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La Caduta, Atto Quindicesimo, di Intrighi, sbarchi e della Riconquista di Roma

By 5 Settembre 2022No Comments

Aristarda Nera annuì appena, staccandosi dalla mappa, scrutando invece i visi dei generali e degli ufficiali presenti. Sapeva bene che la situazione non era rosea.
-Mia signora…-, iniziò Voldus. Nella sua nuova uniforme aveva mantenuto umiltà e pacatezza. Era il miglior ufficiale su cui l’Imperatrix in esilio potesse dire di contare.
-Parla pure. Parlate senza timore. Io non sono Septimo. Non farò destituire o giustiziare chi non mi aggrada nel parlare. Voglio anzi che siate schietti, onesti.-, disse lei.
-Questa strategia sarà devastante. Per noi e per i nemici.-, disse Voldus, -Le difese costiere sono possenti, oltre il possente. Non possiamo fare breccia senza perdere molti uomini. E non possiamo permetterci di fallire.-.
-La costa è troppo fortificata. Uno sbarco potrebbe venire respinto… Sarebbe un massacro.-, disse Glovio Sicunio, comandante della Legio Proxima.
Aristarda annuì. Dalla loro folgorante vittoria sugli Stretti di Agripatus, le sue forze avevano raccolto numerosi alleati, e anche i ministri del Dio della Guerra asserivano che ora il favore del Dio era su di loro, come un vessillo. O un sudario.
Sbarcare in Italica pareva cosa fatta, ma purtroppo, dopo aver visto l’insuccesso dei barbari, Aristarda Nera aveva preferito temporeggiare, onde meglio comprendere come agire. Erano in stallo, per ora. Eccetto una vittoria minore al largo della Ferencia e la diserzione del Legato Novius Litanicus con parte delle sue coorti, non c’erano stati progressi. L’Imperatrix aveva convocato quella riunione per trovare risposta allo stallo.
-Si può tentare di patteggiare? Magari il comandante delle difese…-, iniziò un altro Legato.
-No. È fedele. Anche troppo.-, rispose Voldus. Una degli ufficiali avanzò una proposta.
-Potremmo passare al veleno. Avvelenare le loro scorte.-, propose. Occhiate taglienti le impedirono di continuare con l’idea. Tutti a quel tavolo erano consci delle regole non scritte dettate dall’onore di Licanes, retaggio del passato. Eppure…
Eppure mai come in quel momento quelle regole parevano d’impaccio.
Dov’era finito l’onore, si era spesso chiesta Aristarda, in un’era in cui il Senato aveva perso ogni potere e gli Dei stessi avevano distolto lo sguardo?
La tentazione di farlo, di ignorare quel senso del dovere che la spingeva a rispettare regole che gli altri infrangevano era fortissima, enorme. Il Trono era già lordo di sangue e disonorato dagli atti di suo fratello Septimo. Che male poteva fare la sua scelta?
-Mia signora…-, iniziò la donna. Aristarda la guardò. Capelli castano chiaro, tagliati corti, viso carino, ma leggermente brutta per i canoni classici. Probabilmente aveva tra gli avi qualcuno dei Cimanei? Forse. O forse no. Difficile dirlo. La carnagione comunque era chiara e gli occhi marroni. Un viso anonimo. Fece un cenno.
-Il veleno salverebbe delle vite. Moltissime. Se anche riuscissimo a prendere terra con un assalto convenzionale, poi dovremmo tenerla e spingerci verso l’entroterra. Non possiamo rischiare di perdere uomini, se possiamo evitarlo.-, si avvicinò all’Imperatrix, che rimase immobile fissandola, -Vi prego! Capite cosa vi sto dicendo? Si tratta di noi o loro!-.
-Si tratta di molto altro.-, la voce che Aristarda udì la spinse a voltarsi e si voltarono anche gli altri, tutti. Le guardie entrarono, armi puntate. Tutta l’attenzione convergeva su un angolo in ombra, e sull’uomo che vi si ammantava.
-Shrike.-, disse Aristarda. Non un saluto, un riconoscere.
-Come diavolo è entrato, per tutti gli Dei?!-, chiese Voldus. Le guardie avanzarono.
Le dita tormentavano i grilletti delle armi energetiche e le impugnature delle lame.
-Calmi, signori.-, Shrike emerse dall’ombra, spettro in nero con le mani alzate.
Impossibile dire da quanto fosse stato lì, o cos’avesse udito.
-Signora, quest’uomo…-, iniziò un ufficiale.
-È la ragione per la quale la Terza Flotta si è schierata con noi, e non con Calus.-, disse Voldus, -Ed è il principale responsabile del nostro essere qui, oggi, a Kipares, vivi.-.
-Guardie, lasciateci.-, ordinò Aristarda, -Siediti, Shrike.-. Lui scosse il capo.
-Vengo solo a riferire un messaggio, e un avvertimento.-, disse. Fissò ognuno di loro. Solo Aristarda osò ritornare lo sguardo. Lei e, pur titubante, Voldus.
-Il Trono è lordo e indegno. Ma chi vi siede non potrà esserlo.-, disse, -I tuoi uomini, Imperatrix, ti vedono come un simbolo, comprendono i tuoi sacrifici e onorano la tua potestà con l’offerta delle loro vite perché non ti sei mai abbassata a usare sotterfugi come questo. Non farlo ora. Non farlo.-.
-È una minaccia?-, chiese l’ufficiale donna. Shrike la guardò.
-Un consiglio.-, si avviò verso l’uscita.
-Hai parlato di un messaggio.-, disse Voldus. Il guerriero dalla fine del mondo annuì.
-Tra tre giorni portate la vostra flotta in vista di Bariace, fuori gittata del nemico. All’alba, osservate. Vedrete un segno. E a quel punto non serviranno più né veleno né sotterfugi.-, disse. Uscì, passo felpato, quieto, com’era arrivato.
-Che razza di…-, iniziò qualcuno. Aristarda sorrise.
-Mia signora?-, domandò la donna, confusa.
-Vinceremo.-, disse l’Imperatrix in esilio. Una parola detta con assoluta certezza.

Era dalla sconfitta di Agripatus che Amsio Calus osservava pensoso la situazione. Le forze lealiste di Aristarda avevano ripiegato verso l’Hiberia, limitandosi a difendere il territorio ma senza attaccare in forze. Gli altri secessionisti si erano accontentati di mantenere le loro posizioni, anche a causa delle rinnovate pressioni dai barbari sui confini dell’Impero.
La verità era che il nemico maggiore era Aristarda Nera, Calus ormai l’aveva capito.
Aristarda che, dalla battaglia navale che l’aveva vista vittoriosa, non si era più vista.
Morta? Forse in seguito a delle ferite? Calus aveva sperato in una simile eventualità ma non c’era stata alcuna conferma di ciò, e tantomeno, non c’era stata alcuna possibilità da parte sua di infiltrare le forze della rivale. Per ora, poteva affidarsi solo a dicerie che volevano Aristarda in mare, a capo delle sue forze, intenta a sondare le prossime mosse.
-Mio signore, i vostri messaggeri sono tornati.-, riferì un servo.
-Falli entrare.-, rispose Calus con un cenno della mano mentre attingeva un lungo sorso dal calice di vino. Aveva mandato messaggeri a numerosi governatori secessionisti.
Il servo portò una cassa. Poi un’altra. E infine una terza. Le aprì. Calus rimase di stucco.
Le teste decapitate dei messi imperiali lo fissarono con occhi vuoti.
-Così, questa è la loro risposta?-, chiese a nessuno in particolare, -Vogliono la guerra? L’avranno.-.
-Mio signore, il Legato Muzio Goriano la attende…-, disse. Calus annuì. Disse di farlo entrare. Goriano non gli piaceva. Era stato sconfitto da Serena Prima durante l’insurrezione di Nimandeo Feral e da allora era divenuto lo spettro di sé stesso.
Di fatto gli si presentò un uomo male in arnese e dal viso sciupato.
-Legato. Benvenuto.-, disse. Il Legato s’inginocchiò, meccanicamente.
-Mio signore.-, disse chinando il capo. Calus sospirò. Quell’uomo era un memento della disfatta. Doveva disfarsene. Lo vide gettare un’occhiata alle teste. Gli venne un’idea.
-Come puoi vedere, i governatori di Kipares, Sirica e Dacia sono reticenti a onorare i loro vincoli di fedeltà a Roma. Urge una lezione, Legato.-, disse. L’uomo lo guardò. Speranzoso? O timoroso? Difficile dirlo, Calus non era mai stato abilissimo a leggere le emozioni.
Sorrise, benevolo sovrano disposto a perdonare un servo maldestro e imbelle.
-La loro scelta mi offende, Legato. E tu sarai lo strumento dell’ira di Roma. La tua Legione è pronta a combattere?-, chiese. Vide Muzio Goriano annuire, con rinnovato vigore.
-Sì, mio Imperator. La Legione è pronta.-, disse. Calus sorrise, bevendo a gran sorsi.
-Voglio che tu faccia di Apollonia un esempio. Radi al suolo quella città ribelle e uccidi chiunque ti sbarri il passo. Fai comprendere loro che l’Impero non tollera la sedizione.-, ordinò. Muzio annuì, pur restando perplesso.
-E le altre, mio signore? La Sirica e Kipares?-, chiese. Amsio Calus fece un cenno noncurante. S’infilò in bocca un pasticcino di cacao e fragole.
-Kipares è un’isola. Saranno loro a cedere, una volta rimasti isolati e privi di aiuto. La Sirica invece… Ho già pensato a come risolvere il problema.-. Il Legato s’inchinò e uscì.

Shrike avanzò lungo la spiaggia, chino e rapido, le vesti appesantite dall’acqua. Aveva superato le barche di pattuglia a nuoto, evitando di essere individuato dalle vedette e dalle ronde. Il freddo addentava la carne, ogni lembo di pelle fradicio e lo spirito finanche. Shrike strinse i denti. Aveva una missione. L’avrebbe eseguita.
Scivolo lungo il muro, rasente ad esso, i passi lenti e cauti, mimetizzato nell’ombra.
Estrasse i vestiti asciutti dal sacco impermeabile, indossandoli e chiudendovi le vesti bagnate al loro posto.
Sgusciò sino alla posterla. La porta era piccola e chiusa. Nessuno l’avrebbe aperta, a meno di non avere un alleato all’interno. Impugnò il Tantō ed emise un fischio, uno solo, modulato. Ad un ascoltatore sarebbe potuto sembrare il verso di un uccello o di una civetta ma al suo contatto all’interno sarebbe sembrato tutt’altro.
La posterla si aprì rapida. Shrike scivolò all’interno. Colei che gli aveva aperto era una donna, il viso duro di chi aveva già combattuto, forse per tutta la vita. Era sulla trentina d’anni, ma conservava una sua bellezza, anche con l’elmo e intabarrata nel corpetto.
-Diana.-, disse lui a mo’ di saluto. La donna sorrise appena.
-Non abbiamo molto tempo. La ronda passerà tra breve. Vieni.-, disse. Lo guidò tra i meandri della fortificazione. Lui la seguì, entrarono in una camerata, passando tra i legionari addormentati, leggeri come spettri, i passi cauti, lievi e rapidi.
-L’artiglieria è poco distante.-, disse Diana, -Impossibile nasconderti fino al momento dell’attacco.-. Shrike annuì appena. –Allora dovrò provvedere in modo diverso.-, rispose.
-Come?-, chiese Diana, -Non puoi restare.-. Lui si limitò a sorridere.
-Non intendo farlo. Il resto è pronto?-, chiese. -Sì.-, rispose lei.
-Assicurati che la tua parte vada come previsto. Io farò la mia.-, disse lui. Lei annuì.
-Fa attenzione.-, disse soltanto mentre l’uomo scavalcava un muro di cinta, scomparendo dall’altra parte. Anche volendo, non avrebbe saputo fare altrimenti. Era quello che era.

Il giorno seguente, Mauzio Goriano e la sua Legione, l’Audacia, assaltarono Apollonia.
Il governatore ribelle si aspettava l’attacco, ma non il come avvenne: Goriano fece bombardare la città. Come promesso all’Imperator in Roma la rase al suolo.
Apollonia, fiera capitale della provincia della Dacia, fu completamente distrutta.
L’Audacia marciò tra le rovine giustiziando chiunque, uomini o donne che fossero.
I sacerdoti di Apollonia, ligi agli Dei, protestarono ma le loro grida incontrarono solo il boato delle bombe e il ruggire delle esplosioni.
Mauzio Goriano, Legato dal cuore di tenebra, privo di rimorso o rimpianto, seguace di nessun dio e bramoso di vendetta, marciò sulle rovine della capitale della Dacia.
Saputo dell’operato di Goriano, Amsio Calus ribadì alla governatrice della Sirica di riconsiderare la sua decisione. Questa commise suicidio, prima di esortare ai propri soldati di non arrendersi. Ma anche tale gesto estremo non servì: al giungere delle forze di Calus, i suoi simpatizzanti attaccarono a tradimento i loro fratelli e la provincia cadde in mano all’Imperator. Le province ribelli così nuovamente assoggettate al potere centrale, Calus fece la sua mossa contro Kipares e Aristarda Nera.

Fu nella notte che giunsero. Erano riusciti ad abbordare una corvetta, prendendone possesso e costringendo il capitano della nave a dire loro quali fossero le parole d’ordine.
Manovrarono la nave con superba abilità, rispondendo ai segnali senza suscitare sospetto.
Erano in sei. Tre uomini e tre donne. Addestrati al massimo grado. Assassini del Trono.
La mano nascosta dell’Imperator in Roma. Facevano parte di gruppi scelti sulla base di criteri noti solo agli addestratori. Non si sapeva quanti ancora ne celasse Roma, loro stessi non erano che una cellula. Operavano insieme sin da quando erano stati scelti.
L’intimità e il sesso tra loro non erano un tabù, anzi erano incoraggiati, pur tuttavia con cautela affinché l’emotività non li rendesse deboli e incapaci di compiere la loro missione.
Erano di varie età e provenienza, ma tutti scattanti e muscolosi, fisicamente al top della forma e addestrati alle varie arti dell’assassinio, della menzogna e del travestimento. Anticamente, si sarebbe detto di loro che erano fantasmi. Ma la designazione era ben altra.
Sicarii, maneggiatori di Sicae, di pugnali, di armi disonorevoli e nemiche di ogni codice d’onore dai tempi di Licanes. Ma i tempi dell’onore, di Janus, erano lontani, persi nel mito.
Nell’oscura era della Guerra Civile, ciò che poteva mantenere l’ordine era solo e unicamente la spietata eliminazione dei nemici.
La tradizione dei Sicarii risaliva in realtà ai primi anni del regno di Anthesio Lysander, il quale aveva rapidamente intuito che gli eserciti e la potenza militare non erano sempre ciò che si necessitava per risolvere le situazioni spinose. Talvolta, un pugnale nel buio era ben più efficace, sebbene disprezzabile. Scelti in giovane età e da allora addestrati, quegli uomini e quelle donne non avevano esistenze proprie al di fuori dei loro nomi-amuleto. Consacrati a Yneas, Dio dei Morti, erano armi viventi. E, come tutta Roma, erano da tempo stati infiltrati dalla Stirpe. I loro addestratori, loro stessi, servivano quegli interessi.
E quella notte, erano determinati a portare il colpo finale ai traditori del Trono.
Chanath, una delle donne, emise un basso fischio. Quello di un gabbiano. In realtà significava solo che la costa era vicina. Nemek, un nero dal fisico possente, annuì.
Diressero la nave verso un’insenatura naturale, lontana dai percorsi battuti dalle guardie di pattuglia. Samea ammainò agilmente la vela mentre Sarnek, Ilith e Karanak preparavano gli esplosivi. L’esplosione della corvetta era un diversivo. Pianificato se le cose fossero andate male. In realtà, la possibilità che finisse male c’era. Era parte del loro compito.
“La via del Sicario è spesso a senso unico. Non prevede svolte o deviazioni e non contempla beata anzianità. Io stessa sono una rarità.”, aveva detto loro la loro addestratrice, una donna vecchia avvolta in vesti scure che si muoveva con la rapida fluidità di una ventenne.
Morire era parte del loro compito. Lo accettavano. Avevano già celebrato i loro riti funebri, offerto incenso a Yneas affinché traghettasse le loro anime a un degno aldilà. Avevano consumato il loro ultimo pasto e goduto un’ultima volta della reciproca compagnia.
Ilith scese dalla nave con un balzo. Rotolò sulla rena, individuando rapidamente la strada.
Un verso secco ripetuto due volte attirò l’attenzione della sicaria: Nemek, poco più avanti aveva individuato due nemici. I due soldati percorrevano pigramente la via.
Dubbio: eliminarli o procedere lasciandoseli alle spalle?
Risposta: erano traditori. Per essi non vi sarebbe stata misericordia.
Emise uno schiocco di lingua. I due, a cinquanta metri, non sentirono.
Dietro di lei, Sarnek e Samea alzarono gli archi. Erano armi capaci di scagliare le frecce a testa larga ben oltre i settanta metri, non dissimili da quelli usati dalle Viragee e prima ancora dalle Amazzoni del Kelreas.
Con un sibilo i dardi partirono. A distanza di pochi decimi di secondo l’uno dall’altro, affondarono nei corpi dei legionari, che caddero abbattuti. Ilith annuì appena.
Non provava gioia, solo la consapevolezza dell’azione. Si avvicinò a uno dei morti.
Sarnek annuì. Di tutti loro era quello più simile di corporatura al morto. La freccia l’aveva trapassato all’occhio sinistro. Incominciò a svestirsi mentre Ilith e Nemek svestivano il morto. Come tutti loro, Sarnek aveva un fisico scolpito da anni di esercizio, braccia e gambe vigorose senza essere eccessivamente muscolose. Samea sorrise appena vedendolo.
Ilith sapeva perché: lui e la giovane si erano amati. Quella missione era la quinta in cui venivano impiegati tutti assieme, e la sesta per lei personalmente. Era normalissimo che si sviluppassero simili legami. Lei stessa era intima di Karanak e Namek. Aveva quasi trentotto anni. Sarnek e Samea di contro erano ben giovani, ventisette anni lei e trenta lui.
Rivestito con l’armatura del morto, Sarnek sorrise appena. Samea gli sfiorò appena la guancia con la mano guantata. Il piano era cambiato, lo sapevano tutti loro, ma nessuno temeva il mutamento. Si sarebbero adattati. Comunicarono a gesti, preparando il nuovo piano.

Il Governatore di Kipares, Lucio Asiatico Secondo, osservava la notte.
Avrebbe dovuto essere a letto con sua moglie, Agrippina Dimaneia.
Avrebbe dovuto essere sereno. Ma non lo era. Aveva un presentimento che non capiva, una crescente inquietudine che lo aveva portato ad alzarsi, a versarsi del vino speziato e a osservare, attendendo qualcosa che nemmeno conosceva. Che non sapeva.
Lucio sospirò. La sua secessione dal Trono era stata un bene, nessun dubbio su ciò. Aveva spesso nutrito dubbi su Calus e di fatto, la vittoria di Aristarda ad Agripatus aveva permesso all’uomo di sopprimere gli ultimi timori.
Ma ora era inquieto. Non capiva perché. Avrebbe dovuto essere felice: presto Aristarda avrebbe mosso sull’Italica, sbarcando nella terra dove anche Janus, il Fondatore, aveva posato i piedi. Presto, la guerra sarebbe finita.
Poi? Era questo a inquietarlo? Poi la sua routine sarebbe ricominciata. E lui sarebbe stato un governatore come gli altri. Figura resa illustre dal passaggio della Storia, ma appena lambita da esso, e non attore protagonista. Era questo a inquietarlo?
Sollevò appena la mano, accarezzando il gladium che riposava appeso alla parete, ricordo della sua carriera militare nella Kiparea, la Legione fondata in maggioranza da volontari dell’isola. Tre generazioni di Kiparii erano andati a morire e a combattere per l’Impero.
E lui era tornato. Era il suo senso di segreta colpa, la brama di una redenzione, e forse della gloria cui ambiva. Ma alla fine sarebbe servito?
-Tutto passa.-, pensò ad alta voce. Ma quella considerazione filosofica non lo sollevò dal suo stato.

L’Ammiraglio Voldus sospirò. Una notte quieta. Perfetta per navigare, il mare era placido e il cielo non minacciava pioggia o tempesta.
-Signore?-, chiese il suo aiutante. Lui sorrise.
-Ottima esercitazione, Urio. Riportiamo le navi al porto.-, disse.
Urio annuì diramando gli ordini. Da quando Kipares era caduta in mano ai fedeli ad Aristarda era divenuta de facto un porto immenso. C’erano veramente pochi spazi non utilizzati a tal fine, ma la maggioranza dei porti commerciali era stata riadattata per poter ospitare le massicce navi militari.
-Oggi anche io dormo a terra.-, disse Voldus.

Nearco dormiva placidamente, il sonno di troppe notti turbato dai timori.

Corantius, ex vice ammiraglio lealista e attualmente consigliere di Aristarda, non dormiva.
Assaporava a pieni polmoni la mistura oppiacea. Era un lusso proibito, una droga introdotta dalle province orientali. Una grazia che si concedeva a intervalli più o meno regolari da quando, ancora giovane fante di marina, l’aveva scoperta durante la cattura di una nave barbara. Esalò un drago fumoso che dissolse nel vento terso.
La testa era leggera. In un momento simile, non doveva temere, non pensava al futuro o ai fasti del passato infrantosi ad Agripatus, non vedeva dinnanzi a sé l’incerto del presente…
Sorrise, in modo ebete, mentre la droga lo stordiva. Vedeva cose nel fumo.
Draghi? Forse. I pirati di Ching parlavano spesso dei draghi, esseri mitici che nessuno aveva mai veduto con occhi propri!
-Che bello…-, disse con una voce che non pareva la sua.

Karanak e Chanath avevano cautamente evitato le strade. Erano giunti sino alle mura di Famagostea, la capitale della provincia. Le mura erano antiche, edificate da chi, prima di Roma, aveva dominato l’isola, si ergevano imponenti nella notte. Sentinelle ve n’erano, ben cinque. Ruotavano ogni due minuti. I due infiltrati attesero la rotazione, mimetizzati in un cespuglio vicino alla strada. L’ora era tarda. La decima ora della notte.
Presto non ci sarebbe stata più gente per le strade.

Sarnek pattugliava la strada, cauto. Calcolava con pigrizia il tempo di cui i suoi compagni avrebbero avuto bisogno prima di essere in posizione. Nella sua mano, le armi di un morto, nella sua tasca, il detonatore a onde corte dell’esplosivo piazzato sulla nave.
Incrociò altri uomini, cittadini. Salutò appena. Loro ricambiarono. Non sospettavano, e perché avrebbero dovuto? Era in tutto e per tutto un soldato, in quel momento.
Nessuno avrebbe osato dubitare, tranne un superiore del defunto, ma Sarnek e i suoi intendevano minimizzare i rischi.
Al futuro, l’assassino non pensava: inutile preparare una via di fuga con il rischio di vedersela chiudere. Ma se l’attacco fosse riuscito come previsto, il caos e la confusione avrebbero permesso agevolmente il loro abbandono del campo. Era già stato così in passato. Lo sarebbe stato ancora.

Ilith, Samea e Nemek continuavano la loro avanzata. Avevano dovuto uccidere solo un soldato, uno che si era avvicinato troppo allo scoprirli. Samea gli aveva spezzato il collo e l’aveva gettato a mare. Con un po’ di fortuna, qualcuno avrebbe potuto credere a una caduta, a dell’ubriachezza in servizio. Ma la fortuna, si sa, non è alleato affidabile.
Il Sicario non può permettersi tale lusso, così Ilith, Samea e Nemek decisero per cambiare piano. Erano in sei. I bersagli primari erano Aristarda Nera e Lucio Asiatico Secondo, per ordine del Trono, ma sull’isola vi erano anche alti ufficiali, bersagli secondari la cui dipartita non sarebbe stata sgradita a chi li aveva inviati là e non avrebbe fatto che aumentare la confusione e il caos, favorendo poi la loro fuga.
Rapidamente, Ilith si cambiò. Si spogliò della veste nera e dei guanti, rimanendo nuda per un istante e, estratto un vasetto di olio profumato, si unse le membra. Scivolò poi dentro una veste che si era portata dietro, una bella veste in lino siriaco, da cortigiana.
Faceva parte del loro mestiere adattarsi e Ilith aveva fatto proprio questo. Perché rischiare quando il miglior modo per infiltrarsi nelle rocche dei nemici è proprio quello di esservi invitati? Nemek e Samea annuirono. Comunicando a gesti, Ilith indicò il porto dove stavano attraccando due massicce galee, segnalando che laggiù sicuramente si sarebbe trovato un ufficiale di alto rango e che lei avrebbe provveduto a eliminarlo.
Nemek e Samea annuirono appena. Il primo si avvicinò appena a Ilith e la baciò castamente sulle labbra. Sapevano bene che poteva benissimo essere un addio.
La seconda annuì appena, solenne, come una sacerdotessa.
Poi si separarono.

Sarnek si avvicinò alla pattuglia. Rilassato.
-Soldato. Sei solo. Il tuo compagno?-, chiese un giovane più o meno della sua età.
-È andato a pisciare. Nulla da segnalare.-, rispose lui, disinvolto. L’altro annuì, svogliato.
-Nulla da segnalare neanche da noi. Notte tranquilla.-, rispose il compagno di quello che aveva parlato. Un vecchio. Sarnek sorrise appena, affabile. Fece per parlare, fu anticipato.
-Per caso hai visto una corvetta, la Girda?-, chiese il primo. Sarnek scosse il capo.
-Pensavo fosse fuori di pattuglia.-, disse con tono colloquiale.
-Già. Peccato che qualcuno ha segnalato che si è diretta verso est, dalla zona da cui giungi tu. Pensavo l’avessi vista.-, disse l’uomo. Il vecchio improvvisamente parve interessarsi al dialogo. Non doveva essere molto sveglio, oppure era solo stanco, ma anche lui aveva intuito qualcosa. Sarnek sospirò. Per quanto ben pianificato, anche il miglior attacco può andare storto. Aggiustamenti come quelli erano da mettere in conto.
Si mosse, rapidissimo. Estrasse la spada con una mano, tagliando la gola al giovane.
Il vecchio indietreggiò, estraendo la sua arma e barcollò. Con l’altra mano, Sarnek aveva lanciato una stella acuminata che lo aveva colto proprio al collo. Colpo letale. Cadde morto.
Sarnek imprecò. Inutile tentare di nascondere i corpi. Li fece rotolare dentro a un cespuglio, sapendo che chiunque avrebbe notato il sangue. Cambio di piani.

Artigli del ragno.
Giungevano da un passato ignoto, da un presente martoriato, da culti assassini lontanissimi che avevano solo casualmente trovato la strada per Licanes, o addirittura per Roma. Impossibile dire chi li avesse inventati, inconcepibile comprendere in quanti ne avessero fatto uso perfezionandoli.
Artigli del ragno. Per mani e piedi. Mezzo da scalata, capace di creare sentieri dove non ve n’erano. In altre parole, calzature e guanti muniti di solidi uncini, capaci di attaccarsi alle superfici. Chanath sforzò sulle braccia, innalzandosi. Riguadagnò l’appiglio con le gambe.
Sotto di lei, Karanak faceva lo stesso. Un minuto al cambio della guardia.
Continuarono la salita. Piano. Costanti, silenziosi e implacabili come la morte stessa.
Ormai riuscivano a sentire le voci dei soldati sopra di loro. Si fermarono, lasciandoli passare. Chanath ascoltò.
-Non vedo l’ora di dormire.-, disse il primo, stanco.
-Dormire? Nah! Io vado al lupanare. C’è Ctelia che mi aspetta…-, rispose il secondo.
-Quella ti prosciuga il salario, non solo le gonadi!-, insorse il terzo.
-Ctelia… Ma non era impegnata? Tipo col governatore?-, chiese il primo.
-No. Pare che il governatore abbia disdetto, dicono le voci. Dicono che sia… pensoso.-, rispose il secondo, -Peggio per lui!-.
-Ma cos’ha?-, chiese il terzo, ormai disinteressato all’argomento iniziale.
-Che ne so. Non ha voluto cenare. È chiuso in camera, la sua privata, senza sua moglie, dicono.-, rispose il secondo.
-Uhm. Amante giovane?-, provò a indovinare il primo. Il terzo scosse il capo.
-Non credo. Avendo rifiutato Ctelia, che ha solo venti primavere, potrebbe solo aver optato per una ragazzina, ma dubito sia il caso. Il governatore Lucio è un uomo di principi…-.
Chanath smise di ascoltare. Non le interessava con chi fosse Lucio. Aveva ciò che voleva.
La sua posizione più recente.
Forzò le membra immobili al movimento. Con cautela. Poco dopo, lei e Karanak furono in cima al ballatoio, sulle mura. La pattuglia, più avanti, li aveva superati e procedeva nel giro. Due minuti… Tolsero gli Artigli riponendoli nelle bisacce. Sfilarono delle corde con rampini. Lanciarono trovando punti di appoggio sui tetti adiacenti e usarono le corde per scendere. Erano dentro.

Nemek e Samea avevano optato per un diverso travestimento: un umile coppia.
Entrarono in città dalla porta principale, scusandosi umilmente per l’assenza. Una cospicua bustarella fece sì che la guardia soprassedesse sui motivi che avevano portato i due ad abbandonare il perimetro delle mura. Entrati, si diressero verso i quartieri bassi.

Ilith sorrise, lasciva. Quello della puttana era un ruolo che aveva già interpretato, più volte.
La carnagione scura, gli occhi chiari e i capelli lasciati moderatamente lunghi in spregio all’uso degli assassini di tenerli cortissimi accentuavano il fascino di un fisico già di suo stupendo. Ilith aveva avuto molti amanti e molte volte la sua ars amatoria aveva permesso la vittoria. A trentotto anni aveva ancora un corpo da ventenne e sapeva sfruttarlo in modi che le ventenni nemmeno immaginavano.
Camminava lungo la via. Era entrata nel porto senza venire controllata, salvo per pochi sguardi libidinosi da qualche milite, cui aveva risposto con un sogghigno da cortigiana.
Non c’erano strumenti onorevoli e disonorevoli per gli assassini. Veleno, seduzione, lame, catastrofi, tutto era lecito per raggiungere lo scopo. L’onore era il trionfo degli sciocchi, la gloria e la rettitudine non erano di utilità alcuna ai morti.
Osservò con piglio attento i quartieri. Notò i soldati. Divise da permesso.
Avevano appena finito il loro turno. Uno di loro la vide. Lei sorrise, lo salutò.
Decise: c’erano informazioni da cogliere con poco meno di una parola e un gesto.

Sarnek sospirò: aveva raggiunto il villaggio di Limassiol ed aveva rapidamente capito che non c’era nulla d’interesse là. Il calcolo del tempo non giocava a suo favore.
Ma usare il diversivo ora, sarebbe stato un errore madornale. Aveva concordato con gli altri quando utilizzarlo. Ormai era quasi l’undicesima ora. Ancora troppo presto.
Dirigersi verso la capitale non sarebbe servito. Già quattro di loro erano al lavoro in quella zona. Ma da quelle parti c’era la residenza di Nearco, stando alle fonti del Trono.
Nearco. L’ammiraglio-capo di Aristarda Nera. Un bersaglio tutt’altro che secondario.
E dalla sua posizione, Sarnek ne vedeva la villa, in lontananza.
Un bersaglio ideale.

Karanak e Chanath scesero sino ai quartieri bassi. Prostitute, accattoni, umili cittadini, ronde notturne (poche). Non ebbero difficoltà a individuare Nemek e Samea.
Si erano cambiati. Ora Chanath pareva una servitrice e Karanak un umile venditore, i cui capelli corti e incanutiti lo rendevano particolarmente adatto al ruolo di vecchio avido.
Mercanteggiarono tra loro sul prezzo di una fiasca di vino acidulo che Karanak cedette a Nemek per poche monete, intanto comunicarono. Quando si separarono, avevano già determinato chi avrebbe attaccato chi e come. Ora dovevano attendere il diversivo di Sarnek, ma se non fosse arrivato entro l’ora prima del nuovo giorno, avrebbero dovuto agire senza di esso. Nessun problema.
Karanak sorrise: aveva quarantasette anni ed era alla sua ventesima missione. Chanath, una giovane di appena ventinove anni, lo vedeva come un maestro, un profeta dell’assassinio, un edotto del loro terribile mestiere. Era giusto: la giovane doveva vederlo così. E lui si sarebbe assicurato che lei avesse imparato al meglio dal suo sapere, anche se già capiva che non era necessario.
Non c’era di che temere: se Chanath, o chiunque di loro fosse stato ritenuto inadatto, non sarebbe neppure stato inviato in missione. Gli indegni non facevano una bella fine.
Il loro ordine non poteva permettersi la debolezza. Non c’era tempo per generare in essi la forza. Chi non riusciva veniva eliminato dai suoi stessi compagni. Così era e così sarebbe stato. Sempre.

Ilith applicò appena una leggera pressione sul perineo. Schiacciò e rilasciò di colpo, accarezzando i testicoli e l’ano proprio mentre il sesso del soldato le affondava in bocca. La sua lingua agile ed esperta terminò l’opera: incapace di trattenersi oltre, il giovane eiaculò a grandi fiotti, tre getti di seme denso e odoroso.
La nera bevve, accogliendo gli spasmi dell’uomo, leccando e ingoiando tutto.
Si staccò dal giovane con un sorriso soddisfatto, guardandolo steso sulla branda a respirare piano. La stanza in cui erano era quella di una squadra navale ancora fuori, di cui il giovane aveva avuto modo di ottenere la chiave.
-Dei…-, esalò lui, -Sei stata magnifica…-.
-E tu eri molto carico.-, rispose lei con un ghigno, -Vuoi fare un altro giro?-, chiese.
Accarezzò il sesso sgonfio di lui, fissandolo con desiderio.
-No… l’ammiraglio domani vuole riprendere le esercitazioni… Oggi è sbarcato a terra, come noi tutti. Dopo un giorno e una notte in mare….-, si ricomponeva mentre parlava, -Ci voleva.-, disse. Ilith sorrise, sorniona. In realtà non le era dispiaciuto: bere il seme di un uomo la faceva sentire bene fisicamente, era come sorbirsi un sorso di buon vino.
Si era toccata piano, dandosi piacere quel tanto da non lasciare che fosse solo quel ragazzo a godere. Si rivestì. Si era spogliata in previsione che il giovane l’avrebbe posseduta, ma non era accaduto: quel ragazzo non aveva saputo resistere ed era venuto copiosamente durante la fellatio. Comunque non importava: era doveva voleva essere.
Dentro la base navale. Si stiracchiò appena, ungendosi di profumo e controllando la capigliatura. Il giovane le diede alcune monete che lei intascò con gratitudine.
-Ci vediamo.-, sorrise mentre usciva. Era dentro.

Sarnek applicò la torsione. Il collo del soldato si ruppe mentre s’inarcava. La garrota aveva inciso la pelle spietatamente. Lasciando cadere il morto, il Sicario strisciò rasente il muro.
Aveva eliminato anche le altre quattro guardie. Una ad una, con metodo e senza rischiare.
Aveva abbandonato l’armatura e rimesso le vesti da Sicario. Alzò la cerbottana.
Dardo avvelenato. Nearco sarebbe morto in quel modo. In silenzio, senza nessun rumore.
Varcò la porta della dimora dopo averla scassinata. Nulla di complesso. I servitori dell’ammiraglio vivevano poco distante. Nearco teneva alla sua riservatezza.
L’interno della casa era umile quanto l’esterno: pochi dipinti, l’armatura dell’ammiraglio su un supporto, il suo gladius e l’arma da supporto a carica energetica.
Tutti inutili gingilli. La morte di Nearco non sarebbe arrivata in guerra, ma lì, in pace.
Forse l’avrebbe vista come una grazia.
Attraversò la sala, oltrepassando un triclino e uno scaffale. Libri, pochi, poesia e filosofia.
Trovò la camera da letto. Aprì la porta. Individuò il corpo dell’uomo. Era il suo? Sì.
Da come russava era lui.
-Allarme!!!-, il grido penetrò la notte. Poco distante, appena fuori dalla villa.
Sarnek imprecò: avevano trovato i corpi? Com’era possibile? Chi mai era passato da quelle parti? Alla fine nulla di tutto ciò contava. Alzò la cerbottana. Nearco, improvvisamente sveglio, scagliò davanti a sé il cuscino. Il dardo avvelenato penetrò nel tessuto.
Sarnek estrasse il pugnale e attaccò. L’ammiraglio bloccò al meglio. Una vita di combattimento l’aveva certamente reso capace di difendersi rapidamente.
E lui doveva finirlo alla svelta! Sgambettò l’ammiraglio e cercò di usare il proprio peso per affondargli il pugnale in petto. La punta lambì il petto dell’uomo, poi forzando con tutto il suo peso l’assassino affondò.
Di poco, ma fu sufficiente. Sarnek sorrise: la sua lama era avvelenata. Nearco era già morto. Rotolò via dal nemico, stringendo ancora il pugnale. Ora il diversivo…
Prese il detonatore, calcolando la distanza. Era sufficiente.
Uscì dalla villa e provò un dolore atroce quando una lama lo trapassò, entrando e uscendo.
Fece appello alla sua volontà per compiere l’ultimo gesto: premere il detonatore.
Poi cadde a terra, morendo pochi istanti dopo.

-State bene ammiraglio?-, chiese l’uomo sulla soglia.
-Chiama un medico! E dà l’allarme!-, ringhiò Nearco. Era solo un graffio, ma bruciava da matti. Brutto segno. Evidentemente l’arma era avvelenata.
Attorno si moltiplicavano gli allarmi.
E improvvisamente, anch’essi impallidirono all’udirsi di un’esplosione.

Ilith sentì l’esplosione. E gli allarmi. Caos. Puro caos. La linfa vitale del suo lavoro.
Si affrettò a correre oltre due militi che marciavano verso la direzione opposta. La ignorarono. Il terzo di loro la guardò. Ilith, espressione sgomenta in viso dovette urlare per farsi udire da lui al di sopra del fragore.
-Che succede, in nome degli Dei?!-.
-Un attacco!-, esclamò l’uomo, -È esploso qualcosa!-. La superò in corsa.
Sarnek aveva fatto il suo lavoro. Poco ma sicuro che ciò significasse la sua morte. Il diversivo era giunto leggermente prima del previsto.
Ilith svicolò verso una via laterale. Si mischiò alla folla che correva verso l’interno del porto, nella relativa sicurezza della base navale.
-Di qua! Di qua!-, urlò un milite. Lei seguì le sue istruzioni, ma solo per breve tempo. Gettò dietro di sé un’occhiata e, girato l’angolo, prese la direzione opposta.

Le pattuglie giunsero sul luogo dell’esplosione.
-Ecco la Girda…-, mormorò il capopattuglia osservando la carcassa della corvetta ardere.
-Abbiamo alcuni morti lungo la strada. E l’Ammiraglio Nearco è stato attaccato. L’assassino ha lasciato lorica e armi di uno dei nostri… È morto.-, disse uno dei soldati.
-Allora è finita.-, si permise di sperare una giovane.
-Non è finito niente! Voglio tutti nei baraccamenti e pronti a rivoltare quest’isola come un fottuto guanto! L’ammiraglio Voldus ha già ordinato un blocco delle navi in uscita. Pattuglie su tutto il perimetro.-, ordinò il Capopattuglia.
-Sissignore.-, rispose la pattuglia come un solo uomo.

Lucio Asiatico Secondo sospirò. Diede ordine di preparare le difese, al meglio.
Massima attenzione, coprifuoco immediato e pattuglie in strada.
L’intera isola doveva venire blindata. Ricevendo i rapporti non credeva minimamente all’idea che quell’assassino ucciso presso la residenza di Nearco fosse solo.
Bevve un altro sorso di vino. Sua moglie, una piacente donna nonostante l’età incalzante, si avvicinò appena.
-Vieni a letto, amore.-, disse soltanto. Lucio le sorrise, triste.
-Abbiamo proprio sbagliato tutto nella vita, eh?-, chiese. Lei lo guardò pensierosa.
-Calus non ha preso bene la mia decisione. Ha mandato gli assassini.-, rispose lui.
-Ma è stato ucciso… L’hanno ucciso!-, esclamò lei. Lui sorrise ancora, tristemente.
-Non è da solo, tesoro mio. Non è un compito che si affidi a un solo elemento, per quanto valido.-, disse, -Torna a letto. Ti raggiungerò appena saprò che è tutto apposto.-.
Lei annuì. Tra le sue molte virtù vi era l’obbedienza e il rispetto dei suoi spazi. Lucio attese che uscisse. Se solo avesse saputo dirglielo, quanto era stato divorato dall’ansia!
Quanto aveva temuto quel momento, e temuto il resto! Lucio Asiatico Secondo rivide la sua vita. Figlio cadetto di Lucio Asiatico Primo, fieramente soldato, poi politico, era sempre stato mediocre, mai brillante E ora… Ora la mano di Calus si protendeva a stritolarlo.
-Una vita mediocre. Una vita misera.-, pensò Lucio ad alta voce.
La fine, in tal senso, pareva proprio solo questo. Una fine. E basta.

L’avanzare delle pattuglie costrinse Nemek e Samea a cambiare tattica: i due rimisero le vesti da infiltrati e rapidamente si dileguarono sfruttando i tetti. Sarebbero stati visti. Lo sapevano. Nemek lo sapeva bene. Sapeva anche che aveva un compito.
Non fu necessario parlare. Samea annuì, apparentemente conscia della decisione.
Guardò la giovane balzare verso il tetto successivo. Dietro di sé, sentiva urla.
L’avevano visto. Inevitabile. Estrasse qualcosa. Una granata. Tolse la spoletta. Vecchio progetto di granata a schegge, arcaica ma affidabile. Lanciò a parabola.
La granata atterrò tra le gambe di tre militi che avanzavano, falciandoli. Nemek annuì. Estrasse l’altra arma. Sparò dall’anca. Mitraglietta ultracompatta. I superstiti della pattuglia sbandarono, travolti dal fuoco inaspettato. Ripiegarono. Nemek annuì.
Indietreggiò. Poteva disimpegnarsi? No. Balzò di sotto. Atterrò assecondando l’impatto con una capriola. Estrasse la spada corta. Lama dritta, doppio taglio. Lanciò un’altra granata in una casa. Esplosioni, urla. Confusione e caos. Ciò che serviva.
Che serviva a Samea e agli altri. Lui sapeva che difficilmente ne sarebbe uscito vivo.
Gli andava bene: sapeva che sarebbe potuto accadere e lo accettava. La missione era tutto.
La sua vita era un pagamento equo. Girò l’angolo. Un uomo gli arrivò addosso. Per riflesso, lui falciò davanti a sé. L’uomo crollò a terra, tenendosi lo stomaco. Un cittadino.
Danno collaterale, niente più. Nemek corse in direzione opposta. Dietro di lui, urla e furore. Qualcuno sparò con armi a energia verso di lui. Sentì dolore alla gamba destra.
Si sforzò di continuare a correre. La gamba non reggeva bene il suo peso. Altri colpi.
Lui si girò. Sparò gli ultimi colpi con la mitraglietta prima di gettarla dietro di sé.
Colpire o no non importava. Importava il tempo! Ancora un minuto! Un minuto!
Svoltò un ennesimo angolo, finendo contro un fante. Impacciato, l’uomo tentò di attaccare.
Nemek lo stroncò con un colpo a dita tese affondando alla trachea prima di finirlo con un affondo alla nuca. Muoversi! Doveva muoversi! La gamba pulsava, dolente.
Non riusciva a correre. L’adrenalina lo aveva sostenuto, ma ora il corpo mostrava i suoi limiti. Si sforzò di continuare a camminare.
Bersagli? Tutti e nessuno. Tutti erano leciti ma nessuno era rilevante. Caos, lo scopo era il caos. Altri nemici in arrivo, li sentiva. Le mani corsero ai ferri da lancio shaken. Impugnarono e scagliarono con una flessione del polso. Un uomo crollò centrato al collo. Nemek urlò la sua sfida al cielo, scagliando altre due lame da lancio, le ultime, mentre altri lo puntavano e sparavano. Decine di colpi lo travolsero. Un uragano furente lo sommerse, il dolore implacabile e breve. Contorcendosi sotto i colpi, Nemek crollò a terra, già morto.

Samea sapeva che Nemek non sarebbe sopravvissuto. Lui e Sarnek avevano dato la vita per permetterle di riuscire nella sua missione. La giovane era intenzionata a non fallire.
Panico nelle vie. Folla in movimento. Balzando su un balcone, Samea entrò in una casa.
Le urla della donna e dell’uomo che vi abitavano furono silenziate dai due coltelli da lancio che la giovane scagliò con precisione millimetrica. Scendendo al piano inferiore, Samea si avvolse in una veste e uscì. Così agghindata poteva passare per una mendicante. Scivolò tra la folla, ignorata da tutti nel caos generale.

Il caos era l’elemento cardine di ogni infiltrazione. Karanak ne era convinto e sapeva bene quanto fosse utile. Lo svantaggio di una simile azione consisteva nell’alto livello di allerta che il caos tendeva a causare. Ora, ogni soldato sull’isola si sarebbe mosso verso di loro.
Gettò uno sguardo a Chanath. La giovane annuì appena. Erano nelle fogne. Ben al di sotto della strada. Poco ma sicuro, le pattuglie sarebbero giunte anche lì, ma prima avrebbero dovuto organizzare una ricerca, capire quanti erano gli aggressori.
Ardua impresa, specie considerando i diversivi in atto. Karanak sapeva bene che in quel caso ci sarebbero state perdite, anche solo per raggiungere i loro bersagli. Improbabile che Aristarda o Lucio venissero evacuati: avrebbero dato un immagine di insicurezza e timore.
No, loro sarebbero rimasti al loro posto. E vi sarebbero morti.
I due assassini avanzarono attraverso le fogne.

Da un punto di vista puramente artistico, squisitamente tattico, l’azione era un capolavoro.
Ilith sorrise appena, ben conscia della falsità di quelle parole.
La Girda, la corvetta immolata aveva finito di ardere. Dalla capitale parevano sprigionarsi incendi. Fuoco e devastazione. La firma del caos. Yneas avrebbe accolto molti nel suo abbraccio quella notte. E ciò era bene.
Ma ciò che era male era il resto: i loro bersagli primari erano con tutta possibilità ancora vivi. Ilith sapeva che la sua azione era un mero diversivo, ma sapeva anche che avrebbe dovuto considerare un’ulteriore ipotesi: la fuga dopo l’eliminazione dei bersagli.
Fuggire via nave non era possibile: voci di un blocco navale a scopo difensivo erano trapelate. Voldus stava sicuramente preparando qualcosa da quel lato.
Allora mimetizzarsi, svanire, attendere e fuggire. Una tattica semplice.
Ma anche in quel caso, il problema era il tempo. I seguaci di Aristarda avrebbero rivoltato l’isola come un guanto pur di trovare i responsabili di quel caos.
Che lo facessero pure… Ilith sapeva bene che lei e la sua squadra se la sarebbero potuta cavare. Con Aristarda e Lucio morti, probabilmente l’isola avrebbe rivisto la sua posizione rispetto al Trono e a quel punto anche loro avrebbero potuto tornare alla base.
Ma solo se Aristarda Nera e Lucio Asiatico fossero morti.
-Ehi!-, ringhiò qualcuno. Voce femminile. Ilith si voltò, rapida. La mano aveva già sfilato il ferro da lancio nascosto nella manica sinistra, scagliandolo.
La donna incassò in piena fronte. Colpo letale. Guardandola, la nera si accorse di quanto erano simili. Altezza simile, simile corporatura, finanche la capigliatura e il colore della pelle. Sorrise. Decisamente un colpo di fortuna.
Aveva concordato con i suoi alleati un tempo d’azione e un’eventuale serie di punti dove ritrovarsi. Nessun problema in quel senso. Il margine di tempo era dalla sua, come anche il resto. Iniziò a spogliare la donna. Rapidamente, le mise le sue vesti da assassina. Si mise la corazza della morta. Trovò il bracciale identificativo. Sivria Thalis. Annuì. Quello era il suo nome, ora. E lo sarebbe stato finché le sarebbe servito.
Sfilò il gladium della morta e ne trapassò la fronte, conficcandovi la lama larga del gladio a fondo, di forza. Fatto. Si fece un taglio sul braccio sinistro con il suo pugnale, un pugnale dritto a un taglio, che poi strinse nel pugno della morta. Il bruciore e il sangue le ridiedero lucidità. Espirò in fretta.
L’adrenalina le scosse le membra. Ora era pronta. Strappò un brandello della manica in tessuto dell’uniforme per tamponarsi la ferita mentre iniziava.
-Qui! Qui!-, urlò, -L’ho uccisa! Venite! È morta e io ho bisogno di cure!-.
Non dovette attendere molto.

Chanath concluse l’affondo estraendo l’arma. Il soldato rantolò un paio di volte mentre crollava a terra. Karanak poco distante si medicava una ferita di poco conto al viso.
La pattuglia inviata nelle fogne era stata eliminata rapidamente. I due Sicarii proseguirono nel loro avanzare, lentamente e con cautela. Sfruttando le informazioni e le planimetrie, salirono verso il palazzo del governatore.
Vicini alla meta, si ricongiunsero a Samea, che era riuscita a evitare le guardie sfuggendo verso le fogne. Il trio di assassini si avvicinava ormai ai loro veri bersagli.

-Signore?-, chiese l’aiutante di campo. Voldus sospirò. Quella notte a terra pareva infinita.
I problemi in città, l’attentato a Nearco, la scomparsa e la ricomparsa della Girda, tutto quanto aveva creato un’incertezza che Voldus stesso trovava difficile arginare.
-Rapporto.-, ordinò mentre beveva dell’acqua.
-Il blocco navale è completo. Le pattuglie riferiscono di almeno un nemico ucciso. Pare siano infiltrati, signore.- disse l’aiutante, un giovane dai capelli biondicci.
Voldus gli sorrise, paterno, affettuoso.
Era un po’ il figlio che non aveva potuto avere, strappatogli da un fato ingrato quando sua moglie e il suo primo figlio erano morti durante il parto spaventosamente complesso.
Da allora, Voldus aveva dedicato la sua vita alla marina, al dovere e al servizio.
-Ottimo lavoro, Niblius.-, disse, -Altre notizie?-.
-Signore, sissignore. Una dei nostri ha ucciso uno degli assassini.-, riferì il giovane.
Voldus annuì. Era un’ottima notizia.
-Falla venire qui. E ordina di far esaminare il corpo.-, ordinò, -Dobbiamo sapere chi diavolo sono, e in quanti.-, ordinò.

L’ex ammiraglio Corantius sorrise in modo ebete alle forme nel fumo. C’era bordello fuori, urla e caos. Non gli importava: appariva tutto così distante, così stupendamente attutito.
Lì, Corantius era il re del suo mondo, l’imperatore del suo universo. Il dio del suo presente.
Aspirò una boccata di oppio. Chissà come se la passavano i suoi figli e sua moglie, quell’ingrata! L’aver sedotto un senatore non le era bastato: quella sgualdrina lo aveva bellamente insultato alle spalle più volte. Da quel lato, la diserzione era stata un ulteriore occasione per evitare di soffrire ancora, imprigionato in una vita che non sentiva sua.
Lì, su un isola dov’era considerato un ospite, trattato come un consigliere sebbene privo di assoluta fiducia, Corantius poteva assaporare una tranquillità e una pace che non credeva possibili da molto. I suoi bisogni, oppio incluso, venivano appagati.
In cambio, tutto quello che aveva dovuto fare era stato svendere i segreti di Calus.
Non che ne avesse conosciuti poi molti, ma qualcosa sapeva e aveva saputo farli fruttare.
Ora tutto quel che doveva fare era godersi quella che poteva a buon titolo considerare la pensione. Tutto sommato, in tempi come quelli, c’erano pensioni ben meno confortevoli.
E poi c’era chi alla pensione non ci arrivava proprio.

Ilith sorrise senza muovere il viso. Eccolo lì. Voldus, l’ammiraglio di Aristarda, era il secondo per fama e certamente un prode. Fece un inchino.
-Non inchinarti, soldato. Dimmi piuttosto, cos’hai scoperto?-, chiese Voldus.
-Mio signore, ritengo possano esserci altri infiltrati. Non sono certa che sia buona cosa parlare qui, davanti a tutti…-, osò lei.
-Assurdo.-, insorse una delle guardie.
-Concordo.-, rispose Voldus, -Chiunque sia qui è stato cautamente scelto, al di sopra di ogni sospetto. Quindi parla, soldato.-. Lei annuì, servile.
-Mio signore, ho visto un’altra figura dileguarsi mentre la prima mi affrontava. È andata verso meridione. Verso i depositi di munizioni.-, rispose lei.
-Guardia, raggiungi i depositi e verifica.-, ordinò Voldus. Si allisciò il pizzetto, pensoso.
La guardia uscì. Ne restavano tre. L’aiutante di campo, Voldus e l’altra guardia.
Ilith annuì. Andava bene. Non avrebbe avuto un’altra occasione.
-Hai fatto un buon lavoro, soldato Thalis. Puoi contare su una menzione d’onore.-, disse Voldus, con un sorriso caloroso. A Ilith pareva un uomo gentile e affabile.
Ma era un nemico, un bersaglio e un’occasione. E gli ordini andavano eseguiti.
S’inchinò una seconda volta, mani giunte al petto. Le lasciò scivolare verso le lame fissate alla meglio tra gli intarsi della lorica. Fu solo un istante.
Le espressioni dei suoi bersagli la fecero sorridere. Stupore, paura.
Il primo ferro da lancio arrivò a bersaglio, la guardia alla sua sinistra incassò alla gola.
Il secondo trapassò l’altra guardia all’occhio destro.
L’aiutante di campo sguainò la spada. Ilith bloccò il fendente afferrando il colpo, piantò una ginocchiata nei testicoli del giovane e gli conficcò la sua stessa spada in pancia, per poi girarla nella ferita così creata. Lo lasciò cadere agonizzante a terra.
-Allora è così…-, sussurrò Voldus, schifato, -Questo è l’ordine di Calus. Tradimenti e colpi nell’ombra…-. Impugnava il pugnale. I gemiti del ferito a terra parevano una nenia penosa.
Ilith avanzò. Non aveva più tempo. Caricò il colpo… E sentì un dolore atroce alla coscia destra. Abbassò lo sguardo. Facendo appello alle sue ultime forze, il giovane morente l’aveva trapassata alla coscia. Lei si mosse ugualmente, sentendo le forze declinare a causa del sangue che fiottava dalla ferita. Voldus attaccò. E anche lei. Attacco simultaneo, senza pensare a difendersi, poteva finire solo in un modo.
Si trapassarono a vicenda. Vicini e intimi come amanti, con le lame nei rispettivi corpi.
C’era un senso di bagnato, Ilith ne era consapevole. Voldus stava piangendo?
No. Era lei. Piangeva lei. Lo sentiva. Per quell’ultimo atto. E infine, parlò.
-Una morte ideale…-, sussurrò. Voldus la strinse, affondando ancora la lama.
Poi crollarono. Entrambi. L’ultimo pensiero di Ilith fu di gratitudine per quell’incarico eseguito sublimemente, il degno coronamento della sua missione.

Lucio Asiatico Secondo si allontanò dalla finestra. Era stanco. La notte incombeva ancora.
I rapporti indicavano almeno tre assassini morti. Era finita? Non credeva.
E non avrebbe dormito finché non fosse finita.

Samea si divise dai suoi compagni.
Aveva un compito, un diverso bersaglio. Gli ordini di Calus erano stati chiari a tutti loro.
C’era un nemico secondario da uccidere assolutamente.
All’interno del palazzo del governatore la sorveglianza era minima: la maggioranza delle guardie era fuori, alla ricerca dei nemici in città.
Karanak aveva provveduto anche a liberare dalle celle alcuni prigionieri e criminali, ulteriore confusione che andava ad aggiungersi al resto.
Samea però aveva un altro obiettivo. L’Ammiraglio Corantius aveva abbandonato il Trono.
Sarebbe morto quella notte stessa, ma avrebbe richiesto un diverso approccio.
Avanzando tra i corridoi del palazzo, intuì che proseguire nella mise da assassina non le avrebbe facilitato il compito. Decise. Svoltò verso quelli che sapeva essere i quartieri della servitù. Trovò una tenuta da serva. Si cambiò, lasciando anche le proprie armi.
Tranne una. Era pronta. Si osservò: poteva comodamente passare per una delle tante serve del palazzo. Andava bene.

Karanak avanzava lungo il palazzo come un predatore inarrestabile, leggero come il vento ma devastante come l’uragano. Lanciò rapido le lame, cogliendo al collo e al petto due figure. Servitori, guardie, che importava? La sua missione era tutto ciò che contava, l’unica cosa importante. Le vittime collaterali erano inevitabili. Samea avrebbe fatto del suo meglio per eliminare Corantius e lui si sarebbe occupato di Aristarda.
Girato un angolo vide altri tre uomini. Urlarono vedendolo, preparandosi a difendere.
Inutile: Karanak strappò dalla cintola una bomba a mano, sicura rimossa. Lanciò.
Rotolò all’indietro, udendo solo urla e fragore e poi silenzio. E altre urla in lontananza.
Difficile riuscire ad andarsene ora.

Le urla erano lontane. Corantius trasse un ennesimo soffio d’oppio dalla pipa.
Ora ci sarebbe voluta una donna, ma le serve di palazzo lo evitavano. Sicuramente per qualche diceria dappoco. La sua virilità era ancora più che sufficiente a soddisfare qualunque femmina, lo sapeva bene.
In realtà le gioie del talamo gli erano rimaste precluse da un po’…
Oh, la soffice carne di una donna! Oh, affondare in lei, quanto gli mancava.
Inconsciamente, Corantius si sfiorò l’inguine e poi il membro.
Il desiderio c’era. E tanto. Avrebbe potuto masturbarsi lì, ma gli pareva indegno.
Si sarebbe sentito come un cane in calore. E se fosse entrato qualcuno?
S’immaginò per un istante chi avrebbe potuto entrare. Aveva dato ordine di non disturbarlo, e dubitava che i servi, per quanto malfidenti, avrebbero osato disobbedire a tale ordine. Le punizioni presso i seguaci di Aristarda parevano immutate da quelle inflitte dai lealisti agli schivi incapaci di rispettare i desideri di un ospite, quale lui era.
Su questo presupposto, non avrebbe avuto nulla da temere.
Galvanizzato da tale consapevolezza, estrasse il membro dalle vesti con un sorrisetto.
“Giusto una sega e via”, pensò con un ghigno mentre prendeva a toccarsi.
Improvvisamente la porta si aprì.

Lucio Asiatico Secondo ascoltava i rapporti a mezza voce. Servi, trasmissioni vox, tutto tremendamente confusionario. Gli assassini di Calus avevano seminato il caos sulla sua isola. Ma in diversi erano già morti. Poteva credere che fosse finita?
Poteva… Si concesse una speranza. Il pensiero del futuro. Forse.
Improvvisamente, sentì un’esplosione, nel palazzo. Vicina.
Si volse verso la porta. Aspettò di sentire le sue guardie entrare. Niente.
Un minuto, due. Poi si voltò. Sapeva cosa sarebbe successo. Era inevitabile.
Girato, a contemplare la notte fuggente, si ritrovò a sorridere, pacificato dalla consapevolezza che alla fine, anche quella guerra immane e terribile sarebbe finita.
Un anno, dieci, cento, mille… Battiti di ciglia nell’occhio dell’Eternità, cos’altro?
-Non siamo altro.-, disse a mezza voce. Dietro di lui, la porta cigolò. Non si volse.
Non era la sua guardia. Sarebbero entrati molto più rumorosamente. Quindi…
-Ombre e polvere.-, disse soltanto a mo’ di commiato. Poi lame lo trafissero.

Karanak ripulì la lama sul corpo di Lucio. Il bersaglio era a terra. Rinfoderò il pugnale.
Ma non era il solo. Ora doveva ricongiungersi con Samea. Quello avrebbe potuto essere un problema. Balzò lungo le pareti appendendosi al soffitto sfruttando gli artigli di ragno.
La guardia che entrò trovò il corpo di Lucio. Fece per dare l’allarme. Karanak gli arrivò addosso da sopra. Nessuna possibilità di reazione, ma fuori c’era qualcun altro.
Guardò la finestra. Sarebbe andata bene. Si affacciò al davanzale.

-Perdonatemi, mio signore! Vi prego di perdonarmi!-, Samea s’inchinò prostrandosi due volte, in atteggiamento supplice. Il suo bersaglio, un sesso turgido che spuntava tra le dita della mano, la guardava con evidente contrarietà, ma dentro quella volontà di punire, di redarguire, Samea lesse anche altro.
“Quest’uomo ha bisogno di una donna.”, pensò. Si prostrò nuovamente, implorando il perdono. Corantius non disse nulla, apparentemente perso in una riflessione sua.
-Se non vuoi che ti faccia fustigare, vieni qui e chiudi la porta.-, decise infine l’uomo.
Samea annuì, sorridendo dentro di sé. Ce l’aveva fatta. Chiuse la porta. La sala era piena di effluvi di oppio, un odore strano che le fece desiderare di fare alla svelta.
Applicando una tecnica antica, prese a respirare a ritmi brevi. Il suo corpo si mise a ritmo.
-Sono al vostro servizio, signore!-, esclamò mentre s’inginocchiava davanti all’uomo accasciato sul triclino.
-Eccome!-, ringhiò Corantius, -Ora tu vieni qua e me lo succhi per bene, per iniziare.-.
Remissiva e docile, Samea obbedì. La mano sinistra afferrò il sesso semi-turgido dell’uomo, manipolandolo appena. Indecisa tra il voler apparire goffa o invece disinvolta, Samea optò per una via di mezzo.

Quella giovane era un dono dagli Dei, Corantius ne era convintissimo.
Gli occhi dal taglio a mandorla lo guardarono mentre goffamente suggeva il suo sesso dopo averlo leccato piano. L’ammiraglio esalò un gemito di piacere mentre la giovane, a tentoni, gli carezzava piano i testicoli, con cautela. La fellatio di contro era buona, non ottimale, ma buona. Evidente che quella giovane non fosse nuova a simili attività.
Eppure, era altresì chiaro non fosse una puttana. Poteva andar bene. Una servetta da nulla.
Certo, era bella, e anche ben fatta. Corantius sorrise. La giovane strinse la sacca scrotale dell’uomo, evitando che venisse. L’ammiraglio grugnì. Non fu interamente piacevole, ma riconobbe il goffo tentativo di non farlo godere subito. Sicuramente s’impegnava per evitare la frusta… La guardò. Era bella. La veste da serva non le rendeva giustizia.
Strinse un seno alla giovane, che gemette appena. Incurante, scansò il tessuto e trovò il capezzolo. Turgido al tocco, dimostrava che alla giovane orientale non dispiaceva quell’intermezzo. Un fremito ai lombi annunciò la sua imminente venuta. Corantius strappò la giovane al suo membro, irrigidendosi. Non voleva godere così.
Guardando la giovane notò che lo fissava, più paurosa che confusa. Un filo di bava le colava lungo le labbra e aveva i capelli in disordine. L’ammiraglio si sentiva d’acciaio.
-Ho fatto male, mio signore?-, chiese. Lui sorrise, cercando di mostrarsi rassicurante.
-Tutt’altro. Ma ora voglio venirti dentro.-, disse nel tono più normale che gli riuscì di evocare. La giovane parve titubare.

Farsi penetrare da quell’uomo non era tra le migliori aspettative di Samea, tanto più che ormai era dove voleva essere. Le armi non era un problema, e neppure il fisico ancora possente dell’uomo. No: era uno scherzo. In più le dita del traditore l’avevano fatta eccitare. Avrebbe voluto fossero state quelle di Sarnek.
Sarnek, che probabilmente era morto…
Avrebbe tanto voluto un figlio da lui. Nonostante fosse proibito, sapeva di assassine che avevano avuto discendenti, ovviamente arruolati alla nascita. Sarebbe stato bello…
Bandì quei pensieri. Aveva un lavoro da fare. Lasciò che i ricordi sfiorissero.

-Allora, schiava?-, Corantius si stava spazientendo. La ragazza pareva imbambolata.
-Scusate, signore…-, sussurrò lei, -Stavo… pensando al vostro sesso… così virile e turgido!-.
Lui sorrise. Si toccò il membro rigido ancora umido di saliva e umori.
-E lo vuoi, vero puttanella?-, chiese con un ghigno lascivo. Oh, già assaporava il momento!
-Tutto, mio signore. Ma stendetevi, affinché io possa compiacervi!-, esclamò la giovane.
Corantius sorrise, distendendosi supino sul triclino.

Esistevano armi, alcune palesi altre meno. Un Sicario doveva conoscerle tutte, saperle usare senza alcuna esitazione. E con il tempo, l’Ordine aveva acquisito alcune armi da vari regni, a Oriente o a Occidente. Con la trattativa o con la forza e il sotterfugio.
Una di quelle armi era quella scelta da Samea. La ragazza sapeva bene che la sua bellezza e la sua abilità a letto la rendevano ambita da molti uomini e persino da alcune donne.
Proprio per quello, in situazioni del genere le armi lunghe o comunque evidenti erano sconsigliabili. Ma una popolazione oramai sull’orlo dell’estinzione (o forse già estinta) su un isola ben oltre i confini dell’Impero, aveva avuto modo di sviluppare un’usanza curiosa quanto utile. Le loro donne nascondevano le proprie lame nei capelli, intrecciando treccine in cui nascondere spilli, o addirittura nella vulva, adattando i foderi alla cavità corporea.
Di fatto, le donne di quei popoli non erano mai disarmate e potevano sempre reagire all’aggressione o alle minacce. I Sicarii avevano fatto propria anche quella tradizione.
Samea sorrise, lascivamente. Si toccò appena tra le cosce. Sfiorò la vulva e il clito con pochi tocchi. Corantius sorrideva, sentendola avvicinarsi. Lei introdusse le dita nel sesso, sfilandovi un oggetto. La lama era piccola, pochissimi centimetri di lunghezza. La siflò con il fodero. Estrasse senza che essa facesse alcun rumore. L’ammiraglio sussultò quando lei gli prese il sesso in mano, stringendo quanto bastava alla base da impedire che il sangue defluisse dal membro per incremntarne le già rispettabili dimensioni.
Samea s’inerpicò sul triclino, a cavallo del suo bersaglio, assolutamente fredda. Sorrise.
Anche Corantius sorrise, ebete. E fu allora che lei agì. Si alzò su di lui, il sesso dell’uomo sempre stretto in una mano, l’altra protesa sopra di sé. Corantius s’irrigidì un attimo, come a intuire qualcosa. Troppo tardi: la mano armata colpì. Affondò nella spalla, sopra la clavicola dell’uomo. Samea gli tappò la bocca con l’altra mano mentre l’ammiraglio veniva scosso da tremiti. L’eccitazione e la paura fecero rapidamente entrare in circolo il veleno.
-Calus manda i suoi saluti, traditore.-, disse Samea. Si alzò dall’uomo che, dopo pochi rantolii e una serie di spasmi, giacque immobile. Morto.
La lama non le sarebbe servita contro l’ultimo bersaglio. Valutò di tornare nei quartieri dei servi a prendere il suo equipaggiamento ma non era un’opzione, probabilmente erano già stati perquisiti, o lo sarebbero stati a breve.
Dovevano andare avanti. Con Karanak avevano concordato un punto di ritrovo.
Si rimise la veste da serva e uscì. Doveva sbrigarsi.

-Voi perquisite questo piano, noi scendiamo!-, esclamò un ufficiale della guardia di palazzo. Assensi in risposta. Karanak sorrise. Che lo cercassero pure! Che ribaltassero pure l’intero piano per trovarlo! Finché nessuno di loro si sarebbe preso la briga di guardare fuori dalla finestra, non avrebbero visto niente d’irregolare.
Continuò a strisciare lungo il cornicione, cauto e paziente. In lontananza sotto di lui, la città era nel caos, la folla gremiva le strade. I Prefectii (addetti alla pubblica sicurezza) si affaccendavano per controllare la gente in preda al panico ed estinguere gli incendi.
Karanak pensò solo che i suoi fratelli e le sue sorelle avessero fatto un ottimo lavoro e che la loro morte non era stata vana. Assolutamente.
Aristarda Nera sarebbe morta quella notte, alle prime luci dell’alba al più tardi.
Solo quello contava. Null’altro.
Continuò ad avanzare, ogni movimento misurato e cauto, lento.

Le guardie oltrepassarono Samea scansandola malamente. La giovane si lasciò strattonare e incespicò goffamente, mantenendo l’equilibrio per miracolo. In realtà avrebbe comodamente potuto evitare una simile messinscena, ma doveva mantenere la sua copertura ancora per qualche tempo. Il tempo di riunirsi a Karanak e avrebbero portato a termine la missione. Poi la fuga. In realtà, tutti loro avevano già prefigurato alcune ipotesi su di essa. Per quanto la situazione fosse cambiata, alcune restavano valide.
Ce l’avrebbero fatta, era sicura.

Karanak si sporse, aggrappandosi al davanzale della finestra. Notò che la sala davanti a sé era vuota. Era arrivato in alto, arrampicandosi sulla parete come un ragno.
La sala pareva una di quelle atte a ricevere diplomatici o mercanti. Era arredata con gusto ma senza risultare eccessivamente pacchiana. C’erano un tavolo e alcune sedie e un paio di statue raffiguranti alcuni regnanti del passato. Karanak s’issò all’interno facendo forza sulle braccia. Era dentro.
Scivolò sino alla porta, restando in ascolto per un istante. Inspirò ed espirò. Nessun rumore. Le guardie erano altrove, intente ad assicurarsi che il palazzo fosse sicuro.
Si mosse fluidamente, usando un metodo chiamato Ashitabe.
Passo silente. Appoggiare l’avampiede e poi il tallone, ripetendo con il piede opposto.
Antiche scuole di terre lontane, integrate nei metodi dei Sicarii.
Karanak si mosse uscendo. Aprì la porta piano, ma senza pause. Scivolò fuori con un passo.
Tenkan. Anche quello veniva da luoghi lontani, ben oltre i confini imperiali.
Era nel corridoio. Si mosse verso gli alloggi che sapeva essere quelli di Aristarda.

Samea sorrise appena. Raggiungere l’ultimo piano era stato facile: i servi si occupavano di svariate mansioni e tra queste c’era l’assicurarsi che i nobili fossero a loro agio.
Vide presto Karanak che avanzava. Emise appena un suono. Lui si voltò. La riconobbe.
Sfilò una lama da una guaina e gliela porse. Lei la prese. Ora era armata.
Avanzarono sino alla camera di Aristarda. Le due guardie presenti erano donne.
Non era una sorpresa: così Aristarda onorava il suo retaggio. Karanak estrasse la cerbottana. La portò alle labbra. Samea lanciò il coltello datole.
Le due guardie ebbero solo la remota percezione del pericolo. Troppo tardi. Concentrate com’erano su minacce distanti, non avevano badato al nemico in arrivo.
I due Sicarii superarono i corpi e giunsero alla porta. Aprirono.
La stanza era in ombra. Un corpo gonfiava le coltri. Aristarda.
Samea e Karanak annuirono. Fu lui ad avanzare. La giovane gli lasciò quel privilegio.
Lo vide estrarre il pugnale e levarlo. Nessuna parola fu necessaria.
Il momento parve dilatarsi. Un istante, poi due. E improvvisamente, qualcosa cambiò. Dall’ombra qualcosa si mosse. Un movimento rapido e fluido.
La lama che arrivò a tagliare il braccio di Karanak all’altezza del polso fu precisa e spietata.
L’assassino urlò di dolore e sorpresa, ritraendosi come una belva ferita mentre la donna stesa si alzava, piano, solennemente, come in un rito. Samea vide le ombre della stanza muoversi. Erano poche ma c’erano. Tre. Due più la donna a letto. Donna che, nella luce proiettata da fuori, capì non essere Aristarda Nera.
-Chi sei?-, chiese Karanak, -Chi siete?-.
-La vendetta silente, la giustizia implacabile.-, rispose una voce di donna.
Karanak fece per reagire. Non ne ebbe il tempo: le figure si mossero, tutte. La donna uscì dalla traiettoria d’attacco e affondò il pugnale nella carne del Sicario.
La figura a sinistra colpì alto, colpo di decapitazione. Karanak sussultò appena e cadde.
Samea fece per guadagnare la porta. Andarsene! Fuggire! Missione fallita!
Fu troppo lenta: l’ombra di destra le sferrò un pugno. Secco, devastante. Da sotto in su.
Samea fu inghiottita da un gorgo oscuro.

Aristarda Nera osservava Kipares. L’isola era distante. La nave, manovrata sublimemente, varcava il mare. Era passato un giorno. Aveva ricevuto notizie. L’attacco degli agenti di Calus era stato spietato e devastante. Sebbene fossero stati tutti neutralizzati, il loro operato era stato ottimale. Corantius era morto, e così anche Voldus. Nearco era in preda a febbri devastanti e gli apotecarii erano impotenti a curarlo. La sua fine, mormoravano, pareva prossima. E se non fosse stato per l’intervento dei Justicarii, anche Aristarda sarebbe caduta sotto le lame dei nemici.
-Devo ringraziarti.-, disse alla donna dalla carnagione scura, avvolta nella cappa in pelle nera tipica del suo gruppo. Lei annuì. Non parlava molto. Aveva detto appena dieci parole.
Tra queste non c’era il suo nome. Era una guerriera anonima ma il viso e il vestiario denotavano una notevole erudizione nel praticare l’arte della guerra.
-Mia signora?-, chiese il capitano di vascello, -I soldati hanno domande. Chiedono come procederemo ora. Lo sbarco sarà ben più difficile senza Nearco e Voldus.-.
Aristarda annuì. Lo sapeva bene. Calus aveva ottenuto almeno una vittoria parziale, abbattendo due uomini che lei aveva scelto e veduto come capisaldi della marina.
Senza di loro, era costretta a ripiegare su altri ufficiali, non che non fossero validi ma la morte di Voldus era stata devastante e avrebbe fiaccato il morale della flotta.
Nearco, a dispetto delle migliori cure, pareva condannato.
-Procediamo.-, disse. Non aveva che quella scelta. Fidarsi. Fidarsi di Shrike e dei suoi.

-Le notizie mio signore, sono ottime! Voldus è morto, come Lucio Asiatico e anche Corantius, possa la sua anima venire divorata da Yneas! Aristarda Nera è ancora viva, possano gli dei maledire il suo nome, ma senza due ufficiali così, di certo le sue forze perderanno di efficacia. -, esclamò il nuovo arrivato. Era Domizio Savio, un uomo che aveva al suo attivo alcune spie. Calus, intento nel bere vino speziato per lenire il calore di un giorno rovente, lo fissò, in attesa. Era disteso sul triclino, meditabondo su chi far chiamare per passare il tempo di quella giornata afosa e apparentemente interminabile.
Una cortigiana? Allietarsi con le gioie del sesso gli pareva futile. Dopo Agripatus, dopo la vittoria di Aristarda, il suo desiderio era andato diminuendo.
Allora piuttosto avrebbe potuto chiamare Siclus, suo fraterno amico nonché Console presso il Senato. Avrebbero potuto giocare a Gamon, anche solo per un obolo, come ai vecchi tempi! Tuttavia, Siclus era intento nelle sue riunioni politiche e non le avrebbe delegate per quel piacere. Gli altri suoi conoscenti erano… distanti.
I partecipanti alla congiura che l’avevano visto sbarazzarsi di Septimo Nero erano ricchi e ben lieti, ma non erano suoi amici e quando li guardava, vedeva la loro ambizione, la loro brama, la stessa bramosia di potere che un tempo fu sua. Fu, poiché ora pesante era il suo capo per via della corona. Quella noia, quel tedio era dovuto alla consapevolezza di essere al tramonto, uomo in vetta alla cima più alta, ma prossimo alla caduta e ormai stanco di combattere tanto a lungo. Il Trono gli apparteneva, ma il resto dell’Impero languiva e per difenderlo aveva dovuto rivolgersi alle feroci tribù barbare.
“Cosa mi differenzia ora da Nimandeo Feral e dai suoi barbari accoliti?”, si chiese.
-Mio signore?-, chiese Domizio Savio. Calus annuì, svogliatamente.
-Ho sentito. Puoi andare.-, disse. Domizio s’inchinò e uscì.
Calus chiuse gli occhi. Oh, certo! Ottime notizie! Altre due morti inutili contro la sola morte che contava davvero e che, per tutti gli Dei!, non giungeva!
-Ho fallito.-, disse un’altra voce. Femminile. Dall’ombra.
-Hai fallito. Mi sorprende che tu sia viva, Samea.-, disse Calus, -Credevo che il tuo ordine esigesse di preferire la morte al disonore.-. La giovane uscì dall’ombra.
Non aveva più nulla della fiera assassina che Calus supponeva fosse stata. Davanti all’Imperator, aveva una postura abbandonata, gli occhi bassi, il viso tumefatto.
-Credevo mi avrebbero uccisa. Non capisco…-, disse.
-No. Non è usanza per Aristarda Nera uccidere un prigioniero. Neppure uno inutile come te.-, disse l’Imperator, benevolo, -Tuttavia la tua missione è stata un successo, almeno parziale.-. La giovane annuì appena. Non c’era fierezza in quel gesto, né volontà.
“Spezzata. Una lama spezzata, ecco cosa mi ha ridato Aristarda.”, pensò Calus.
Valutò quel corpo. Era un bellissimo corpo, ma tant’era. La mente e l’animo al suo interno erano prostrati dal fallimento, macchiati dalla consapevolezza del peggiore oltraggio: la prigionia. Per qualunque licaneo, la cattura era esecrabile e disprezzabile, un fato che gettava disonore sul catturato, indipendentemente dai motivi per cui era divenuto tale.
Per un Sicario era un’occasione, ma evidentemente per lei non lo era stata.
Era quindi, un doppio disonore: catturata e privata di ogni possibilità di sfruttare una simile situazione. Calus la guardò ancora. Che fare di lei? Probabilmente il suo Ordine l’avrebbe rinnegata, o eliminata per la sua incompetenza.
-Almeno tu e i tuoi avete arrecato danni. Aristarda non si riprenderà presto.-, concluse.
Samea rimase zitta, gli occhi bassi. Amsio Calus annuì, apparentemente calmo.
In realtà dentro di sé tremava di rabbia e d’incertezza. I Sicarii erano i migliori assassini a sua disposizione, a disposizione dell’intera Stirpe. Come potevano aver fallito a tal punto?
Le risposte erano due. La prima era semplice: qualcuno aveva informato Aristarda dai suoi piani e la donna aveva messo in atto alcune contromisure. Quanto queste ultime fossero state efficaci era difficile dirlo, ma il punto restava: Aristarda Nera era ancora viva.
La seconda risposta, molto più semplice e per questo molto più inquietante, era quella che Calus auspicava essere solo una voce di corridoio, un pettegolezzo nato da leggende e paure, indegno di attenzione. Si vociferava di guerrieri, uomini e donne, ammantati di nero, determinati e letali. Avevano un nome. Justicarii.
L’Imperator continuava a sperare, a pregare, che tale voce fosse proprio solo una voce.
Gettò un altro sguardo a Samea. La giovane non aveva cambiato postura.
-Come hanno fatto a fermarti?-, chiese infine. La giovane esalò brevemente.
-Sono intervenuti altri… Erano in tre. Una di loro aveva finto di essere addormentata, nel letto di Aristarda.-, disse, -Erano…-, la voce le si spezzò. Calus attese, turbato.
-Erano Justicarii.-, sibilò Samea. Improvvisamente l’Imperator sentì un macigno sul petto scendere verso lo stomaco, un artiglio di terrore afferrargli le viscere.
-Cosa?-, chiese, -Cosa?!-, ripeté. Samea non parlò. Calus si alzò dal triclino. Rovesciò un tablinum con cibo appoggiato sopra, una brocca di vino cadde a terra, spargendosi.
Pareva sangue. L’Imperator avanzò verso la giovane.
-COSA!?!?!-, urlò. La afferrò per le spalle scuotendola. Samea reagì. Non efficacemente né rapidamente, ma lo fece. Si sottrasse alla presa.
-Mi hai sentito, Imperator.-, disse, -Mi hai sentito benissimo.-.
-No… non può essere…-, sussurrò Calus. Sentì la testa girare. Il vino, doveva essere quello.
-Non può, Imperator?-, chiese la voce di Ausper. Il veggente era comparso dal nulla, come uno spettro. Calus si volse verso di lui.
-Ausper… Non può… Non esiste! Non può esistere!-, esclamò.
-Perché, Imperator?-, chiese il veggente, -Perché non può? Perché hai visto il loro tempio in fiamme? Perché speravi che fossero tutti morti? Perché non può esistere?-.
Calus non rispose. Non riuscì a rispondere. Sotto il cappuccio, le labbra del veggente si tesero in un sorriso privo di ogni gioia.
-Non puoi accettare, Calus. Non vuoi accettare. Ed è questo il tuo problema.-, disse.
-Cosa… Cosa dovrei accettare?-, chiese infine l’Imperator.
-Che tutto passa. Che tutto muore. E tutto muta. Nulla è immobile. Nessun impero. Neppure questo.-, Ausper sorrise di nuovo, -E tu sei stato così cieco da garantirne la fine.-.
-Io… ho fatto tutto questo per salvarlo, l’Impero!-, esclamò Calus.
-Certo… Anticamente si diceva che la strada per l’inferno è lastricata di buoni propositi.-, rispose Ausper, -Eppure ancora non vedi, Calus. Ormai i pezzi sono in posizione. La partita è quasi finita, mancano solo poche mosse. E non c’è più molto margine.-. Il veggente si avvicinò alla scacchiera. Calus aveva mosso alcuni pezzi. Era quello il Kaish, un antico gioco ben antecedente all’era di Licanes. Il vecchio parve osservare la scacchiera, come pensieroso.
-Ausper… di cosa stai parlando?-, chiese Calus.
-Scelte.-, disse il Veggente, -Sto parlando di scelte. Quelle che tu non hai saputo fare, Imperator. E ora hai ancora una scelta da fare.-.
-Io…-, iniziò Calus. Ausper alzò una mano, ottenendo il silenzio.
-Il tempo sta finendo. Rapidamente.-, disse il Veggente, -Puoi scegliere tra porre fine, ora. Oppure puoi decidere di continuare a reggere lo scettro, pur sapendo quale destino attende il sovrano.-, disse Ausper. La sua mano toccò senza esitazione né timore il re. Impresse un colpo con l’indice adunco e scheletrico. Il re cadde, impattando contro la scacchiera.
-Scegli, o Imperator. Scegli ora.-, esortò il veggente.
-Tu… vuoi che io abdichi? Vuoi che io lasci il Trono? Ma non capisci? Aristarda distruggerà l’Impero! Lei… Io volevo salvarlo, l’Impero! Io volevo salvare Roma!-, ringhiò Calus.
Si mosse attraverso la stanza, rapido per quanto la mole gli permetteva d’essere.
-Io voglio che il lascito di Licanes perduri in eterno! Che quest’Impero e le aquile dell’Impero giungano sino ai confini del mondo! A Occidente del tramonto, Ausper! Così parlò il Fondatore!-, esclamò Calus. Raggiunse l’indovino.
-Ho con me ancora le mie forze. Ho alleati. Ho gli auxilia barbarii. Non cederò, lo capisci, vecchio?!-, ringhiò mentre alzava una mano. Ausper non parlò. Non rispose.
-Il mandato del cielo esige che io vada sino in fondo!-, esclamò Calus con un ghigno demente e gli occhi folli, -È il Cielo a chiederlo!-.
-Povero, stupido, uomo.-, sibilò la voce di Samea. Una frustata improvvisa. Calus si volse verso di lei. Impercettibilmente, la giovane si era rizzata, improvvisamente energica.
Era come se da sonnambula si fosse destata.
-Mandato del Cielo? Al Cielo non importa nulla di noi. Gli Dei? Se sono mai esistiti, poco ma sicuro si saranno anche stancati di correr dietro alle nostre suppliche. Siamo come bambini, Calus, come pestiferi mocciosi incapaci di gestire ciò che ci è stato dato. Piuttosto che scegliere la più semplice delle vie abbiamo voluto creare cose sempre più comode e sempre più grandi. Il Cataclisma ci ha ammoniti, ma non abbiamo saputo recepire, non abbiamo saputo capire. La nostra cecità ci ha spinti a questo. Mandato del Cielo?-, la voce di Samea grondava ora di una triste gioia, melanconia pura, -Non esiste nulla del genere.-.
-Come puoi non crederci? Ci fu promesso! Promesso!!!-, strepitò Calus.
-Ci fu promessa terra, se ben ricordi il mito. Ci fu promesso un approdo sicuro. Ma fu Janus a parlare di un Impero. Mai, o Imperator, gli Dei parlarono per bocca d’uomo annunciando il loro favore a un nuovo impero!-, esclamò Samea.
-Pazza! La prigionia ti ha spezzato l’animo e fritto il cervello.-, replicò l’uomo.
-Curioso come una Sicaria spezzata parli con maggior saggezza di colui che siede sul Trono.-, mormorò Ausper. Calus si volse, le mani come magli a calare sul veggente.
-Hai osato troppo!-, gli afferrò il collo. Ausper non fece resistenza. Alzò il capo.
Il cappuccio copriva sempre meno. L’Imperator si bloccò. Vide.
-No…-, sussurrò, -Non può essere.-.
-Davvero, Imperator? Non ricordi?-, la voce di Ausper pareva un lontano richiamo.
Calus si ritrasse, improvvisamente. Come se il vecchio fosse stato infetto. Arrancò all’indietro travolgendo il tablinum e ricadendo sul triclino.
-Già a suo tempo ti dissi che il vino pareva sangue.-, disse Ausper, -E guarda ora quanto ce n’è. Osserva la proporzione. Quanto ne verrà versato?-.
Calus guardò attorno a sé. Il vino rosso infradiciava gran parte del pavimento in marmo, lordava le piastrelle. Samea lo fissò, improvvisamente inespressiva.
-Quanto altro sangue, Imperator? Quante altre vite prima che tu veda?-, chiese.
Solo in quel momento, Calus notò che Ausper era sparito, svanito, come un fantasma nella brezza, come il torpore della notte all’alba.
-Non c’è nulla da capire!-, sbottò, -Se non ci sono gli Dei, se è tutto sbagliato, io creerò il Mandato del Cielo! La storia è piena di gente che ha usato il divino come spinta per fini profani!-. Si alzò, a fatica, lordandosi i calzari di vino.
-Verissimo, Imperator.-, disse Samea, -E tutti, proprio tutti, hanno ottenuto qualcosa. Non ciò che dicevano di volere, però.-. Si avvicinò piano all’Imperator. Calus improvvisamente ricordò che era un’assassina. E che quella non era una conversazione in cui lui fosse indiscutibilmente autoritario, anzi. Cercò di distanziare la giovane.
-Stai indietro…-, sibilò, impaurito.
-Non vali un mio sforzo, Imperator.-, replicò Samea. Il suo viso esprimeva tristezza, ma anche altro. Rabbia? Dolore? Sdegno? Calus non riusciva a capire.
-Non vali un mio pugnale, neppure una mia mano. Non vali niente.-, sibilò Samea.
-Zitta…-, sussurrò l’Imperator. La rabbia premeva ai margini ultimi della sua coscienza.
-Altrimenti, Imperator? Mi farai frustare? Mi farai picchiare? Mi stuprerai? O mi farai stuprare? Mi farai uccidere?-, chiese l’assassina. Improvvisamente Calus ebbe paura.
Una paura assoluta, totale. Samea sorrise di nuovo, ghignante.
-Non c’è nulla che tu possa fare che io non abbia già subito, Imperator. Ho concesso il mio corpo perché la mia lama potesse arrivare a bersaglio, ho chiuso la mia mente affinché ogni timore vi trovasse solo un luogo ove perire, ho lasciato che il dolore e la sofferenza fossero null’altro che nuvole nel cielo estivo. Non c’è nulla che tu possa farmi.-, disse.
Calus rimase zitto, silenzioso come poche altre volte. Samea raccolse un coltello. Saggiò la lama col pollice, senza paura né timore.
-Cosa te ne pare, Imperator? Potrei uccidere tre uomini armati e corazzati, con questo.-, disse, -Si tratta solo di sapere dove colpire.-. Calus non osò parlare. Non proferì verbo.
-Ci addestrano a fare lo stesso con fortezze, eserciti, persino imperi. Si tratta solo di sapere dove vibrare il colpo e quando.-, continuò lei, -È semplice.-.
-D… Dove vuoi arrivare?-, chiese Calus, inquietato dalla piega presa da quel dialogo.
-Voglio che tu capisca, Calus. La notte in cui Septimo lordò l’Impero con il suo sacrilegio, le Vestali della Dea si uccisero per espiare. Si diedero la morte affinché la Dea Madre non distogliesse lo sguardo dall’Impero, affinché la sacra fiamma tornasse ad ardere. La Dea non ascoltò. Ma tu non sei un dio. Sei un mortale. Tu ascolterai.-, Samea puntò il coltello verso di sé. Individuò una cucitura nella veste. Tagliò. Lo fece senza esitare, fluidamente e senza fermarsi. La veste cadde lasciandola nuda e illesa davanti a Calus.
-Vedi le mie cicatrici, Imperator? Vedi tutte le mie battaglie, ora? Tutto per l’Impero.-, disse Samea spalancando le braccia. Si girò su se stessa affinché l’uomo vedesse tutto.
Calus annuì. Vedeva. Per la prima volta, nonostante quel corpo fosse stupendo, non riusciva a sentire il sangue affluire ai lombi con la consueta rapidità. Non sentiva il desiderio di far sua quella giovane, poteva solo guardare.
Aveva una cicatrice lungo il braccio sinistro, piccola, una sul fianco destro che arrivava verso metà schiena. Poche, veramente poche. Ma non per questo, meno significative.
-Tutto per l’Impero. E ora, per l’Impero farò quest’ultimo atto.-, Samea si mosse piano, i piedi scivolarono fuori dai calzari, avanzando nel vino che pareva sangue.
Calus non la fermò, anzi stette ben attento a non intralciarla. Lei arrivò alla finestra.
La aprì. Era alta abbastanza da permetterle di stare in piedi sul davanzale, sospesa sull’abisso. Vi balzò senza esitazioni.
Calus realizzò. Intuì. Troppo tardi. Alzò appena una mano, facendo un goffo e incerto passo verso la giovane. Troppo tardi per tutto.
-Darò all’Impero, e a te, qualcos’altro da ricordare.-, disse l’assassina con un ghigno.
Si gettò di sotto. Senza un grido. Non la sentì sfracellarsi a terra.
Calus sospirò. Era nuovamente solo. Era solo da sempre. E sarebbe sempre stato solo.
“Da solo sono nato, da solo morirò.”, pensò. Il pensiero però non gli diede la pace che aveva sperato di provare. Casomai lo fece solo sentire peggio.

Variato Antiparo percorreva i corridoi di palazzo. Fece un gesto appena abbozzato con la mano, un saluto ad un altro dei pretoriani di Calus. Fu ricambiato di un rapido cenno.
Passò oltre un corridoio, oltrepassando una statua di Janus a grandezza naturale in marmi policromi. Variato non degnò la statua di uno sguardo, preferendo concentrarsi su ciò che doveva fare. Superò un’altra porta aprendola di scatto e chiudendola appena entrato.
Emise un sospiro di sollievo, appoggiandosi alla lancia con tutto il proprio peso.
-Devo ammettere che mi hai sorpreso.-, disse infine, -Il tuo messaggio era criptico.-.
-Una necessità. Lo capisci, vero?-, chiese Samea. La ragazza era nuda nella penombra della stanza. Variato sorrise, guardandola con occhi tristi. Con nostalgia.
Nessuno sapeva la verità, neppure lei. Ed era giusto così.
-Lo capisco. Facciamo ciò che dobbiamo. Ma pensi che Calus capirà?-, chiese infine.
Lei sospirò. Scrollò le spalle con una stanchezza che pareva infinita.
-Non lo so. Ma so che ci ho provato. Ho tentato, ho davvero tentato.-, Samea non conosceva nessuno all’infuori dei suoi fratelli Sicarii e delle sue sorelle, dei suoi istruttori e dell’Imperator. Ma Variato era qualcuno di diverso. Aveva fatto da messaggero presso il suo ordine e Samea aveva percepito qualcosa. Un legame con quell’uomo.
-Cosa farai ora?-, chiese lui. Il legame era presente in ambo i sensi: quando lei si era avvicinata a lui, a parlare, lui non l’aveva respinta.
-Vivrò libera. Tanto basta.-, disse infine. Variato annuì.
-Hai fatto la cosa giusta.-, disse soltanto. Le prese le mani tra le sue.
-Credi? Calus non capirà, lo sappiamo entrambi. Io ci ho provato, ma altri periranno.-, rispose lei, scettica e disillusa.
-Basta questo, figlia. Basta questo.-, replicò Variato. Improvvisamente si accorse di avere gli occhi lucidi. Lei lo guardò. Anche lei li aveva madidi di lacrime che tracimavano piano tracciando liquide scie sul bel viso.
-L’ho sempre saputo…-, sussurrò.
-Venea era una donna bellissima, ma il suo dover essere una cortigiana le pesava. Io la amavo. L’ho sempre amata. E lei l’ha sempre saputo.-, mormorò lui, -Sarebbe fiero di te, oggi.-, aggiunse. Samea annuì. Abbracciò suo padre.
-Padre…-, mormorò. Lui la strinse, come a voler cancellare gli anni di assenza.
-Fai una cosa per me.-, disse lei. Lui la guardò, interrogativo.
-Poni fine a questa guerra.-. A quella frase, Variato non rispose, non subito.
-Figlia, come posso? Tolto di mezzo Calus, qualcun altro rivendicherà il suo trono. Tu lo sai e io lo so.-, mormorò infine.
-Infatti non ti chiedo questo. Le forze di Aristarda Nera devono sbarcare in Italica.-, Samea lo fissò, con quegli occhi penetranti, lo sguardo così simile a sua madre.
Variato Antiparo annuì. Per la prima volta si sentì determinato a compiere qualcosa per sé.
-Sbarcheranno.-, promise. Poi si separarono.

Samea aveva recuperato delle vesti. Dono di suo padre. Anche delle monete. Altro dono. Uscì da una posterla del palazzo. La capitale era immensa e fragorosa. Si lasciò inghiottire da essa. Il suo ruolo era terminato. Ad altri ora spettava muoversi e muovere i pezzi sul tabellone. Lei poteva ritirarsi, far da spettatrice. Sorrise appena.
Suo padre… Sua madre… Due persone che la Storia forse non avrebbe ricordato, come lei, ma che nondimeno, avrebbero contribuito a cambiarla.

Shrike aspettava il favore delle tenebre. Colpire sarebbe stato semplice.
Aveva individuato i punti deboli della difesa. Aveva già in mente come agire.
Era semplice. Poi li vide. E questo cambiò tutto. Cinque legionari in armatura e un ufficiale. Scortavano una condannata a morte. Shrike la riconobbe.
Diana. I soldati si allinearono. Un plotone d’esecuzione. Diana era stata scoperta.
Questo complicava tutto: a Shrike serviva il suo aiuto. Ponderò di attaccare, ma avrebbe significato perdere l’effetto sorpresa. E così tutto il suo piano sarebbe definitivamente andato a monte. Non poteva. Ma senza Diana e il suo aiuto…
Il piano era condannato. In ogni caso.
Shrike sospirò. Aveva passato due giorni nelle campagne, evitando accuratamente le pattuglie, aiutato da contadini e villici, povera gente che voleva solo che quella guerra finisse. Aveva pianificato l’attacco con Diana, in ogni suo dettaglio e variante. Aveva previsto tutto. Tutto salvo quello. Si domandò se Diana fosse stata semplicemente incauta o se invece la Stirpe avesse compreso qualcosa. Il rumore dei colpi sparati da armi a energia misero fine alle sue riflessioni: Diana era morta e con lei anche il piano.
Aristarda Nera avrebbe comunque potuto tentare lo sbarco, ma non avrebbe avuto vita facile. Calus avrebbe potuto respingerla in mare senza sforzo.
Shrike strinse i denti. No! Non era così! Lui era un Justicar e i Justicarii non si arrendevano, mai. Mai! Non si sarebbe arreso: avrebbe trovato un modo.
Dei passi lo fecero alzare e voltare. Passi pesanti. L’uomo apparso era avvolto in una cappa nera, come la sua. L’arma che stringeva però era diversa.
Era un’arma ad asta che doveva arrivargli all’attaccatura del braccio, come altezza. Shrike notò componenti di armi da fuoco. Una canna, un mirino, un caricatore, un grilletto da qualche parte e una lama, simile a un Tantō. La mano del Justicar si posò sull’impugnatura del suo. Nessuno dei due parlò. Non subito. Parvero studiarsi e Shrike capì che quell’uomo era un guerriero tutt’altro che inesperto.
-Chi sei?-, chiese.
-Un custode. Vengo ad assicurarmi che ciò che custodisco resti salvo.-, rispose l’uomo, il viso nascosto come quello di Shrike da un cappuccio.
-Vesti abiti come i miei, ma la tua arma non è certo usuale. Non sei un Justicar, ma lo sembri in tutto e per tutto.-, disse Shrike, -E se avessi voluto fermarmi, mi avresti già attaccato. A meno che non abbia rinforzi nascosti.-.
-Nessun rinforzo. Mi sorprende che tu non ricordi di me. È passato molto tempo, ma dovresti ricordare, anche se entrambi siamo cambiati.-, detta quella frase, l’altro si levò il cappuccio e Shrike lo riconobbe. L’odio e la rabbia lo pervasero. Estrasse il Tantō, colpendo. L’uomo indietreggiò di un passo, fulmineo.
-Traditore! Maledetto!-, ringhiò Shrike. Attaccò con un fendente che l’altro evitò, senza parare né contrattaccare. Shrike aveva raramente provato una rabbia simile, ma ora la provava. E quella rabbia, quell’onta esigeva soddisfazione.
-Stammi a sentire! Il tuo contatto all’interno è morto. Hai bisogno del mio aiuto. Vogliamo entrambi che la guerra finisca!-, esclamò l’altro. Rotolò oltre l’ennesimo attacco.
-Hai ucciso i tuoi fratelli! Hai massacrato le tue sorelle! Hai dato fuoco al tempio!-, reiterò Shrike con rabbia. Attaccò ancora. L’altro non schivò: sollevò l’arma e gli sferrò un colpo, rapido, al ventre. Shrike sentì dolore. Nulla di grave ma fu fermato. Una mano del nemico lo disarmò con un movimento talmente rapido da apparire irreale.
-Ho sbagliato, è vero. Credevo non ci fosse speranza. Volevo servire il Trono, vegliare su di esso affinché gli eccessi del passato non distruggessero il futuro.-, rispose l’uomo. Girò agilmente la lama di Shrike, offrendogliela.
-Puoi uccidermi qui e ora, uccidendo anche la tua unica possibilità di successo, o accettare il mio aiuto. E permettermi una minuscola redenzione.-, disse.
Shrike esalò. Prese il manico del Tantō. Ogni fibra del suo essere voleva la morte di quell’uomo. Costantin, così si chiamava. Era stato un Justicar, ed aveva tradito tutti loro.
Ora era a capo della Guardia Imperiale, dei pretoriani di Calus.
La vendetta sarebbe stata meritata. Ma Shrike sapeva a quale costo l’avrebbe ottenuta.
Espirò, cercando di centrarsi. Lasciò che la mente si snebbiasse. Fissò quell’uomo.
-E sia, Constantin. Collaboreremo. Ma sappi che vorrei davvero ucciderti, e che non sono il solo. Socrax ti odiava, ma riteneva di poter comprendere il tuo gesto. Io non sono lui. Oggi tra noi è tregua, ma un giorno, a suo tempo, avrò la vendetta che il ricordo dei miei fratelli e delle mie sorelle richiede.-, disse infine sfilando la lama dalla mano dell’uomo per rinfoderarla. Constantin annuì, piano. Rispettoso e consapevole.
-Ora… riguardo all’infiltrarci nel campo…-, disse.

Il Comandante dell’accampamento, Birtius Mannus si alzò di malavoglia dalla branda. Era insolito che venissero a disturbarlo a una simile ora e, dopo una carriera militare di gran lunga meno avventurosa di molte altre voleva solo godersi le ultime notti in pace.
“Tra pochi mesi finalmente avrò il congedo. Ho fatto la mia parte per Calus e per l’Impero. Devo solo resistere fino alla fine di questa guerra. Non sarà poi chissà che.”, pensò mentre s’infilava l’uniforme da campo e prendeva il gladium.
-Signore, il messaggero la attende al Praetorium Castrae.-, disse il suo attendente.
Britius imprecò a mezza voce. Chiunque fosse il visitatore notturno stava rimediando alla violazione dell’orario applicando a norma la forma che prevedeva il Praetorium Castrae come luogo di riunione e di ricevimento per i messaggeri.
-Si può sapere chi diavolo è?-, chiese Britius, non senza stizza.
-Signore… Ha dato questo.-, l’attendente ora era pallida. Il bel viso abbronzato dal sole mediterraneo era divenuto ceruleo. Britius vide. Un pugnale. Ma non uno qualunque.
Un Misericordia. Un’arma cerimoniale, simbolo della Guardia dell’Imperator.
Si sentì mancare. Un emissario del Trono…
-Dei del cielo! Gli avete dato da bere? Da mangiare? Ha fatto richieste?-, chiese, ora improvvisamente sollecito nel consumare i metri che lo separavano dal bunker del Praetorium. L’attendente scosse il capo.
-Nossignore. Ha solo richiesto di vederla. E di parlare con lei.-, disse.
Ora Britius era spaventato. Possibile che Calus volesse deporlo dal comando? O giustiziarlo? Aveva forse sbagliato a fare qualcosa? Aveva commesso errori?
Non capiva, non ricordava. Si sentiva così perso…
Doveva ragionare: Calus non avrebbe mandato un suo emissario per questo. Doveva esserci per forza dell’altro. Cercò di respirare con calma.
“Forse mi preoccupo troppo.”, pensò mentre entrava nel bunker.

Il problema delle sentinelle, pensò Variato Antiparo, era che non si preoccupavano abbastanza. La sorveglianza era scarsa, frutto di una falsa e immotivata sicurezza.
La notte era fresca. Aveva scalato il fianco roccioso degli scogli entrando nel forte senza farsi vedere, arma stretta in pugno. Non la sua arma, ma quella di Shrike. Un Tantō. Come quello che aveva brandito così tanto tempo prima.
I ricordi gli giungevano a onde. Il Tempio era stato la sua casa, il suo santuario e quello di tanti altri. Là aveva forgiato il suo corpo e la sua mente. E dannato la sua anima.
Non si faceva illusioni: Shrike aveva tutti i motivi per odiarlo. Come spiegargli che era semplicemente stanco del sangue, delle morti? Come dirgli che era stanco di vedere una lotta laddove poteva esservi pace e prosperità? Come rivelargli che a spingerlo a tradire era stato il desiderio di pace? Non poteva e lo sapeva bene. Annuì a sé stesso. Aveva intrapreso una via, tradendo. Ora non poteva far altro che continuare, come aveva fatto sin lì.
Il camminamento delle mura non aveva segreti per lui: sgusciò oltre una sentinella appisolata. Senza l’armatura si sentiva nudo, ma sapeva che era necessaria a Shrike, per far reggere il suo travestimento e l’inganno. Un diversivo volto solo a dargli tempo.
Si avvicinò alla piazzola d’artiglieria ospitante il primo cannone. Era notevole: un obice a tre canne da sbarramento navale. Silenziosamente, estrasse alcuni strumenti dalla bisaccia.
Doveva sbrigarsi: non sapeva per quanto Shrike avrebbe potuto mantenere la messinscena.
Incominciò a svitare un pannello esponendo i circuiti della centrale di tiro.
Il lavoro gli richiese pochi istanti. Poi scese una scala raggiungendo il livello inferiore e si mosse di ombra in ombra, come uno spettro.

Britius osservò il messo imperiale. La corazza era quella della Guardia Imperiale, il corpo era atletico e slanciato, muscoloso senza essere eccessivo, il viso giovane ma già temprato. Era un guerriero forgiato da scontri di prima linea, non dall’ozioso comando ottenuto grazie a favori politici e poco servizio nella logistica.
L’opposto di lui, ecco cos’era. Il comandante del campo notò che non aveva toccato vino né cibo. Non pareva così provato dal viaggio. Lo invidiò.
Lo invidiò per la sua posizione, per il suo fisico, per il suo essere ancora nel fiore degli anni.
Lo invidiò per quella vita che ancora lo attendeva mentre lui non rifulgeva più nell’agire.
-Mi scuso per l’arrivo e l’ora, entrambi ben più tardi di quanto il buonsenso richiedano.-, Britius accolse quelle scuse con un sorriso. L’educazione non era un tratto ignoto ma la Guardia Imperiale aveva la sgradevole tendenza a comportarsi come se tutto fosse loro dovuto. Non quel giovane, a quanto pareva.
-Nessun disturbo. Fiero di servire l’Imperator. Come posso compiacere il Trono?-, chiese Britius, cercando di celare l’ansia. Il messo non parlò. Non subito.

Mateus Shrike si chiese fugacemente a che punto fosse il suo alleato. Fissò il comandante. La sua paura era evidente e ne aveva ben donde: i membri della Guardia erano stati spesso inviati dai regnanti del passato per destituire i comandanti in cui l’Imperator non riponeva fiducia o che l’avevano gravemente deluso. Non era cosa nuova.
Ma Britius non avrebbe potuto essere più lontano dalla verità. A Shrike non importava se il comandante del campo fosse stato il miglior generale di Calus o l’ultimo degli inetti.
-Desidero ispezionare le fortificazioni.-, disse infine.

Britius si accigliò. Era un ordine oltremodo bizzarro: le ispezioni venivano condotte di giorno, mai di notte. Ma era un ordine dall’alto, innegabile. Il protocollo, la forma, tutto era stato fatto secondo norma. Disobbedire era escluso. Porre domande era rischioso.
-Intendete farlo ora?-, chiese passando al “voi” per i dignitari d’alto rango.
-Intendo farlo ora. Aristarda potrebbe attaccare di notte, di giorno, prima dell’alba o dopo il tramonto. Le difese debbono essere vigili. E debbono esserlo davvero, in ogni istante. Il Trono conta che esse siano inespugnabili.-, rispose il messaggero, con tono secco e perentorio. Britius si accorse di sudare. Posticipare ulteriormente quell’ispezione sarebbe stato un affronto al messaggero, e per estensione al Trono stesso.
-Certamente. Procederemo subito.-, disse, -Da dove intendete iniziare?-, chiese.
-Dalle mura esterne, quelle sulla costa.-, decretò il messaggero.
-Immediatamente.-, rispose Britius, solerte come non mai.

I suoni di buccine e i richiami della soldataglia non colsero Variato impreparato.
Se li aspettava. Aveva concordato questo con Shrike. Ma era già lontano dal punto in cui avrebbe dovuto tenersi l’ispezione. Parte del lavoro era fatta. Si avvicinò alla casamatta delle comunicazioni secondarie, entrandovi. Piazzò le cariche, due.
Inserì le spolette nel materiale plastico e posizionò il timer sul tempo massimo.
Sentì dei passi. Una pattuglia! Si rintanò nell’ombra.
-Io controllo dentro. Il capo è su di giri. Ispezione improvvisa.-, disse una voce.
Un uomo in livrea da campo entrò, arma mollemente imbracciata. Scrutò la stanza. Si soffermò un istante sul punto in oscurità in cui era nascosto Variato. Poi passò oltre.
-Tutto tranquillo, possiamo continuare.-, lo udì dire.
-Perfetto. Credi che Aristarda attaccherà presto?-, chiese l’altro.
-Non lo so, Vigano. So solo che non vedo l’ora che sia finita.-, rispose il primo.
-Tranquillo, tesoro. Finirà presto.-, rispose l’altro. Tesoro… Una parola che significava che quei due condividevano ben più che un legame cameratesco. Variato ignorò: non gli importava davvero. Sgusciò fuori dalla casamatta richiudendo la porta.

Shrike annuì, apparentemente compiaciuto. Le fortificazioni di Calus sulla costa italica erano imponenti. Batterie di contraerea, di artiglieria di vari calibri, sbarramenti costieri, c’era proprio tutto il campionario della difesa da sbarchi ostili, applicato alla perfezione.
Se non fossero riusciti nel loro compito, se Variato avesse deciso di tradirlo…
Le forze dell’Imperatrix in esilio sarebbero andate incontro alla loro definitiva distruzione.
-Ottimo lavoro, comandante. L’Imperator sarà compiaciuto delle difese esterne.-, disse.
Era stanco. Secondo i suoi calcoli erano le tre di notte.
Ma c’era ancora da fare. Molto.
-Ora desidererei ispezionare la seconda cerchia muraria.-, disse.
Britius annuì, facendogli strada.

Variato Antiparo esaminò la contraerea. Erano torrette mobili, impianto modello Icarus, ottima per il tracciamento dei mezzi nemici, capace di operare anche senza equipaggio, in caso di necessità, grazie a una programmazione che permetteva di identificare velivoli amici e nemici. I tecnicismi gli sfuggivano ma in sostanza la contraerea era lo standard di tutto l’Impero, prodotta a Torius, in Italica, era l’orgoglio cittadino.
E proprio per questo, in quella guerra civile, ogni soldato aveva almeno una vaga idea di come funzionasse e, conseguentemente, di come sabotare quell’impianto.
Imparare a manovrarlo era parte dell’addestramento di ogni singolo legionario.
Il soldato di guardia soffocò uno sbadiglio. Lo vide. Ma lo vide tardi. Aprì la bocca per urlare. Se la ritrovò chiusa. Variato colpì il milite alla trachea. Colpo letale. L’uomo gli si afflosciò addosso, privo di vita dopo pochi istanti. Fulmineo, afferrò il corpo del milite. Doveva muoversi a farlo sparire. Lo sorresse e raggiunse i baraccamenti. Vuoti. Erano tutti schierati per l’ispezione, ovvio. Lo chiuse in un armadio, silenzioso come un gatto. Tornò sui suoi passi e vide che altri due nemici avevano preso il posto del primo.
Non sapeva quando si sarebbero spostati. Ma non poteva aspettare. Quella contraerea sarebbe rimasta operativa. Ma non così le altre. Silenzioso, muovendosi di ombra in ombra, passò al prossimo bersaglio.

Mateus Shrike ascoltò pazientemente il resoconto di Britius e dei tre principali comandanti lealisti sulle difese. Una lunga lista di equipaggiamenti, munizionamenti e altro.
Calcolò mentalmente il tempo. Variato ne aveva avuto a sufficienza? Aveva finito?
Forse. Non poteva saperlo con certezza. Al diavolo non sapeva neppure se poteva fidarsi di lui! Tuttavia, una parte di Shrike aveva percepito qualcosa. Stanchezza, forse persino sincero pentimento per l’atto che aveva causato la fine del loro Tempio.
-Volete una dimostrazione pratica?-, chiese Britius, strappandolo ai suoi pensieri.
Shrike scosse il capo. –No: ho visto a sufficienza. Penso che l’Imperator possa dirsi soddisfatto. Io al posto suo lo sarei sicuramente.-.
Effettivamente lo era: la fortezza era un doppio vallo, il primo ben al di sotto del secondo, il quale ospitava le basi di artiglieria antinave principali e i castra veri e propri.
Torrette e ridotte fortificate punteggiavano il vallo, ospitandovi mitragliatrici e balistae a energia. Una fortezza imponente. Peccato che, se Variato aveva fatto bene il suo lavoro, non avrebbe potuto beneficiare delle principali armi per ricacciare a mare le truppe di Aristarda Nera. Annuì, più a sé che agli altri.
-Può bastare.-, disse. Il suono della buccina sancì quelle parole.

Variato udì il suono della buccina. Non importava: aveva sabotato tutto quello che aveva potuto. Per i mitragliatori e le balistae sul vallo non aveva potuto far molto, ma le artiglierie principali anti nave, quelle campali a media e corta gittata e gran parte delle contraeree erano sistemate. Era abbastanza. Doveva esserlo.
Annuì prima di raggiungere la palizzata che delimitava il castra e trovarvi un varco.

-Riferirò certamente all’Imperator dell’ottimo lavoro che state svolgendo.-, Shrike montò sulla motocicletta a induzione, -Sono persuaso che sarà estremamente compiaciuto.-.
Il comandante del campo e i suoi ufficiali sorrisero, tutti felici dell’esito dell’ispezione.
Il Justicar sorrise pensando a quanto l’intera infiltrazione fosse stata facile, almeno per lui. Mancavano poche ore all’attacco…

Aristarda Nera squadrava il mare. La costa era distante. Il cielo era nuvolo.
-Mia signora…-, l’ufficiale di marina la guardò, preoccupato, -Minaccia bonaccia. È rischioso tentare uno sbarco in queste condizioni.-, disse.
Aristarda tacque. Odiava l’idea di rimandare lo sbarco, ma le nuvole erano apparse all’improvviso, ed avevano rapidamente oscurato gli astri, promettendo pioggia che già stava iniziando a gocciolare. Rimandare l’azione avrebbe potuto solo essere saggio…
Eppure l’orgoglio, il dannato orgoglio le impediva di farlo.
-Megista?-, chiese all’indovina del Kelreas. La vegliarda la guardò.
-Il mare e il cielo non odono che l’eternità. Ascolta l’eternità…-, la voce di Megista si piegò su quella frase, si affievolì all’incedere del vento, -Ascolta il sussurro della Dea Madre.-.
Aristarda chiuse gli occhi. Non era l’Imperatrix, solo una donna travolta da incertezze.
Il vento soffiava, gonfiava le vele alleate. E fortissimo batteva acqua e terra.
Il vento soffiava, faceva garrire gagliardi i vessilli e i labari, soffiava sulle sue forze, assiepate nei trasporti, sugli equipaggi e su di lei, come sicuramente soffiava sui suoi nemici. Aristarda annuì. La pioggia prese a cadere. In diagonale, spinta dal vento su traiettorie distorte, sbagliate. Forte. L’attendente la chiamò. Gli uomini erano silenti.
Volevano ordini, una direzione. Un comando che chiarisse loro la strada.
Aristarda non si mosse. Nel turbinare di arie e acque, nello sciabordare della marea udì qualcosa. Un esortazione che riconobbe provenire da sé stessa.
Si sentì sfiorare una spalla. Una violazione del protocollo che la portò a riaprire gli occhi.
La guerriera in nero, pelle scura in scure vesti, la fissava, gli occhi penetranti, iracondi?
-Il fato va forgiato, non solo seguito.-, sussurrò. Poi tacque. Aristarda guardò il cielo.
-Suonare l’attacco.-, ordinò. Gli ufficiale si guardarono, confusi.
-Mia signora, il mare è agitato! C’è tempesta…-, disse l’ufficiale di poc’anzi. Era un giovane imberbe ma indubbiamente fedele. Lei sorrise guardandolo.
-Esatto, Luciano! C’è tempesta! La tempesta spingerà i lealisti a restarsene a letto! La tempesta li porterà ad abbassare le difese!-, estrasse il Tantō di Socrax, alzandolo al cielo.
-Miei guerrieri, miei fratelli!-, la sua voce rimbombò contro i tuoni e i fulmini.
-Ave Imperatrix!-, tuonò la flotta. Erano tutti uniti. Tutti lì. Per lei.
E lei era lì per loro. Per loro avrebbe osato qualcosa che forse solo prima del Cataclisma era stato tentato, un azzardo immane. Una follia, o forse un colpo di genio, poiché i due erano simili assai agli occhi di chi non ha conosciuto l’ebbrezza dell’ardimento.
-La tempesta ci consegnerà l’Italica!-, gridò Aristarda.
Le urla di centomila uomini le fecero eco mentre la flotta si muoveva.

-È fatto.-, Variato Antiparo si avvicinò a Mateus Shrike. Gli porse il Tantō. Il guerriero, toltosi l’armatura e rimessosi le vesti, lo fissò.
-Perché hai fatto questo? Perché aiutarmi? Perché, Costantin?-, chiese. Suo malgrado voleva sapere, capire. Voleva riuscire a scoprire se del giovane che ricordava era rimasto qualcosa o se invece no. Variato annuì.
-Legami, fratello. Legami forgiati in momenti. Ineluttabili e impossibili da ignorare.-, rispose dopo qualche istante. Shrike attese il resto, ma non ve ne fu.
-Tieni.-, disse Variato passandogli i detonatori. Shrike li prese. Li guardò, come stranito.
-Non ti assolve da ciò che facesti.-, disse infine.
-Io stesso non mi assolvo.-, rispose Variato. Shrike annuì. Non dubitava.
Nessuno avrebbe mai potuto assolversi per il tradimento. Ma si poteva rimediare.

Jacobus Paldeo osservò il mare, svogliato. Era stanco e aveva sonno. La pioggia lo stava intontendo. Ad ispezione finita aveva sperato di poter dormire, invece gli avevano appioppato il turno sino all’alba. Ma l’alba non c’era: c’era una pioggia che calava come uno sciame malefico dall’alto dei cieli, beffa suprema.
“Nessuno oserà attaccare ora…”, pensò. Rientrò nella torretta. Recuperò un boccale, si versò del vino acidulo. Razione dappoco. Diluito con acqua. Bevve. Gradevole.
Si sarebbe volentieri addormentato ma non poteva: era a guardia del primo muro, del vallo che dava sulla spiaggia. Non poteva addormentarsi: doveva tenere. Doveva farlo.
-Dei, che supplizio…-, pensò. Si strofinò gli occhi cercando di cacciare la stanchezza.
Tuoni e fulmini. Il cielo riversava la sua ira sul mare e il mare la accoglieva.
-Chi mai sarebbe così pazzo da tentare qualcosa ora?-, chiese a nessuno in particolare.
Il silenzio gli rispose. Jacobus sospirò. Era stato assegnato a quel soporifero avamposto e i turni peggiori capitavano sempre a lui. Si sforzò di uscire nuovamente sotto la pioggia.
-Nulla…-, sibilò appena. Nel buio in cui era immerso il mare era impossibile distinguere alcunché. Scrollò le spalle. Non erano fatti suoi. Tra breve sarebbe arrivata l’alba.
E avrebbe finalmente potuto dormire.

Shrike osservò Variato andarsene. Aveva con sé i detonatori ed era a distanza d’innesco. Attese con calma che il vento si placasse. A differenza delle assopite sentinelle di Calus, lui vedeva eccome. I tuoni erano pochi e radi, come i fulmini. Ma aveva visto.
La lenta avanzata della flotta di Aristarda.

-Prepararsi allo sbarco. Prima ondata, pronti alla partenza. Navi principali a copertura. Ali Vindicta, Victrix e Proxima, in volo.-, ordinò la voce dell’Ammiraglio Malca Thanis, ex Terza Flotta lealista, ora al comando della Marina dell’Imperatrix esule.
-Salve pronte, signora.-, riferì un ufficiale.
-Attendere. Aristarda ha ordinato di aspettare un segnale.-, ordinò Malca. Scegliere di defezionare era stata la sua scelta migliore: relegata a un ruolo secondario, ora si ritrovava protagonista. Guardò verso l’Imperatrix, allo scoperto sul ponte. Anche lei aspettava.

Jacobus sospirò. “Tanto non succede nulla…”, pensò. Si forzò ad alzarsi dalla sedia e a guardare fuori dalla posterla, verso l’ampio e vasto mare, oscurato dalle nubi.
-Ma cosa…?-, gli parve di vedere, gli parve di intuire. Improvvisamente, un fulmine rischiarò il cielo. Fu solo un istante, ma bastò a farlo sbiancare.
-Merda!-, imprecò. Il mare era pieno di navi. La flotta di Aristarda Nera al gran completo si era materializzata quasi per malevola magia nel tratto marittimo. Non rimase a guardare oltre: spinto da una scarica di adrenalina si gettò verso il posto di guardia primario.
-Suonate l’allarme! Nemici in arrivo!-, urlò irrompendo nella casamatta.
-Jacobus, che diavolo…?-, imprecò una soldatessa svegliata di soprassalto.
-Il Vox! Suona l’allarme dannazione! Questi fanno sul serio! Non si vede il mare!-, esclamò.
-Ma che stai dicendo?!-, sbottò un ufficiale. Jacobus lo afferrò per la lorica, in spregio a ogni protocollo. Lo trascinò a guardare il mare. E anche l’ufficiale, per quanto irato e sorpreso, vide. E anche lui sbiancò.

Mateus Shrike sorrise sotto la pioggia. Gli allarmi suonavano. Era tempo.
Vide gli obici mirare. Vide le installazioni di contraerea portarsi in attività. E sorrise.
Era tempo. Attivò i detonatori. Non vi furono esplosioni, né tantomeno boati.
Semplicemente, non vi fu nulla. Proprio come previsto. La mano di Shrike corse alla pistola che aveva alla cintola. Un’arma da un solo colpo. La puntò verso il cielo e sparò.

Stella in ascesa dal più basso degli inferi al più alto dei cieli. Rossa come il sangue. Salì bruciando tra le nubi, visibile a grande distanza.
-È il segnale.-, disse Aristarda. Malca annuì a sua volta. E l’attacco iniziò.

Britius Mannus fu brutalmente svegliato dagli allarmi. Uscì dal proprio alloggio sotto la pioggia. Aveva indossato la lorica e le armi, ma non l’elmo. Soldati lo raggiunsero.
-Quanti sono?-, chiese, improvvisamente reattivo. La stanchezza pareva dimenticata.
-A migliaia, signore! Le vedette riportano almeno cinquecento navi. Stiamo riscontrando numerosi problemi. Le contraeree sono inattive. E anche le artiglierie danno problemi.-, rispose l’aiutante di campo, solerte anche in quel momento, sebbene sbigottito.
Britius imprecò. Una simile incapacità di reagire poteva significare solo una cosa.
-Quell’uomo era un impostore.-, sussurrò, -L’Imperator vorrà la mia testa…-.
-Signore?-, chiese l’aiutante. Britius non rispose: non era una disfatta, era LA disfatta.
La sua. Irrimediabile e indiscutibile. Si volse verso l’aiutante di campo.
-Ordina di mantenere le posizioni. E chiedi rinforzi.-, ordinò.
-Signore, i vox a lungo raggio… non funzionano!-, esclamò il giovane, sgomento.
-Invia una staffetta, dannazione!-, imprecò Britius.
Pochi istanti dopo i colpi d’artiglieria dal mare bombardarono la spiaggia e il primo vallo.

Aristarda fu al suolo con la prima ondata. Ovviamente il suo non fu il primo mezzo a toccare terra, ma sin dalla morte di Proximo aveva cercato di essere sempre presente sul campo con i suoi soldati, per ricordare loro che lei si sarebbe sempre battuta al loro fianco.
Anche quando i suoi consiglieri speravano che mostrasse maggior prudenza, l’Imperatrix aveva sdegnato numerose volte posizioni più riparate per mostrare ai suoi uomini che non erano soli, che lei non era né Calus né Septimo.
Per quell’occasione aveva optato per la corazza che aveva indossato ad Agripatus.
Il suo armamento aveva subito solo un cambiamento: al posto dell’arco brandiva una piccola arma energetica, una versione più corta delle armi usate dai legionari.
Attorno a lei, i membri della Guardia Victrix si muovevano compatti. Sventagliate di proiettili abbattevano uomini e donne. I suoi rispondevano al fuoco con rapidità, sfruttando i ripari. Accanto ad Aristarda, la guerriera in nero sparava con un’arma compatta. Non badava alla precisione, ma solo a far sì che il nemico non potesse sparare.
-Avanzare!-, ordinò l’Imperatrix. I boati dell’artiglieria navale resero impossibile udire. Un uomo alla sua destra fu abbattuto da una raffica. Schizzi cremisi e acqua salmastra misti alla pioggia le arrivarono addosso, il furore e la confusione sfocarono il suo sguardo.
Si addossò a una roccia, coperta dal fuoco dei suoi e affiancata dalla guerriera, che dopo aver ricaricato continuò a sparare verso una delle torrette.
-Continua a tenerli bassi!-, esclamò. Lei tirò al riparo un addetto al vox.
-Riesci a richiedere un po’ di artiglieria?-, chiese. Il giovane tremebondo annuì.
-Sissignora!-, esclamò. Si mise al lavoro col vox comunicando coordinate e posizioni.
Il fischio dei proiettili e i colpi furono assordanti. La torretta esplose.
-Avanti!-, urlò l’Imperatrix. Gli risposero gli uomini, un ruggito collettivo che li vide caricare tra le macerie del primo vallo, devastato dalle esplosioni.
I lealisti, cercando di difendere la posizione spararono. In diversi ripiegarono.
Gli altri caddero sul posto, intonando il Moripatres.

-Non può essere…-, sussurrò Britius.
-Signore, la prima linea sta cedendo. Il vallo è a pezzi.-, riferì un ufficiale.
Dal vox, voci e statica, confusione pura.
-Quinta Centuria, tenere! Per l’Imperator!-, ordinava la voce di un ufficiale.
-Dove sono i rinforzi?!-, chiedeva una voce femminile in panico.
-La contraerea non è attiva! Dannazione, non spara!-, ringhiava un legionario.
-Ci serve l’artiglieria! Si avvicinano…-. Le voci continuavano, una cacofonia infernale.
-Signore?-, l’attendente. La sua voce strappò Britius allo shock.
-Nessuno avrebbe mai osato attaccare con una simile bonaccia! Non… può essere…-, disse.
-Signore, questo non ha importanza. Abbiamo inviato la staffetta. Non sappiamo quando arriveranno i rinforzi. Dobbiamo reggere, a ogni costo!-, il giovane attendente pareva sull’orlo dell’isteria. In realtà, Britius lo capì, era scioccato quanto lui.
Notò uno dei velivoli dei nemici venire colpito. Una contraerea ancora stava reagendo.
Pia illusione: gli altri dello stormo si dispersero per offrire meno bersaglio e aprirono il fuoco. Da terra, i colpi dei lealisti parevano ridicoli. Con il vox a lungo raggio fuori uso, ogni speranza di rinforzi o di soccorso era svanita. Forse gli altri avamposti lealisti avrebbero potuto organizzare una controffensiva, ma per allora realisticamente Britius e i suoi sarebbero stati cadaveri. Il comandante osservò i suoi soldati sciamare verso le difese, cercando di evitare le aree più esposte al fuoco nemico. Erano sconvolti, come lui.
Con una differenza: a differenza di lui, loro stavano reagendo. Stavano comportandosi da veri Romanei, da degni discendenti della Licanes che aveva tanto a lungo conteso ai Cimanei la propria terra prima di cadere. Tale ardore non si curava della morte.
Il comandante del campo provò vergogna di sé stesso a causa della sua incapacità.
Intuì che, comunque fosse finita, Calus avrebbe potuto richiedere la sua testa. Ma se avesse vinto, forse lo avrebbe perdonato. E se fosse morto combattendo, magari il suo ricordo sarebbe stato visto come eroico (o almeno, non come inetto).
Doveva solo tenere. Solo quello. Era la sola via per la redenzione, in vita o postuma che fosse. Un orgoglio improvviso, fiero, lo colse. Non sarebbe caduto da codardo piagnucoloso, né da vecchio rottame quale aveva da troppo tempo accettato di essere!
No: sarebbe morto con la lama in pugno, il viso fiero e lo sguardo rivolto al nemico.
-Signore?-, chiese l’attendente. Lui lo guardò. La sua determinazione gli conferì uno sguardo duro, un’espressione da cui la paura era bandita. Parlò con voce chiara, netta.
-Attestarsi sul secondo vallo. Comunicate che chiunque si ritiri senza il mio consenso verrà abbattuto sul campo. La mia guardia si prepari, usciamo a combattere!-, ordinò mentre la battaglia infuriava distante, in procinto di avvicinarsi.

La Centuria del Centurione Nicanorius era stata elogiata molteplici volte. Di tutta la Sedicesima Legio Italica era nota come la centuria ideale. Un’unità che non si era mai ritirata né arresa. Aveva subito perdite immani, spesso, ma aveva sempre trionfato e mai avrebbe creduto di trovarsi di fronte a una simile catastrofe.
Nicanorius era un uomo semplice e di modeste pretese: amava sua moglie, sua figlia e la sua patria. Credeva al Trono e non si curava di chi vi sedesse, poiché così volevano gli Dei.
Così aveva a lungo creduto. E di conseguenza aveva accettato che l’esercito era il suo posto, le armi la sua legge e il fato l’aveva ripagato con gloria e onore.
Ma lì, tra le rovine del primo vallo, con alle spalle la fortificazione bombardata, attorniato dalle grida di combattenti, feriti e morenti, Nicanorius Ledo intuì che era finita.
La sua centuria, la prima unità della Sedicesima, la più decorata, si era attestata a difesa delle rovine. Impassibile, il centurione sparò sei colpi con l’arma a energia.
Centrò quattro bersagli. Una raffica lo costrinse al riparo.
-Signore! Dobbiamo ripiegare!-, urlò il suo secondo. Era il soldato più anziano, Onorius Pelide. Era noto per il suo valore contro i barbari e l’età non aveva infiacchito né i suoi riflessi né la sua indole guerriera. Nicanorius guardò per un istante dietro di sé. I lealisti in ritirata stavano lentamente lasciando il campo, verso la relativa sicurezza del secondo vallo da cui i commilitoni sparavano raffiche precise per coprirli. Sì: Nicanorius volendo avrebbe potuto fare lo stesso. Avrebbe potuto. Guardò il suo primo soldato. Onorius lo fissò a sua volta. Entrambi sapevano bene cosa impediva loro la ritirata.
-La Prima non cede!-, urlò Nicanorius. Altri udirono. Altri risposero.
-La Prima non cede!-, gridò Onorius. Se i traditori udirono, loro non lo sapevano, non importava. Non stavano certo urlandolo a loro beneficio.
-Yneas accoglierà le nostre anime, ma ci guarderà negli occhi!-, urlò Nicanorius. Si sporse a sparare. Colse una vista. Una guerriera. La riconobbe. Anche con l’elmo, era difficile sbagliarsi, circondata com’era dai suoi.
-Aristarda…-, mormorò. Se l’avesse abbattuta, anche se tutti loro fossero morti là, la loro morte avrebbe salvato il Trono, messo fine alla guerra e consegnato i loro nomi alla Storia.
Prese la mira. Incominciò, quasi in automatico, a salmodiare il Moripatres.
Le parole del canto di commiato alla vita degli spiriti eroici fluirono come un sonoro inno verso il cielo tonante, verso la pioggia e il fragore. Aristarda si muoveva con scrupolo, ma Nicanorius sapeva che non poteva sfuggirgli in eterno. Tutto si riduceva al giusto momento per sparare. Non temeva per sé né per i suoi uomini: la Prima sarebbe morta là, sino all’ultimo uomo. Ma sarebbero morti in modo leggendario, degno degli eroi del mito.
Potevano forse chiedere di più? Cosa poteva volere di più? A cos’altro ambire?
-Coraggio… dammi un colpo, uno solo. E che possa portare pace!-, supplicò Nicanorius.
L’arma da tiro piantata salda contro la spalla, come un’estensione del suo corpo, era pronta al colpo definitivo. Bersaglio, zona petto-collo. Colpo letale, a patto di riuscire a infliggerlo.
Se l’avesse abbattuta, avrebbe messo fine alla guerra. Sorrise.
Aristarda si mosse verso sinistra, sparando tre colpi. La guerriera in nero al suo fianco si portò a destra, senza mai staccarsi da lei per più di mezzo metro.
Ma era abbastanza: attraverso il mirino, Nicanorius vide Aristarda ricaricare, rapidamente. Era l’apertura che aspettava: mirò e sparò. Proprio nel momento di premere il grilletto, due colpi laser lo colpirono. L’energia rovente trapassò la lorica e la carne, cauterizzando all’istante le ferite. L’uomo si concentrò per non sussultare. Già la vita abbandonava le sue membra. Tirò il grilletto cadendo piano a terra, le orecchie piene delle grida di ferocia e morte dei suoi uomini, la vista offuscata e nella mente una sola domanda.
“L’ho uccisa?”.
Purtroppo, era destinato a non conoscere la risposta. Il buio lo inghiottì.

Intenta alla ricarica, Aristarda schiaffò la cella energetica nell’arma con violenza. Non vide.
Notò solo all’ultimo il centurione, riconoscibile dall’elmo crestato, che puntava l’arma verso di lei. Non ebbe tempo di aver paura. Non ebbe tempo per nulla.
Una forza improvvisa la spinse via. Barcollò e rimbalzò contro un milite, riuscendo a restare in piedi. Udì un verso inarticolato di dolore, l’odore rivoltante di tessuti vivi combusti. Comprese. Qualcuno l’aveva salvata da morte certa. Qualcuno l’aveva protetta.
Con la sua stessa vita? Era quello il prezzo che doveva pagare? Ricordò Ilthea e tutti gli altri morti per salvarla. Si domandò per un fugace istante come sarebbe stata ricordata.
Come la donna che cercò di salvare l’Impero o come colei che, per il Trono, immolò migliaia di vite, arrampicandosi su montagne di morti? Era così?
Improvvisamente una mano la scosse. Era rimasta indietro rispetto ai suoi uomini. La guerriera in nero la fissò con occhi in cui parevano ardere i fuochi dell’Ade.
Un muto ammonimento: “l’esitazione uccide.”, questo vi lesse l’Imperatrix.
-Finiamola.-, ringhiò mentre alzava l’arma e sparava a un nemico acquattato tra le rovine, intento a sparare. Lo colpì abbattendolo. Pregò che gli Dei tenessero conto del valore di quei soldati che stavano morendo per un Imperator indegno e avanzò.

La Prima Centuria della Sedicesima Legio Italica morì fino all’ultimo uomo sul posto, strappando ai ribelli di Aristarda un tributo di sangue tutt’altro che indifferente.
I lealisti della seconda linea, martellati dall’artiglieria navale dell’Imperatrix esule furono altrettanto saldi. Il forte era costruito in modo da garantire le massime possibilità di difesa. Arroccato tra due montagne rocciose e spoglie di artificiale creazione, era un bersaglio assai difficile, anche con tutta la potenza dell’artiglieria navale che lo stava flagellando e senza batterie con cui poter rispondere. Britius Mannus, intento a motivare gli uomini urlava ordini tra le esplosioni, alzando la lama, incitando i suoi a tenere sino all’ultimo uomo, esortandoli a essere tanto valorosi quanto lo furono i loro avi e i più recenti eroi della Prima Centuria.
Per molti fu bizzarro e stupefacente vedere quel vecchio comandante, mai ritenuto un valoroso dai suoi pari e sottoposti, esibire cotanta grinta.
-Signore… Forse giungono rinforzi!-, esclamò una Viragea. Era una donna sui quaranta, ancora in splendida forma e un’abile guerriera. Britius seguì il dito da lei puntato verso il cielo. Squadriglie di velivoli lealisti avevano fatto la loro comparsa, intercettori Ferox, idonei al confronto con altri velivoli quanto al bombardamento. Erano tre.
“Sono troppo pochi”, pensò Britius con animo sconsolato. “E anche se ora giungessero altri rinforzi, sarebbe tardi. Le forze della traditrice hanno preso terra…”.
I soldati di Aristarda Nera stavano dando l’assalto al muro. Un assalto lento, ma costante. Si coprivano gli uni gli altri, gettavano ordigni, ordinavano attacchi. Una sezione del vallo fu centrata da ordigni ad alto esplosivo e detonò, annichilendo gli uomini là piazzati.
-Breccia! Breccia nelle mura!-, esclamò Britius. Impugnò saldo il gladio. Non avrebbe mai, mai permesso a quei bastardi di prendere il secondo vallo tanto facilmente!
-Contrattaccare!-, ordinò. Il cuore gli batteva feroce in petto, gli anni parvero non intralciarlo mentre correva. Lui e la sua guardia, insieme a una schiera di legionari lealisti appartenenti a più Centurie caricarono i soldati di Aristarda sulla breccia.

Il combattimento sulla breccia si trasformò una feroce mischia in corpo a corpo.
Le lame cozzarono contro le lame, le corazze s’incrinarono. Chi scivolava nella mota fangosa e rossastra che era divenuto il terreno rischiava il calpestamento da parte di alleati e nemici. Non vi fu quartiere e non ne fu chiesto: ogni singolo uomo o donna lottava con ferocia inumana, guardando alla propria sopravvivenza più che alla vittoria.
In cielo, l’Ala Scutorum lealista contendeva a fatica il cielo ai velivoli dell’Imperatrix.
Lontani i rinforzi lealisti avanzavano, ostacolati da brevi attacchi dell’aviazione di Aristarda. Le navi continuavano a cannoneggiare il forte, evitando accuratamente di colpire le forze alleate.
Sulla breccia, di tutti i presenti, solo un guerriero pareva chirurgico, finanche aggraziato nel suo agire. Non un uomo, tuttavia. Una guerriera. Vestita di nero, abbatteva i nemici con efficienza, apparentemente incapace di perdere il controllo come gli altri. Fendeva attorno a sé con metodo e rapidità serpentine.
Britius la vide. Nella mischia, il vecchio condottiero individuò in lei una campionessa.
Puntò la lama verso di essa. Un gesto di sfida che fu ignorato dai più, ma non dalla nera guerriera, la quale si avvicinò a lui, replicando il gesto. Non fu un duello, entrambi dovettero a più riprese difendersi da attacchi di terzi, in spregio a ogni regola sull’onore.
Tuttavia, nei colpi di quella nemica, Britius trovò un vero avversario, una nemesi capace di abbatterlo. Ne fu spaventato, ma non retrocedette. La sfida era stata lanciata.
La donna vestiva una cappa nera, lisa, in pelle. Ormai era maculata dal sangue e dalla polvere. I lineamenti erano una maschera di totemica ferocia. I capelli erano neri, riuniti in trecce. Gli occhi, quegli occhi, così fondi da apparire abissali, parevano ardere d’ira.
Britius si avvicinò. L’avversaria lo guardò. Lui non distolse lo sguardo. “Affrontala!”.
“Affrontala come si addice a un Romaneo, a un discendente di Licanes!”, pensò.
Strinse la lama sino a farsi sbiancare le nocche. Sferrò un fendente. La nera evitò, contrattaccò fulminea. Britius parò, riguadagnando la distanza.
Attorno a loro, la mischia continuava, feroce. Dietro Britius, il vessillifero della sua Legione teneva alto lo stendardo, incitando i compagni a combattere.
Nessuno tuttavia osava disturbare quel duello. Le esplosioni continuavano, il combattimento proseguiva, ma per caso o per divina volontà, le antiche usanze venivano osservate nondimeno.
Lo scontro proseguì. La lama curva della giovane e quella dritta di Britius sprigionarono scintille quando cozzarono. Il comandante si stava battendo al meglio ma l’età incalzava.
“Concedimi quest’ultima vittoria!”, implorava sé stesso e qualunque dio fosse in ascolto.
Sferrava colpi forti cercando di essere anche rapido, fintava e colpiva. La giovane però era molto, molto più abile. Difficile darle un’età. Poteva essere verso i trent’anni, ma anche verso i quaranta. Impossibile dire con certezza. Sicuramente era versata e ben addestrata nell’arte di maneggiar la lama. E lui invece era un vecchio, incapace, che ora sperava in una vittoria impossibile. La distrazione di quel pensiero gli procurò un taglio sul bicipite destro. Doveva concentrarsi! S’impose di farlo. La morte e la vita non erano importanti.
Il retaggio lo era. E il suo sarebbe stato redento dalla sua morte!
Il fiato gli usciva doloroso. Merda, era vecchio! E la sua avversaria invece era giovane e per nulla affaticata da quello scambio di fendenti.
Britius sapeva bene che era finita. Che sarebbe finita lì. Non c’era possibilità di vincere, lo sapeva, e in parte lo accettava. Era la redenzione che voleva, in fin dei conti.
Forse, la giovane lo capì. La sua lama compì un arco prima di affondare, in una stilettata tanto rapida quanto inusuale per un’arma del genere nel petto di Britius.
Non ci fu che poco, breve dolore. Il mondo dell’uomo divenne freddo, gelido.
Negli occhi della guerriera, lesse qualcosa. Pietà? Rispetto? E poi la vide muovere le labbra.
Non sentì, impossibile, ma vide. E lesse quelle labbra.
“Possa tu trovare pace. Ti rendo onore.”.
Al comprendere quelle parole, sul viso di Britius Mannus si dipinse un sorriso mentre la vita lo abbandonava piano e cadeva a terra.

Aristarda si guardò attorno. La guerriera in nero aveva abbattuto il suo avversario ed aveva poi respinto gli attacchi di altri due legionari prima di aver ragione di loro.
I suoi uomini avanzavano, pagando ogni metro di terra col sangue, proprio o altrui.
Della sua Guardia, nessuno era incolume, neppure lei lo era: una lama le aveva aperto uno squarcio sul braccio sinistro e il destro ancora risentiva di una botta ricevuta.
Il terreno era ingombro dei corpi. Lealisti del Trono, suoi fedeli soldati… chi poteva dire quanti erano caduti? Avanzò come in trance, sferrando un fendente su un nemico e abbattendolo. Era sporca di sangue non suo, polvere e acqua salmastra. La pioggia non smetteva di cadere. La testa le girava, il cuore batteva, i sensi erano acuiti al massimo a scapito del pensiero e della logica. Sferrò altri due fendenti. Nessun tempo per ricaricare l’arma energetica. A malapena c’era tempo per difendersi dai nemici in arrivo.
Improvvisamente notò un cambiamento: i lealisti stavano fuggendo. Ripiegavano a piccoli gruppi, coperti dagli alleati.
Non capiva: la breccia era ancora in mano loro, sebbene fosse ormai chiaro che mantenerla sarebbe costato alle loro forze molti altri uomini.
Si guardò attorno. I suoi uomini fecero quadrato attorno a lei, determinati a tenere.
Ma il nemico rifluiva verso le casematte. Alcuni sparavano, ma i più parevano solo intenzionati a fuggire.

L’Ammiraglio Malca aveva diretto gli sbarchi in assenza di Aristarda in modo semplice: insieme allo sbarco dell’Imperatrix aveva indirizzato numerosi uomini e numerosi mezzi verso altri punti della costa. Stando ai rapporti che pervenivano, in quasi tutti i punti, lo sbarco era ben avviato. Ma l’Ammiraglio sapeva che era tutt’altro che finita.
Uno sbarco di simili dimensioni, avvenuto di sorpresa, nottetempo e con un certo grado di sabotaggio da parte di un alleato, non era comunque a prova di fallimento.
Era dunque stato necessario inviare molteplici unità su diversi punti di sbarco, per aprire un fronte più ampio e garantire alla forza di Aristarda un rallentamento di eventuali rinforzi. Aveva funzionato: la Legio Advia aveva preso terra a circa centoventi miglia dalla posizione dell’Imperatrix. Nonostante l’opposizione lealista, l’attacco proseguiva.
Diverso fato aveva atteso la Legio Prima Hibericae. Bloccata dal fuoco nemico stava tentando di rosicchiare le difese dei lealisti lungo il Promontorio di Brindisiae.
Malca era stata perentoria: nessuna delle forze d’attacco da lei inviate avrebbe avuto ondate di rinforzo. Tutti avevano accettato, o così era parso.
La Madridia invece aveva preso terra in modo sparpagliato: un terzo della Legione si era arenato su spiagge difese dai lealisti ma il grosso della forza d’attacco era stato deviato, quasi da divina mano, verso una zona in cui i rinforzi di Calus non avevano avuto modo di attestarsi. Così, quando i rapporti di forze nemiche erano giunti, avevano potuto prendere l’iniziativa e arrestare il contrattacco di Calus.
Purtroppo non era tutto rose e fiori: su ogni fronte giungevano notizie di perdite non indifferenti che crescevano con il passare del tempo. La Legio Pirenaica era stata quasi interamente distrutta dall’impatto con le fortificazioni lealiste e stava vendendo cara la pelle, circondata e in tragica inferiorità numerica.
Malca sospirò: era impossibile che tutti gli sbarchi riuscissero, semplicemente sarebbe stato troppo bello, ma a lei bastava che la forza principale guidata dall’Imperatrix avesse successo. In fin dei conti, la difesa dell’Italica era sempre stata considerata come un optional da Calus. Appoggiandosi pigramente alla flotta, aveva trascurato di rinforzare le zone che riteneva a torto inespugnabili. Un errore che avrebbe pagato caro.
Purtroppo però la situazione non era rosea: diversi rinforzi stavano giungendo dall’entroterra e, sebbene ancora non fosse chiaro ai lealisti l’entità dell’attacco, era palese che molti comandanti stessero agendo per propria iniziativa.
Aristarda e le sue legioni dovevano sfondare. E farlo in fretta.
Altrimenti presto Calus le avrebbe ricacciate in mare e arrossato le acque col loro sangue.

L’Imperatrix guardò sopra di sé udendo il fischio. Un caccia nemico.
Un Ferox che scendeva verso di loro. Nessun modo di fermarlo, nessun modo di evitarlo.
-Al riparo!-, urlò. Ma non c’era riparo. Né per lei né per nessuno.
Improvvisamente qualcuno le strinse il polso. Applicò una torsione che portò Aristarda a girare di 360° gradi, catapultandola poi a terra, avvinghiata a lei un altro corpo, che la stringeva con forza. Le urla dei suoi uomini furono terribili, le esplosioni che seguirono furono devastanti. Vento rovente la lambì. Un manto si stese su di lei, proteggendola.
“Dea Madre!”, pensò, “Sono viva!”. Alle narici le arrivò il puzzo di carne bruciata e altri odori che non riuscì a classificare. Aprì gli occhi. Era distesa a terra. Il corpo le trasmetteva una marea di segnali di dolore, una confusione onnipervasiva la avvolgeva. Cercò il Tantō. Non lo trovò. Cercò l’arma a energia. Non la trovò. Alzarsi, doveva alzarsi! Qualcuno la tenne a terra. Si divincolò, cercando di alzarsi. Inutile: era inchiodata lì.
Ringhiò qualcosa di indecifrabile, un verso di ferocia.
-Stà giù!-, ringhiò un’altra voce di donna. Fu allora che lo sguardo di Aristarda la inquadrò a dovere. La guerriera. La nera che l’aveva salvata lo aveva fatto di nuovo. Rimase giù.
Senza smettere di fissarla mentre l’altra si muoveva, guardandosi attorno.
C’era un dettaglio su quel viso nero, quel feroce volto. Una bruciatura. Da laser.
-Due volte…-, pensò. Si accorse di aver parlato ad alta voce, -Sono due volte che mi salvi.-, disse. La guerriera le offrì una mano. Attorno, era un’ecatombe.
Aristarda afferrò la mano della donna. Si tirò in piedi. Lei le passò un’arma.
Un Tantō. Non quello di Socrax.
-E tu?-, chiese. La guerriera raccolse un gladio. Avanzarono insieme, con tutti coloro che ancora le seguivano. Ma la verità era che non c’era più molto da fare.
-Mia signora…-, un legionario avanzò verso di loro. Ce n’erano altri dietro. Un sacco.
-Rapporto.-, ordinò lei. Aveva la voce scossa. Si sentiva come sdoppiata.
-I traditori si sono ritirati verso l’interno. L’artiglieria e l’aviazione hanno fatto il resto. Il nemico è in fuga. Sta ripiegando verso l’entroterra.-, il viso del legionario era euforico.
-Abbiamo vinto, mia signora! Vinto!-. Aristarda annuì. Avevano vinto.
A un prezzo esorbitante. Ma avevano vinto, questa era la verità.

Mateus Shrike sorrise. Le trappole che aveva piazzato avevano inabilitato alcuni soldati. I lealisti in fuga avrebbero avuto ancor più difficoltà a riorganizzarsi.
La verità era che la battaglia era finita, e lo sapeva bene. Aristarda era sbarcata in Italica.
Ma la vera battaglia, quella finale, cominciava adesso.
Si alzò dalla posizione seduta. Aveva ancora una missione da compiere, ma non per l’Imperatrix. Per il suo Ordine. Osservò l’uomo che aveva ucciso. Portava i tatuaggi della Stirpe. Un guerriero, bravo ma non quanto lui. Ma comunque capace: in pochi avevano potuto ferirlo. Strinse la fasciatura alla spalla e incominciò la lenta marcia verso la sua nuova meta. Lontano, il rumore di artiglierie ed esplosioni segnalava che la guerra continuava. Lui non avrebbe preso parte a queste battaglie.
Ma ci sarebbe stato per la resa dei conti.

Le forze lealiste stavano ripiegando disordinatamente da più punti. In diversi avevano mietuto moltissime vittime. La Prima Hibericae era stata completamente decimata.
La Pirenaica era stata massacrata. Non erano morti tutti, ma quasi. La ritirata lealista aveva lasciato pochissimi superstiti a quella Legione.
La verità crudele era che quasi un quarto dell’intera fanteria devota all’Imperatrix era stato annientato, ma strategicamente si trattava di un prezzo ragionevole.
Perché per la prima volta, due pretendenti al Trono erano in Italica.
Un evento epocale in cui molti, a posteriori, avrebbero detto sicura la fine della guerra.
Eppure, in quel momento, Aristarda Nera riusciva solo a vederci un ennesimo carnaio.
Camminava tra i corpi dei nemici sconfitti e di amici caduti. Moltissimi erano irriconoscibili, resi anonimi resti dal furore e dalla devastazione.
E i superstiti… parevano appena usciti dall’Ade stesso, quasi che persino gli inferi li avessero rifiutati. Le insegne della Legione garrivano al vento mentre le nubi venivano spinte lontano. Avevano vinto. Avevano preso terra in Italica, ma ancora non era tempo di riposare. I lealisti ripiegavano sempre più. In meno di mezza giornata avevano stabilito una linea difensiva, ma le diserzioni e l’incertezza del comando li aveva spinti ad abbandonarla alla svelta. Quando Aristarda e Svetonio Palomio avanzarono con le loro forze trovarono le posizioni nemiche incapaci di resistere. Vinsero, sfondando il fronte e raggiungendo la città di Asclepia Maxima, a sole settecento miglia terrestri da Roma.
Calus ci mise poco a capire che il suo regno era in pericolo. Fece appello ai governatori di provincia, ma essi temporeggiarono. L’esercito imperiale si sfaldò, con numerosi Legati e Prefetti delle guarnigioni cittadine che dichiaravano apertamente la loro lealtà ad Aristarda Nera, figlia di Simone, Imperatrix per diritto di vittoria.
L’esercito di Aristarda, forte dei rinforzi e dei volontari, giunse in vista di Roma in una folgorante avanzata che vide le forze lealiste ripiegare rapidamente verso Mediolanum, Comus e altre città maggiori, dopo aver distrutto numerosissime fabbriche.
Calus, abbandonando il senato e tuonando al tradimento, diede alle fiamme l’isola di Capriae, residenza avita degli Imperator prima di lui. Fece giustiziare numerosi senatori, tra cui anche i suoi ex-alleati. Strinse patti vincolanti con i barbari d’oltreconfine affinché essi non lo abbandonassero e formassero il nerbo del suo raffazzonato esercito.
Si assicurò la fedeltà dei Sicarii e di numerosi altri alleati, attestandosi infine in una piana nelle vicinanze della città di Bedriacum.
Le forze di Aristarda avanzarono, spronate dall’entusiasmo di numerose città, e dalla resa di molti dei lealisti rimasti indietro. Ravenna cadde dopo una breve battaglia, quasi più simbolica che altro.
Dopo quattro giorni, Aristarda Nera, Imperatrix in esilio, piantò le insegne della sua legione dinnanzi alle porte di Roma.

Entrare a Roma fu innaturale per Aristarda. Si era immaginata quel momento, l’aveva fatto per molto, moltissimo tempo. Quante notti insonni passate a sognarlo? Quanti giorni a inseguirlo? Ricevette gli ambasciatori del Senato e del Prefetto Flavio Oreste Decumio.
-Ave Aristarda Nera.-, gli ambasciatori erano, con sua sorpresa, Vestali della Dea Madre.
-Ave, nobili Vestali.-, rispose lei. Era in piedi, nella tenda. Molta marcia e poco sonno. A piedi o su mezzi terrestri. Al suo fianco, la guerriera in nero.
Era la sua unica e ultima guardia. L’interezza della Guardia Victrix era stata massacrata nello sbarco di quattro giorni prima. Non l’avrebbe ricostruita. Non subito.
-Il Senato ti chiede di non entrare in armi in Roma, come decretano le leggi degli avi.-, disse la Vestale a capo della congrega.
-Il Senato non ha di che temere. Non sono né Septimo, né Calus. Non lorderò l’Impero. Non infrangerò i dettami degli avi.-, rispose lei, -A meno che in Roma non vi sia volontà di resistere, caso in cui sarò mio malgrado tenuta ad attaccare.-.
-Flavio Oreste ha già dichiarato la resa di Roma. Roma ti appartiene, o Imperat…-, Aristarda fece un cenno con la mano, fermando l’interlocutrice.
-Perdonami, o sacerdotessa. Ma non sono ancora Imperatrix. Il Senato non ha rettificato la mia nomina, né ha dichiarato illegittimo il regno di Calus. Stando così le cose, ti chiedo di non usare questo titolo. Sono ancora e solo Aristarda Nera, anche a dispetto del mio diritto di primogenitura e delle mie vittorie.-, disse.
La sacerdotessa sorrise. Lacrime di commozione brillavano negli occhi della vegliarda.
-Veramente, o Aristarda, tu sei degna del Trono. Esso non ha ammorbato il tuo animo.-, sussurrò chinando il capo. Assieme a lei le Vestali s’inchinarono prostrandosi.
-No, nobili emissarie.-, disse la donna. S’inchinò inginocchiandosi, -Sono io che mi genufletto a voi affinché possiate presto innalzare suppliche alla Dea Madre e agli Dei tutti e la loro luce non abbandoni queste terre.-, disse. Le emissarie la benedissero e uscirono.
-Sei arrivata a Roma.-, disse la guerriera in nero. La Justicar pareva poco impressionata dal dialogo. Aristarda annuì.
-Anche grazie a te. E di questo ti ringrazio. Anche se non so il tuo nome, so che è stata la tua mano a salvarmi. Più volte.-, disse. Lo sguardo dell’Imperatrix in esilio si posò sulla cicatrice della nera. La guerriera la guardò, un accenno di ringraziamento negli occhi.
-Hortensia.-, disse infine. Il nome prese di sorpresa Aristarda. –Come?-, chiese.
-Hortensia Buenariva.-, disse la guerriera, -Il mio nome.-.
-L’onore di conoscerti è tutto mio.-, disse Aristarda Nera.
-L’onore di entrare in Roma ti aspetta.-, rispose Hortensia.
E fu fatto: le forze di Aristarda entrarono in Roma secondo tradizione. La sorella di Septimo, da lungo tempo esule, infine si presentò al Senato in vesti cerimoniali bianche e senz’armi. Al suo fianco, la Justicar in nero destò meraviglia e dubbi in egual misura.
-Aristarda Nera, il Senato che io rappresento ti conferisce il titolo di Imperatrix in Roma.-, disse Publio Agriano Macario. La donna chinò il capo. Lacrime di gioia bagnavano il suo volto. Il popolo festante accolse la nomina come la fine della guerra. La Guardia di Calus aveva disertato il palazzo imperiale. Al suo posto erano subentrate le coorti di Oreste.
Petali di rosa caddero dal cielo, lanciati dai templi. I sacerdoti offrivano incenso e sacrifici.
Fu in un’atmosfera celebrativa e tutt’altro che guerriera che Aristarda fu condotta a palazzo. Durante il tragitto, tra squilli di buccine e urla di festa, le forze dell’Imperatrix venivano ristorate da cibo, vino e dal calore della folla. Non erano invasori, né conquistatori. Erano uomini e donne accolti dal popolo come liberatori da tempo attesi.
Megista, la sacerdotessa che aveva seguito Aristarda sin dall’esilio in Hiberia sorrise quando la sua signora giunse in vista del Palazzo Imperiale.
-Sei tornata, mia signora. Ora, il resto è in mano tua.-, disse. Dopodiché si sedette eretta, come i monaci Zen-Shura di un tempo, ed entrò nella quiete dell’eternità, lasciando il mondo senza un sospiro né un gemito. La sua morte fu pianta da Aristarda.
Al pari degli altri, Megista fu celebrata con funerali secondo la tradizione, ma per il giorno successivo e quello dopo, Aristarda non visitò il Palazzo Imperiale.
-Si aspettano che tu ci vada.-, disse Hortensia, decidendo infine di affrontare la questione.
L’Imperatrix annuì. Aveva consumato un pasto lieve, una cena frugale e piacevole. Sotto la tenda, fuori dalle mura. Insieme ai suoi uomini.
-Dovresti almeno dire loro perché, no?-, chiese Hortensia. Aristarda sospirò. Era difficile.
Lei stessa non sapeva cosa le era preso. Aveva sognato quel momento, l’aveva bramato con assurda ferocia, aveva immolato anni al ritorno e visto uomini e donne immolarsi a loro volta per lei. Eppure ora…
Ora non poteva più fuggire. Neanche da ciò che sentiva. Si volse verso Hortensia.
-Ne hai un’altra di quelle cappe?-, chiese. La Justicar inclinò la testa, incuriosita.

Scivolarono nella notte. Hortensia era sorpresa: Aristarda si muoveva con una strana fluidità, come se l’essere furtiva non le fosse nuovo. Aveva temuto di trovarla impacciata, ma l’Imperatrix pareva capace quanto lei nell’arte di muoversi silenziosamente.
Giunsero al Palazzo ed entrarono da una posterla. Un vecchio servo aprì riconoscendo l’Imperatrix che gli fece cenno di tacere. Giunsero indisturbate sino alla sala del Trono.
-Perché tutta questa mascherata?-, chiese Hortensia. La risposta di Aristarda fu uno sguardo, uno sguardo pesante, tagliente e pregno di emozioni grezze.
L’Imperatrix aprì la porta. Ecco la sala del Trono, in splendidi marmi. Ed ecco il trono, uno scranno in avorio e oro, alto e maestoso. Un’aquila stilizzata apriva le ali dietro di esso, come ad avvolgere colui che vi si sedeva e a serbarlo, innalzandolo alle glorie più alte.
-È solo una sedia.-, disse Hortensia. Attraversarono la sala. Triclino, tavolo, torce alle pareti accese completavano l’arredamento, -E questa è solo una sala.-, continuò la nera.
-Non capisci. L’Imperator, ogni Imperator, ha regnato quaggiù. Ma io…-, Aristarda crollò in ginocchio, le mani strette a pugno, spasmodicamente, -Io vedo solo il luogo in cui Septimo, mio fratello, ha dissacrato l’Impero. Vedo il Trono e lo sento bagnato del sangue di milioni di uomini. Lo tocco e posso sentire il sangue sulle mie mani…-.
E a quella frase, Aristarda Nera, Imperatrix, pianse. Fu un piano lento, un pianto così sentito e profondo come mai Hortensia ne aveva potuti udire.
Capì che l’Imperatrix non riusciva a perdonare sé stessa. Non riusciva ad abbandonare il passato. Perché? Poi intuì. Non riusciva a farlo perché una parte di lei desiderava ardentemente che le cose tornassero a quel tempo lieto in cui Socrax era vivo, in cui Septimo Nero non era divenuto un tiranno, in cui gli orrori che aveva veduto e contribuito a causare e vissuto non fossero ancora divenuti Storia.
I singhiozzi dell’Imperatrix erano l’unico suono. Finanche il crepitio delle torce ne veniva sovrastato. Hortensia si mosse. Non rapida, cauta, rispettosa. S’inginocchiò di fronte ad Aristarda Nera. Le prese le mani tra le proprie.
-Non possiamo cambiare ciò che è stato. Non possiamo riportare in vita i morti. Ma possiamo lottare per i vivi. Affinché nessun’altro abbia a soffrire.-, disse, -Ho sentito anche io il desiderio di veder morire il presente e riaffiorare il passato dal flusso del tempo. L’ho sentito quando, molti anni fa, guardai il nostro Tempio, la nostra rocca, ardere.-.
Aristarda la guardò, una domanda le bruciava in testa. Imperativa e assoluta.
-Cosa ti ha fatto continuare?-, chiese. Hortensia non esitò.
-La consapevolezza che abbattersi non aiuta. Il trauma è terribile, il rimpianto e la perdita sono belve feroci, giaguari tigrati con zanne lunghe come pugnali, ma non significa che siano imbattibili, Imperatrix. Ora tu sei qui, giunta qui perché hai lottato. Se non accetti il Trono, la tua vittoria sarà decurtata. Molti vedranno in esso un segno di debolezza.-, disse.
-Non ho la tua forza.-, sussurrò Aristarda. Hortensia scosse il capo.
-Questo è falso, Imperatrix. Hai combattuto. Hai ucciso. Hai sanguinato con tutti noi.-.
-Ho mandato a morire così tanti…-, altre lacrime giunsero a seguito di quelle parole.
-Sì. Ma ognuno di essi è andato a morire perché credeva in te. Proximo Lario credeva in te. Credeva nella tua forza.-, Hortensia la fissava, -Io credo in te, Imperatrix.-.
-Perché? Perché voi Justicarii credete in me? Perché non mi sono svenduta?-, chiese Aristarda mentre si asciugava gli occhi.
-No.-, rispose Hortensia. L’Imperatrix la fissò, con estrema curiosità ora.
-In te vedo me.-, disse la Justicar con semplicità. Aristarda rimase basita.
-Credimi. La mia vita non è stata facile. Mia madre. Mia nonna… Tutte donne forti. Io… No. Fino a un giorno in cui la forza che non credevo di avere si è palesata. Ho raggiunto il tempio dei Justicarii a un passo dalla morte e vi sono rinata.-, disse Hortense.
-E questa sarebbe la mia rinascita, giusto?-, chiese Aristarda Nera.
-Quella definitiva. O la caduta finale. Ben più silenziosa di qualunque sparo o lama.-, annuì la nera. Calò il silenzio tra le due. Erano lì. Sedute sui talloni, si guardavano, immobili, le mani dell’Imperatrix strette tra quelle della Justicar.
-Grazie…-, sussurrò Aristarda infine, -Per avermi salvata di nuovo.-.
-Forse ora, sarai tu a salvare me, Imperatrix.-, disse Hortensia. La mano della Justicar sfiorò il viso dell’altra, accendendo un fuoco nel suo petto. Aristarda ripensò a Proximo, a Ilthea. Tutti loro ora dormivano il grande sonno, accolti da Yneas nel cielo dei meritevoli.
Lei era viva. E viva intendeva restare. Hortensia non aveva smesso di fissarla.
-Le donne non ti disgustano, vero Imperatrix?-, chiese la nera.
-Tutt’altro. Il loro modo di dare piacere è superbo. L’uomo ha un modo tutto suo di farlo, ma non è… come noi.-, l’Imperatrix si accorse di avere le mani sudate. Il cuore palpitava.
Hortensia annullò la distanza baciandola. La baciò piano inizialmente, Aristarda rispose al bacio con trasporto. Ne avevano bisogno. E ne avevano bisogno in quel momento e lì, tra le mura di quel palazzo odiato, per esorcizzare troppi incubi da troppo tempo inquieti.
Quando si staccarono, entrambe ansimavano.
-Non subito.-, disse l’Imperatrix.
-Non subito.-, concordò la guerriera. Non subito, ma presto. Presto!

L’indomani Aristarda prese dimora nel Palazzo Imperiale.
Come primo atto, svuotò l’Harem, congedando le concubine dell’Imperator e offrendo loro di raggiungere mete a loro scelta. Donò loro oro a sufficienza da poter vivere serene.
Poi, giunse al Trono. E giunta che fu davanti ad esso, dinnanzi ai Senatori e ai Consoli massimi, si sedette. Non sul Trono.
La notte prima aveva recuperato un semplice panchetto da meditazione.
Lo mise accanto al Trono e vi si sedette. In ginocchio sui talloni, sedeva. Seiza, l’antica postura di meditazione dei monaci Zen-Shura. Squadrò gli altri occupanti della sala.
Vi fu silenzio. Infine, scoppiarono le ovazioni.
Aristarda Nera, Imperatrix in Roma, ora regnava davvero, da un trono di sua scelta. Slegata dal vincolo di un passato che non l’avrebbe mai più fermata dal fare ciò che era giusto.

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