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Racconti Erotici Etero

Intimità 4

By 22 Gennaio 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Delirio. Volava verso l’ignoto! Era quella la sensazione che captava dalle nuvole che si disponevano sotto di lei come pecorelle che brucavano. Era bello lo spettacolo, eppure Nanà era inquieta. Ricordava con un non so che di irritante la sensazione stupenda, della notte precedente, di essere posseduta da Roby. Ricordava le carezze, i baci appassionati, i succhiotti eccitanti, i morsi da delirio che si scambiavano, stigmatizzando i loro corpi. Era stata come la prima volta. &egrave quello che l’agitava di più. Proprio quando si apprestava a conoscere, con tremore e fervida attesa,l’intimità di un altro maschio si scatenava di nuovo la sensazione di amore che la incatenava al vecchio mondo. La caricava di ansia e provava un senso di rimorso per il viaggio intrapreso.

Era troppo avanti per poter ritrarsi. Era lì, con quell’uomo che, in fondo, era un estraneo; che, forse, non sapeva nulla dei segreti progetti che lungamente lei aveva coccolato nel suo…cuore. L’eccitazione che le dava la sua vicinanza era stata al diapason quando si erano, incidentalmente, toccati…, ma, allo stato dei fatti, era tutto immensamente calato, quasi spento, sicuramente sopito. Si sentiva un palloncino pieno di elio che pian piano si sgonfia e perde quota, fino a ritrovarsi a terra. No, non &egrave che la copulazione col Roby fosse stata al massimo dell’esaltazione, ma doveva ammettere che era stato fantastico…quella sera. C’era stata una simbiosi nella ricerca dei sentimenti… e non solo. Si erano ritrovati in perfetta sintonia l’uno con l’altra, l’uno nell’altra. Sì, doveva ammetterlo, sarebbe stato meglio se fosse durato di più…! Ma era stato bello.

Era lì, che non sapeva che fare. Doveva concentrarsi nel suo lavoro e dimenticare l’avventura che si era riproposta di perseguire? Al diavolo i dubbi! Chiuse gli occhi su quel cielo a pecorelle. Un’ora e mezza di volo non era poi tanto. Il diavoletto ricomparve. Le mostrò i suoi seni turgidi, irretiti dalle dita del suo adone che glieli massaggiava, stirando i capezzoli fino a farglieli diventare due tubicini, mentre lei imboccava l’arma d’assalto di Roby. Non troppo grosso, né troppo lungo, purtroppo! Ma l’aveva turgido e, in quel momento, le bastava. Glielo giostrò tanto, scappellandolo e usando la sua bocca come una vagina, leccandogli il solitario, polifemico occhietto e il frenulo che stirava la pelle, collegando il corpo pieno di cunicoli cavernosi con il glande, scendendo sul breve bastone e imboccandolo per poi trarlo fuori con uno schiocco sulla cappella. Gli batté il frenulo con la lingua, a ripetizione.

Colto da frenesia, lui, con due dita le raggiunse la clitoride, accarezzandola e massaggiandola con estrema cura e dovuta gentilezza. Sapeva che era una parte molto delicata nell’assecondare la voglia di sesso che ampiamente lei gli dimostrava. Finché Nanà non gli trattenne la mano, allontanandola dalla patatina bollente. Troppo eccitante, non voleva che l’orgasmo salisse. Accompagnò l’arto, indicando la via da seguire verso la vagina. Due dita di Roby affondarono nel condotto cieco che si dilatò, adattandosi alla dimensione della mano maschile, inglobandola e incollandosi come una ventosa. La titillazione provocava il rumore tipico che riproduceva lo sbattere del bianco d’uova in una ciotola. Aveva la stessa frequenza e consistenza man mano che il bianco montava. Il sangue le andò alla testa e non fu più in grado di stimolare il cannolo che le riempiva la bocca.

Si distese sul letto,dilatandosi la fica e pregandolo: “Prendimi!”. Non fu un ordine secco ma una voluttuosa disposizione d’animo. Una resa incondizionata che per la prima volta, dopo molto tempo, rinvigorì il matterello del suo ganzo. Lo sentì gonfio come non era mai stato, almeno non se lo ricordava più di quella consistenza. Si aggrappò con le braccia alle spalle di Roby, le cosce completamente aperte come quelle di un pollo appena squartato. I polpacci salirono in sella, attanagliandogli i fianchi, mentre lui si dava da fare carotandola col suo trapano, dimenandosi in avanti e indietro come uno stantuffo, alla ricerca affannosa dell’acme tanto sospirato.

Pareva un puledro imbizzarrito che lei cercava di cavalcare; o era lei il puledro che lui cavalcava? Erano in due a muoversi, complementari l’uno all’altra. Incollati l’uno all’altra come gli emisferi di Madgheburgo, saldamente in unico corpo procedevano in sincronici movimenti. Finché non venne l’istante in cui la fiamma dell’innesco non raggiunse le polveri. E fu un’esplosione pirotecnica che le fece scoppiare il cuore, mandando in pezzi il cervello. Avvertì l’eruttare del liquido bollente che le bruciava le visceri. Bordate di flussi ricorrenti le si riversavano nella “santabarbara”. Si strinse spasmodicamente a lui, cercando di trattenere all’interno della “coppa” quel dolce nepente. Lo tenne stretto a immobilizzarlo, fino a sentirsi svuotata di forze, ma ebbra del sidro con cui lui le aveva riempito la botte. Roby giacque, incuneato su di lei. Pian piano scivolarono in una allucinazione delirante. Senza fiato, si sentiva leggera, priva di corpo, vuota di capacità di pensare. Una vera e propria droga. Non aveva mai provato quella sensazione. Era stupenda!

“Nanà…!” – una voce la stava chiamando – “Sveglia, siamo in fase di atterraggio. Legati la cintura di sicurezza.” – le consigliò Gianfranco. “Sì.Scusami, m’ero quasi addormentata.” – gli sorrise Nanà. Anche lui le sorrise.
Partiti con i soliti venti minuti di ritardo, rimasti nella durata media di volo, erano prossimi all’atterraggio.
Gianfranco l’aiutò a prelevare il bagaglio a mano che lui stesso le aveva riposto nell’apposito vano al di sopra del passeggero. Glielo porse, mentre provvide a prendere con se la cartella che conteneva la doviziosa documentazione degli studi “promo” accuratamente preparati.

L’aeroporto li accolse con la sua costruzione moderna; un non luogo, ma, in sostanza, era carina. Restava, comunque, un non luogo. Le distanze, enormi nei moderni scali, qui erano ridotte e funzionali, a misura d’uomo. Dopo aver recuperato il bagaglio in stiva dai nastri trasportatori uscirono subito all’esterno della costruzione.

All’ingresso un uomo li attendeva. Alzava un cartello su cui riconobbero il nome della ditta del loro cliente. Aspettava loro. Il giovane, all’apparenza, sembrava gioviale; sorrideva sempre; non troppo alto; tipicamente mediterraneo. Pelle olivastra, capelli ricci impomatati, baffetti neri era un perfetto “hombre”. “Buenas dias, señorita y señor!” e li accompagnò alla macchina dopo aver prelevato i due trolley che sollevò con estrema facilità riponendoli nel portabagagli. Li fece accomodare sul sedile posteriore della macchina e si sistemò alla guida. Col sorriso stampato sulla bocca, si volse ai passeggeri, accendendo il motore: “Vamos al Hotel Catalonia” – aggiunse – “Es uno de los mejores en Zaragoza.” E partì a razzo verso “Zaragoza” sulla “Carretera de Bárboles”, come i due passeggeri lessero sul cartello autostradale.

Nina Dorotea

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