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Racconti Erotici Etero

Le cento foglie

By 9 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Ma come posso pensare che quest’incontro mi cambi la vita, che un’occasione neanche cercata mi possa ridare vigore al cervello e linfa alla pelle che, nonostante creme e massaggi, cade e s’arrende agli anni che porto. Come posso pensare che quel ragazzo conosciuto per caso mi possa riempire quei vuoti, scavati negli anni da sbagli ed da imbrogli, che ora sono diventati caverne insofferenti, che se solo potessi cancellerei dalla mia vita ricominciando dal giorno che ho visto la luce. Non c’è ragione che ora sia sopra questo vagone di metropolitana che rumoroso mi raschia il cervello e mi porta dritto verso Villa Borghese. Perché poi, mi sia venuto in mente proprio questo luogo, che a quest’ora di pomeriggio è più affollato del quartiere dove abito e chissà quanta gente che conosco si sta riposando sopra una panchina e non aspetta altro che vedermi in questo insolito posto.

Non so perché l’ho fatto, non so perché questa mattina all’entrata di scuola di mio figlio, ho detto sì senza pensarci, a quel ragazzo con la faccia da bimbo che insistentemente mi chiedeva un incontro. ‘Mi scusi signora’. Mi si è avvicinato con fare discreto e mi ha chiesto una strada qualunque, poi mi ha seguita per negozi e banchi di frutta finché m’ha strappato quel sì che ora mi rimbomba dentro il cervello, come se non aspettassi altro, come se da tempo ero in cerca di qualsiasi uomo che mi facesse un’offerta.

Ora che m’intravedo tra i finestrini sporchi che mi fanno riflesso, penso a quanto posso essere stata ridicola ad accettare quest’incontro, che non porta altro che su una panchina di Villa Borghese, che non porta altro che a questo presente senza uno spiraglio che diventi domani. Mi ripeto ad ogni fermata che avrà la metà dei miei giorni e che nulla mi vieta di scendere e tornare sui miei soliti passi, magari inventando una scusa a mio marito, semmai ce ne fosse bisogno, semmai dovessi rendergli conto che l’estetista ha avuto un contrattempo. Ma dove vado non c’è nessuna estetista! Forse solo la speranza remota di qualche massaggio che la mia vergogna ha riposto in qualche angolo buio, che nessuna luce al momento potrebbe schiarire senza farmi sentire grottesca.

Mi sento buffa e meschina pensando a quale faccia farà il mio giovane amico vedendomi traballare su questi tacchi che non mettevo da anni, con questa gonnellina che sarebbe più appropriata indosso a qualche sua coetanea. Chissà cosa penserà vedendomi così conciata solo per piacergli, rispetto a quel vestitino da casa, anonimo e squallido, che portavo stamattina quando i suoi occhi m’hanno incrociata e lacerata, proprio nel punto che nessuno da anni aveva riposto il minimo proposito per sentirsi più uomo.

Ma io ce l’ho un uomo! Uno di quelli che a quarant’anni pensa che una madre ha smesso di essere donna, che una moglie non sia più adatta a dare piacere. Non si rende conto cosa cova qui sotto, tra queste gambe, ora, ricoperte di rete che camminano dritte verso la sola percezione di un sogno, che in situazioni normali finirebbe di mattina al risveglio senza essermi mossa dal letto.

Tra poco lo vedrò, giovane e bello con la faccia da studente, mi darà ancora del lei cercando magari la mia mano che timida per la circostanza cambierà ogni volta posizione. Non cederò di un millimetro ai suoi desideri, perché signora dabbene non si lascia andare al primo incontro e per giunta sopra una panchina all’aperto. Scanserò le sue voglie facendomi corteggiare per ore fino a che mi sentirò invasa di sogni e considerazione che se non fosse per i mille pretesti che m’impongo sarebbe solo l’inizio di quello che vado cercando. Mi domando, sul serio, se sono venuta solo per questo o se veramente questo piccolo uomo vestito di jeans mi possa cambiare la vita o almeno i pensieri quando m’addormento di notte.

Se invece me ne innamorassi veramente? Se non opponessi resistenza alle sue mani che di sicuro mi cercheranno tra la rete delle mie cosce facendosi via via ineluttabili risposte alle mie tante domande, inesorabili strumenti ai miei tanti sogni senza uomini o parte di essi? Vorrei fargli capire senza compromettermi che deve osare, che dovrebbe venirmi più accanto ed immobilizzarmi i pensieri fino ad averla vinta su quest’alone di donna borghese che mi preserva e mi rende inavvicinabile. Vorrei dirgli, che se ho accettato un invito, da questa faccia poco più che minorenne, non ho poi tanto bisogno di corte a parole o cene a lume di candela che sicuramente non potrebbe permettersi. Come non ho bisogno di una stanza d’albergo, magari con le finestre chiuse per soffocare quanta voglia mi sento di dentro che basterebbe una mano su un fianco, o che so io, un bacio sfiorato, per esplodere come una mina che il tempo ha solo nascosto. Mi svestirebbe della seta che leggera mi fascia le voglie appiattendo le onde di luce e mistero che sensuali si danno per l’unico scopo d’essere femmine, per l’unico scopo di farsi sgualcire dalla passione di maschio che colpevoli hanno istigato.

Ora cammino su queste foglie d’autunno che fanno rumore e mi si attaccano alle scarpe. Uomini da soli mi fischiano come se fossi una preda, e m’invitano sapendo benissimo di non aspettarsi altro da una signora che passa e cammina e non volta lo sguardo. Invece non sanno che potrebbero benissimo osare, che basterebbe un minimo sforzo per essere cortesi ed avere una chance. Loro non sanno che il calpestio dei miei tacchi va dritto verso l’unico maschio che ha avuto il coraggio di offrirmi un incontro e che nessun’altro motivo mi conduce verso il laghetto dove m’aspetta. Loro non sanno che sotto la mia gonna fibrillano orli e merletti, e che se avessero la pazienza di farmi sentire meno preda, m’arresterei all’istante senza procedere altrove, scoperchiandomi mutande e pudore senza aver bisogno d’altra attenzione. Ma è possibile che non capiscano? Che mi sono ridotta ad andare dove potrei fare solo da mamma, dove i miei seni, se avessero latte, sarebbero adatti alla situazione che mi sono cercata. Ma mi lasciano andare perché forse hanno capito che sto solo cercando un occasione per imbrogliarmi di nuovo, che non sia evidente e diretta, ma che nasconda le insidie per farmi tentare. Conciata in questo modo non vado di certo a prendere un tè da un’amica o da un meccanico che mi sta riparando la macchina, vado solo a gratificarmi, a farmi chiamare quello che valgo, quello che i miei anni m’hanno costretta a non pretendere di meglio.

Ora mi sento meglio e le mie morali assopite mi fanno vedere più chiaro quello che chiedo. D’essere ancora apprezzata chiunque ne sia il soggetto, uomo o bambino che freme, che sbava per questo mio corpo, per questo mio seno molliccio trascurato da bocche e salive che ho respinto negli anni. Tra meno di cento passi, di cento foglie che ciancico strada facendo, sarò diversa davvero, contenta e felice d’essermi vestita e truccata per farmi guardare, per farmi sentire bottino dove gli occhi di uomo non possono che farne razzia e saccheggio. Tra meno di cento foglie sarò unica davvero, smacchiata d’ambiguità e paure che finora m’hanno protetto, che finora m’hanno sospinta dove mai avrei creduto d’arrivare.

Lo immagino che freme, che vorrebbe almeno poggiare le sue dita su questo velluto di stoffa e di tette. Se solo fosse un po’ intraprendente! Lascerebbe ai convenevoli un luogo più appropriato, riservandomi ora la voglia diretta di un uomo che non bada a cerimonie e si rifugia nei posti dove si sente più protetto, dove questo calore che mi lievita dentro lo accoglie e brucia la smania. Se solo fosse più deciso, m’alzerebbe la gonna all’istante, scoprendo fiocchetti che mostrerebbero evidenti la causa che m’ha condotta lungo questo viale, questa ghiaia che fastidiosa m’impedisce di procedere in fretta.

‘Terza panchina a sinistra del cancello, proprio davanti alle barche.’ Mi ripeto ossessiva la sua voce che ora m’appare più sensuale e scaltra come se nel frattempo fosse cresciuto di qualche anno, come se tante donne amate nel mentre gli avessero dato un’aria da esperto. Mi prenderà proprio su quella panchina, magari quando l’aria più scura s’è fatta tramonto o spingendomi dietro una siepe d’alloro così folta e rigogliosa perché a me ora serve pensarlo.

Mi prenderà senza magari una voglia dirompente, ma solo per il gusto di farsi una quarantenne che non lascia pensare ad altro che essere insoddisfatta, essere in cerca di chi volentieri la cerca in mezzo alle labbra o dentro le cosce, che per il fine che cerco non fa differenza.

Senza curarsi di queste intimità che m’abbelliscono e mi fanno puttana, mi spoglierà lasciandomi in balia di occhi indiscreti che di lì a poco potrebbero godersi la scena, di tante morali a cui non desterei altro che schifo, altro che pietà nei riguardi di una donna da poco, che si fa sbattere contro una siepe da un ventenne incontrato per caso.

Non so perché ora, mentre m’avvicino alla meta, sento sopra le mie calze a rete, sopra i miei fianchi fasciati, gli occhi del mondo che mi danno un giudizio. Come se nel tragitto da casa a qui, o semplicemente nell’essermi liberata per un pomeriggio da mio figlio, da mio marito, sia compreso tutto il male che io sono capace di dare.

Dentro di me le voci si fanno più fitte e poi urla e poi rumore assordante con un’unica tonalità che non può che essere la mia: ‘La bella signora, sicuramente borghese, sicuramente persa si fa riempire indecente dietro gli sterpi della siepe che a malapena la coprono dalla strada, dai passanti, da suo figlio che ora sta facendo i compiti e magari la cerca, dal traffico della gente normale che va verso casa, verso gli affetti. Cerca l’ennesimo orgasmo senza trascurare il millimetro di pelle che s’infila e si sfila nel suo piacere non domato, che affonda e ristagna dove solo la fantasia aveva alloggiato per anni. Si fa chiamare puttana, in piedi, o in ginocchio come la domenica in chiesa, o come cagna in calore che abbaia alla luna godendo ed osservando gli altri cani che aspettano.’ Dentro di me le voci m’incalzano e si fanno più inquiete: ‘La bella signora si fa scaraventare per terra e lacerare i vestiti, magari picchiata dove ora sta godendo piacere, e poi ancora scopata, stipando fino al collo il suo passato da buttare come immondizie nel secchio, la comunione del figlio, il suo viaggio di nozze, suo marito che ogni notte, prima d’addormentarsi, pensa ad una donna diversa, magari straniera, magari meno bella, magari più bionda del suo castano tinto e rifatto. Poi ancora stipati dentro la sua bocca che ora non può parlare, la grande occasione perduta, la bella casa arredata all’antica, l’aborto spontaneo nel cesso, i pranzi di Natale, l’immagine sacra sulla spalliera del letto, i suoi tanti compleanni che nessuno mai si è ricordato. E gode di fianco e supina montata riversa con il seno spiaccicato sull’erba, insozzato di terra e vergogna che nessuno scroscio d’acqua piovana potrebbe lavare. Ed insaziabile, ancora ne chiede, ancora ne è recipiente, e gode violata ed invasata, in piedi e addosso alla siepe, con gli stecchi che le graffiano l’anima persa ed il culo ridicolo, provocando ferite e dolore che a poco a poco svanisce, perché nulla rimane e nulla più sente””’. .’

Dentro di me le voci si fanno più intense, e ficcanti s’allargano e si contraggono e diventano un coro, un corteo di facce che conosco e non mi lasciano tregua. Ma ora non c’è più tempo! I cento passi sono finiti, le cento foglie non fanno più rumore, rimane solo il dubbio che quel ragazzo con la faccia da bimbo m’abbia davvero invitata, a quest’ora dentro Villa Borghese sopra questa panchina vuota, la terza a sinistra dopo il cancello, proprio davanti alle barche!

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