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Racconti Erotici Etero

L’appartamento

By 13 Febbraio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Uscii dal notaio con la testa tra le nuvole. Tutto troppo in fretta, troppo repentino.
Nemmeno tre giorni prima zia Claudia, la zietta tranquilla che viveva nella grande casa in centro, era uscita di casa con la borsa sotto il braccio, diretta chissà dove e spensierata. Mentre passeggiava per strada un cretino con un SUV che non sapeva guidare aveva sbandato, era uscito fuori strada e l’aveva presa in pieno.
Morta sul colpo, non m’avevano nemmeno fatto vedere il corpo.
Organizza il funerale, fai telefonate, tutti i parenti che non si vedevano mai, io e zia Claudia eravamo gli unici a vivere in città, ogni tanto le facevo qualche commissione, ogni tanto un caffé. Saluta lo zio Marco che manco ti ricordi com’è fatto, dì ciao alla cuginetta che c’ha delle belle tette e che mi hanno detto come si chiama ma non mi ricordo. E nel pomeriggio convocato dal notaio che c’ha proprio la faccia che ti aspetteresti di vedere da un notaio ad un funerale.
Un breve colloquio, un bel po’ di firme e sono fuori. Stranito. Perché è saltato fuori che zia Claudia, giusto per essere al sicuro, aveva scritto due parole, un testamento, l’aveva affidato al notaio e, visto che non aveva figli e che era praticamente sola, mi aveva lasciato un po’ di soldi, mica tanti, ma soprattutto il grande appartemento in centro.
E quindi io mi trovavo fuori dall’ufficio del notaio, la testa leggera per tutto quello che era successo, con in tasca le chiavi di quel posto e il pensiero in testa che non mi sarei dovuto più occupare dell’affitto.
L’appartamento di zia Claudia era veramente grande. Era in vecchio palazzo con le pareti di tufo giallastro e gli infissi di noce massiccio. Il portone di legno scuro era una via di mezzo tra una porta carraia e il ponte levatoio del castello; in mezzo si apriva un portoncino più piccolo, poi una specie di ampio tunnel conduceva al cortile interno. Nel cortile un ascensore portava al quinto – ed ultimo – piano, dove dopo un piccolo pianerottolo si apriva la porta della casa. Conoscevo abbastanza bene quel posto, e non smettevo mai di meravigliarmi di come zia Claudia avesse potuto permetterselo. Era veramente grande, la sala da pranzo era grande più o meno quanto casa mia (mentalmente mi appuntai che non era più casa mia, e che dovevo anzi cominciare a pensare al trasloco). Una cucina vecchio stile, una camera padronale immensa, un paio di altre camere da letto, tutte con il loro bagno. Una veranda immensa che dava sui tetti del Centro, la metà coperta da pareti a vetro per trasformarla in una via di mezzo tra una serra e un solarium. E adesso era casa mia.
Il trasloco fu una cosa rapida, la maggior parte dei miei mobili erano delle schifezze da due soldi che non ebbi nessuna remora a buttare. Trasformai una delle stanze da letto in uno studiolo, mi insediai nella grande camera padronale, feci tutte le volture, feci arrivare in quella casa ottocentesca internet, cominciai a godermela. Presi l’abitudine di passare il sabato mattina, caffé e cornetto e portatile, nel solarium piacevolmente tiepido mentre fuori l’inverno faceva la sua parte.
Però c’era una camera libera, non sapevo che farmene, e i pochi soldi che zia Claudia mi aveva lasciato, tra traslochi e carte varie, si andavano assottigliando sempre di più. Ci pensai per un po’, poi mi venne un’idea.
L’annuncio che feci pubblicare recitava: “Camera ammobiliata con bagno indipendente affittasi per brevi periodi, palazzo signorile in centro…” e poco più, con le indicazioni di come raggiungermi, l’usuale, inutile “no agenzie” e le informazioni di contatto. Al prezzo, che mi ero calcolato vedendo le offerte simili e che era risultato più alto dell’affitto che pagavo nella vecchia casa, avevo aggiunto d’istinto la parola “trattabile”. Non so perché. In cuor mio pensavo che fosse veramente troppo alto, io non avrei mai accettato una cosa del genere e forse era per quello, ma sul momento non ci feci molto caso.
Fu un successo immediato. La mattina stessa in cui l’annuncio fu pubblicato cominciai a ricevere telefonate una dopo l’altra. Le prime quattro erano agenzie che mi proponevano rappresentanze e clienti “già interessati”. Gli sbattei in faccia la telefonata senza remore, se lo sarebbero dovuto aspettare. La quinta era una donna, voce gentile e con un lieve accento ligure, che parlava lentamente e con calma. Fece poche domande, quant’era grande la stanza, se il bagno fosse completamente indipendente, dov’era il palazzo. Prendemmo appuntamento per quella stessa sera.
Alle cinque ero già a casa, aprii la finestra della camera per farla arieggiare un po’. I mobili di legno scuro, passati di moda da almeno un quarto di secolo, non trasmettevano certo tranquillità, ma la camera era accogliente, il bagno pulito di fresco e, in fondo, non era un brutto posto dove stare.
Alle sei squillò il campanello.
– Quinto piano.
– Quinto piano? – disse la voce gentile dall’altra parte del citofono, la voce delusa. Capii subito.
– C’è l’ascensore sulla sinistra, appena entra.
– Ah… Oddio, mi scusi. – Sembrava sollevata.
Dopo un paio di minuti bussarono alla porta. Andai ad aprire.
La si sarebbe potuta dire minuta. Bassina, sui 35 anni, non più di 1 e 55, grandi occhioni marroni, un viso gradevole. Certo, la si sarebbe potuta dire minuta se non fosse stato per quel pancione, quell’enorme protuberanza che tendeva la maglietta sul davanti e che faceva sembrare ancora più minute le gambe inguainate in un paio di jeans neri.
Rimasi un attimo fermo, un po’ sorpreso, un po’ perplesso dalla sua espressione. Spalancò di nuovo gli occhi, piegò la testa dai tratti regolari, incorniciata da corti capelli neri, e sorrise.
– Per fortuna c’era l’ascensore. – disse – quando aveva detto al quinto piano m’è venuto un colpo.
Mi misi a ridacchiare. – Ha ragione, avrei dovuto specificarlo nell’annuncio. – le feci strada – Se vuole entrare, magari sedersi un po’…
Sorrise ancora, – Grazie. Sa, sono un po’ pesante ultimamente… Io comunque sono Marina.
– Francesco. Se vuoi… Oh, scusa. Se vuole…
Mi interruppe. – Fa niente, fa niente! Non mi piace essere formali, e se per te va bene ci diamo del tu, ok?
Mi era simpatica. Aveva una bella voce, squillante senza essere gracchiante, e per dirla tutta sia il lieve accento genovese che quella particolare luce negli occhi che tutte le donne incinte hanno me la faceva sembrare bella.
E desiderabile.
– Quella sedia?
Mi riscossi, sorrisi di nuovo un po’ imbarazzato e la condussi nel salone, facendola sedere su un divano e osservando con piacere la sua espressione di sollievo.
– Vuoi qualcosa da bere? – le chiesi.
Fece segno di no con la testa. – No, no, per adesso va bene così… Sto seduta un po’ per riprendermi dalla camminata.
– C’è la fermata dell’autobus proprio qui davanti…
Mi interruppe. – Lo so Francesco. Adesso lo so. Però prima non lo sapevo e sono scesa due fermate prima.
Non potei trattenere una risata. – Oddio – dissi – scusa non volevo sfottere…
Si sciolse in una risata anche lei.
– Dai, lascia stare, fa veramente ridere!
Mentre rideva il seno gonfio sobbalzava sotto la camicetta. Non so proprio perché, ma la trovavo tremendamente sexy. Ed eccitante. A quel pensiero un’erezione cominciò a farsi strada… Sperai vivamente che non se ne accorgesse. Provai a fare un po’ di conversazione… Anche perché avevo l’impulso di saltarle addosso e di farmela in quel preciso momento.
– A che mese sei?
– Settimo. Da poco. Non ti preoccupare, non te lo dovrei scodellare qui.
– No… – sorrisi – Non è quello.
– E’ che mi serve un posto dove stare fino a quando non finisco di lavorare. Un mese, poi me ne vado in maternità e torno a Genova.
– Eri qui per lavoro.
– Non solo. – La sua espressione si rabbuiò, si accarezzò la pancia – E’ che qui vive pure mio marito.
– Ah…
– E’ andata male.
Pensai a qualcosa da dire. Non mi venne in mente niente. Anche perché dentro di me ero felice che, nonostante il bambino che portava in grembo, non avesse legami.
– Vuoi vedere la stanza, Marina?
Lei sembrò riscuotersi, spalancò gli occhi e sorrise nuovamente. – Si si, – disse, felice come una bambina – vediamo la stanza!
Fece per alzarsi, con un po’ di difficoltà, e io mi sporsi in avanti per aiutarla. Prenderle la mano per farla alzare fu qualcosa di elettrico, sentivo la sua pelle sulla mia e la mia eccitazione aumentò. Non so cosa mi stesse facendo quella donna, ma mi piaceva.
La accompagnai nella stanza. Si sedette sul letto, si mosse un po’ per saggiarne la morbidezza.
Non so se se ne rese conto, ma il movimento che Marina fece, un lento ancheggiare, fu estremamente sensuale. O furono i miei occhi a renderlo tale. Ma non importava.
Mi guardò soddisfatta. Disse solamente: – Morbido. Mi piace.
– Mi fa piacere che ti piaccia. Mi fa piacere se prendi tu la stanza. – dissi io, e mi diedi dello stupido per averlo detto. Ma quella donna mi stava facendo perdere la testa.
Lei sorrise. Per fortuna. Aveva un gran bel sorriso, inclinava sempre la testa quando lo faceva e gli occhioni si spalancavano.
– Farebbe piacere anche a me. Però chiedi un sacco di soldi, non so se ce la faccio.
Respirai, evitando di rispondere d’istinto. Ci voleva calma, mi dissi. Questa era una trattativa.
– Per una stanza in centro non è tanto. C’è chi chiede lo stesso anche per posti senza il bagno indipendente.
– Lo so, e a me servirebbe proprio un posto come questo in centro ma…
Marina fece una faccia dispiaciuta, una via di mezzo tra una bambina delusa e una donna disperata. Mi pareva sincera, anche se in altri momenti, se non fossi stato così eccitato, l’avrei presa per un’attrice consumata. Sarà stato il fatto che era incinta, sarà stato il suo franco e aperto sorriso, ma non riuscivo a fare a meno di fidarmi di quella donna.
– … ma proprio non riesco a permetterlo. Dovrebbe costare abbastanza di meno per permettermelo.
Cercai di pensare lucidamente. Non era facile.
– Potremmo sempre accordarci. Dopo tutto è solo per un mese.
– Dovresti scendere tanto…
– Quanto?
– Almeno la metà.
Fischiai. La metà di quanto avevo chiesto era veramente tanto. La guardai negli occhi, quegli occhioni imploranti che mi avevano stregato. Non avevo idee in testa, volevo che Marina prendesse quella stanza, il mio pisello lo chiedeva insistentemente…
Non so come mi venne in mente l’idea. Anzi, a dire il vero non mi venne in mente niente, parlai di getto senza nemmeno pensarci. Probabilmente se ci avessi pensato non avrei detto niente e l’avrei lasciata andare, ma ormai il centro dei miei pensieri si era spostato molto, molto più in basso e l’unica cosa di cui ero consapevole era il mio pisello duro che non chiedeva altro che di tuffarsi tra quelle tette gonfie da donna incinta.
– Se vuoi si può fare la metà, – dissi, senza nemmeno credere a quello che stavo dicendo – però devi anche fare qualcosa per me in questo mese. Un accordo di reciproca soddisfazione.
Trattenni il respiro. Secondo logica Marina avrebbe dovuto alzarsi, mollarmi uno schiaffo e andare via senza una parola. E magari andare anche dai Carabinieri per denunciarmi. Mi maledissi per aver detto quelle parole, ma ormai era troppo tardi.
Marina strabuzzò letteralmente gli occhi. Era evidente che aveva capito. Abbassò lo sguardo, fissandosi la pancia prominente e tesa. Ecco, pensai, adesso si alza e mi molla un calcio negli stinchi. Ed io me lo sono pienamente meritato.
Quando rialzò lo sguardo sembrava seria, un po’ imbarazzata. Le parole le uscirono dalla bocca lentamente, misurate.
– Lo sai che sono incinta, vero? Molto incinta.
– Si vede abbastanza. – dissi io, un po’ ridacchiando, per sdrammatizzare. Ancora una volta mi maledissi per la stupidità di quello che stavo dicendo. Ma proprio non riuscivo a dire niente di pregnante in quella situazione.
Lei rimase in silenzio, guardandomi fisso negli occhi, l’espressione sempre seria e concentrata. Resistetti a quello sguardo, devo dire con un po’ di difficoltà. Credo che se avessi distolto gli occhi avrei beccato un bel rifiuto. Invece, dopo un tempo che mi sembrò interminabile, lo sguardo duro si sciolse nuovamente in un sorriso, la testa si inclinò e tutto il corpo di Marina si rilassò, segno che aveva deciso.
– Ringrazia il cielo che sono genovese, – disse scherzosamente – noi per risparmiare siamo disposti a fare di tutto.
– Affare fatto dunque?
La sua testa si mosse in un assenso appena accennato. – Affare fatto.
Rimanemmo lì, in silenzio, tutti e due un po’ imbarazzati, nessuno dei due sapeva bene cosa fare, guardandoci fissi, incapaci di distogliere lo sguardo. La verità era che tutti e due sapevamo benissimo cosa sarebbe dovuto succedere, ma nessuno dei due aveva la minima idea di come cominciare. Per fortuna ci pensò lei, invitandomi con la mano e dicendo:
– Vieni qui, altrimenti tra un minuto mi scoppi in diretta.
– Nessuno dei due vuole che questo succeda, vero?
Lei non disse niente, e io mi sedetti accanto a lei. La guardai fissa negli occhi, quegli occhioni marroni che mi avevano stregato fin dal primo momento. Lei chiuse gli occhi. Li chiusi anch’io e la baciai.
La sua bocca sapeva di buono, le sue labbra erano calde, la sua lingua umida e invitante. Feci scorrere una mano tra i capelli, l’altra sulla spalla, giù su uno dei suoi seni. Quando le toccai un capezzolo lo trovai rigido, teso, eccitato. Lei ebbe un sobbalzo.
– Oddio… – mormorò – Scusa ma è un sacco di tempo e… Non immaginavo di essere diventata così sensibile…
La zittii con un altro bacio, continuando ad accarezzarle il seno. Scesi lungo la sua pancia gonfia, arrivai al bordo della maglietta, la tirai su con delicatezza. Lei lasciò fare. Il reggiseno era di quelli premaman, grossi e ben foderati. Non dovetti lottare col gancetto e venne via in un attimo, cadendo e liberando le sue tette gonfie, i capezzoli ingrossati e turgidi. Abbandonai per il momento la bocca, scendendo a leccarle e succhiarle un capezzolo. Tracciavo piccoli circoli attorno alla protuberanza scura, ci andavo sopra con la punta della lingua, lo baciavo, lo succhiavo, gli davo piccoli morsi.
– Oh mamma… – gemeva lei – e mica lo sapevo… Così è fantastico… Non ti fermare…
Continuavo ad accarezzarle la pancia mentre le torturavo sensualmente la tetta, feci scivolare la mano tra le sue gambe. Con tutto che aveva i jeans la sentii bollente ed umida. Era eccitatissima. Mi alzai in piedi, volevo togliermi i pantaloni per liberare il cazzo che nel frattempo era diventato durissimo e pulsante, ma non feci in tempo: non appena Marina vide la mia cintura all’altezza degli occhi se ne impadronì, la sciolse, aprì i pantaloni e me li abbassò insieme alle mutande. Il cazzo uscì come a molla, sbattendo sulla sua faccia. Per nulla intimorita lei aprì la bocca e cominciò a baciarlo, a leccare il glande, ingoiando piano prima la cappella, poi sempre di più, succhiando sempre più forte. Il calore della sua bocca era fantastico, lei succhiava come una forsennata, rallentando ogni tanto per prendere fiato per poi tuffarsi con rinnovato vigore, cercando di ingoiare il più possibile.
Un pompino fantastico. Se avesse continuato così non sarei durato molto. Mi staccai quindi, un po’ a malincuore. La rovesciai sul letto, con delicatezza e cautela. Lei mi guardava, gli occhi stralunati, la bocca ancora semiaperta come se fosse stata sorpresa e delusa quando le avevo tolto l’uccello. Armeggiai con i suoi jeans per qualche secondo (erano stretti diavolo!), e finalmente riuscii a toglierli. Portava delle mutande bianche, comode, da puerpera. Gliele sfilai con un solo gesto. Aveva la figa incorniciata da peli rossastri, lucidi del suo piacere. Mi ci tuffai con la bocca. Era fradicia.
Alla prima leccata la sentii sussultare, alla seconda tremò e gemette. Poi fu un tremito continuo e un gemito ininterrotto. Capii che doveva essere ultrasensibile, cominciai a danzare con la punta della lingua, prima sul clitoride, poi sulle sue labbra gonfie e stillanti liquido, poi di nuovo sul clitoride, infine giù sul buchino, facendola entrare ancora di più e facendola letteralmente sobbalzare, mentre con una mano mi artigliava la testa.
Marina cominciò ad avere un orgasmo, vulcanico, irrefrenabile. Tremava tutta, mugolando come una disperata. Non mollai la sua figa, leccandole il clitoride, infilando con facilità un dito, poi due nella sua vagina fradicia, sentendola pulsare mentre lo facevo. Il cazzo era duro all’inverosimile, pensavo solo a scoparmi quella donna indiavolata che stava godendo così tanto tra le mie mani.
Mi rialzai, porgendo le dita lucide dei suoi umori a Marina. Lei le abbrancò e le succhiò, assaporando i suoi succhi. La baciai, la bocca fradicia della sua figa, appoggiandole la punta del cazzo all’ingresso della sua femminilità.
Entrò praticamente da solo, risucchiato da quella caverna umida. Sentii il suo calore pulsante che mi avvolgeva il cazzo, sentii il suo singulto mentre cercava di respirare, affamata d’aria mentre godeva. Spinsi e arrivai fino in fondo con facilità.
– Siiii… – urlò lei, contraendo il viso, piangendo tanto stava godendo.
Spinsi ancora. Cominciai a pompare. Sentivo la sua pancia tesa contro il mio ventre mentre lei stringeva le sue gambe attorno a me per attirarmi più vicino. Spinsi e spinsi, mentre sentivo gli orgasmi in lei che montavano uno dopo l’altro. Doveva essere ipersensibile e ogni colpo la faceva godere più del precedente.
Un altro colpo, l’uccello mi uscì dalla sua figa, era bagnatissima. La girai, facendola mettere carponi sul letto. Le tette gonfie di latte sfioravano le coperte e così anche la sua pancia. Le accarezzai la figa, glielo rimisi dentro. Con la mano lucida dei suoi umori le accarezzai il buchino che pulsava mentre la scopavo. Feci scivolare un dito dentro, entrò piano, era molto stretta, la sentii contrarsi.
– Che hai in mente? . disse, la voce roca, bassa, sformata dal godimento.
– Lo sai.
– Lì non l’ho mai fatto.
Non mi importava. E non era un no. Infilai il dito più a fondo, cominciai a muoverlo aventi e indietro, lubrificando il buchino con i suoi stessi umori. Sentivo le sue viscere pulsare, lo sfintere chiudersi attorno al mio dito. Marina respirava pesantamente, lentamente, e ogni volta che andavo a fondo nella sua figa fradicia, il dito che penetrava il suo culetto stretto che si muoveva all’unisono, sentivo un piccolo gemito.
Sfilai il cazzo dalla figa e l’appoggiai al buchino vergine, facendo nel contempo scivolare fuori il dito. Spinsi, sentii resistenza, ma lei non si divincolava. Spinsi ancora, e sentii la cappella entrare mentre lei gemeva sommessamente. Spinsi ancora, lei urlò piano, ancora, e la cappella era dentro, lo sfintere bollente che mi avvolgeva il cazzo. Mi piegai su di lei, la baciai dietro l’orecchio.
– Adesso… – mormorai, e spinsi forte. Il cazzo le entrò nel culo per metà mentre l’anello di carne cedeva, lei si lasciò sfuggire un urletto, io diedi un colpo di reni e fui tutto dentro. Marina si girò, vidi le lacrime che le rigavano le guance. Però sorrideva.
– Non ti fermare… – disse a mezza voce, e io la presi in parola. Prima lentamente, poi sempre più velocemente, cominciai a pompare nel suo culo. Più spingevo e più quel budello bollente e pulsante mi avvolgeva il cazzo. Misi la mano sulla sua figa e la trovai, se possibile, ancora più bollente e fradicia di prima. Infilando un dito dentro la sentii vibrare e tremare, accarezzandone le pareti da dentro potevo sentire il mio cazzo che la pompava nel culo senza pietà.
Andai avanti così per un po’, poi la girai di nuovo, alzandole le gambe, il cazzo sempre ben piantato nel culo, senza fermarmi, continuando a scoparla con veemenza. La potevo vedere in faccia adesso, la faccia stravolta dal godimento. Mi abbassai per baciarla, l’uccello tutto in fondo al suo culo caldo e accogliente. Ci baciammo con passione, la sua lingua tremolante allo stesso ritmo delle bordate che le stavano slabbrando il buco del culo.
Non durai molto così. Pochi colpi ancora e sarei venuto. Uscii fuori, mi avvicinai ed esplosi sulla sua faccia, le sue tette, il suo ventre. La riempii di sborra, mentre lei si abbandonava sulla schiena, esausta. La vidi leccarsi le labbra per assaporare la sborra che le aveva impiastricciato la faccia. Mi distesi al suo fianco.
Restammo così per un po’, incapaci di parlare, stanchi morti. Marina poi si girò e mi regalò uno dei suoi meravigliosi sorrisi. Col trucco sfatto, le guance rigate dalle lacrime e la sborra tra i capelli era, se possibile, ancora più bella.
– Mi sa che abbiamo fatto un buon affare. – disse tranquilla – Tutti e due.
Aveva perfettamente ragione. Sarebbe stato un gran bel mese.

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