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Racconti Erotici Etero

La gratitudine e la voglia pazza

By 16 Dicembre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

 

 

Roby stava impazzendo. Tentò di raggiungere con una mano la clitoride per riuscire ad arrivare comunque al climax, ma io glielo impedii. Interruppi per un attimo la leccata per infilarle l’indice dentro, il più in fondo possibile. Presi ad esplorare la vagina, dalla parte anteriore, ben sapendo che avrei trovato prima o poi, come tante altre volte mi era accaduto, l’interruttore, quel “Punto G” capace di scatenare nel suo corpo il più sconvolgente degli orgasmi. Intanto continuavo a leccare la clitoride, eretta e congestionata come un piccolo, sensibilissimo cazzo, mentre le mie dita, le mie unghie, torturavano senza pietà le punte durissime dei capezzoli. D’un tratto, accadde ciò che avevo sperato: il corpo di Roberta si inarcò, la sua testa si spinse all’indietro, gli occhi serrati, la bocca aperta in un urlo continuo, le mani artigliarono il materasso. La mia piccola Dea venne sino a perdere il respiro, sino a perdere del tutto il contatto con la realtà. A quel punto – inginocchiato come ero davanti a lei, il mio pene si trovava esattamente all’altezza giusta – sprofondai dentro il suo corpo. Era messa in modo tale da permettermi di arrivare sino in fondo al tunnel di carne viva ed incredibilmente morbida, sino a colpire, di continuo, il collo dell’utero. Roberta non si tirava indietro. Ogni volta che pensavo di essere arrivato al massimo dell’invasione, quando proprio credevo che mi avrebbe respinto per il dolore che indubbiamente le procuravo con quelle mie spinte durissime, sentivo tutto il suo corpo spingersi verso di me mentre nel suo grido si mischiavano piacere e dolore in ugual misura.

 

*   *   *

 

L’avevo incontrata, per motivi di lavoro, in un luogo che meno erotizzante non si potrebbe: uno stabilimento, di quelli nei quali la frutta e la verdura vengono condizionati prima di essere messi sul mercato. Naturalmente, c’erano alcune celle frigo piuttosto grandi. E lei, Roberta, scoprii, era un Tecnico del freddo. Era una splendida ragazza, non alta, ma davvero affascinante: non altissima, ma con un seno che si ergeva orgoglioso, senza bisogno di reggitette, come potei accertare col semplice, vecchio espediente di passarle una mano sulla schiena per accompagnare il suo transitare attraverso una porta. Falso come un mercante arabo del Suk di Tunisi, o come un Ebreo appoggiato al Muro del pianto. Ma, davvero, non ero riuscito a controllare il desiderio di toccare quel corpo in qualche modo; un desiderio che si era fatto sempre più spasmodico col passare del tempo.

 

Poi, grande delusione, avevo scoperto, mentre prendevamo un caffè insieme, che Roberta era fidanzatissima. Era  ovvio che mi fossi ritrovato con le palle in terra. Ed ancora di più, da gentiluomo quale mi sono sempre sforzato di essere, che avessi evitato di fare la benché minima avance. Dissi a me stesso che, tutto sommato non me ne poteva fregare di meno, ben sapendo che mi stavo raccontando una delle bugie più grandi della mia vita di mentitore incallito.

 

Tornai in quello Stabilimento, sempre per lavoro, altre quattro o cinque volte. Familiarizzammo sempre di più. Ridevamo e scherzavamo, ormai diventati buoni amici. Poi, un giorno, appena arrivato, mi accorsi subito di una tristezza che non le avevo visto in volto la prima volta.. Scambiai quattro parole ed un paio di battute senza riuscire a strapparle l’ombra di un sorriso. Allora le chiesi – ma con pochissime speranze – se le sarebbe andato di venire a pranzo con me. Esitò un po’, ma poi mi disse di si. Non fu facile, ma in Ristorante si scaldò, e dopo un po’ si decise a vuotare il sacco: il ragazzo l’aveva piantata quando aveva saputo che lei era incinta. Pianse quanto era possibile piangere. E mi disse che per quanto questo l’addolorasse senza limiti, non le sarebbe stato possibile tenere il bambino. Era sperduta, non sapeva dove sbattersi la testa, anche perché sapeva che un aborto clandestino (a quel tempo era ancora vietato abortire) sarebbe costato una cifra, certo impossibile, per lei, da sostenere. E poi aveva paura delle mani nelle quali sarebbe potuta finire. L’aiutai, rivolgendomi ad un amico potente e fidato. Andò tutto bene, per quanto posa andar bene, comunque, un aborto. Tre mesi dopo, finimmo a letto insieme.

 

*   *   *

 

Arrivai in cima al monte più alto del mondo e poi ricaddi vicino a lei, su quell’enorme letto. Roberta era inerte, svuotata, mentre il suo ventre continuava a contrarsi, del tutto fuori controllo. Era bellissima, soddisfatta dopo il piacere devastante al quale aveva attinto. I suoi capelli erano sparsi attorno a quello splendido visino d’angelo ribelle. Mi resi conto che, in qualche modo, avevo sciolto, al culmine del desiderio, il nodo che li teneva riuniti. La carezzai dolcemente per qual che minuto. Poi la voglia tornò. Il mio cazzo divenne nuovamente rigido, mentre le leccavo teneramente gli angoli della bocca, sinchè il bisogno impellente mi costrinse a riempirla di nuovo con la mia lingua e le mie mani solleticavano dolcemente i vertici dei suoi seni. Il corpo di Roberta reagì senza alcun indugio. E tutto ricominciò. Quella notte benedetta vide quattro miei orgasmi (non riuscivo a capire da dove mi arrivasse quella forza, certamente nuova) ed un numero incredibile di suoi.

 

Continuammo a vederci ogni paio di giorni, mentre gli intervalli diventavano sempre più insopportabili: anziché sedarmi, sedarci, la frequenza delle nostre scopate sembravano aumentare senza limiti il nostro desiderio. E con esso aumentava anche la ricerca e la sperimentazione. A volte proponevo io, qualcosa in più ma, forse paradossalmente, accadeva sempre più spesso che fosse lei, Roberta, a cercare strade nuove. Ero felice, quando, di solito con gli occhi chiusi, quasi vergognandosi, quel misto di crema e panna montata mi chiedeva di provare ad accarezzare, baciare, leccare in punti che, incredibilmente, scoprivo ancora inesplorati. La assecondavo, ogni volta, con ogni migliore buona volontà. Esitavo dal prendere l’iniziativa, nel timore di far qualcosa di sbagliato, qualcosa che toccasse qualche suo nervo scoperto, e che le procurasse rifiuto e rigetto nei miei confronti: non avrei sopportato di porre a rischio quell’incontro tra corpi e sentimenti tanto delicato e prezioso. Tanto profumato.

 

Con vaghe allusioni la mia piccola, dolce compagna mi aveva sostanzialmente chiesto il motivo per cui non avessi ancora utilizzato tutto il suo corpo. Siccome era più il tempo, nell’ultimo anno, che avevo trascorso dentro la sua vagina di quanto non avessi mai fatto prima con nessun’altra donna; siccome il tempo residuo l’avevo trascorso dentro la sua bocca; siccome, quindi l’avessi assaporata per bene e con inusuale abbondanza, le ipotesi a disposizione per capire cosa mi chiedeva non è che fossero molte: anzi, per l’esattezza ne era rimasta una sola.

 

E tuttavia, non ero del tutto sicuro, che lei mi stesse invitando davvero ad avventurarmi dentro il suo stupendo culetto. L’avevo assaggiato, questo si, mentre peregrinavo con la lingua tra l’ombelico e l’osso sacro, passando per la fighetta ed il perineo. Ero rimasto incantato dalle contrazioni di quel piccolo buco sempre serrato, che sentivo muoversi appena la punta della mia lingua ci passava sopra. Ma oltre questo non ero mai andato, salvo che in un paio di volte nelle quali “là dentro” si era irresistibilmente infilata la prima falange del mio indice sfuggita al mio controllo. In quel paio di occasioni, il respiro di Roberta si era fatto un po’ più pesante; ma io non avevo insistito più di tanto, per paura di farle male. Mentre scopavamo ci scambiavamo parole dolcissime ed audacissime. Avevo capito, ad esempio, quanto le piacesse essere insultata pesantemente durante la chiavata, e non le risparmiavo nemmeno una sola lettera di quelle botte di “puttana” e simili che la eccitavano sino allo spasimo. E tuttavia, chissà perché, non mi era mai bastato il coraggio per chiederle il permesso di sodomizzarla.

 

E dunque, lasciavo regolarmente cadere quelle apparenze di invito, tuttavia sempre più esplicite: volevo vedere sin dove avrebbe avuto il coraggio di spingersi da sola. Poi, un giorno che la vidi eccitata allo spasimo, mentre dentro di me la voglia stava dilagando incontenibile, quando la sentii dire per l’ennesima volta: “Ti prego, dammelo dietro…” le risposi, finalmente, “Si, stasera lo voglio!”. Lei si bloccò un attimo: l’aveva desiderato talmente tanto che ormai non sperava più di riuscire a provare quella nuova sensazione. Quando si rese conto che il momento era arrivato davvero, la sua agitazione divenne parossistica. Mi allontanò con una spinta sul petto. Poi la sua mano destra corse sulla figa e cominciò a masturbarsi freneticamente e con violenza, mentre il suo gemito diveniva sempre di più simile ad un urlo. Dalle labbra della vulva partì improvvisamente uno spruzzo che volò in aria per poi ricadere sui nostri due corpi.

 

A quel punto non potevo più aspettare: la girai sul fianco e le chiesi di retrarre le gambe sino a quando le ginocchia furono poggiate contro le sue dolcissime tette. Avevo il cazzo che mi doleva quasi intollerabilmente. Si era fatto durissimo e sembrava quasi che si fosse perfino allungato. Il percorso per arrivare all’attimo dell’inculata fu lungo. Prima lubrificai l’anello anale con la lingua, stimolando al massimo la salivazione. Mi fermavo per inserirle il liquido all’interno, usando il dito amico ben più del solito. Raccolsi senza difficoltà una parte del rosolio profumato che continuava a sgorgare dalla sua fighetta e glielo spalmai dietro. Cercai dentro un cassetto del comodino, sperando di trovare qualcosa simile alla vasellina, ma senza successo. Continuando a tastare alla cieca, però, la mia mano capitò infine su di una scatolina tonda. Riuscii in qualche modo a guardarla attraverso il velo che ormai mi copriva gli occhi e le meningi e lessi il nome di una nota pomata emolliente per la pelle. Ringraziai tutti gli dei esistenti nell’Infinito, in qualche modo aprii il coperchio, prelevai una generosa porzione di crema e gliela spalmai sul buchetto. Ancora una volta utilizzai come applicatore, anche all’interno, il mio dito indice che pianse dalla gioia e mi giurò fedeltà eterna.

 

Grossomodo, Roberta era pronta. Sapevo che all’inizio della penetrazione non le avrei fatto molto male: un pochino solamente – al solo pensarlo montava dentro di me una prepotente vena sadica… – che tuttavia mi avrebbe obbligato a tenerla ferma.  Quel che temevo era il momento in cui la mia cappella sarebbe arrivata al muscolo principale, quello che serve, tra l’altro, ad impedire gli ingressi che, per quanto graditi, il corpo fatica ad accettare. Pensai a come evitare il momento in cui si sarebbe prodotto il culmine del dolore; ma il mio cervello terribilmente malato, invece di bloccarmi, si eccitava sempre di più. Ed ormai il pene mi doleva in maniera lancinante. Incredibilmente sentii quasi una vocina provenire da dentro di me. Come se fosse quella di Sandokan, le mie orecchie sentirono Roberta pronunciare una battuta, scherzosa ma non troppo: “Mio tigrotto, non ti trattengo più!” Avvicinai la punta del mio cazzo al suo buchetto e cominciai a spingere. Piano piano entravo nel suo corpo, scoprendo progressivamente una parte di lei ancora sconosciuta. Come avevo previsto, all’inizio la bimba non si lamentò molto. Ad un certo punto però trovai l’ostacolo. Oramai ero infoiato come una bestia: senza pensare al dolore che le avrei procurato spinsi duro dentro il suo corpo. Roberta cominciò ad urlare, sempre più forte: “Basta” mi chiedeva, “bastaaaa, non ce la faccio più, mi fa troppo male…” In condizioni normali mi sarei anche fermato. Forse. Ma in quei momenti i miei freni inibitori erano andati in vacanza. E quindi continuai a spingere. E lei, ad urlare. Di dolore.

 

In mezzo alle ondate di piacere che mi sommergevano, mi accorsi che qualcosa mutava. Non udivo più le grida della mia compagna: ormai c’era solo un gemito continuo. E poi neppure quello: il rumore che sentivo era quello del respiro profondo ed affannato, tipico di chi soffre. Ma anche di chi gode. Mi accorsi che il respiro della mia ragazza aveva cambiato di significato. Ora Roberta non penava più. Od almeno, il dolore era diventato sopportabile. Ora il suo respiro affannoso rivelava un piacere sempre più grande, sempre più profondo. E progressivamente, il tono andò alzandosi sempre più, ed il gemito divenne un grido di piacere puro. Le natiche di Roby spingevano ora, furiosamente, contro il mio pube. E la sua voce mi implorava di spingere ancora e di più. Ad un certo punto, sentii la sua voce, prima debole, poi sempre più forte:

 

“Non è possibile!” diceva Roberta “Non può essere vero”, ansimava, torcendo le braccia perché le sue mani potessero stringermi i fianchi come per serrare ancora di più il mio corpo contro il suo. “Non si può venire così, col culo invece che con la figaaaaa….” urlò inarcandosi e torcendosi come un’anguilla impazzita. L’orgasmo proseguì per interminabili secondi, mentre facevo appello a tutta la mia forza di volontà per evitare di cedere anch’io al piacere folle che mi investiva come una valanga. Il mio cazzo percepiva ogni attimo dello strusciare dei muscoli anali sulla verga procurandomi delle sensazioni indescrivibili. Avevo perso del tutto il controllo. Volevo raggiungere apici sempre più elevati. Uscii da lei, la girai a pancia in su e le spalancai completamente le cosce. Ora sarebbe stato un piacere diverso ma sempre intensissimo, sino alla devastazione ed all’annullamento. Ero sopra il suo corpo, il pene durissimo, la sua figa aperta di fronte ai miei occhi, in evidente attesa. Abbassai un attimo lo sguardo per rimirare la stupenda porta che mi si apriva davanti, pronta ad accogliermi. Le grandi labbra erano piene, gonfie ed inturgidite. Sul loro culmine si ergeva, orgogliosa, denudata come la mia cappella, la sua clitoride, del tutto fuori dal cappuccio destinato a proteggerla. Le gambe completamente alzate, le cosce e le ginocchia strette al petto, facevano si che la vulva si fosse trasformata in una sorta di coppa ripiena di un liquido lattiginoso che colava poi sul perineo e, passando tra le natiche, terminava la sua cascata sul letto.

 

Seguii con lo sguardo quello spettacolo incredibilmente bello ed eccitante, ammesso che avessi bisogno di ulteriori stimoli. Vidi così che il suo piccolo ano si era dilatato tanto da consentire, ora, la più facile delle penetrazioni. Non potevo lasciarlo così, privo di attenzioni.

 

Appena vi sprofondai nuovamente, Roberta urlò di piacere: spingevo ed uscivo alternativamente, senza interrompermi un attimo. I suoi orgasmi si susseguivano ormai senza interruzione. Poi, d’improvviso, uscii dal suo culetto per tuffarmi nel mare di tenerezza e di dolcezza che era diventata la sua figa. Abbrancai i bellissimi seni alti e dritti con ambedue le mani, quasi come se dovessero salvarmi dall’affogare, tenendo stretti i capezzoli tra il pollice e l’indice. E mentre ormai il grido di Roberta era diventato unico e continuo, mi lasciai andare del tutto, trattenni il respiro e mi persi nel piacere che abitava nel suo corpo.

 

Passò non poco tempo, prima che ci riprendessimo. Girati di fianco, uno verso l’altra, continuammo a sorriderci, a scambiarci piccole carezze tenere, a coprirci reciprocamente di piccoli, dolci baci.

 

 

 

 

 

 

Piccolissimo riassunto: 

“Il corpo di Roberta reagì senza alcun indugio. E tutto ricominciò. Quella notte benedetta vide quattro miei orgasmi (non riuscivo a capire da dove mi arrivasse quella forza, certamente nuova) ed un numero incredibile di suoi.

 

Continuammo a vederci ogni paio di giorni, mentre gli intervalli diventavano sempre più insopportabili: anziché sedarmi, sedarci, la frequenza delle nostre scopate sembravano aumentare senza limiti il nostro desiderio.

Poi, un giorno…..” 

 

*   *   *

 

         La strada nella quale abitava Roberta assieme alla sorella Michela – diciotto anni da pochissimo, almeno così diceva lei – era ornata da due file di oleandri rossi, rosa, bianchi, allevati ad albero. In quel giorno di maggio, gli alberelli erano tutti pieni di fiori. Mi arrampicai lungo quelle innumerevoli rampe di scale sino a raggiungere quello che per me era diventato ‘il più alto dei Cieli’. Non mancava nulla, a quella casa, per esserlo: dalle sue finestre si vedevano solo la volta celeste ed i tetti degli altri palazzi; una volta passata la porta, ci si trovava in un posto confortevole, né troppo caldo, né troppo freddo; i rumori vi arrivavano ovattati, lontani; ci si mangiava sempre benissimo; e, soprattutto, era abitato dal mio angelo personale e da un altro angioletto molto, ma molto decorativo.

        

Roberta mi aveva chiesto, qualche ora prima, di arrivare il più presto possibile. Poi mi aveva dato anche un’ora precisa, le quattro e mezzo, ciò che non era nelle sue abitudini. Mi stupii per la stranezza, ma i suoi occhi intorbiditi mentre mi parlava, fecero sì che non mi ci soffermassi più di tanto. Per di più, approfittando del fatto che gli Uffici erano vuoti, mi si era strofinata addosso, i seni dritti e puntuti come due piccole montagne acuminate, ed il pube che tentava disperatamente di farsi sentire attraverso la stoffa ugualmente pesante dei suoi e dei miei jeans. E la sua bocca appiccicata alla mia, la sua lingua che si attorcigliava strettamente alla mia lingua, il suo respiro affrettato e profondissimo, non lasciavano spazio a molti dubbi sui motivi del suo invito un po’ anomalo. Ognuno di quei gradini mi faceva inturgidire un po’ di più l’uccello, che aspettava ansiosamente di essere nutrito con quel cibo squisito.

 

E così, erano proprio le quattro e mezza esatte, quando suonai al campanello di casa sua.

Dopo qualche secondo la porta si aprì e mi trovai di fronte al viso sorridente di Michela.

“Ciao, come stai?”, solita frase scema di esordio.

“Non c’è male, e tu?”, risposta perfettamente in stile.

“Roberta, dov’è?”

“Non è tornata ancora, ha telefonato e mi ha detto che saresti venuto ma che lei doveva tardare un po’ perché aveva un paio di commissioni da fare. Mi ha detto anche di tenerti compagnia sinchè arriva lei. Ti dispiace?”

 

No, non mi dispiaceva particolarmente, se non perché ero già entrato nello stato d’animo di chi sta per farsi una bella, lunga scopata con una ragazza tirosa come Roby. Ma tutto sommato si trattava di rimandare un poco il momento, non certo di perdere la speranza. E poi, quella bellezzina che avevo davanti era, anche lei, una gioia per gli occhi. Da quello che mi aveva raccontato Roby era intelligente e colta come la sorella, pur se con i limiti imposti dell’età.. Il tempo non avrebbe fatto fatica a passare.

 

Era inusuale, che Michela restasse a casa mentre essa veniva occupata da me e dalla sorella, manu cazzorum, se così si può parafrasare. Anche lei, si ritrovava ogni giorno con la giornata ben riempita da Giuliano, il suo ragazzo. Il quale, en passant, le riempiva anche alcuni altri, come dire, vuoti. Oggi, invece, a quanto sembrava, la ragazzina non aveva alcuna intenzione di abbandonare la postazione. E quindi, qualche domanda me la posi, per ciò che riguardava il momento in cui le operazioni di scopatura con Roberta sarebbero cominciate. Ma il livello d’indurimento del mio pene era ormai tanto avanzato da impedirmi di vedere al di là della sua punta:

“No, figurati se può dispiacermi, anzi! Ma tu non devi uscire? Non vorrei crearti dei problemi…”

“Ma cosa dici mai, Topogigio!”, mi disse sorridendo. “Lo sai, Pippo, che mi piace, far quattro chiacchiere con te. (mai successo, per quanto me ne ricordassi: al massimo qualche scambio di saluti; ma se lo diceva lei, Michela, chi ero io, per negare?) E poi questo pomeriggio non devo andare da nessuna parte. Ho da studiare per domani, e per giunta, Giuliano è fuori per lavoro. Quindi farò la brava donnina di casa per tutta la sera. Se ti fermi sino a tardi, preparo anche un cenino. Niente di speciale, una carbonara, un po’ di salsiccia secca e poi mi è avanzata qualche fettina di salmone affumicato. Ah, da paese ho portato anche una forma di pecorino, se ne vuoi.”

 

Certo, che ne volevo!Sapevo bene, che razza di cibo degli Dei fosse quel formaggio che un cugino delle ragazze, pastore, preparava direttamente in ovile, senza passare da Caseifici privati o sociali, certo non artigianali.

 

Mi rilassai quanto era possibile. La serata si prospettava bene: una bella, lunga, dolcissima scopata. Poi la cena e magari, dopo, anche un paio di supplementi, prima di tornare sulla terra. Sino a qualche tempo prima sarei rimasto imbarazzato, come effettivamente era successo, di fronte all’idea di far l’amore con Roberta mentre Michela studiava in una stanza, se non contigua, perlomeno vicina. Poi mi ero reso conto che non c’erano problemi perché la ragazzina poteva far di tutto, meno che scandalizzarsi.

 

Michela mi fece sedere su un divano, nel soggiorno, mentre lei si accucciava su una sedietta, di quelle piccole piccole che si usano nei paesi, d’inverno, disposte tutt’attorno al camino. Per l’esattezza, si mise di fronte a me, proprio di fronte, ad un paio di metri di distanza. Appena il suo culetto si posò sulla paglia della sedia, il mio cuore fece un piccolo sobbalzo. Michela aveva indosso una minigonna a scacchi, di disegno scozzese, completamente plissettata, che le arrivava dieci centimetri più giù del pube, completata da un top bianco semitrasparente. Sinchè eravamo stati in piedi, non avevo fatto caso a quei vestiti, simili a quelli che tante ragazzine portavano. Ora, una volta seduti esattamente di fronte – come mi pare di aver già detto – la gonnellina, favorita anche dalla piccolezza della sedia, non copriva più un granchè. E’ vero che Michela aveva le gambe serrate, non accavallate, ma tenere i muscoli sempre contratti le riusciva difficile: ogni tanto si rilassava e le gambe si aprivano, anche se di poco e per pochi attimi; in quei momenti la dimensione della gonna faceva sì che io potessi vedere le cosce della ragazzina e le mutandine che facevano un effetto ‘vedo-non vedo’ incredibilmente arrapante. Per giunta, la bimba non portava calze e tuttavia i suoi piedini erano ospiti di un paio di scarpe con tacchi altissimi, ciò che, anche da seduta, le sollevava le gambe offrendo una visione ancora più panoramica.

 

Sembrava che Michela non si rendesse conto di quanto fosse eccitante la visione che mi offriva. Aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia, e la scollatura del top si era abbassata, offrendomi il contorno alla pietanza di base. Non vedevo tutto il seno, ma una parte importante delle sue tette, questo si.

 

Cominciammo a chiacchierare. Lei mi raccontò di come andava a scuola, dei suoi rapporti con i genitori e di Giuliano, che le piaceva abbastanza, anche se non alla follia. Cercai di capire, senza dare troppo nell’occhio, quanto ci andasse a letto. Michela, però, mi rispose che dopo ciò che era accaduto alla sorella, in queste cose preferiva andarci molto piano. Un ragazzo l’aveva sverginata quando aveva quattordici anni, in linea con quello che accade sempre nei paesi, malgrado le leggende più o meno metropolitane sulla purezza, sull’infinita castità, sino al matrimonio, delle ragazzine di campagna. Per il resto, praticamente nulla. Si, un po’ di stropicciamenti con Giuliano, le mani un po’ dappertutto, baci di fuoco. Ma anche se a fatica, perché quel po’ di sesso approssimativo che aveva sperimentato sino a quel momento le era piaciuto un sacco, aveva evitato di arrivare troppo spesso ad un rapporto completo, soprattutto se lui dimenticava di passare in farmacia, prima di approdare al letto, nonostante che quel poveretto le avesse detto più volte quanto fosse grande il dolore alle palle che gli procuravano quelle session, piacevoli ma insoddisfacenti, malgrado le seghe ed i ditalini che ci scappavano. Capii, da alcuni piccoli accenni, che appena possibile il piccolo, candido giglio si masturbava, e non poco. Ma compresi anche che questa cosa non le sembrava affatto peccaminosa: era, né più, né meno, ciò che facevano tutte o quasi, le adolescenti della sua stessa età. Però mi era rimasto un piccolo dubbio, sul quale tuttavia non mi soffermai più di tanto. Avevo avuto la sensazione che fosse rimasto per aria qualcosa di ‘non-detto’. Non me la sentii, di scavare a fondo. Non erano fatti miei, pensai, dopotutto. Probabilmente c’era qualcosa di cui si vergognava, e non mi sembrava giusto violare la sua sensibilità oltre certi limiti. Complessivamente, un sacco di informazioni banali, salvo che per quelle riguardanti le sue attività sessuali che mi avevano provocato un ulteriore irrigidimento del pene. Poi cominciammo a parlare di un film abbastanza impegnativo che avevamo visto tutti e due, e la conversazione diventò molto interessante anche sotto altri profili. Michela dimostrava di essere acuta ed analitica, qualità delle quali non tutte le ragazze della sua età, pensai, erano in possesso. Mi coinvolse ad un punto tale che ad un certo punto la distanza che ci separava, anche se non particolarmente grande, mi diede una sensazione di disagio, anche perché mentre parlavo non riuscivo a distogliere lo sguardo da quelle cosce sensualissime che mi si paravano davanti.

 

“Perché resti seduta là? Non stai scomoda? Dai, vieni, siediti qui.” Un attimo, solo un attimo di esitazione, poi Michela si alzò e venne a porsi sul sofà, vicino a me, non appiccicata ma nemmeno troppo distante, considerato che il divano era di quelli a due posti. Mentre si sedeva, alzò la gonnellina per non sciuparla. Giusta precauzione, se non fosse stato per il lampo di tenera carne, scoperta sino al bordo delle mutandine, che mi aveva abbagliato per un attimo. E poi non avevo messo in conto il mio senso dell’odorato, molto, forse troppo, sensibile: scopersi che ambedue le sorelle usavano ‘Cialenga’, un profumo di Balenciaga che sapeva di magnolia e che aveva la capacità di evocare situazioni da sogno, soprattutto se unito, come in quel caso, ad un intenso odore-profumo di femmina.  ***

 

Non mi è facile, descrivere come mi sentivo in quei momenti. Il desiderio più forte era quello di sguinzagliare la Bestia, prendere Michela tra le braccia, strapparle i vestiti da dosso e scoparla senza limiti. Ma c’erano rémore fortissime. Era una ragazzina ed io un uomo di ventinove anni. Non ero nemmeno troppo sicuro dei suoi diciotto. Mi era sembrato che quando le avevo chiesto quale fosse la sua età avesse avuto un attimo di esitazione. Per di più, bene o male, aveva un fidanzato, ed anche due fratelli, ciò che rendeva plausibile ipotizzare, per me, possibili scenari futuri da eunuco, se avessi osato toccare troppo e, per così dire, troppo profondamente, l’adorata sorellina. E poi, naturalmente, c’era Roberta. Ed io tenevo troppo a lei, in quel momento, per correre il rischio di perdere quel corpicino setoso, ben fatto, pieno di dolcezze; quel viso, quelle labbra, quella lingua che sapeva carezzare ogni più segreto angolo del mio corpo con enorme abilità. Misi un braccio sullo schienale del divano, stando girato verso di lei e continuai a chiacchierare, facendo ogni possibile sforzo per evitare che la mia bocca risultasse troppo impastata per riuscire a spiccicare anche una sola parola. Distrattamente (distrattamente?!) poggiai una mano su quella coscia liscia e tenerissima, per poi toglierla un attimo dopo, come se mi fossi scottato. Lei mi guardò un attimo: avrei giurato che nei suoi occhi fosse comparsa una luce verde-semaforo che avevo già visto in altre donne un attimo prima che ‘me la dessero’ con notevole entusiasmo. La mia ferma volontà vacillò come una casa di carta giapponese scossa da un terremoto. E proprio in quel momento sentii una chiave girare nella toppa della serratura della porta d’ingresso e Roberta entrò, trafelata per via delle scale affrontate con diversi pacchetti in mano.

 

“Ciao, Ro” la salutai.

“Ciao, Pippò”, rispose sorridendo, resa ancora più bella dal rossore che aveva invaso il suo viso per la fatica, accendendo ancora di più gli splendidi occhi blugrigi. “Ti ha trattato bene, Michy?” scherzò dolcemente.

“Oh, si, abbiamo chiacchierato di un sacco di cose ed abbiamo parlato malissimo di te!”

“Si”, disse Michela, “gli ho raccontato quante volte mi lasci a pane ed acqua e soprattutto gli ho detto quanto mi fai male quando mi picchi con la frusta.” Scoppiarono a ridere tutte e due, guardandosi negli occhi con aria complice: due sorelle che giocavano tra loro, parlandosi in un gergo segreto che io non potevo conoscere.

 

Roberta posò i pacchi.

“Vado a farmi una doccia”, disse “aspettami ancora un momento.”

Quando si fu allontanata, Michela mi disse:

“Pippo, se non ti dispiace adesso vado a studiare, tanto Roby fa in fretta.” “E poi ti terrà compagnia lei”, continuò ridendo.

 

Rimasi solo per qualche minuto. Tra il ricordo dei durissimi momenti trascorsi con quella sexybambola seduta vicino, ed il pensiero di ciò che stava per accadere, il mio cazzo si era gonfiato in maniera spropositata.

 

Accesi il televisore guardando, senza ‘vederle’, le immagini che mi passavano davanti. Non dovetti aspettare molto: cinque minuti dopo una porta si aprì e ricomparve Roberta, coperta da un’ accappatoio rosa appena sopra il ginocchio, a piedi nudi e con i capelli raccolti in una crocchia disordinata tenuta su da una forcina di tartaruga. Sorrideva ancora, mentre finiva di asciugarsi i capelli, sul davanti. Come alzava le braccia, l’accappatoio si apriva dandomi la visione di scorci di seno sconvolgenti. Ad un certo punto si scostarono anche i lembi della parte di sotto e per un attimo, solo per un attimo, potei ammirare il pube coperto dal piccolo triangolo di pelliccetta dorata.

“Come è stata, Michy?” mi chiese. “Le hai fatto proposte sconvenienti?” aggiunse ridendo. Adoravo, vederla ridere, guardare la splendida chiostra di dentini e le fossette che le si aprivano sulle guance.

“Mah, la tentazione l’ho avuta, ma avevo paura che mi avresti menato forte, quando l’avessi saputo!”

L’asciugamano mi arrivò dritto sulla testa seguito da tutta Roberta, che mi si buttò addosso, picchiandomi il petto con i pugnetti sino a che riuscii ad acciuffarla per poi mettermela sulle ginocchia e chiuderle la bocca con un bacio al quale rispose immediatamente, appassionatissima.

 

La presi tra le braccia, mi sollevai e marciai dritto verso la porta della camera da letto, passando davanti a quella di Michela. Non era chiusa del tutto. La ragazzina era appoggiata con le braccia al tavolo ed una gamba, un po’ piegata, era sorretta da uno sgabello abbastanza alto, ciò che consentiva di ammirare, anche se da lontano, tutta la coscia nel suo splendore. Mentre passavo la guardai un attimo: lei mi fece un sorrisino d’intesa e poi riabbassò la testina sul libro.

 

Deposi Roby delicatamente sul suo letto. Non mi fu facile, proprio per niente: tremavo come una foglia. Mi succedeva sempre, quando le mie mani venivano a contatto con quel corpicino morbido dal quale proveniva un profumo eccitantissimo di donna. Succedeva sempre. O meglio, accadeva ogni volta che io la baciavo o la carezzavo. Era come se un fiore, sotto i raggi del sole, sprigionasse tutte le sue essenze, riempiendo l’aria di se stesse, sino a conferirle poteri quasi magici. Certamente erotizzanti quant’altri mai.

 

Tremavo. E tremava anche Roby, ad occhi chiusi, il viso appoggiato sul mio petto, le braccia che mi cingevano il collo. Poi, Roberta esplose, letteralmente, nel giro di pochi secondi. Si drizzò a sedere, si strappò l’accappatoio da dosso, mi acciuffò per il bavero della camicia e mi tirò giù, mentre lei si sdraiava di nuovo, tenendo la bocca ben incollata sulla mia, la sua linguetta frenetica che mi esplorava freneticamente tutto l’interno. Roby era tutto un profumo, di Sali da bagno, di ‘Cialenga’, ma soprattutto di donna. Non seppi mai come, ma mi ritrovai in un attimo disteso sotto di lei che mi stava a cavalcioni sul pube e mi sbottonava, strappandomeli, i bottoni della camicia per poi passare alla cinta ed alla lampo dei pantaloni. Tentò di sfilarmi i boxer ma l’operazione appariva decisamente complicata, per cui preferì semplicemente, afferrare i lembi della patta con le due piccole mani fortissime e strapparli via con decisione mettendo allo scoperto un cazzo ormai duro e gonfio al limite dell’esplosione. Restò un attimo a guardarlo, carezzandone con la punta delle dita la superficie nodosa e segnata da grosse vene, simile a quella di un vibratore pensato per dare il massimo di piacere. Io me la guardavo dal basso in alto, il corpo roseo e tenerissimo, i seni protesi verso l’esterno, dritti e saldi, sormontati da capezzoli piccoli ma non troppo ed erti, eccitati da una passione intensissima. Le cosce, spalancate, strofinavano sulla mia pelle e soprattutto sui miei peli pubici, alla ricerca di una carezza potente e stimolante. E gli occhi, gli occhi erano stracolmi di una voglia incontenibile. Non perse altro tempo a cercare di eliminare i pochi brandelli di stoffa che ancora mi pendevano attorno alle gambe. Flettè tutto il corpo il tanto da consentirle di spostarsi in alto ed in lungo per quei dieci-quindici centimetri che le servivano per trovarsi a perpendicolo sul mio cazzo eretto e poi si lasciò andare, facendosi riempire sino in fondo alla vagina in un colpo solo. La smania che l’invadeva era violentissima e le aveva impedito di indugiare anche solo per pochi attimi in quei giochini che per noi erano una splendida abitudine e che ci consentivano di arrivare all’apice dell’eccitazione, prima di diventare un unico animale sessuale capace di auto compensarsi. In quel momento quelle erano cose già acquisite dalla sua, e mia, fervidissima immaginazione: l’unica cosa in grado di appagare la sua voglia pazza era il mio cazzo che sbatteva contro l’ingresso del suo utero, strofinandole le pareti della vagina, la clitoride e le piccole labbra in maniera che sembrava risultarle insopportabile, sino a farla sbattere sul mio corpo, mentre dalla sua bocca uscivano gemiti sempre più forti, al limite dell’urlo, senza che lei facesse alcunchè per trattenerli.

 

Avevo chiuso gli occhi, travolto da quella tempesta di passione incontenibile, gustandomi ogni frazione di secondo del piacere incredibile che provavo. Il letto si agitava furiosamente, seguendo i ritmi di una scopata fantastica. Percepii il respiro affannoso di Roberta bloccarsi per un piccolo attimo, per poi ricominciare su toni ancora più profondi e, mi parve, diversi. Sollevai appena le palpebre e faticai a credere ai miei occhi: un altro corpo, straordinariamente femminile anch’esso, era seduto sul bordo del letto, il grembo rivolto verso il mio viso mentre una testina ramata stava premuta contro il petto di Roby, la bocca attaccata ad un suo capezzolo, mentre una manina le accarezzava il monte di venere e la clitoride eretta, seguendo il ritmo dei due corpi, il mio e quello della sorella. Perché quella bocca suggente,  quelle piccole mani, quel corpicino morbido e rosa appartenevano a Michela che, evidentemente, si era accostata alla nostra porta in punta di piedi, era entrata nella stanza evitando ogni rumore e, nuda, si era poi seduta sul materasso approfittando del fatto che la coppia distesa era assolutamente al di fuori del mondo dei normali sensi persa dentro un sogno erotico quant’altri mai. E poi aveva cominciato a baciare, succhiare, carezzare Roberta che, pensai, doveva aver concordato l’intervento della sorellina per spingere fino al cielo i confini del nostro godimento. E del suo, il piacere di Michela. Capii in un attimo il motivo del suo ritardo imprevisto, l’accostamento della piccolina, la sua improbabile, prolungata presenza in casa. Capii che forse neppure in cielo, né all’inferno avrei potuto trovare un’accoglienza tanto coinvolgente, esaltante, meravigliosa. Compresi che nessun giorno futuro della mia vita avrebbe potuto somigliare (eguagliare, mai, oh no!) a quelle incredibili ore che stavo vivendo.

 

Mi chiedo ancora oggi come feci a resistere: di fronte agli occhi, se guardavo dritto, si agitavano i seni deliziosi di Roby, vedevo il suo viso contratto dal piacere, le narici strette, la bocca, alternativamente, spalancata in un urlo, a volte silenzioso, a volte proprio no, i capelli ramati ancora radunati in un treccione che cadeva su una spalla bianca, dall’aspetto della panna montata. Il ventre si agitava impazzito e l’ombelico aveva l’aspetto del calice di un fiore. Più giù, la clitoride appariva e spariva, al ritmo forsennato della manina che la ricopriva. Se giravo il viso verso il bordo del letto, mi si apriva davanti un’altra stupenda visione: il grembo di Michela, l’incavo delle sue cosce. Ed ancora, due tettine un po’ più piccole di quelle di Roberta, ugualmente tenere, altrettanto sensuali, i capezzoli prominenti, ad implorare carezze di mani e di bocche. Tentavo di girare la testa verso la parte libera del letto, provavo ad immaginare cose orrende, nauseabonde, per combattere la rapida ascesa del mio corpo verso un orgasmo che sapevo sarebbe stato devastante. Non ci riuscivo, se non per brevi attimi. I miei sensi erano tutti straordinariamente sollecitati, senza posa. La mia mano si allungò verso le cosce di Michela che si aprì al mio tocco appena si sentì sfiorare la pelle. Il mio medio si intrufolò tra le pieghe bollenti della sua carne più intima, per poi sprofondare in quella dolcissima morbidezza senza trovare ostacoli. Sentivo vagamente i suoi mugolii sempre più intensi, prorompenti dalla boccuccia che non si staccava, tuttavia, dal capezzolo che continuava a suggere quasi con ferocia. E sentivo anche, sovrapposte, le grida di Roberta, sotto le spinte violentissime del mio cazzo sovreccitato oltre ogni possibilità d’immaginazione.

 

Mi sembrò che il transito del corpo di Michela dal materasso a sopra il mio viso, le cosce spalancate sino a poggiarmi la figa sulle labbra, avvenisse senza soluzione di continuità. Leccai, leccai disperato, con la stessa urgenza di un cerbiatto assetato che scopre una pozza d’acqua appena sgorgata dalla sorgente. Solo che quella sorgente sembrava non avere abbastanza acqua per dissetarmi benché, bisogna dire, colma di profumi e dolce come il miele. Leccavo la fonte, ci infilavo la lingua sin dove potevo. Scoprii che vicinissimo ad essa’era l’apertura di una caverna, oscura e misteriosa. La mia lingua si avventurò ad esplorare anche quel pertugio che si contraeva ritmicamente. Le mie mani si protesero sino ad incontrare due dolci colline, tanto tenere alla base quanto aspre, ruvide al culmine, provviste al vertice di due piccole punte che diventarono durissime sotto le mie carezze. Mi accorsi, un po’ stupito, che due rilievi identici strofinavano sul dorso delle mie mani. I seni di Roby erano a brevissima distanza da quelli della sorellina. Un attimo di lucidità mi rese conto che la vicinanza era tale da non poter essere causata se non da un bacio profondo tra le due splendide bocche femminili. Mentre i loro corpi danzavano su di me, procurandosi piacere diverso, ma altrettanto intenso, le due ragazze completavano la ricerca del climax che le avrebbe condotte sino in cima, al vertice dell’orgasmo.

 

 

 

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