Skip to main content
Racconti Erotici Etero

L’altra sera, da ubriaca

By 10 Luglio 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

L’altra sera avevo decisamente bevuto troppo. Non sono troppo sicura di cosa avessi buttato giù, ricordo soltanto una mirandola di bicchieri colorati, con qualche cubetto di ghiaccio e qualche ombrellino. E ad ogni colore nuovo dell’arcobaleno, mi sentivo più allegra ‘ e più confusa.

Morale della favola, a fine serata ero a pezzi. Come un burattino senza fili, a biascicare mugugni. Tanto sconvolta che hanno dovuto accompagnarmi a casa con la carriola. Sarà stato il quinto o sesto cicchetto, quando mi sono addormentata con la tequila in mano (che fortunatamente non si è rovesciata, chè porta male), che Angelo ha deciso che avevo già dato e che era meglio riportarmi a casa.

Angelo è uno dei miei migliori amici. Forse il migliore. Forse solo perché per qualche tempo è stato il mio scopamico. O forse non solo per quello. Comunque, ha deciso che per me la serata era finita, e che era arrivato il momento di portarmi a casa.

Mi ha preso in braccio e mi ha caricato in macchina, poi ha guidato fino a dove abito io. Le chiavi ce le ha ancora, dice che si dimentica sempre di riportarmele. Ho fatto tutto il tragitto con gli occhi chiusi, cercando di non roteare le pupille per non farmi venir su conati di vomito. Ogni tanto li aprivo, ma tanto era tutto annebbiato: valeva la pena tenerli chiusi, sperando in un sonno liberatore.

Com’è e come non ‘è, mi sono ritrovata adagiata sul mio letto. Sentivo le mani di Angelo che mi sbottonavano prima la camicia, poi mi sfilavano la gonna. Poi, il silenzio.

Sono rimasta così per almeno una settimana. O, più probabilmente, per una manciata di minuti. Forse mezz’ora. L’alcol annebbia, e questo non è il posto per scrivere un trattato.

E’ a quel punto che ho cominciato a capire che le cose non stavano andando come dovevano. Quando ho sentito una cosa ruvida che si faceva spazio sulle mie mutandine, spostandole di lato. ‘E’ il gatto’, è stata la prima cosa che ho pensato. Ma non mi interessava più di tanto. Primo perché ero fradicia. Ehi, ferma: ubriaca fradicia, intendo. Non quello che pensavate voi. Secondo perché io non ce l’ho, un gatto. In quel momento potevo anche convincermi che fosse Falkor, il candrago volante della Storia Infinita (così lungo che la cuccia gliela dovevi fare solo nei cantieri della metropolitana).

Comunque, dicevamo, sentivo questa cosa che si faceva strada. E non chiedetemi perché, cominciavo a sentire come l’acquolina in bocca. Anche se penso fosse per il chicco di caffè di chissà quale sambuca, che avevo ancora conservato sotto la lingua. Ah si, me l’aveva passato Angelo.

Ecco, Angelo. Tra un chicco di caffè e un gatto inesistente, realizzai quello che stava succedendo. Qualcosa di morbido e bagnato, proprio lì. A giudicare dalle dimensioni, non poteva essere nessun fantomatico gatto. Ecco, forse era proprio il candrago. Lui poteva avercela, una lingua così.

Ho provato a ribellarmi, ma, e lo dico arrossendo, veramente con poca convinzione. Anche perché quel ‘no’, nel passare dal cervello alla bocca, attraversando i polmoni, si è trasformato in un gemito. D’incoraggiamento. Dieci, quindici minuti d’inferno, con le gambe spalancate senza rendermene conto, a godermi quel massaggio inaspettato ma, in fin dei conti, tutt’altro che sgradito. Con gli occhi chiusi, immaginavo di ricambiare il bacio, con chissà quale muscolo mai scoperto e forse mai esistito.

Poi abbiamo smesso di giocare. Ho sentito qualcosa che si faceva largo dentro. Qualcosa di grosso. Istintivamente avevo sollevato il bacino, cullandomi sulle lenzuola arrotolate. E avevo fatto spazio, senza curarmi di quello che stava succedendo.

Eh no. Ero da buttar via, ma questo riuscivo ancora a capirlo. Va bene il pollice opponibile, ma non esiste nessun pisello che possa piegare la punta facendo perno sull’asta. Lo so, è ridicolo, ma solo allora avevo realizzato che quello era un dito. O meglio, erano due. E grattavano da matti. Grattavano e premevano. Appoggiando il palmo sul basso ventre, potevo sentire che spingevano, da dentro verso l’altro, come se volessero uscire fuori. Lo strusciare, con questo giochetto, si era trasformato ben presto in un rumore di risciacquo. E io ancora lì, ad occhi chiusi, a sognare Atreiu e la principessa bambina. Ecco, io ero proprio la principessa bambina, ma con qualche ettolitro di alcol in corpo.

E quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Ecco. Duro, appunto. Lì si che mi sentivo veramente mancare il fiato. Sempre molle, come una bambolina, mi aspettavo di fare resistenza. Invece è scivolato dentro, tutto insieme. Tutto in un colpo. Ho aperto gli occhi, guardando il soffitto che ballava. Spalancati. E sentivo che cominciavo a sobbalzare. Tutta. Tutta tranne le tette: le seconde misure non sobbalzano, si reggono come budini lasciati troppo tempo nel freezer.

Un piacevole tram tram. Dentro e fuori. Treno nella galleria. Ma và, non esageriamo: dito nel naso. Con le sensazioni atipiche che solo la tequila sa darti. Una volta sentivo il battere della pelle sulla pelle, come tamburi, e un istante dopo soltanto il silenzio di un pistone nel motore. E le orecchie ovattate, s’intende. Sobbalzavo con le gambe sollevate, ad ogni colpo d’ariete dritto lì, sul fondo, sul muro di cinta, sulle ovaie.

Quanto stava durando? Un’ora, due? Una settimana, due? Un mese? Fino a quando non ho sentito di nuovo il torcersi delle budella. E caldo, caldissimo. Una lingua di fuoco, due, tre, dieci, cento, mille. Cazzo. Mi era venuto dentro. Quello stronzo mi aveva riempito. Condita come un cannolo.

Non me ne importava niente. Continuavo a tenere gli occhi chiusi, a mordermi e a leccarmi le labbra. E se ne uscì fuori, sgusciando, cacciato via da qualche muscolo che faceva le bizze. A carico consegnato.

Mi sentii improvvisamente svuotata. E mi sono resa conto. Ho spalancato di nuovo gli occhi, a bocca aperta. E con una mano sono scesa tra le gambe, come quando si affondano le dita nella sabbia appena sotto il mare. Per controllare il guaio.

Ma non c’era niente, niente di niente. Non ero asciutta, per carità. Ma, diciamo così, non c’era niente che non fosse mio.

M’ero sognata tutto. E mi addormentai così, a succhiarmi un dito tra le labbra.

Leave a Reply