Skip to main content
Racconti Erotici Etero

Laura e il mio cavallo di Ferro.

By 13 Maggio 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Ogni giorno. Ogni santissimo giorno la incontravo.
Mi alzavo come sempre alle 7:30 del mattino col solo scopo di incontrarla o vederla di sfuggita. Speravo che prima o poi, come una manna dal cielo, avessi trovato il coraggio di salutarla e di dirle almeno ‘Ciao’.
Mentre pensavo tutto ciò, avevo già fatto colazione e preso la mia borsa in pelle vintage e un po’ consumata, con tutti i miei progetti, il portatile e qualche strumento arcaico tipo goniometro e squadre.
Sì, sono un architetto.

Saltavo sulla mia bici rossa e andavo in stazione. Lì, sul binario 3 aspettavo ogni mattina.
Mi mettevo poco dopo l’uscita della scale, appoggiato alla colonna di marmo guardando in direzione Milano.
Come un tossico in preda ad una crisi d’astinenza non vedevo l’ora che spuntassero dalle scale i suoi capelli, il suo viso ed infine i suoi tacchi.
Laura.
Una ragazza sulla trentina. Alta 1,60 circa, capelli vaporosi castani. A volte al vento come un magico e colorato foulard, altre volte impiccati dentro a quel mollettone vistoso, ma elegante.
Gli occhiali da vista, calati sul naso. Quelli con la montatura nera stretta, i miei preferiti. Quelli senza profilo alla lenti la facevano assomigliare troppo ad una professoressa ma, solo a volte, era un peccato.
Vestiva semplice, maglioncini color pastello o camicie eleganti e sobrie.
Pantaloni attillati, molto raramente jeans; d’altronde con quelle gambe poteva ben permettersi anche un paio di pantaloncini stropicciati da ginnastica.
Ma aveva sempre uno stile pulito e curato, quindi non li avrebbe mai indossati.
Le scarpe erano il suo unico vezzo. Probabilmente il suo modo per far capire a noi uomini che era comunque una donna semplice ma se avesse voluto determinata e forte, per non dire femminile, molto femminile. Tant’è che non l’ho mai vista senza tacchi.
Viso appuntito, sopracciglia curate e occhi verdi.
Magnifica.

Ogni mattina prendeva il treno direzione Garibaldi (Milano) e in mezzo a tutto quel casino e tutte quelle persone appiccicate, lei, sembrava sempre risplendere, dare al vagone una luce diversa, fresca d’estate e calda d’inverno. Era rassicurante.
Col suo sguardo sempre attaccato all’ipad. Chissà cosa mai dovesse controllare tanto assiduamente.
Chissà che lavoro facesse. Chissà se era fidanzata.
Mi sarebbe piaciuto scoprire tutte queste affascinanti verità su di lei chiedendogliele di persona e da vero uomo facendo il primo passo, ma…. la storia che sto per raccontarvi era stata scritta dal destino in modo diverso, originale come la vita solo sa fare.

Era maggio. Caldo torrido, soprattutto su quei treni sporchi e senza aria condizionata.
Lei sempre intenta alla ciber-realtà, io, sempre intento a Lei.
Troppo caldo, troppo davvero soprattutto per essere mattina, 8.30.
L’unica cosa peggiore sarebbe stata, oltre a un ritardo delle linee ferroviarie, una sosta sotto il sole.
Bene. Accadde.
Lungo la tratta ci accorgemmo del rallentamento del treno. Dopo i primi dubbi, il treno si era fermato. Sotto il sole. Ottimo.
Soltanto 20 minuti più tardi la spiegazione: guasto alla motrice.
Impossibilità di continuare su quel percorso.
Iniziamo così tutti ad armeggiare con i nostri cellulari per avvisare del ritardo i nostri collaboratori o datori di lavoro vari, tutti tranne io.
Ero troppo incantato ad ascoltare la sua voce, l’avevo udita poche volte, e mai da così vicino. Quella mattina infatti avevo scelto, compatibilmente con il numero di persone presenti a bordo, di sedermi a fianco a lei. Ci riuscii. Sul sedile direttamente di fronte a quella donna, quella pura emozione vivente. La sentii avvisare un certo Massimo, con una voce leggera e allegra nel tono, di un possibile e consistente ritardo. A quel nome e con quella confidenza pensai già di aver perso il Treno ma, non quello sul quale ero seduto.
Dopo altri 20 minuti di attesa e di scambi di sguardi fugaci tra me-lei e tutti i viaggiatori dello scompartimento fummo avvisati che un’altra motrice era giunta sul binario e ci avrebbe riportato alla stazione di partenza.
Così, misi il cuore in pace e proprio mentre abbracciavo l’idea che sarei dovuto tornare a casa, lasciare la bici e prendere la moto per buttarmi nel traffico metropolitano, oltretutto in ritardo, Lei mi guardò.
Mi studiò a lungo, tanto che avrebbero potuto essere minuti interminabili per la mia testa, ma non per la realtà. Mi sorrise. Di riflesso sorrisi e non riuscii a trattenere un goffo:
’emm.. dimmi ‘ accennando un sorrido.
Sorrise e ridendo disse: ‘scusa ehm… se non sbaglio lavori a milano vero? Vicino a piazza San Babila né?’
Come se avessi preso un cazzotto in bocca e pensando ‘come diavolo fa a saperlo?’ risposi con uno sguardo e una smorfia da innamorato ma con un tono di voce da balordo: ‘si..’.

Era troppo poco, avanti, andiamo!

Aggiunsi un: ’em.. si comunque, ehehe scusa ero sovrappensiero, perchè me lo chiedi?’.
‘Sai, lavoro anche io a Milano… e… ora che torniamo indietro non so proprio come andarci, ti va se smezziamo la spesa del Taxi?’. Rispose con aria divertita dal mio siparietto da sfigato.
Io in un baleno risposi più convinto di prima: ‘Certo perchè no ma, se vuoi, andiamo in moto!’.
La frase mi uscì tutta d’un fiato, senza che me ne accorgessi, tanto da strabuzzare un attimo gli occhi e sentire le guance rosse.
‘Cazzo… Adesso ho parlato troppo, coglione!’. Pensai ma, poi, all’improvviso:
‘In moto? Bè, con ‘sto caldo un po’ d’aria la prenderei volentieri!’.
Pausa. Vuoto.
Non ricordo nemmeno chi ci fosse nel vagone, quanti fossimo e verso che direzione stessimo andando. Non riuscii a ricordare come si parlasse italiano e nemmeno come si deglutisse ed immobile rimasi zitto per qualche secondo assaporando un’irrealtà che mai aveva fatto parte della mia vita piena di numeri, righe, strutture fisse e materiali senza vita.

Fortunatamente fu lei a risollevarmi da questo trip mentale al limite del cannabinoide.
‘Scusa, sono stata sfacciata? è che sai mi hai chiesto….’
‘No no hai ragione accidenti, te l’ho chiesto io!’ mi ripresi e risposi di botto, ma lei proseguì:
‘Ah, ok, eheh per un momento ho temuto che ci avessi ripensato…’
‘Sai… alla fine ti vedo tutte le mattine e sembra di conoscerti..avrai letto anche tu tante storie sui viaggiatori, i pendolari alla fine sono una grande famiglia’.
Terminò la frase e arrossì.
Lo stridiio dei freni del treno ci salvò. Iniziarono a migrare tutti verso l’uscita.
Io la guardai ancora per qualche istante e poi risposi: ‘Hai ragione siamo tutti una grande famiglia, prendiamo ‘sta moto’.

Uscimmo dalla stazione, slegai la bici rossa e ci incamminammo.

Fino a qui mi parve impossibile che stesse succedendo, che stesso succedendo a me e soprattutto con la ragazza che ammiravo a volte anche senza tanta discrezione, tutte le mattine da almeno un anno.
Ma per mia piacevole sorpresa, non era finita.
Arrivammo al box, tirai fuori la moto e una volta pronti a partire accesi il motore.
In quel momento qualcosa cambiò. Come la benzina quando incontra l’ossigeno ed esplode, arrivò la sua risposta accesa alla mia domanda: ‘sei mai stata in moto?’.
‘Zitto e guida’.
Per l’ennesima volta stupito mi iniziai a preoccupare e dopo tante notizie di cronaca e tanti preoccupanti film horror e thriller alla spalle mi immagino che la dolce ragazza che vedevo ogni mattina, si fosse in realtà trasformata in una assassina o chissà cos’altro.
Ormai però, era tardi per tirarsi indietro e decisi di correre il rischio, se non altro per sentire il suo corpo splendido addosso al mio, come solo in moto può accadere.
Uscimmo dalla rampa dei box e iniziai a percorrere le strade con una calma olimpica, tanto da far spegnere la moto.
Nonostante il rumore del mio bicilindrico e del vento la sentii distintamente dire: ‘Quanto cazzo c’hai messo?’.
Sapendo che il borbottare dei cavalli avrebbe coperto la sua voce ma non interamente, mi inizia a rivelare la sua versione della cosa:
‘Finalmente posso parlare un po’ con te, quanto sei sciocco. Credevi davvero che non mi fossi mai accorta di quante volte e quanto tempo mi hai guardato?
Ma come al solito le donne devono fare il primo passo con voi impacciati eh??’.
‘Striglia un po’ ‘sta moto cazzo’.
‘Questa non te la faccio passare mia cara’ pensai. E per farle capire che avevo sentito benissimo ciò che mi diceva e che stavo volontariamente candendo nel suo gioco del ‘tanto lui non sente’, girai la monopola del gas approfittando di un lungo vialone, spinsi in alto il limitatore e le feci assaporare il vento, l’asfalto e l’adrenalina.
Mi strinse ancor più forte in quella posizione arroccata sopra gli scarichi e le scappò un urletto da puledra, seguito da un: ‘Allora mi sentivi, eh?!’.
Semaforo, l’occasione per rispondere: ‘certo cara’.
La sconosciuta era diventata una conosciuta, una conoscenza di anni, improvvisamente. Il LA lo aveva dato lei stessa e io stetti al suo gioco, per capire fino a dove si sarebbe spinta.
‘Che ne dici di un caffè?’. Proposi.
‘Certo caro’ mi canzonò.
Verde.
Sparai una marcia dietro l’altra e arrivai al primo bar, prima bettola, primo qualsiasi posto del cazzo.
Spensi la moto, i cavalli si fermano, il rumore del mio bicilindrico finisce, ma iniziai Io a galoppare, colto da un vortice di emozioni. Ormai il ritardo sul lavoro non contava più niente, avrei cercato dopo una scusa. Dopo tanti anni di ligio servizio, mi ero scatenato e non me ne fregava più nulla.
Non feci in tempo a togliere il casco che lei l’ha già levato, lo appoggiò maldestramente sul serbatorio e mi baciò.
Mi baciò in un temporale di emozioni, fuori il sole cocente, dentro, tuoni e saette.
Il casco cadde dal serbatoio giusto in tempo per ricordarci che quella era una strada pubblica.
Chi se ne frega.
Avrei risposto anche di altri mille reati, ma quel momento non volevo perderlo.
Spinse la sua lingua dentro la mia bocca, io altrettanto.
Foga, agitazione, concitazione. Dolce violenza nel suo bacio, liberazione di un sentimento troppo a lungo represso.
Mi prense la testa tra le mani e mi continuò a baciare, non so per quanto, ma poco troppo poco, mi sembrava volasse. Si staccò, mi guardò con una voglia matta, occhi da infoiata, si morse un labbro sbavando il rossetto, alzò un sopracciglio e non ci fu bisogno che dire altro.
Le risposi sorridendo, un sorrido da Bruce Willis tanto ero infocato.
Mi scoppiava il cuore, mi scoppiava l’ormone e mi fremono i miei cavalli.
La spinsi con convinzione contro il muro non curante di tutto e tutti, lei non oppose resistenza e iniziò a far scivolare la sua mano delicata dal mio petto, piano ma con forza sul mio pacco, sopra i jeans.
La tenne lì e mi fece aspettare, io scalpitavo, mi sentivo un toro, guardandomi allo specchio potrei scoprire di avere un orecchino al naso, lei sarà pure un perfido e furbo toreador ma, io… io sono il toro, incazzato e ravvivato, toro.
Le presi la mano, la spostai per portarla sotto i jeans. Sbattendo contro il muro, presi l’altra sua mano e la portai nello stesso punto. Ora era in segno di resa mentre continuava a baciarmi come se non ci fosse un domani.
Avvicino il mio pacco a lei, spingo per farlo sentire e le mordo il collo. La eccita, sembra mi voglia mordere a sua volta, allunga il collo verso di me e lo ritrae mentre tento di afferrarla con la mia bocca.
è troppo, non possiamo più stare in strada o sarebbe meglio non esserci affatto.
Non ebbi tempo per pensarlo, mi strattonò con forza e fui io contro il muro.
Persi quasi l’equilibrio ma lei mi tenne puntellato al muro, come fosse un poliziotto intento a perquisirmi. Fece per slacciarmi la cintura e allentare i bottoni, non potei più sottrarmi e la spinsi verso il basso, in ginocchio, poggiandole una mano sulla testa.
Occhi rivolti verso l’alto, io intanto sono una bestia mossa dall’istinto e non mi accorsi di niente, vivo col cuore, il cervello perse il suo posto…
La vita che tanto in questa giornata mi diede, tanto mi tolse.
In quel momento ci riportò alla realtà una pattuglia dei carabinieri, che accendendo la sirena per mezzo secondo ci riportò a uno stato di coscienza.
Sconcertato rimasi immobile.

Ora siamo in questura per gli accertamenti, dopo un turbinio di emozioni e sensazioni inaspettate.
Inganno il tempo e cerco di scaricare le emozioni, la chimica e l’euforia scrivendovi la storia.
Aspetto che si esca e poi il toro la incorna, cara Laura, questa storia è appena iniziata.

Leave a Reply