapere il mio vero nome. Lei sorrise. Mi strinse la mano con la sua. Quel contatto mi scatenò qualcosa dentro. E per un istante dimenticai la paura.
-Interromperemo quello che stanno pianificando, qualunque cosa sia. E si fidi: ce la faremo.-, disse la nera. Io annuii. Non avevo scelta. Dovevo combattere un’ultima battaglia.

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Mi osservai a uno specchio. Ero come ringiovanito. I capelli tornavano di un colore più consono alla mia età, le rughe scomparivano dal mio viso…
“Incredibile…”, non proferii parola solo perché sapevo che la mia espressione era sufficientemente eloquente anche senza il supporto delle parole.
-Shub-Niggurath è un essere appartenente alla specie degli Esterni, divinità che si contesero il mondo con quelli che vengono chiamati i Grandi Antichi, esseri terrestri ma più antichi dei dinosauri stessi. La guerra tra le due stirpi avvenne molto prima della comparsa della razza umana sul pianeta.-, disse Monique, interrompendo la mia contemplazione.
-Chi vinse?-, chiesi.
-Non ci è dato sapere. I Grandi Antichi scelsero l’esilio e quindi probabilmente la vittoria arrise agli Esterni.-, rispose la nera chinandosi a prendere un libro e offrendomi una vista conturbante delle sue natiche inguainate dal tessuto. Una visione celestiale.
“Sei sposato, ricordi?”. Ma aveva davvero importanza? May Lyn sicuramente tradiva, perché io non avrei dovuto poterlo fare? E soprattutto, chi mi garantiva che Monique non avrebbe accettato? In fin dei conti, May Lyn mi aveva anche manipolato a sufficienza…
-Quando dici “in esilio” cosa intendi?-, chiese Minh, distraendomi da lussuriosi propositi.
-Esilio. Se ne andarono tra le viscere del nostro mondo, a dormire un sonno profondo che è durato per millenni, lasciando a pochi umani che visitavano i loro regni nel sonno la responsabilità di preparare il loro ritorno.-, rispose la strega.
-Ma suppongo che questi “rappresentanti” non abbiano fatto un buon lavoro.-, dissi io.
Anche la mia voce ora pareva nuovamente normale, più giovane.
-Non sempre. Alcuni hanno solo tramandato la conoscenza dei Grandi Antichi o degli Esterni ai loro discendenti, come probabilmente ha fatto May Lyn. Sacrifici umani e quant’altro, tutto ciò era parte di un piano ben più vasto. Tuttavia i riti che la tribù perduta ha compiuto non sono stati sufficienti a evocare Shub-Niggurath, tuttavia ne hanno sicuramente risvegliato l’appetito e l’attenzione. La pista più fattibile è che i fedeli di Shub Niggurath si siano uccisi in massa per trasferire il potere di quell’essere empio su una sola persona.-, gli occhi di Monique mi inchiodarono mentre diceva quelle parole.
-May Lyn. È lei il tramite.-, dissi. Improvvisamente capivo. Anche troppo.
-I sogni… ricordo di averla sognata per giorni… settimane… Un sogno ricorrente e spietatamente nitido.-, dissi. Monique annuì di nuovo.
-Sì. Può non essere stato il solo ma sicuramente è stato l’unico a fare ciò che lei voleva: andare a trovarla e portarla in un posto in cui le sue manipolazioni potranno portare al ritorno di Shub-Niggurath da questa parte del velo.-, concluse. Prese un libro e lo aprì sul tavolo, davanti a noi. Era il disegno di un pentacolo che poteva essere qualunque cosa e l’immagine di un coltello con un simbolo uguale a quello sul mio petto.
-Qui è scritto chiaramente che per evocare Shub-Niggurath bisogna sacrificare una vittima dal cuore puro sul pentacolo con quest’arma. La stessa arma che può bandirlo, se trapassa il cuore del Vincolo.-, disse la nera.
-Il Vincolo. È May Lyn, ci scommetto.-, dissi. Minh annuì.
-Ma sicuramente saprà anche lei tutto ciò. È possibile che abbia preso delle precauzioni.-, disse il vietnamita. Io scossi il capo.
-Pareva convinta della mia menzogna. Per venire qui le ho detto che un mio cugino stava male.-, spiegai. Monique mi guardò con compatimento.
-E credi realmente che lei ci sia cascata? Con un essere così alle spalle avrà solo pensato di avere il tempo di organizzare tutto.-, disse. Si gettò verso un armadio da cui prese vestiti buttandoli a terra. Era roba di pregio o pressappoco ma non pareva interessarle.
Estrasse infine una scatola. La aprì.
-Mia madre mi ha dato questo, come sua madre e sua madre prima di lei. È questo che ci serve.-, disse. Era un coltello. Un pugnale d’osso con inciso un simbolo, lo stesso sul mio petto.
-Ma sarà ancora in grado di uccidere?-, chiesi. Non sembrava molto appuntito.
-Ancora non capisci?-, chiese Minh, -Non si tratta di uccidere fisicamente. Dobbiamo recidere il legame tra May Lyn e l’essere che la possiede. Se riusciremo eviteremo che una sventura mille volte peggiore della Terza Guerra Mondiale si abbatta sul nostro mondo.-.
-Capisco. Ma May Lyn…-, non osai continuare.
-Lei è condannata, temo. Ma alla lunga non è importante: non possiamo anteporre la sua vita alla salvezza del mondo, lo capisci, vero?-, chiese Monique. Frugava ancora nell’armadio, cercando qualcosa. Io annuii. Sì. Lo capivo.
-Ovviamente. Il che ci porta a… quando agiamo?-, chiesi. La donna sorrise, il bianco dei denti che spiccava sulla pelle scura, il sorriso che pareva brillare di luce propria.
-Domani stesso.-, disse estraendo un revolver che doveva essere vecchiotto, a giudicare dal calcio consunto. Controllò che fosse carico e me lo passò. Lo presi. Ecco, con quello ero molto più a mio agio che con chissà quale diavoleria occulta volta a esorcizzare presenze di altre dimensioni… Ma ormai c’ero dentro. Guardai l’orologio. Erano le 17.43.
-Prepari tutto.-, disse la nera, -usciremo a cena e poi andremo a coricarci. Dobbiamo sfruttare il tempo per indagare un po’. Minh, procurati qualche giornale di Halifax. Informati sulla situazione. Qualunque cosa strana trovi, riferiscimela.-.
-Io invece cosa faccio?-, chiesi. Sentivo di poter correre per chilometri, o fare sesso per ore.
-Tu resti qui. Ti spiegherò con cosa abbiamo a che fare e come proteggerti.-, disse Monique.
Eravamo passati dal “lei” al “tu”. Ma era un bene. Implicava fiducia. E io volevo fidarmi di lei, anzi dovevo. Non che avessi molta scelta. Mi sedetti sulla sedia più vicina.
Demoni extra-dimensionali, antichi segreti sepolti, culti fanatici provenienti dagli oscuri abissi della storia umana… Era moltissimo, quasi troppo.
“In cosa mi sono cacciato?”. Il peso di tutto quanto mi franò addosso come mai prima d’allora. In Vietnam avevo commesso errori e avevo pagato lo scotto vedendo morire amici e compagni. Ma quella era una cosa. Vedere il mondo finire a causa mia… era un altro paio di maniche. Inspirai ed espirai. Com’era quella tecnica per calmarsi? Non la ricordavo.
Strinsi i pugni, digrignai i denti per contrastare quell’orrore crescente che sentivo dentro.
Eccovela la verità. Avrei voluto andare a Washington a urlarla in faccia al Presidente, scalare il Muro di Berlino solo per poterla urlare, farmi eleggere Papa per poterla proclamare dal balcone su Piazza San Pietro e assaltare il Cremlino da solo unicamente per poter sbattere tale verità in faccia a Boris Yeltsin.
Improvvisamente la Guerra Fredda, il ‘Nam e tutto quanto mi parve così insignificante!
La verità era che, oltre i conflitti degli uomini e le guerre senza importanza per la supremazia di questo o quell’ideale, si agitavano silenti culti, servi fanatici di esserci che si annidavano oltre il velo di cui nessuno aveva conoscenza.
Eccola lì, la verità. Se avessi potuto avrei volentieri barattato tutti gli anni che mi restavano da vivere per l’oblio. Avrei volentieri e scientemente deciso per la dimenticanza, come tutto il resto del mondo avrebbe fatto se avessero conosciuto la verità.
Sentii un sussulto insopprimibile. Sentivo di essere prossimo alla rottura. Ma qualcosa fermò la mia caduta. Monique. Mi cinse le spalle con un braccio. Vicina com’era, il suo profumo mescolato all’incenso mi avvolse come una coltre benefica. Spezzò l’orrore.
-Avevo dodici anni quando mia madre mi spiegò. Lei era stata iniziata a diciotto. Non è mai facile. Ma dev’essere fatto. Io sono l’ultima discendente di una stirpe di protettori. Ci assicuriamo che ciò che può attendere in eterno non possa mai fare ritorno. Non siamo gli unici ma sappiamo di essere maledettamente in pochi. So che c’è una sorta di società segreta in Inghilterra e forse qualcuno in India. Siamo in pochi. Pochissimi.-, sussurrò.
-Perché lo fai? Perché non lasciarsi tutto questo alle spalle?-, chiesi io, sebbene già sapessi la risposta. Lei mi sorrise con aria malinconica.
-Perché va fatto. Se non agiamo saranno loro a farlo. Finora il mondo ha continuato a restare sotto il nostro dominio grazie a pochi, pochissimi eroi dimenticati. Guardami. Ti sembro forse un’eletta? Ti pare che io sia così diversa?-, chiese. La guardai, sforzandomi di restare lucido nonostante l’erezione prepotente provocatami dalla sua vicinanza.
-No. Non lo sembro.-, si rispose lei, -Faccio la cartomante e la escort per chi si può permettere le mie tariffe. Guadagno poco ma continuo a fare quello che faccio. Perché qualcuno deve.-, il suo sguardo divenne d’acciaio, -E ora è così anche per te, Edward.-.
-Come sai il mio nome?-, chiesi. Lei sorrise. Un sorriso bellissimo.
-Chi come me entra in contatto con forze come queste ottiene un intuito non comune.-, disse.
Il silenzio ci avvolse. Mi sentii stupido a star zitto e mi uscì dalla bocca la frase più idiota.
-Sei bellissima.-, dissi. Lei sorrise, compiaciuta.
-Adulatore.-, ribatté. Il complimento le faceva piacere.
-Onesto.-, puntualizzai io, -Mi sentirei stupido a morire senza avertelo detto.-.
-E io mi sentirei stupida a non ringraziarti per il tuo complimento. Ma ora dobbiamo iniziare a prepararci per la battaglia che incombe.-, disse. Si alzò e prese alcuni libri.
-Li dovrò leggere tutti?-, chiesi io, allibito. Lei sorrise.
-No. Tutti no. Solo alcune pagine.-, disse. Iniziai a leggere.

Il ritorno di Minh mi vide immerso in letture esoteriche. Alcune erano ristampe mentre altri testi erano originali e parevano non aver mai visto una ristampa. Monique aspettava che io finissi un paragrafo. Sollevammo entrambi lo sguardo.
-Minh… Che notizie?-, chiesi.
-Le peggiori. Una chiesa sconsacrata fuori da Halifax ha ripreso a ospitare funzioni, sebbene accadano solo la sera, verso le 23.00. È evidente che May Lyn ha preso in mano la faccenda.-, disse il vietnamita, -La chiesa ufficialmente appartiene a Donovan Pirk, un sacerdote protestante i cui sermoni non sembrano essere stati graditi dai fedeli. È stato scomunicato ma ha ripreso a officiare da quando hanno in mano la chiesa.-.
-Donovan Pirk… Insieme ad altri, è uno degli uomini con cui May Lyn si è messa in contatto. L’avrà irretito in qualche modo!-, il mio cervello, ormai saturo di orrori, pareva assuefatto a quella nuova realtà. Monique annuì.
-È logico: non si sarebbe potuta muovere da sola.-, disse.
-Non è sola. Un tizio della comunità orientale di Halifax, tale Ngo Vinh Vien. Anche lui sembra un frequentatore assiduo di quella chiesa. Insieme ad altri ha fondato uno studio esoterico. I nomi sono…-, io lo interruppi citandoli uno per uno. Poi tacqui, improvvisamente conscio di cosa sarebbe accaduto.
-Tutte queste persone sono abbastanza rilevanti ad Halifax. Greta Gabel ad esempio presiede il comitato genitori-insegnanti della città (oltre a essere decisamente ricca). Se permettessimo loro di agire indisturbati sarebbe semplicemente una catastrofe. Dobbiamo fermarli.-, dissi.
-Allora cerchiamo di mangiare qualcosa e poi di dormire qualche ora. Non resta molto tempo, ormai.-, disse Monique. La nera chiuse il libro e io terminai la lettura cercando di archiviare quante più informazioni possibili nel mio cervello stanco.

La cena fu un casino: Minh aveva ordinato del vietnamita da un ristorante poco lontano mentre Monique aveva preferito ordinare una pizza. Io presi un po’ di tutto da entrambi.
Il punto lieto fu quando chiesi scusa a Minh per il mio comportamento. Il sociologo annuì e accettò le scuse. Monique spiegò che Minh non faceva parte di qualche organizzazione ma era uno coi contatti giusti, tra cui il suo. Mi soffermai sulla nera. Dimostrava poco meno di trent’anni sebbene i suoi occhi, come ormai anche i miei sicuramente facevano, dovevano dimostrare ben più dell’età fisica, essendo stati testimoni di numerosi orrori.
Nonostante ciò, la bellezza di quella donna restava intatta e splendente. Sospirai pensando che un fato ingrato avesse voluto proprio su di lei (e su di me) un simile fardello.
Minh tra tutti noi era stato forse il più fortunato: a contatto con l’orrore quel tanto che bastava da conoscerlo ma non da esserne cambiato. Finita quella storia avrebbe potuto ricominciare con la sua vita, come se nulla fosse accaduto. Sarebbe tornato in Vietnam o sarebbe rimasto qui e avrebbe messo radici… La fine di una bella storia, eh?
E io? Io che avrei fatto? No, mi imposi di non pensarci: sarei andato avanti ma passo dopo passo. Superando un ostacolo alla volta. Mangiammo parlando poco e quando concludemmo la cena e preparammo le ultime cose per la partenza, erano già le 21.39.
Ero esausto e Monique mi propose di restare a dormire, proposta che non potevo rifiutare vista l’ora troppo tarda per cercare un qualsiasi albergo. Accettai con gioia non simulata.
Essendo abbastanza spaziosa la casa, la nera mi sistemò in quello che era il suo antro della sibilla. Minh annunciò che avrebbe dormito in macchina, approfittando della possibilità di compiere una revisione completa. Monique invece rivendicò la sua stessa camera.
Dormire. Sembra un verbo normale, ma davanti a simili orrori e alla prospettiva di doverli combattere, chi chiuderebbe mai occhio? Ricordavo la battaglia di Ia Drag. Una valle che era divenuta tomba e incubo per tanti miei commilitoni, oltre che per me.
Durante la notte che intercalò tra il primo e il secondo giorno di battaglia, noi marines ci limitammo a mantenere la posizione, troppo preoccupati dalla troppo vicina presenza nemica per dormire. La notte era inframmezzata dalle raffiche di armi automatiche e ricordo di aver distintamente sentito un mio commilitone urlare di dolore mentre veniva colpito.
Quella notte nessuno di noi chiuse occhio e sono intimamente certo che lo stesso valse per la notte attuale, quella in cui, dopo tanta preparazione, ci accingemmo ad affrontare orrori ignoti ai più. Quella prospettiva non favoriva certo il sonno. Mi girai e rigirai nel letto, incapace di prendere sonno. Quando infine, gettai un occhio al mio orologio, leggendovi l’ora (le 00.32), decisi che non valeva la pena tentare di dormire. Mi alzai cercando di non disturbare nessuno.
Una sigaretta sarebbe stata l’ideale ma non ce l’avevo: nella fretta di raggiungere Minh e la verità che ora sapevo non ne avevo comprate quando mi si era presentata l’occasione.
Ergo, ora ero lì, in una casa che mi sembrava terribilmente misteriosa, con una donna bellissima che non osavo avvicinare per il timore di essere respinto, prossimo a uno scontro inimmaginabile e senza possibilità di riuscire a rilassarmi. Una sete atroce mi tormentava.
Arrivai in cucina per miracolo di volontà e puro istinto.
Accesi la luce. Acqua… trovai una bottiglia. Cercai i bicchieri, tentando di ricordare da dove li avesse presi Monique. Niente. Fui tentato di andare a svegliarla solo per poter sapere se potevo bere a canna, poi dedussi che non era il caso. Mi rassegnai a soffrire la sete.
-Puoi bere a canna. Non preoccuparti.-, disse la voce della nera. Mi girai. Eccola lì.
Monique Devaroux indossava solo una maglietta più larga del dovuto. Forse aveva le mutande, o forse no. Fatto sta che il mio pene registrò immediatamente la sua presenza come un ottimo motivo per attivarsi. Balzò sull’attenti, ergendosi senza ritegno. Una fortuna che indossassi i jeans, comunque ero quasi certo che la nera si fosse accorta del mio evidente stato.
Monique avanzò sino a una credenza, prendendo due bicchieri.
-Versa tu. Ho bisogno di bere. Neanche tu riuscivi a dormire, eh?-, chiese.
Annuii mentre versavo finché lei non mi disse stop.
-Il Vietnam ti ha segnato.-, disse lei.
-Non solo. È anche il pensiero di quel che affronteremo. In Vietnam, grossomodo sapevo a cosa stavo andando incontro. Qui… Sto andando verso l’ignoto.-, ammisi.
-Ma non sei solo.-, disse lei. Mi appoggiò una mano sulla mia. Il mio membro si erse fiero.
Non sapevo cosa dire. Solo, passai un braccio attorno alla vita della donna e annullai la distanza che ci divideva. Lei non fece resistenza, e in pochi istanti fu tra le mie braccia.
Come dirglielo, come spiegarle, come chiarirle che la volevo senza sembrare un cavernicolo?
-Io… Io credo che tu sappia già cosa voglio dirti.-, sussurrai.
-Lo so. E sappi che sono d’accordo.-, disse lei, -Se questa è la nostra ultima notte…-.
Piantò il suo sguardo nel mio mentre si protendeva per baciarmi.
-Facciamo sì che sia eccezionale.-, dissi io. Le mie labbra sfiorarono le sue. E improvvisamente ebbi paura. Ebbi paura mentre mi baciava, ebbi paura mentre le nostre lingue si sfioravano, cercavano e intrecciavano. Ebbi paura mentre le sue mani mi cercavano al di sotto dei vestiti e mentre la sua maglietta finiva sul pavimento, seguita dalla mia e dai miei calzoni.
Ebbi paura di sentire quella cantilena. Monique parve capirlo. Il corpo d’ebano illuminato dalla luce della cucina pareva scolpito. Mi sorrise, bianco su scuro, sicura e decisa.
-Non temere. Io non lo faccio per rubarti anni di vita. Lo faccio perché voglio. Tutto qui.-, disse.
La guardai. Non aveva grasso addosso, solo muscoli e un corpo semplicemente perfetto, costruito per l’amore e il sesso. Una vera e propria fantasia fatta carne.
La desideravo, ma a bloccarmi c’era il ricordo di May Lyn, la frantumata illusione d’amore che avevo nutrito e soprattutto il terrore provato, sotteso ma sempre presente, durante i nostri amplessi. Espirai. Perché non potevo semplicemente scordare l’orrore, almeno per ora?
Era tanto da chiedere una tregua? Mi avvicinai, accarezzandole il petto superbo. Un seno che pareva voler sfidare la forza di gravità.
-Quanto tempo che non faccio l’amore…-, sussurrò Monique.
L’amore. Non sesso. Non mero accoppiamento. Ora capivo. Eccola la chiave per uscire dalla prigione di orrori. Sorrisi e la baciai. Lei rispose al bacio, finendo intanto di spogliarmi.
Sentivo il mio membro a contatto col suo pube, fiamme fuori e dentro me ardevano, chiamandomi, implorandomi di farla mia. Monique sorrise.
-È grosso.-, disse prendendomelo in mano. Aprì le gambe mettendo in mostra la vulva glabra.
-Fammi tua. Viviamo al meglio questo tempo, poiché non sappiamo se ce ne sarà un altro.-, mi esortò. Io sorrisi e guidai il pene sino all’imbocco della vulva. Lei si sdraiò sul tavolo.
Spinsi, affondando nell’oceano caldo del suo piacere.
-Ah… quanto tempo! Continua!-, esclamò Monique. I primi colpi giunsero lenti, esitanti e timorosi. Poi sempre più forti, decisi. Cambiammo posizione. Mi sdraiai sul pavimento, consapevole che non sarei riuscito a trattenermi sino a raggiungere un letto.
La nera mi salì sopra con impeto e prese a cavalcarmi. Visione paradisiaca di un’amazzone giunta da un passato impossibile. Le strinsi i seni. Le nostre bocche s’incrociarono, scambiandosi boccate di saliva senza quasi fiato per dire cose prive di senso.
Io sussurrai qualcosa come “ti amo” o qualcosa così. Qualcosa di stupido e impossibile, molto probabilmente. Ma sicuramente qualcosa che sentivo vero.
Lei gemeva, mi chiamava “amore” o “tesoro” parole che diceva ad altri forse ma che non sentivo meno vere delle mie. Affondai dentro la nera e infine venni con lei sopra di me.
Rimanemmo immobili per un lungo istante, la mente vuota e il cuore che batteva forte.
Vivi. Più che mai.
-Torniamo a letto.-, dissi io, -Minh potrebbe non approvare…-.
-Vieni a dormire con me. Non m’importa di cosa penserà Minh.-, disse Monique.
Non rifiutai.

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Minh probabilmente intuì cosa fosse accaduto, ma si astenne saggiamente dal commentare.
Tornare ad Halifax non richiese molto tempo, ma purtroppo ci accorgemmo presto dei cambiamenti. La città pareva avvolta da una cappa di terrore e inquietudine che non avevo mai sentito. Come se l’intera città avesse una spada puntata alla gola.
Alcune caute domande svelarono che la mia casa era stata affittata a terzi, vietnamiti, gente strana, tatuata. E quello non era un bene. Il disegno si stava chiarendo sempre più in fretta.
-Dobbiamo muoverci a organizzarci.-, dissi a Minh e Monique una volta tornato alla nostra auto. Loro annuirono e preparammo un piano: Io e Monique avremmo cercato di localizzare la chiesa che pareva il centro delle pratiche dei cultisti di Shub-Niggurath mentre Minh si sarebbe recato in avanscoperta alla casa che un tempo abitavo.
Il Vietnamita prese una pistola e controllò che fosse carica. Non avremmo fatto prigionieri, pareva chiaro. Personalmente non ero entusiasta di dover uccidere ma l’idea di permettere a quegli sciroccati di evocare chissà quale orrore dimensionale sul suolo americano era semplicemente troppo. No, non c’era più spazio per i compromessi. Era noi o loro.
Minh si allontanò e io e Monique, travestiti da turisti in visita, raggiungemmo le vicinanze della chiesa. L’inquietudine ora la sentivo dentro. Peggio di prima.
-La senti?-, chiese la nera. Sì. La sentivo eccome. Era come una cappa opprimente, il cappio al collo che si stringeva segando la pelle e strozzando lo spirito e la volontà.
-Dobbiamo agire.-, dissi, -Appena Minh torna ce ne occupiamo.-.

Minh tornò due ore dopo che era già pomeriggio inoltrato. Gettò la pistola in macchina e uno zaino. A giudicare dal suo viso, non era finita bene.
-Cos’è successo?-, chiesi. Diretto. Sapevo che girarci attorno non sarebbe servito.
-Hanno cercato di uccidermi. Erano in tre. Tutti uomini e tutti pazzi. Blateravano cose insensate alzando i loro coltelli al cielo. E io…-, il sociologo crollò in avanti, e scoppiò in lacrime, il viso tra le mani. Lo lasciai sfogare, sapevo bene cosa significasse uccidere.
Una linea che veniva varcata, un confine che veniva attraversato e da cui non si poteva recedere. Ecco la verità: Minh, come me, avrebbe portato il peso di quanto fatto a vita.
-Qualcuno ti ha visto uscire o entrare?-, chiesi dopo che si fu calmato.
-No… No. Sono stato abbastanza furtivo.-, disse lui, -Là dentro era un bordello: soprattutto c’erano libri… roba come quella che leggi tu, Monique.-.
-I vietnamiti sono della tribù perduta?-, chiesi io a nessuno in particolare.
-No. Lo escludo. Per me sono stati appena reclutati. May Lyn si è data da fare.-, disse la nera con aria truce. Annuii, incapace di sfuggire alla sensazione che la colpa fosse mia.
Ero stato io a portarla lì… E ora a causa mia altra gente moriva e impazziva…
-Tracce o cose simili?-, chiese Monique. Minh scosse il capo.
-Niente. È possibile che usino quella casa solo come base temporanea.-, disse. Gli tremavano le mani ma lo sguardo era abbastanza fermo. Ci preparammo in silenzio e mangiammo qualcosa a una tavola calda poco fuori città, in attesa del momento adatto a colpire. Non parlammo, tutti nevosi per quanto stavamo per fare.
-Mi sono informato un po’-, disse Minh, -Donovan Pirk e gli altri menzionati sul foglio che hai visto in camera di May Lyn non si vedono in giro da un bel po’. Circa da sette giorni a questa parte.-. Annuii, consapevole che le implicazioni fossero ovvie.
-C’è solo una cosa che non capisco.-, dissi mentre suggevo una cucchiaiata di zuppa al pomodoro, -Perché non hanno già evocato quel che devono?-.
-Perché solo determinate congiunzioni astrali permettono il ritorno degli Esterni.-, spiegò Monique, -E si dà il caso che domani alle 02.30 vi sarà una di quelle congiunzioni.-.
Tutto chiaro. Ora sapevamo per che ora avremmo dovuto farla finita.
-Ok. Vediamo di pensare a come fare.-, dissi.

La chiesa pareva anomala già da fuori. Forse era solo una mia impressione ma mi pareva che lungo i bordi dell’edificio strisciassero ombre brillanti. Scossi il capo chiudendo e riaprendo gli occhi. Le ombre svanirono. Un mero frutto della tensione oppure erano realmente esistite?
Non lo so, ancora adesso troppi interrogativi ammantano quella notte folle e la mia logica non basta più. Ancora oggi, a tratti mi chiedo se non sia stato tutto un folle sogno…
Comunque eravamo all’atto conclusivo. Vedevamo gente ammantata in cappe bianche andare verso la chiesa. Arrivavano alla spicciolata, uno o due, o a piccoli gruppi. Uomini e donne.
Ne contai una decina ma non riconobbi nessuno.
-Andiamo.-, disse Monique. Come noi aveva una pistola, ma a differenza nostra aveva il coltello, l’arma con cui rispedire gli esseri orribili in spazzi attigui al reale.
Ammantati in abiti comodi e larghi che ci permettessero di nascondere le nostre armi, ci avvicinammo alla chiesa. Sentimmo il canto già da fuori e le vetrate che si coloravano di luci impossibili e folli. Il canto era sempre lo stesso, composto di solo tre parole, che ormai conoscevo sin troppo bene. Ascoltando bene si sentivano anche altri rumori, si percepivano in sottofondo. Espirai cercando di calmare i battiti del mio cuore, cercando di tornare ad essere calmo, lucido e distaccato ma mi fu impossibile.
Allora feci la sola cosa possibile: consultandomi con Minh, socchiusi la porta principale della chiesa e vi gettai un’occhiata. La visione che si presentò ai miei occhi fu incredibile.
Il pavimento della chiesa era dipinto di cerchi d’evocazione. Un’opera enorme. I cultisti cantilenanti inneggiavano la loro blasfema omelia, il loro empio richiamo, schierati ai lati della chiesa, addossati alle pareti.
Al centro della navata principale, proprio dove un tempo doveva esservi stato l’altare, c’era un altro simbolo di evocazione, dipinto col sangue. E su quel simbolo…
Ancora oggi la rivedo, discinta e lussuriosa come nessun’altra femmina a questo mondo…
Innaturalmente bella, irresistibile e, proprio per questo, dannata e sbagliata.
May Lyn. Mia moglie. L’ultima della sua tribù, il Vincolo. Il mezzo con cui Shub-Niggurath sarebbe giunto sulla terra di nuovo. Mi sforzai di non tremare. Non solo per il terrore, ma anche perché la scena che avevo davanti avrebbe fatto avere un infarto a qualunque puritano bigotto che si fosse trovato ad assistervi. Non era roba per deboli di cuore.
May Lyn stava a carponi sul cerchio d’evocazione, nuda. Dietro di lei, un vecchio che riconobbi come Donovan Pirk la penetrava da dietro, aprendole l’ano.
Jhon Silvermouth, riconoscibile dal viso, era invece intento a farselo succhiare dalla vietnamita che veniva intanto penetrata da Ngo Vinh Vien disteso sotto di lei.
Greta Gabel e Osvald Mund copulavano in piedi poco distante dal quartetto, anch’essi ci davano dentro con ferocia inaudita, lui che prendeva la bionda con forti colpi di reni.
E persino i protagonisti di quell’orgia sussurravano qualcosa. Il canto maledetto.
Mi scostai da quella visione, respirando per riprendere il controllo di me e ignorando l’eccitazione che essa mi aveva provocato. Monique mi guardò.
-Sono le 02.15.-, disse. Annuii. Dovevamo agire. Socchiudemmo la porta, entrando cauti. Persi nell’estasi orgiastica, i cultisti non si accorsero della cosa. Dopodiché io feci la mia mossa. Estrassi la pistola, insieme a Monique e Minh.
-Fermi tutti! Questa cosa finisce qui!-, gridai. May Lyn gemette e i suoi amanti si scostarono da lei, incuranti della propria nudità, proprio come la vietnamita dagli occhi diversi che si volse verso di noi. Sorrise vedendomi.
-Marito mio! Devo credere che tu sappia cosa sta per accadere. E che piacevole sorpresa rivedere il signror Minh. Venite! Unitevi a noi, assaporate l’estasi e la gloria in questa notte che segna l’avvento di un nuovo mondo!-, esclamò con il viso trasfigurato dalla gioia folle.
-Tutto questo è follia!-, esclamò Monique. I cultisti continuavano a cantilenare, assenti.
-No. Tutto questo è come dovrebbe essere! Folle è chi si ribella! Shub-Niggurath ha concesso a noi, suoi figli, di vedere il mondo prossimo a venire. Un nuovo mondo, in cui noi, i suoi figli, domineremo sovrani al suo fianco!-, esclamò la vietnamita. Fece un paio di passi fuori dal cerchio magico. Alzai l’arma, cercando di ignorare il tremore della mano. May Lyn sorrise.
-Non mi sparerai, tesoro. Non puoi.-, disse, -Siamo legati, sai?-.
Aveva ragione, sentivo che non avrei potuto spararle, la mia volontà si scioglieva come un ghiacciolo al sole. Scossi il capo, cercando di riprendermi.
-Io non ti permetterò di fare quello che stai pianificando!-, esclamai. Lei si avvicinò ancora.
-Tu… e i tuoi compagni… Non avete possibilità di contrastare il fato. È già tutto scritto ed è destino che vada così.-, disse lei, -Un piano millennario che si compie oggi!-.
Minh avanzò di un passo. Uno dei cultisti fece un passo e il vietnamita sparò, abbattendolo.
L’uomo in vesti bianche crollò a terra, colpito al cuore. May Lyn sorrise a dispetto di ciò.
-Richard, sempre così impulsivo. Ma tu, Minh, hai dimostrato solo di essere d’intralcio, proprio come la tua amica nera.-, disse.
Le porte dietro di noi si chiusero con un colpo secco. E fu lì che lo vidi. Un increspatura nel tessuto del reale che improvvisamente divenne fisica, come uscita da una piega nella trama della realtà allo stesso modo in cui un attore compare dalle pieghe di un telone del teatro.
Un essere bipede che camminava su piedi di uomo, il petto di donna e la testa indefinibile. Dieci occhi sul viso impossibile che inquadrarono Minh, una bocca urlò e braccia artigliate si tesero, mentre quella mostruosità impossibile scattava verso il vietnamita.
Minh sparò. Ancora e ancora. Finì il caricatore. I suoi colpi colpirono i muri, due cultisti furono abbattuti dagli spari. Ma non quell’essere che, in un tempo brevissimo, raggiunse Minh. Sparai anche io mentre indietreggiavo verso un angolo, ma i miei colpi lo attraversarono senza danno. Il sociologo urlò quando venne ucciso.
E non fu una morte piacevole. Sembrò che venisse rivoltato del tutto, da dentro a fuori.
Si accasciò sul pavimento, massa informe di carne e sangue, irriconoscibile.
May Lyn sorrise.
-Vi offro la possibilità di vivere. Piegatevi a Shub-Niggurath e vi sarà risparmiata la vita.-.

Tanto orribile era stata la morte di Minh che non riuscii davvero a capire quelle parole.
Vita? Quale? Poteva ancora un uomo vivere dopo simili eventi?
Monique disse qualcosa. Sentii la sua mano sulla spalla. Scuotermi. Dovevo scuotermi!
Dovevo riprendermi, sapevo che avrei dovuto, e anche in fretta.
-Allora?-, chiese May Lyn, -Accettate o no? VI consiglio di sbrigarvi: il mio amico é… affamato.-, disse. L’amico doveva essere quella bestia orribile, l’essere che aveva ucciso Minh.
-No.-, sussurrai, -Non ci piegheremo.-. Monique alzò la pistola. L’essere balzò in avanti verso la nera. Mi frapposi e sentii gli artigli affondare verso la mia carne ma, con somma sorpresa generale, nessun’artiglio mi trafisse. Anzi, fu il mostro a ritrarsi con dolore.
-Cosa?-, chiese Donovan Pirk. Io sorrisi. Il Segno degli Antichi. Era quel simbolo che doveva aver fermato l’attacco dell’essere. La camicia lacera lasciava intravedere il segno.
May Lyn sospirò. Pareva dispiaciuta. Dolente.
-Uccideteli!-, esclamò. I cultisti si mossero in fretta. Monique e io sparammo.
Donovan Pirk fu colpito in pieno petto al limitare del cerchio magico e cadde all’indietro. Greta Gebel fu abbattuta da due colpi. Una donna urlante farneticazioni incomprensibili venne scagliata indietro. Infine, rimase solo May Lyn. Sporca del sangue dei suoi compagni e sorridente, si allontanò di qualche passo.
-Peccato. Non potrete fare nient’altro.-, disse. Si girò e si chinò sul cerchio magico toccandolo con le mani. Il corpo di Donovan Pirk ebbe un ultimo sussulto agonico poi particelle di luce presero a fluttuare nel cerchio. Shub-Niggurath stava arrivando.
-No!-, esclamò Monique balzando in avanti. Alzò il pugnale. May Lyn la colpì con un pugno. La nera cadde a terra e la vietnamita le balzò addosso.
-Povera stupida. Dovevi andartene finchè potevi.-, disse. Prese a strozzarla.
E fu allora che mi mossi. Brandelli di conoscenza mi giunsero attraverso sprazzi di coscienza. Balzai verso la vietnamita e raccolsi il coltello col simbolo. Lei si alzò mentre l’orrore dimensionale caracollava verso Monique. Sferrai un fendente all’essere. L’aria s’increspò e per un istante il tempo si fermò. Poi quella mostruosità urlò di dolore mentre veniva trafitta e cacciata. May Lyn si alzò. I tatuaggi sul suo corpo rilucevano di energia.
-È troppo tardi, marito… Shub-Niggurath è qui! Saluti al Capro dai mille cuccioli!-, esclamò.
Monique non si muoveva. Morta? Forse. L’odio che mi pervase fu più forte della follia.
E capii cosa dovevo fare. May Lyn era il vincolo, no? Affondai il pugnale nel portale e tracciai nell’aria un segno di chiusura che avevo appreso dai libri studiati.
-Yoh, esathat nä vië!-, urlai, -Ëshan ko shin!-. Urlai quelle parole nella lingua che precedeva la lingua. Un vento terribile prese a soffiare dentro la cappella. May Lyn mi afferrò i polsi.
-No! Pazzo! Non ti permetterò di farlo! Non hai idea di cosa stai buttando via! L’immortalità! Il potere! Donne e uomini! Ricchezze! Pensaci, marito! Pensaci, amore!-, per un istante parve vulnerabile. La fissai mentre il vento demonico soffiava senza tregua. Sentii i vetri della chiesa infrangersi. Qualunque cosa stesse per uscire stava approfittando di quell’ultimo istante.
May Lyn… i tatuaggi brillavano sempre più, ora tutta la sua pelle pareva brillare.
Lei era il vincolo… Capii.
-Ho scelto il divorzio.-, risposi. Trapassai la vietnamita al petto, affondando la lama d’osso sino all’impugnatura nel suo cuore. May Lyn urlò e anche io urlai ripetendo lo scongiuro di esilio contro l’ululante portale. Ma la vietnamita teneva duro: mi strinse la gola.
-Non mi piegherò! Vieni! Iä Shub-Niggurath!-, esclamò. Sanguinava dal petto e la sua presa era debole ma non cedeva. La sua volontà la teneva in piedi. Io scansai la mano con la mia e la spinsi nel portale, urlando lo scongiuro un ultima volta.
Ci fu un’esplosione che mi scagliò a terra. Il portale ululante si chiuse ma non prima che qualcosa mi guardasse, uno sguardo carico d’odio proveniente dall’altrove che sentii addosso.
Poi fu solo silenzio. Mi alzai a fatica. Il coltello d’osso era ancora in mano mia, sporco di sangue. Era una scena orribile: i corpi dei cultisti erano stati sbalzati in giro.
Monique giaceva in un angolo. Mi avvicinai. No, anche lei no!
“Ti prego, dio… Se ci sei… se mai ti ho chiesto qualcosa…”, il cuore mi si strinse in una morsa. Cercai il battito cardiaco sul collo. Batteva. Era viva! Respirava? Sì.
-Monique… Monique, sveglia!-. Lei scosse il capo. E infine aprì gli occhi. Mi guardò come se non capisse. Notai che aveva del sangue tra i capelli. Il colpo doveva averle provocato un’amnesia. La aiutai a rialzarsi. Eccetto noi, non c’era più nessuno e niente di vivo.
-Dobbiamo andarcene.-, dissi. Non avrei mollato. Non ancora. L’avrei portata al sicuro poi avrei finalmente potuto anche pensare di crollare.

Il resto fu semplice. Arrivammo alla macchina e ripartimmo, poco prima che arrivassero la polizia, i pompieri e le ambulanze. I giornali parlarono di un cedimento strutturale. Parlarono di un rito satanico in un sito pericolante e i più bigotti amarono pensare fosse la punizione divina. Non avevano la più pallida idea di quanto erano stati fortunati.
Monique aveva dimenticato le nostre ultime ore. Ricordava me e il nostro amore e il mio breve racconto riempì eventuali buchi. Mi chiese di restare con lei ed io non rifiutai, principalmente perché avevo paura, un terrore animale che ancora oggi mi pervade quando chiudendo gli occhi mi addentro nel territorio del sogno e temo di rivedere e risentire quell’essere il cui sguardo atroce mi ha per un istante inchiodato sulla soglia tra le esistenze.
Cosa succederà ora? Non lo so. Monique progetta di spostarsi in Europa e io non posso dirmi in disaccordo. Siamo ormai insieme da due anni e sebbene non abbiamo più sentito alcunché, sappiamo che qualcuno, da qualche parte, pianifica di compiere ancora rituali orribili per richiamare quegli esseri la cui mano è sulla nostra gola.
Monique ha passato il pugnale e i suoi libri a suo fratello Charles. Lui continuerà il suo compito. Lei e io pensiamo ora di sposarci, forse a Parigi…
Ma a dispetto di ciò non sono tranquillo: non lo sono perché so, con certezza assoluta, che mai più potrò dormire sonni tranquilli. Il territorio del sogno è per me ormai precluso.
Dormo poco. La notte faccio l’amore con Monique, con passione e lentamente. Leggo libri, dormo poco e, seguendo alcuni consigli di alcuni specialisti del settore, ho imparato a bandire i sogni, o quantomeno a controllarli.

Tuttavia il timore c’è ancora e non mi abbandonerà mai, insieme alla sensazione che, dall’altra parte, qualcosa aspetti la sua ora per vendicarsi.

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