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Racconti Erotici Etero

La Caduta. oltre il confine (2)

By 14 Febbraio 2021Febbraio 16th, 2021No Comments

Passarono altri due giorni. Durante il secondo parlai con Ferius e Fatma.
Fez era guidata da una giunta di saggi, un consiglio di anziani non troppo diverso dal Senato di Roma. La difesa della città era in mano alle milizie, con ogni famiglia influente che assoldava mercenari e shufta (banditi del deserto) per difendersi dalle incursioni di banditi e dalle imboscate alle carovane mercantili che solcavano di deserto per raggiungere i porti di Dar El Saalam e Awalla, da cui salpavano verso lidi stranieri. Molti, moltissimi, non facevano ritorno, ma coloro che riuscivano a tornare in patria vi portavano ricchezze e oggetti esotici oltre ogni immaginazione.
Inoltre, Fez era l’unica città sicura nel raggio di diversi chilometri. Villaggi indipendenti, piccoli insediamenti privi di difensori e persino mercanti stranieri si affidavano ai mercenari di Fez per la propria difesa. Da parte mia posso dire che nessun Imperator ha mai ritenuto questa zona appetibile per la conquista. Non c’era nulla d’interesse in queste terre, almeno fino ad ora.
Io avevo con me la lama della Fondatrice, una reliquia della nascita dei Romanei.
Un’arma che di fatto sanciva il diritto di chiunque la possedesse a salire sul Trono.
Peccato che, come Socrax mi aveva reso ben chiaro prima di lasciare l’Impero, nessuno dei pretendenti ne fosse degno.
Il terzo giorno mi permisi di alzarmi in piedi, lavarmi e vestirmi. Mi furono dati abiti come i loro. Pesanti e avvolgenti. Rendevano curiosamente il caldo del deserto più tollerabile.
Fatma e Ferius furono pazienti, molto, nello spiegarmi le loro usanze e il modo di indossare quegli abiti che loro chiamavano Djallaeba, o qualcosa di simile.
Uscii con Ferius a fare una passeggiata lungo il quartiere. Fez era diversa da qualunque città io avessi mai veduto. L’architettura della mia gente era ben diversa: quella città era piena di tetti a cupola, torri e case, tutte con un tetto, o parte di esso, rigorosamente a cupola.
La gente mi osservava. A dispetto della veste e del turbante dovevano notare che non ero del posto. Ferius mi condusse a vedere alcune cose. Mi spiegò la loro religione, il loro credere in un unico e solo dio che aveva inviato molti profeti presso i popoli prima del Cataclisma, e anche dopo.
Passammo accanto a una sorta di santuario, riccamente decorato. Notai le calzature lasciate all’esterno. Ferius spiegò che la casa del loro dio era territorio consacrato, in cui vigevano umiltà e purezza. I fedeli pregavano ogni giorno più volte, chini, in atteggiamento supplice.
Lo trovavo interessante, ma domandai a Ferius se tutti fossero solo di quella fede. Lui scosse il capo. Disse che altri veneravano un dio simile, lontano, in alcuni villaggi e isole vicine. Un dio che si diceva avesse mandato il suo figlio a morire per i peccati degli uomini.
La cosa mi fece storcere il naso, ma evitai di commentare. Ferius precisò che c’erano stati conflitti tra le due fedi, ma alla fine si era stabilita una tregua. Gli estremisti dall’una e dall’altra parte erano visti come dannosi. Inoltre, altri conflitti avrebbero solo impoverito ambo le fazoni in lotta.
Ferius spiegò che la sua fede e quella del suo popolo si erano propagate per migliaia di miglia in ogni direzione. Così era stato anche per i fedeli dell’altro dio.
Ma stranamente, mai tali dottrine avevano attecchito presso noi Romanei.

Mangiammo poco a pranzo, ma la sera Fatma e la moglie di Ferius cucinarono una sorta di verdura con dei semi. Lo chiamavano cuscuz. Durante il pasto, Ferius mi chiese cosa intendevo fare. Alla domanda non trovai risposta: volendo avrei potuto fermarmi lì, vivere con loro.
Ma sapevo che non sarebbe stato possibile, sarei sempre stato straniero tra quella gente, e in più avevo con me il pugnale. Quelle due cose mi avrebbero sempre reso esule. Lì come altrove.
E fortunatamente Sagira, la moglie di Ferius, spostò la conversazione su altro.
Ma la domanda rimaneva. Dopo cena, Fatma mi raggiunse in camera.
-Potresti restare…-, disse. Il suo accento rendeva la lingua di Licanes bizzarra.
-Parli bene.-, dissi io con un sorriso. Lei si limitò a un cenno del capo. I capelli coperti dal velo parevano renderla solo più bella, ed io non riuscivo a spiccicare una parola.
Avevo visto belle donne, ma, a dispetto di poche storie poco serie, mai una storia vera.
-Ma puoi restare.-, riprese Fatma con un’espressione felice. Sospirai.
-Non é così semplice.-, dissi. Lei sorrise.
-Ma lo é! Devi solo…-, cercò la parola, -Adattare.-. Io sorrisi, ma sapevo che c’era tristezza in quella mia smorfia che spacciavo per sorriso.
-Adattarmi non sarebbe un problema… ma non é solo quello.-, dissi.
-E cosa?-, chiese Fatma, gli occhi che parevano volermi scrutare nell’anima. Io scossi il capo.
-Non posso dirtelo, Fatma. Perdonami ma se te lo dicessi, ti metterei in pericolo.-, riuscii a decidermi a risponderle, -Ho qualcosa con me… che non é bene che resti qui.-.
-Malato? Sei malato?-, mi toccò la testa, -Non sei caldo. Normale…-, mormorò, confusa. Io sorrisi, le presi la mano, gentilmente.
Il contatto con la sua mano aveva risvegliato ricordi, passioni sopite, desideri di tempo fa, mai appagati e mai dimenticati.
Lei non sfilò quella mano leggiadra e delicata dalla mia, ma mi guardò, in attesa di risposta.
-Non sei malato. Cos’é?-, chiese.
-Una cosa. Un… oggetto. Che non posso abbandonare.-le dissi.
-Quando andrai?-, chiese lei. Ora pareva dispiaciuta della mia partenza. Io le sorrisi. Accarezzai la mano tra le sue. Lei sorrise.
-Non so ancora. Ne dovrò parlare con tuo fratello.-, risposi.
Lei sorrise. Incominciammo a parlare di altro. Le parlai dell’Impero, della sua storia, e delle sue ahimé quasi scomparse virtù. Fu lei a chiedere, a inquisire, domandando sempre più.
Passammo ore a parlare e in quel tempo non potei fare a meno di chiedermi come fosse la situazione nell’Impero. La guerra intestina che lo stava logorando ormai da mesi era forse finita?
O era solo agli inizi? L’anarchia militare era già costata cara all’Impero. Fugacemente mi chiesi se avessi fatto bene ad andarmene.
Se invece, consegnare il pungale ad Aristarda Nera non serebbe stato meglio. Almeno la gente dell’Impero avrebbe smesso di soffrire.
In fondo, era così sbagliato desiderare la fine di quell’orribile conflitto? Non era forse dovere di ogni uomo mettersi al servizio di altri? Non era forse il mio dovere?
Ma Socrax, lui aveva dato la vita per me. E per lui, io non avrei fatto una simile scelta in modo avventato.
Fatma mi sorrise. Finimmo di conversare e, dando chiari segni di stanchezza, la giovane si ritirò.
Rimasi disteso sui guanciali, respirando piano.
Fatma era bella, e, a giudicare da quel che potevo capire, non le ero proprio indifferente. Com’era la legge in ambito di relazioni, presso le genti di Fez? Mi fermai a pensarci.
Forse, Fatma avrebbe potuto scegliere anche di venire con me?
No. Esclusi subito tale possibilità. Non mi avrebbe mai seguito. 
Era affezionata a Fez e alla sua quotidianità. Si sarebbe sentita sradicata, e soprattutto, l’avrei esposta a ogni genere di traversie e difficoltà, l’avrei letteralmente messa in pericolo, e tutto per la mia stupida brama. Dei…
Mi alzai, arrivando al mio zaino. Vi rovistai, controllai le provviste, trovai il coltello. Eccolo lì. L’arma che fu di Layla, ultima condottiera dei Cimanei, Fondatrice di Roma con Janus, prima Imperatrix con suo marito. Una donna guerriera, un mito, una figura più mitica che storica eppure, indubbiamente esistitia. L’arma lo provava.
Il coltello pareva quasi nuovo, solo alcuni solchi ne intaccavano il filo, ma per il resto era ben tenuto e privo di ruggine o segni dovuti all’incuria e al tempo. Solo pochi graffi e solchi mostravano quanto quell’arma fosse stata usata, tutto il sangue da essa sparso.
Lo riposi nella guina e lo nascosi. Lo odiavo.
Perché a causa di quell’arma maledetta non ero e non sarei mai stato davvero libero. Lo odiavo ma lo veneravo, come la reliquia che era.
Un simbolo. Un simbolo del nostro passato, del retaggio di cui forse, non eravamo più degni.

Durante la notte sentii Ferius e una donna gemere. Il sonno che ebbi fu leggero, mentre li sentivo amoreggiare. Mi concentrai su altro.
Inutile seguire il richiamo del desiderio.
Dovevo pensare seriamente a dove andare. E dovevo farlo in fretta. Sicuramente la Stirpe, o anche altri, avrebbero presto o tardi ricostruito il mio tragitto sino a Fez.
Ogni istante che trascorrevo là, aumentava la possibilità che la città fosse attaccata. E che morissero innocenti. A causa mia.

L’indomani parlammo. Ferius disse che c’erano svariate rotte lungo il deserto. I porti non mancavano, ma la domanda era dove volessi andare. A quell’interrogativo non avevo risposta.
Ferius fu paziente: mi illustrò le varie possibilità, mi disse che aveva dei parenti alla lontana in un villaggio che si chiamava Kinshasa.
Mi disse che poteva mandarmi là, in attesa di decidere. Più lontano ancora dall’Impero e dal rischio di essere trovati.
Anche se mi domandai se effettivamente una simile prudenza fosse dovuta, alla fine riconobbi che lo era: Fez era ancora vicina all’Impero di Roma, non ci sarebbe voluto un genio per capire che mi ero recato là. Dunque, dovevo mettere ancora più distanza tra me e i miei inseguitori. Approfittai del pranzo, che consumammo in una locanda mentre Ferius parlava con alcuni soci in affari di cui non mi disse nulla per poter parlare di un’altra questione.
-Ferius… Qui é permesso che una donna… frequenti un uomo?-, chiesi. Ferius mi sorrise, decisamente lieto dell’argomento.
-Solo se i parenti sono d’accordo. Siccome io sono il più anziano maschio della mia famiglia in vita e Fatma é sotto la mia responsabilità, sta a me decidere se un… pretendente, va bene per lei.-, spiegò. Io annuii. Lui mi squadrò, inquisitore.
-Fatma ti piace.-, disse. Non era una domanda, ma annuii.
-Lei é giovane. E ingenua. Ti vede e vede un uomo diverso da tutti quelli di Fez. Un tempo la mia gente era diversa. Ingiusta verso le donne. Poi, dopo il Cataclisma, qualcosa si é mosso. Amina Kalhed ha guidato la mia gente sino a Fez. Lei ci ha fatto diventare quel che siamo oggi, che Dio la ricompensi sempre per il suo agire retto!-, s’interruppe per bere del thé di erbe dal sapore di menta, -Ma Fatma, lei é giovane. Vede donne della sua età già sposate. E pensa che é male. Lei é stupida. Vuole avventure, vuole vedere il mondo. E non capisce i pericoli del mondo. Sono stato schiavo per mesi prima che Socrax mi liberasse.-, disse Ferius. Scoprì l’avambraccio. C’era un tatuaggio. A fatica, tra lettere sbiadite e invecchiate, riuscii a leggere quel che pareva un nome. Era usanza comune tatuare gli schiavi.
Non tutti potevano permetterseli, solo i ricchi, un simbolo di ceto abbiente. Ferius sospirò.
-Socrax mi ha graziato. Mi ha aiutato. Mi ha fatto tornare tra la mia gente.-, disse, -Ora… tu parli di Fatma, ma capisci, se lei non si sposa, qualcuno parlerà male. Lei verrà vista come una donna… non dignitosa. È… disdicevole.-.
-Fatma vorrebbe andarsene… potrebbe venire con me.-, dissi io.
Mi uscì di getto. Una frase non ragionata. E Ferius reagì, rapido.
Mi afferrò per il bavero, avvicinando il mio viso al suo, furente.
-Non lo dire! Non osare! Pensi che non so? Socrax mi ha detto. Non so tutto, ma capisco abbastanza. Tu sei pericoloso per lei, e anche per noi. Ma é mio dovere per la parola data e per la legge della mia gente aiutarti e lo farò, ma tieni Fatma fuori da questa storia, capito? Non osare, non osare mai più pensare a lei!-, mi lasciò andare. Io alzai le mani in un gesto universale di sottomissione.
-Va bene… va bene. Scusa. Non volevo…-, dissi.
-Fatma é… tutto quello che mi resta. Mia moglie, i miei figli, la mia famiglia, é tutto ciò che ho. E le ricchezze non ti restituiscono gli affetti. I genitori morti, i figli morti, non tornano più. Andati.-, disse Ferius, cupo. Io annuì. Lui sorrise o almeno ci provò.
Disse qualcosa all’oste, che portò una sorta di strano vaso con tubi e pipe collegate. Ci immise dell’acqua, accese un fuoco sotto o dentro di esso e notai del vapore iniziare a salire.
-Questo é Narghilé. Nella tua lingua lo chiamereste Fumorum Aspirator. Tieni.-, mi disse porgenodmi una delle pipe.
L’oste accese il fuoco. Ferius mi disse di aspettare e poi di portare alla bocca la pipa e inspirare. Un sapore fresco e piacevole mi riempì la bocca, aveva un retrogusto asprognolo.
Non abituato, tossii. Ferius, apparentemente a suo agio, sorrise.
-Prima volta, eh? La tua gente non sa godersi la vita. Narghilé rende tutto più semplice. È un modo di far la pace. Usanza antichissima, sai?-, chiese. Pareva già più sciolto, lo scoppio d’ira di prima dimenticato, almeno apparentemente. Io annuii.
-So che la vostra gente ha quest’usanza da molto prima del Cataclisma.-, dissi. Ferius sorrise e annuì, gli occhi socchiusi in un’altra boccata. Passammo così un’ora buona, poi ci alzammo, Ferius pagò e tornammo verso casa.

La cena trascorse piacevole, ma ormai mi pareva chiaro che anche Ferius pretendesse una decisione da parte mia. Infine gli dissi che mi sarei diretto verso il porto di Nuakchott, molto distante da lì.
Ferius annuì. Disse che avrebbe organizzato il viaggio con i suoi. Salii verso la mia stanza. Lo sentii discutere animataente con qualcuno. Riconobbi la voce di Fatma. Sospirai. A dispetto dei miei sforzi, la giovane non intedeva rassegnarsi agli eventi.
Se non altro, Ferius non poteva biasimarmi.
Mi assopii. Mi svegliai un indefinito tempo dopo.Sentì la porta aprirsi. Fatma comparve sull’uscio. Si sedette accanto a me.
-Domani vengo con te.-, disse. Decisa. Io la guardai. Scossi il capo.
-Tuo fratello…-, iniziai. Lei si avvicinò. Era vicinissima. Sentii il cuore battere forte, fortissimo. Il sangue scorreva più rapido.
-Lui non capisce.-, sussurrò lei. Si avvicinò ancora e mi baciò.
Fu un bacio soave, leggiadro, come il battito d’ali di una farfalla.
-Io…-, iniziai. Lei mise un dito sulle mie labbra.
-Non parlare.-, disse. Mi baciò di nuovo. Né io né lei eravamo abilissimi in tal senso. Lei mi abbracciò.
Poi la porta si spalancò. Ferius irruppe.
La sua espressione fu sorpresa, furente, poi si disgregò in una serie di emozioni talmente rapida da impedire ogni possibile reazione. Feci per parlare, ma mi precedette e, con mia sorpresa, non parlò di ciò che stavamo facendo. 
-Preparatevi. Dovete andare.-, disse con tono secco e urgente..
-Dove?-, chiesi, confuso.
-Via. I Romanei… Sono arrivati. l’Amir di Fez, Kadhir Bey Al-Bakhir, che Dio lo protegga!, sta trattando per evitare un conflitto, ma la posizione degli stranieri é chiara: vogliono te. Kadhir sa che l’ospitalità é sacra ma i mercanti e i traffichini fanno i conti. Ti cercheranno e ti cattureranno, per venderti agli invasori.-.
-Ma se non mi consegni…-, iniziai io.
-I Romanei hanno messo le cose in chiaro. Se non ti consegneremo entro quattro ore, ci attaccheranno.-. dichiarò Ferius.
-La legge dell’ospitalità é sacra!-, esclamò Fatma, ancora abbracciata a me ma evidentemente sconvolta, -Non possono…-. Ferius la guardò.
-Sai anche tu che abbiamo fatto guerre e sofferto per proteggere ospiti, sorella.-, disse in lingua licanea a mio beneficio, -Ma Fez é una città di mercanti, non di guerrieri. Non tutti obbediranno. Kadhir dovrà scegliere. E non é detto che sceglierà le antiche leggi. Penserà al bene del suo popolo, non di uno straniero che non prega il nostro Dio.-. Disse altro. Una sequela di parole nella lingua locale cui Fatma rispose con una replica irata. L’ira di Fatma impallidì dinnanzi a quella di Ferius, che si stemperò. Rapidamente, lasciò il posto a un dialogo di ben altro tipo. Rapido, sollecito, rassegnato.
-Kadhir può sempre mentire. Dire che sono fuggito.-, dissi.
-Non gli crederanno. Hanno richiesto di perquisire la città. In cambio dicono che pagano e pagano molto. Si parla di un’alleanza con Roma, La Loya Jirga é riunita, ma i mercanti fanno la voce grossa.-, rispose Ferius. Ci alzammo. Presi lo zaino. Ferius annuì. Mi diede altro cibo e acqua. E diede uno zaino a Fatma, il viso triste.
-Voi dovete andare. Scendete verso la Via delle Spezie e arrivate alla porta orientale. Mahmud vi aspetta lì con un mezzo. Lui vi porta sino a Nuakchott.-, ordinò.
-E la città… che ne sarà?-, chiese Fatma.
-Niente Varus, niente problema. Ci lasceranno in pace.-, disse Ferius.
-Ma potrebbero anche attaccarvi, anche solo per far capire il messaggio…-, mormorai io. Ero sull’orlo della disperazione. Quella gente mi aveva ospitato, mi aveva salvato, e ora, a causa mia, avrebbe perso tutto. Era ignobile. Ingiusto oltre ogni dire. 
-Loro non sanno. Se attaccano Fez, i popoli del deserto insorgeranno. Roma conoscerà la furia dei figli del deserto.-, replicò Ferius.
Io sospirai. Era così? La mia fuga avrebbe scatenato una guerra?
Pensai di consegnarmi. Di evitare la carneficina. Ferius capì.
-Ascolta. Socrax ha dato la vita perché tu potessi vivere libero. Non disonorare il suo sacrificio. E non disonorare il mio.-, disse. Rivolse un sorriso a Fatma, -Se davvero la ami, portala via. Se attaccano, lei e altre diverranno schiave. Puttane di Roma. Portala con te, lontano. Vivete una lunga vita e siate felici. Via, al riparo. Andate, e che Dio vi accompagni.-. Gli strinsi la mano, alla maniera della mia gente.
-Che accompagni anche te, Ferius di Fez. Possa tu trovare pace.-, dissi, pregando senza parole gli Dei per avere clemenza di quell’uomo, della sua gente e dell’umanità. Fatma abbracciò il fratello. Poi, lentamente, ci mettemmo in viaggio.
Dovevamo sparire da lì e alla svelta.
Raggiungemmo la porta orientale e trovammo un uomo barbuto con un mezzo quadrigommato, adatto al deserto. L’uomo ci fece cenno di salire e, una volta saliti, rapido, partì.

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