Skip to main content
Racconti Erotici Etero

LA SAGRA DI HAARLEM

By 25 Febbraio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Era blu.
Non turchina, non vermiglia, quanto i mattoni della diga grande, da poco ricostruita dalle ruspe e dalle mani rugose e vizze dei muratori. Mi sembra ancora di vederli; portavano sul capo dei cappelli fatti con le pagine ingiallite dei più vecchi giornali olandesi, la cazzuola in una mano, il manico della carriola nell’altra.
Qualcuno canticchiava e, di lontano, si vedeva passare qualche veliero dai fiocchi scarlatti, mentre un albatro si fermava per un istante a far riposare le ali bianche.
E tutto questo si smarriva vagamente, nel fumo bigio che usciva dal tubo di scarico di quella superba Harley-Davidson.
Il centauro era una giovane sulla ventina, che stava facendo ruggire il suo leone per puro spasso. La motocicletta luccicava forte, sotto i miti raggi del sole dei Paesi Bassi. Ma ancor più brillavano i lunghi capelli biondi della giovane, che li aveva ormai sciolti, per farli volare nell’etere tranquillo di quella primaverile estate.
La bella si passò celermente il rossetto sulle formose labbra, mentre con l’altra mano salutava la tortora amica, che si posava dolcemente su uno dei tetti aguzzi e scarlatti di Haarlem.
E io la guardavo, contemplavo quella Giunone e le sue curve di fuoco’ Era chinata in avanti e giocava allegramente con la manopola dell’acceleratore, tenendo un piede appoggiato alla sua moto. Così facendo, ella mostrava il deretano sodo e prosperoso, le gambe carnose e lunghissime, scalze, lasciate scoperte da una gonna attillata che le arrivava soltanto a metà coscia.
Ad ogni modo, ciò che più colpiva era la sua bella scarpa decolleté, rossa, firmata e con il tacco a spillo, le cui grandi dimensioni impressionavano alquanto.
C’era stata da poco la festa, c’era stata la birra, la banda, la musica, la danza, in mezzo a tanti schiamazzi, alle bandierine e ai palloncini colorati. Avevano mandato in cielo una mongolfiera, dipinta a strisce azzurre, bianche e scarlatte: i colori della bandiera d’Olanda.
E io mi nutrivo di quel sorriso affascinante, scintillante, nel quale vedevo brillare pian piano le finestra dai vetri all’inglese delle case vicine, i canali, dove passavano i barchini, i salici piangenti, semplici e rustici, quanto i velocipedi dipinti a colori vivaci, che passavano sempre lungo i viottoli lastricati di pavé.
Oh, sì, la gente del luogo amava dipingerli di giallo, di verde, di arancione, di viola’
Il mio sguardo ancora assorto amoreggiava sempre con le mani grandi di quella bella, con le sue tette mezze nude e dolci, con le sue cosce e le sue ginocchia, con la sua caviglia venusta, ornata soltanto da un laccetto d’oro.
Per un istante, il pensiero di Beatrijs volò al caff&egrave’ Era un luogo decorato, con le sedie Thonet e i tavolini rotondi, di legno scuro. Lì, la gente chiacchierava del più e del meno, beveva, fumava, si cibava di torte e pasticcini alla canapa, che facevano sognare, sognare e sognare.
Dalle finestre un po’ appannate, si vedevano passare le navi e i velieri, le navi e i velieri’
Beatrijs era fiera della tolleranza del paese suo. C’era stata anche lei, al caff&egrave, e più volte. Non vi si leggevano soltanto i giornali noiosi, dalle pagine un po’ ingiallite.
Un pomeriggio, Beatrijs, inebriata, era salita su uno dei tavoli, onde improvvisare un fantasioso spogliarello, mentre tutti la acclamavano estasiati ed il fumo della canapa indiana la avvolgeva nel suo piacere e nella sua magia. Era un fumo di sogni, un fumo di malinconia, come quello che si levava dai rimorchiatori del porto di Rotterdam, così sovente smarrito tra le nebbie, persino nel bel mezzo delle estati, in cui il sole quasi tingeva di rame le mezzenotti.
Una volta, la bella aveva incontrato un gruppo di ragazzi che passavano in velocipede. Le avevano fischiato e uno di essi le aveva addirittura toccato il sedere, facendola arrossire come uno dei tulipani che donavano il sorriso ai campi e alle colline di maggio. Poi si erano salutati, chiamandosi per nome. Beatrijs non credeva alla morte, non le aveva concesso mai uno solo dei pensieri della sua vita. Ella invero credeva nell’amore, nella felicità e nei velieri.
La nostra bella conosceva i suoi mulini a vento fin dalla lontana infanzia. Li conosceva per nome. Erano i suoi fratelli, da sempre, e lei li amava tanto, da regalare loro qualcuno dei suoi baci. Lo sapete? Oh, sapete voi che quei mulini erano adoperati anche per mandare dei messaggi? Le pale erano come le lancette di un orologio. Quando non c’era il vento, a seconda della loro posizione volevano dire qualche cosa. Sì, a volte annunziavano una nascita, altre, un matrimonio, ma talvolta significavano una morte. Gli abitanti dei villaggi le sapevano leggere, da sempre, al pari degli scolari dalle casacche turchine e dalle cartelle marroni. Beatrijs sospirava appassionatamente, ricordo che il pensiero suo volava forte, verso le darsene di un porto, ormai sepolto, c’erano i rimorchiatori e le navi grandi, le gru di legno, quelle del Settecento, dei ragazzacci avevano trovato un nido di vespe della sabbia’ Sì, le vespe della sabbia’ della sabbia’ della sabbia’ Poi, quell’incidente, all’improvviso, il pianto, il destino’ La nostra bella si passò una mano sulla fronte, mentre il caro ricordo del suo papà la accarezzava. L’aveva perduto da tanto, tanto tempo’ Era sola al mondo e il mondo le faceva fare a girotondo tra le sue feste, i suoi spassi, i palloncini colorati e le bambole imbottite di confetti. Sì, solo quelli’ Beatrijs aveva un carattere forte, così forte, che’ oh! Un bel giorno si mise il suo costume tradizionale d’olandesina, con gli zoccoli di legno, la gonna lunga, a pieghe, il grembiule e la camiciola bianca; sul capo, il cappello a punta che le donne dei Paesi Bassi tanto spesso solevano portare. Fu soltanto per recarsi al carnevale di Maastricht, sì, il carnevale di Maastricht. Era una delle rare località d’Olanda dove il popolo festeggiava il carnevale. Ed ella non fece che cantare, ridere e scherzare, nonché ubriacarsi, per tre giorni e tre notti di seguito, in mezzo a tanti, tanti ragazzi che la toccavano e le tiravano le lunghe trecce bionde, senza che nessuno potesse farle dei rimproveri. Issavano una vegliarda, sapete, fatta di stracci e vestiti vecchi, legata ad una corda e con la scopa in mano. Oh, quanti coriandoli, quante voci, quanto chiasso! E tutto questo brillava allora negli occhi suoi, come il ricordo di un amore lontano e perduto.
Lei era stata tanto innamorata e lo era ancora, lo sapeva.
– E’ successo’ – ricordo che mormorava. ‘ E’ successo’ E’ successo’
Era stato con un ragazzaccio di Haarlem, tutto sesso, droga e rock and roll, un po’ come lei, lì, vicino alla diga grande, su di un prato, accanto alla sua moto, alla sua Harley-Davidson.
Non ne aveva mai visto uno eretto, prima d’allora. Lo trovò grande, forte ed assai lungo. Dapprima ci giocò un poco. Ma quando se lo sentì infilare dentro, gettò un grido’ Sì, si sentì lacerare, strappare e quasi stuprare, tali furono il piacere e la violenza di quegli istanti. Lei si aggrappò forte al manubrio; portava indosso soltanto le grandi scarpe rosse, di cui già vi ho parlato, e la sua pelle.
Ah, che bruto! Che maschio! Che scosse! Che fuoco! Che spasimi!
Di tanto in tanto, però, egli si fermava, ma soltanto per sussurrarle in un orecchio queste parole, nel suo francese più bello:
– C’est merveilleux.
E lei gli rispondeva, nella stessa lingua, accarezzandogli il pelo ricciuto ed accorgendosi che non portava altro indosso, se non un paio di scarpe di cuoio nere che si addicevano ad un frac:
– Oui’
Lo confesso, quei bei boccoli biondi amoreggiavano col vento e quelle labbra baciavano il silenzio.
Una volta, lei aveva corso forte, con la sua bella moto, con pochi veli indosso e le chiome sciolte, languidamente avvolte da un mio sogno di piacere.
La sagra di Haarlem era come il campanile dalla guglia rossa, aguzza, dall’alto del quale, si diceva, nell’antico Medioevo gli abitanti del villaggio avevano defenestrato un vescovo cattolico. Ah, leggende! Pensate che prima di gettarlo di sotto gli avevano messo la mitra sul capo e i paramenti scarlatti’ La sagra di Haarlem era come la moto di Beatrijs, un po’ americana, un po’ sesso, droga e rock and roll, i piaceri perduti e riscoperti, o i cassetti aperti del destino. La sagra di Haarlem era il sorriso delle vecchie carbonaie, un po’ sdentate, che avrebbero dato ben altro che i loro sacchi di carbone per riavere la gioventù e le belle chiome bionde o scarlatte, un tempo tanto dolci sulle loro rotonde spalle e morbide sulle spalle degli amanti. La sagra di Haarlem era il ricordo di un delitto, consumato nell’anno Mille in una vecchia cattedrale, da una perfida avvolta in un nero manto, poi fuggita nelle nebbie, alle quali aveva abbandonato il suo forcone. L’avevano presa gli sbirri, per poi bruciarla viva sulla piazza del villaggio. La sagra di Haarlem era un bordello, dove una volta un giovanotto sulla moto le aveva fatto il complimento per il suo bel piedino, così grande, scalzo e tanto fino.
Beatrijs se lo ricordava ancora. Ah, come le aveva carezzato la bella gamba nuda, dopo averle tolto la scarpetta! Le aveva baciato una ad una le unghie dipinte di smalto, languido e scarlatto. La bella era una ragazza così pulita e profumata! Pensate che faceva un bagno al giorno, nella sua grande vasca, nella quale non di rado lasciava entrare qualche bel maschio. Non era poi così tanto.
Dovete sapere che ogni anno da tutta Europa arrivavano dei carri, carichi di ragazzi e di stelle filanti, giunti soltanto per fare la spola alla sagra di Haarlem. Allora, le giovani solevano spalancare le imposte e sporgere le loro belle teste bionde dalle finestre, salutando i loro futuri amanti con dei fazzoletti e dei tulipani bianchi. Sì, li regalavano uno ad uno al vento, così’ Anche la squillo del bordello, sul cui ingresso pendeva sbilenco il cartello con la scritta ‘sesso’, si affacciava e sorrideva alle biciclette, recando in mano un grande mazzo di tulipani scarlatti. Oh, come la torre dell’orologio ed il cielo di fuoco di Haarlem!
L’estate era così nordica, languida, magica.
Portavano la giostra del pirata Morgan, fatta di legno, che toccava le stelle.
I cieli si facevano ingombri d’immenso.
I giovani si chiamavano con i nomi degli astri e delle costellazioni: Auriga, Maya, Orione, Vega, Pleiadi, Orsa Maggiore e via dicendo. Nessuno aveva un nome per tutte. Nessuno, nemmeno uno. C’era anche una ruota panoramica, fatta soltanto di sogni e desideri impossibili, che non appena toccavano il cielo si avveravano, in un istante. Ricordo il rossetto, la cipria, le belle chiome ed il profumo delle giovani donne, soavemente assorte nei loro amori, dipinti d’illusione. Era difficile toccarle. Sembravano bambole.
Poi, al sopraggiungere dell’autunno, arrivava un grande transatlantico bianco, che portava con sé tutti coloro che desideravano continuare a vivere nella felicità e nell’immenso, lontano dal grigiore del mondo. La gente del porto lo salutava con squilli di trombe e agitando forte dei fazzoletti colorati. Anche Beatrijs sarebbe voluta partire, lo so.
I suoi occhi scintillanti non facevano che salutare il cielo e tutte le sue stelle. Erano le sue sorelle.
Rammento che le sue labbra scarlatte erano semiunite e lasciavano intravedere i suoi denti d’avorio e la sua lingua vellutata, mentre, i mulini a vento alle spalle e le isole della Frisia dinanzi a sé, ella portava entrambe le mani agli angoli della carnosa bocca, per gridare forte al vento i nomi degli amati, sì, quelli che le erano più cari’ I lunghi capelli suoi, fatti d’oro puro come l’astro del giorno, volavano forte nell’etere tempestoso. La voce sua si confondeva con le sirene delle navi e dei rimorchiatori lontani’ A tratti, la luce di un faro illuminava le rocce, smarrite tra le nebbie. S’udì forte il rumore del mare. Poi, più nulla.
Ricordo soltanto i tetti e le torri annerite, che svanivano nel cielo di fuoco di Haarlem.

P.S. La nostra protagonista aveva in realtà 777 anni ed aveva ereditato l’eterna giovinezza da un gallo cedrone. Da allora, consumava soavemente tutti i suoi amplessi all’ombra delle fonti di primavera.

Leave a Reply