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L’arroganza paga

By 6 Maggio 2015Dicembre 16th, 2019No Comments

Avevo fatto una cazzata. Una gigantesca cazzata. Un errore di valutazione da novellina, le cui conseguenze mi parevano chiare: licenziamento e smerdamento di fronte ai colleghi.

Suonerà ridicolo, ma era più l’aver perso la faccia a tormentarmi. Dovete capire che io sono sempre stata una molto sicura di sé, al limite dell’arroganza. Va bene, facciamo gli onesti e diciamo che ero una vera supponente del cazzo. Insopportabile. &egrave che sono sempre stata piuttosto brava in tutto, senza sforzo, perciò per me era naturale assumere un atteggiamento da sotuttoio.
Potete ben capire come fossi benvoluta dai miei colleghi. Mi odiavano cordialmente, e la cosa mi aveva sempre divertito. Fino a quel giorno almeno. Era palese il loro godimento nel vedermi caduta dal mio piedistallo alla poltrona più scomoda di fronte alla scrivania del capo, pronto a farmi un cazziatone di dimensioni epiche, qualcosa da riportare negli annali insomma.

Io e lui, il capo, avevamo sempre avuto un bel rapporto professionale. Mi piaceva pensare che mi considerasse quasi una sua pari, o comunque il suo braccio destro, qualcuno di cui fidarsi e a cui affidare i compiti più difficili.
Invece adesso lui era il professore deluso e abbondantemente incazzato, mentre io ero la scolaretta deficiente che non ha imparato nulla. E da buona scolaretta deficiente, il mio unico pensiero in quel momento era che almeno la sgridata non stava avvenendo davanti ai miei compagni di classe.
Pensiero appena formulato e, sicuramente, immediatamente decifrato dal mio capo che all’interfono fece chiamare dalla sua segretaria Filippo e Stefano. Erano i due cretini con cui condividevo il ruolo di caporeparto, i quali non ci vedevano più dalla gioia quando si erano accorti del casino che avevo combinato.
Entrarono con un sorriso luminosissimo che andava da un orecchio all’altro, e si sedettero comodi sulle altre due poltrone rimanenti, annuendo compiaciuti alle parole acide che il capo continuava a riversare su di me.

Volevo morire. Stavo per essere licenziata dal lavoro dei miei sogni, in cui ero una campionessa, e il tutto accadeva di fronte ai due elementi dell’ufficio che più detestavo. Che figura di merda. Non sarei mai più riuscita a guardare in faccia nessuno là dentro.
Non vedevo l’ora che finisse, ma a quanto pareva mancava ancora parecchio. Dopo tre quarti d’ora passati a rivolgere il viso paonazzo alle mie ginocchia, sentii le terrificanti parole “non credo che l’azienda avrà più bisogno dei suoi servizi.”. E in quel momento, esattamente nel mezzo secondo seguito a questa frase, il mio cervello andò in tilt. Al posto di annuire e andarmene con l’ultimo grammo di dignità rimastomi, alzai gli occhi lucidi e implorai “no, la prego, non mi faccia questo! Sono disposta a qualsiasi cosa, ma non mi licenzi, la scongiuro!”.

Sono disposta a qualsiasi cosa? Una frase da film porno, pure scadente direi. Non so che mi avesse preso. Come potevo voler rimanere a lavorare lì dopo averci perso completamente la credibilità? Dopo che tutti i miei colleghi mi avevano finalmente vista smerdata come desideravano da mesi? Davvero, nemmeno oggi lo so spiegare. Sta di fatto che pronunciai quella patetica frase e che la coppia perfetta Filippo&Stefano non sapeva più che dio ringraziare per la sua fortuna.
Il mio capo, invece, alzò un sopracciglio e, secco, mi fece “si sbottoni la camicia.”. Io sinceramente non so cosa mi aspettassi, ma ero impreparata ad una cosa del genere. Lo guardai basita e mi rifiutai tutta indignata. Lui, sempre senza scomporsi, mi indicò semplicemente la porta.

Mi alzai, con le gambe molli. Arrivai fino alla porta. Mi mancava pochissimo per uscire e salvare un minimo la situazione. E invece, con il braccio teso verso la maniglia, mi bloccai. Che cretina.

Rimasi lì qualche secondo, immobile. Sentivo le risate soffocate dei miei colleghi e lo sguardo fisso del mio capo puntato sulla schiena. Era al limite della pazienza, e sbottò “o se ne va, o ubbidisce alla mia richiesta. A differenza sua, qui c’&egrave gente che ha ancora un lavoro e poco tempo da perdere.”.
Fu una frecciata che mi percorse le ossa. Mi veniva da vomitare per la vergogna, eppure mi girai. Con lo sguardo fisso sulle mie scarpe mi avvicinai e, tentando di ignorare gli occhi estasiati di pinco panco e panco pinco per l’umiliazione a cui stavo per sottopormi, mi slacciai la camicetta fino al punto in cui entrava nella gonna attillata a vita alta, rivelando un reggiseno bianco, in pizzo semplicissimo.
I tre uomini nella stanza si misero più comodi, in silenzio per qualche attimo. Poi il mio capo mi intimò “abbassa il reggiseno.”. Io ebbi un moto di terrore. Lo stavo facendo veramente. Mi guardai intorno. Errore: Filippo e Stefano avevano l’aria di due bambini la mattina di Natale. Non era tanto il fatto di vedermi nuda che li stava esaltando, erano entrambi decisamente attraenti e non avevano problemi con le donne. Io ero piuttosto bella, ma non credo che mi avessero mai desiderata più di tanto, l’astio aveva sempre prevalso. No, loro erano felici come non mai di vedermi in una situazione che mi provocava una vergogna indescrivibile, e questa consapevolezza non mi aiutava.
Eppure, respirai a fondo e ubbidii, abbassando le coppe del reggiseno e facendo spuntare fuori i seni. Di nuovo silenzio, io con lo sguardo a terra e le braccia lungo i fianchi mentre loro si godevano tranquillamente la scena. Adesso non sembravano più aver fretta di lavorare.

Poi il mio capo si alzò, scostandosi leggermente dalla scrivania. Mi fissò dritto negli occhi, compiaciuto di quello che mi stava facendo. Per un attimo mi passò per la mente l’idea che anche a lui probabilmente non ero mai piaciuta, e il pensiero mi fece rabbrividire di nuovo: significava che anche lui non vedeva l’ora di umiliarmi. Persa in queste inquietanti riflessioni sentii la sua voce che mi intimava di piegarmi a novanta sulla sua scrivania. Ecco la conferma.

Sempre senza guardare nessuno ubbidii e mi appoggiai al piano con le mani, con il sedere fasciato nella gonna e i seni che penzolavano. Sentii Stefano alzarsi per raggiungere il capo dietro di me, mentre Filippo girava la poltrona per godersi meglio la vista.
Mi alzarono la gonna a fatica e poi mi abbassarono le collant sottili, lasciandomi in mutande. Mi aspettavo che mi togliessero anche quelle, invece tirarono forte l’elastico, facendomele finire in mezzo alle natiche. Non so perché, eppure mi sembrò quasi più imbarazzante questa operazione che non tutto il resto: avevo il sedere esposto e leggermente divaricato per via dello spessore del tessuto che ci passava in mezzo. Per migliorare la situazione, qualche lacrima cominciò a scendermi sulle guance. Questo provocò l’ilarità generale: Stefano mi assicurava che dopo avrebbero chiamato la mia mamma per consolarmi, mentre Filippo mi chiedeva se non avevo paura di rovinarmi il mio bel trucco. Dopo qualche secondo intervenne il mio capo “bene, il problema &egrave questo: non solo tu hai combinato un casino facendoci fare una pessima figura con un cliente, ma hai da sempre rovinato l’ambiente dell’ufficio con il tuo stupido atteggiamento da principessina. Quindi, per riottenere il lavoro, dovrai essere sì punita, ma anche istruita. Credo che per cominciare ti beccherai dieci sculacciate da ognuno di noi. Dovrai contarle e alla fine ringraziarci per la nostra… Chiamiamola magnanimità.”
Risate beffarde soffocate e sguardi di intesa dietro di me. Lo schermo di un computer davanti a me, che a tratti rifletteva la scena. Non me n’ero accorta prima, e avrei preferito che non accadesse. Ora potevo vedermi in quella posizione oscena, con le tette che mi ciondolavano, le gambe aperte e il viso arrossato. Mi sentivo morire dentro, ero così sottomessa. Mai nella mia vita mi ero fatta mettere i piedi in testa, uomo o donna che fosse. E ora, quasi all’apice della mia cartiera, ero praticamente nuda e piegata su una scrivania, pronta ad essere sculacciata come una bambinetta di tre anni. E esattamente come una bambinetta di tre anni piangevo e tremavo all’idea di essere punita dai genitori di fronte ai compagnetti.

Cominciò il mio capo, con mano tesa e forza dosata. Ogni sculacciata mi spingeva in avanti, e potevo vedere le mie tette sballonzolare avanti e indietro. Le contai tutte, fino alla decima. Avevo già il sedere in fiamme e ne mancavano venti.
Era il momento di ringraziare il mio capo, e lui me lo ricordò senza tanti complimenti: mi tirò giù dalla scrivania mettendomi in ginocchio con il viso di fronte alla sua patta. Voleva un pompino, che classico.

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