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Lei e lui – conoscersi, comprendersi.

By 23 Luglio 20252 Comments

Allora, è un racconto luuuuuungo, poi non dire che non lo sapevate. Un racconto che mi ha chiesto un’amica mia – amica mia! Passi ancora da queste parti? – e parla di due, che si scoprono più incasinati, dentro, di quanto avessero mai avuto il coraggio di dirsi.

C’è gioco e consapevolezza, ma anche un po’ di dominazione e sottomissione, anche se a dirlo così sembra di usare delle categorie un po’ troppo semplicistiche.

Vabbè, se vi piace, se non vi piace, se vi annoia o invece volete sapere se e come va avanti, fatelo sapere.

La birra che si scalda troppo in fretta, il suono della campagna prima della pioggia o anche solo commenti e saluti, come sempre, a scaaty @ gmx.com.

***

Cominciò quasi per gioco.
Quasi per noia.

E un po’ perché si sentivano fermi, bloccati in una storia che, anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso, sembrava destinata a spegnersi, lentamente, magari senza nemmeno un motivo vero e proprio.

Era cominciato una sera, dopo che avevano cenato.

Mentre mangiavano, avevano discusso, per una cosa banale, qualsiasi, e lei aveva sbattuto la forchetta sul tavolo, alzando la voce. Poi si era subito scusata, e lui aveva sorriso.

Dopo, l’aveva aiutata a sparecchiare e lei gli aveva detto “vai pure di là, metto in piatti in lavastoviglie e ti raggiungo”.

Quando era arrivata lui era sul divano, che guardava svogliato il cellulare mentre in tv due politici discutevano di immigrazione, tasse o del rigore della Roma.

Lei fece per sedersi, poi disse – sono stanca, io andrei già a letto, tu che fai? –

Li si alzò, spegnendo la tv, – vengo con te –

Poco dopo, lei era in bagno, a prepararsi.
Indossava ancora la maglietta che aveva a cena, ma si era tolta i pantaloni ed era rimasta con le mutande bianche, di cotone, per mettersi poi il pigiama prima di infilarsi a letto.

Lui entrò in bagno per lavarsi i denti, e passandole dietro, le accarezzò appena il sedere e poi, guardandola nello specchio, disse, mentre spremeva il dentifricio sullo spazzolino elettrico – sei stata proprio cattiva, prima, a tavola. Mi verrebbe quasi da sculacciarti per punirti –

Lei alzò la testa, stupita, e lo vide spalancare gli occhi, impaurito dalla possibile reazione di lei.

– Sì, ho esagerato, scusami – disse lei, senza muoversi.
– Forse mi merito davvero un paio di sculacciate – aggiunse, senza guardarlo, nascondendo l’imbarazzo; poi abbassò la testa verso il lavandino, e inarcò appena la schiena – come punizione –

Quella sera fecero l’amore come non lo facevano da anni, o forse non l’avevano mai fatto.
A un certo punto, lui le prese in mano un seno, piccolo e sodo, e lo strinse con forza.
Lei si irrigidì, le scappò un “ahi”, ma prima che lui potesse allentare la presa, gli mise una mano sulla schiena e lo accarezzò.
Lui allora strinse appena appena un po’ di più, e lei sussurrò un “sì” , che stupì tutti e due.

Dopo, si diedero un bacio dolce, e prima lei e poi lui andarono in bagno, e infine spensero la luce, dopo essersi augurati la buona notte.

Tutti e due tuttavia, l’una all’insaputa dell’altro, non si addormentarono subito, restando fermi, con gli occhi chiusi, a ripensare a ciò che era appena successo.

La mattina, per loro, era da scandita da una routine sempre uguale.

Anche quella mattina, quindi, si svegliarono insieme, e mentre lui andava subito in bagno, lei preparò la colazione.
Appena lui uscì dal bagno, entrò lei, mentre lui prendeva il primo caffè della giornata, leggendo un giornale sul tablet e ascoltando in sottofondo un tg in tv.
Quando, pochi minuti dopo, lei uscì dal bagno, si sedettero per una veloce colazione insieme.
Appena finito, lui sparecchiò, e lei si mise davanti al lavello, sciacquando i piatti e le tazze prima di mettere tutto in lavastoviglie.
Lui la abbracciò leggero da dietro, dicendo – vado a lavarmi i denti –

Lei lo fermò, dicendo – aspetta, resta qui con me –
Lui rimase lì, dietro di lei, appena appoggiato alla sua schiena, piegando la testa e annusando il suo odore di sapone e di profumo appena messo.

Lei aveva in mano una tazza da caffè, e continuava a girarla tra le mani, sotto l’acqua del rubinetto, benché fosse ormai pulita.

– Ieri sera – disse finalmente lei, senza guardarlo e senza smettere di lavare la tazza – è stato… bello –

Lui rimase in silenzio.

– Cioè… mi è piaciuto – continuò lei – e a te? –
– Sì. Anche a me. Certo. Molto – rispose subito lui

Lei rimase in silenzio. Come delusa. Dubbiosa.

– Sì ma… – continuò lei, abbassando appena la voce – io intendo… intendevo, mi è… piaciuto… tutto –
– Sì, anche a me – disse lui, e si avvicinò e le baciò il collo

Lei si irrigidì, e con un movimento delle spalle lo allontanò.
Infastidita. Anche un po’ arrabbiata, o delusa.

Ci provò di nuovo.
Per un’ultima volta, pensò.

– No, sì, ma io intendo… – e finalmente chiuse l’acqua e appoggiò la tazza, e mise le mani sul piano della cucina, spingendo appena il suo bacino indietro, contro di lui – intendo che a me è piaciuto tutto tutto. Mi è piaciuto come abbiamo fatto l’amore, mi è piaciuto come mi sono sentita, quello che hai fatto e… mi è piaciuto molto anche quello che è… successo prima –

Si girò.
Lo guardò negli occhi, da sotto in su, percependo in quel momento, in maniera strana, improvvisa, di essere molto più bassa di lui, e sentendo, quasi, i muscoli e la forza di lui.

– Mi è piaciuto – gli disse infine, abbassando lo sguardo – essere sculacciata, e come mi hai fatto male dopo… a letto –

Lui inspirò.
Sembrava aver trattenuto il respiro per un’ora.
Deglutì, aveva la bocca secca.

– Anche a me – sussurrò – mi è piaciuto tutto tutto –

Silenzio.
Lei restò ferma, immobile.
Lui le appoggiò una mano sul braccio.

– Mi è piaciuto sculacciarti. E stringerti, mentre facevamo l’amore; e mentre lo facevamo, pensavo a sculacciarti ancora –

Si fermò; mentre le diceva queste parole, il cazzo gli si era irrigidito, nei pantaloni.
Lei lo sentì, e si appoggiò appena un poco di più a lui.

– Anche io. Pensavo ad essere sculacciata, ancora –

E all’improvviso lei scivolò di lato, sgusciando via, verso il bagno.
Non parlarono più.

Solo – Stasera – disse lei, prima di chiudere la porta dietro di se’, senza guardarlo.

Pochi minuti dopo erano tutti e due diretti verso il proprio lavoro.

Sull’autobus che la portava in ufficio, mise come ogni mattina gli auricolari per ascoltare i podacst che di solito le tenevano compagnia lungo il tragitto, ma dopo pochi minuti spense: non riusciva a concentrarsi e seguire il flusso delle parole.

Provò a evitarlo, ma dopo pochi minuti si trovò a ripensare alla sera prima, e si domandò per quale motivo le fosse piaciuto tanto.
O meglio, il motivo lo sapeva benissimo: era quello che aveva sognato da quando, adolescente, le era capitato in mano il primo libro nel quale, in maniera molto soft, aveva letto di un rapporto tra un uomo e una donna basato sul sesso non tradizionale ma su una specie di dominazione da parte di lui, e di sottomissione, un po’ volontaria e un po’ no, di lei.

Per anni, quel tipo di fantasie erano state le uniche con le quali poteva raggiungere un orgasmo vero e proprio.
Poi, crescendo, le cose erano cambiate, e anche grazie ad alcuni degli uomini che aveva incontrato nella sua vita aveva scoperto di poter trovare piacere e soddisfazione in rapporti più tradizionali. Ma ancora oggi, quando voleva concedersi qualcosa di speciale, da sola, ritornava a quelle fantasie, magari aiutandosi con racconti o video e foto che trovava online.

E certo, non era stata la prima volta in cui veniva sculacciata.
Altri uomini, un paio di volte l’avevano colpita sul culo, mentre lo facevano alla pecorina.
Ma ieri sera era stato diverso.
Non erano state propriamente le sculacciate (non riusciva a ricordare con chiarezza se fossero state solo tre o quattro, o molte di più).
No, erano state le parole, la “punizione”, lo spingere appena appena in fuori il culo, come a invitare i colpi, e restare ferma, sentendo (assaporando?) il dolore dei colpi.

Senza accorgersene, accavallò le ginocchia e quel movimento le fece scorrere un piccolo brivido tra le gambe.

Poggiò la testa all’indietro, sullo schienale del sedile.
Se fosse tutto semplice come nelle sue fantasie di ragazza e giovane donna. Un uomo, una donna, un po’ di forza e violenza, dolore, ribellione, sottomissione, accettazione, di nuovo ribellione, punizione, dolore, sesso, piacere, pace.

E invece, c’erano così tante cose da tenere in considerazione.

Come si può dire all’uomo che ami, che ti ama, all’uomo che ti protegge, che prenderebbe a pugni chiunque anche solo pensi di farti del male, all’uomo che ti ha promesso che ci sarà sempre, per te, per aiutarti, salvarti, difenderti, farti ridere e farti dormire mentre ti culla, come puoi dire a quell’uomo, al quale hai detto che l’amore come lo fai con lui non l’hai mai fatto con nessuno, ed è vero, certo che è vero, ma come puoi dirgli che, quando ti accarezzi nei pomeriggi o nelle mattine da sola in casa, o in una camera d’albergo quando viaggi senza di lui, come puoi dirgli che quando ti accarezzi pensando a lui, certo a volte quando lo fai non pensi a lui, ma questo non glielo dirai mai, e nemmeno gli dirai che quelle volte in cui lo fai pensando a lui è perché in un certo senso ti senti in colpa, per non aver pensato a lui la volta prima, ecco come puoi dirgli che anche quando ti accarezzi e pensi a lui, quel lui ti fa e ti fa fare cose che non ti ha mai fatto o fatto fare, e che non riesci nemmeno a immaginare di chiedergli di fare, o farti fare.

E seduta sull’autobus si domanda, con gli occhi socchiusi e le cosce strette, mentre un sobbalzo improvviso dell’autobus le spinge avanti e indietro il bacino, dandole un ulteriore brivido alla parte più bassa della pancia, se quello che è successo la sera prima possa essere l’occasione per aprire, con lui, quella porta che non ha mai aperto.

Perché a lui è piaciuto.
Anche a lui.
Anche a lui, l’ha visto nel suo sguardo, quasi perso, nel modo in cui respirava affannato dopo averle dato la prima sculacciata.
L’ha sentito nel modo in cui il suo cazzo è diventato ancora più duro e grosso, dentro di lei, quando mentre le faceva male strizzandole il seno, lei gli ha fatto capire di volere che continuasse.
Quando lui ha stretto ancora più forte, e lei ha stretto i denti ma non ha trattenuto un gemito di dolore, e lui è venuto subito, forte, e ha continuato a spingere e spingere e spingere finché non si è sgonfiato del tutto, quasi che non volesse più dover tornare indietro.

Cazzo.

Gli era piaciuto tanto quanto a lei, se non di più.

Per un istante, un piccolo istante, provò a immaginare che anche per lui fosse la stessa cosa; che anche lui abbia sempre sognato e desiderato “altro”, e non abbia mai osato non dico provarci, ma nemmeno fare nulla di lontanamente simile.

Le scappò un mezzo sorriso.
Pensa, si disse, se fosse vero, quanto tempo buttato.

Se fosse vero.
Non è vero.
Ma potrebbe, perché ieri sera, cazzo, eravamo in due.

Quindi.

Certo, sarebbe bello se lui facesse tutto come si deve, e cioè che stasera, tornato a casa, senza bisogno di parlare mi facesse… non so nemmeno cosa, ma… se facesse, mi facesse un po’ di cose, e nessuno avrebbe bisogno di dire più nulla, e tutto potrebbe venire naturale.

Ma non succederà.
Lo conosco, la paura di offendermi, di mancarmi di rispetto, di superare limiti e vincoli che non conosce o non capisce, non gli permetteranno di fare nulla.
E perderemmo questa occasione di fare qualcosa di speciale per noi, per noi due.

Quindi dovrò pensarci io, si disse sospirando.

Come sempre. Anche per essere presa a schiaffi, una donna deve fare tutto il lavoro più complicato, lasciando all’uomo solo la parte divertente, concluse tra se’, sorridendo.

Ci pensò, a sprazzi, per tutto il giorno.
In ufficio davanti al pc, durante le videocall, in pausa pranzo mentre chiacchierava con i colleghi, mentre preparava la relazione per un nuovo cliente, mai del tutto consapevolmente, ma il pensiero era lì, che aleggiava tra il subconscio e l’attenzione.

A casa, un paio d’ore prima che arrivasse anche lui, finalmente prese in mano il cellulare.
Scrisse e cancellò il messaggio forse dieci, venti volte.

Alla fine rimase a guardare lo schermo, ferma: “voglio rifarlo. Però meglio”, c’era scritto.
Ma non riusciva a schiacciare il tasto invio.

Chiuse gli occhi, e senza guardare mosse appena il dito.
Quando li riaprì, il messaggio era partito, e sotto al testo c’erano due piccole “v” grige.
Rimase lì fissare le “v”, aspettando che diventassero azzurre.
Ma non successe nulla.

Cazzo.
Cazzo cazzo cazzo.

Si impose di alzarsi, poggiare il telefono sul comodino, in camera, e farsi una lunga doccia.
Non pensarci.
Ormai è andato.
Non pensarci.
Finita la doccia, si trovò a guardarsi allo specchio, nella stessa posizione in cui la sera prima aveva sussurrato “merito una punizione”.
Aprì appena le falde dell’accappatoio bianco, e con la mano si accarezzò tra le gambe, e le bastò sfiorarsi con due dita per sentirsi aperta e umida.

Cazzo.

No.

No dai, che se stasera lui… non voglio rovinarmi nulla… certo, e se invece…

Uscì veloce dal bagno, andò al comodino e prese il telefono.

Due spunte blu.
Deglutì.
Un messaggio da leggere.

“Da stamattina non riesco a pensare ad altro”.

Sedette sul letto.
Chiuse gli occhi.
Quasi le venne da piangere.

E adesso?
A chi tocca, adesso, decidere cosa, come, quando, quanto?

Devo trovare il coraggio, devo trovare il modo.
Sospirò.
Si sdraiò sul letto, e l’accappatoio di aprì sulle sue gambe.
Socchiuse gli occhi.
Si portò una mano tra le gambe, e iniziò ad accarezzarsi, appena appena.
Quando sentì i muscoli incominciare a tendersi, e il calore diffondersi da dentro la pancia fino alle dita della mano, riaprì gli occhi e prese il telefono.
Ecco, pensò, adesso posso dirti cosa vorrei da te.

“Ti aspetto.
Ma non cucinerò.
Non apparecchierò.
Non ti saluterò quando arriverai, sarò seduta sul divano, a farmi i fatti miei.
Se pensi che avrei dovuto comportarmi diversamente, potrai punirmi”.

“…”

Stava scrivendo qualcosa.

Attese, continuando ad accarezzarsi piano.

“Tutto ciò è inaccettabile.
Dovrò punirti, molto severamente.
E dopo essere stata punita, cucinerai, apparecchierai, sparecchierai, mi succhierai il cazzo”.

Una specie di scossa elettrica improvvisa le attraversò il corpo.
Quelle parole una dopo l’altra, che mescolavano come se niente fosse punizione, lavori di casa e sesso, erano così inattese e intense che senza accorgersene si trovò ad accelerare il ritmo con la mano, sospirando forte.

No, si disse.
Ferma.

Poi sorrise, e scrisse “posso toccarmi?”
La risposta arrivò in pochi secondi “No. Però potrai farlo stasera, mentre ti guardo”.

Guardarla mentre si toccava era sempre stata una delle passioni di lui, ma in questo nuovo contesto anche una cosa che faceva parte della loro normale quotidianità le faceva un effetto completamente diverso.

Per un attimo, pensò di continuare a toccarsi, e venire e poi dirglielo, stasera, ma decise di no, e anche questa piccola rinuncia, dettata solo da un messaggio di lui, le diede un piccolo brivido.

Dopo essersi asciugata, indossò un paio di mutande bianche, di cotone, simili a quelle della sera prima, un paio di jeans e una tshirt.

Poi si mise sul divano, scrollando distratta video e foto sul telefono.
Cercando di distrarsi.

Fino a quando sentì le chiavi girare nella porta.
Fece per alzarsi e andargli incontro, per salutarlo, come sempre.
Ma si trattenne, restando seduta con gli occhi sul telefono.

Seguì tutti i suoi movimenti ascoltando ogni rumore.
Le scarpe, tolte appena entrato e riposte.
Il giubbotto, appeso.
Le chiavi, posate sulla mensola.

I passi verso il bagno di servizio, il rumore dell’acqua, mentre si lava le mani, il fruscio dell’asciugamano.

I passi, di nuovo.
Che si avvicinano.
Si ferma, in piedi, di fronte al divano.

Ecco, pensò lei, in un momento di improvvisa consapevolezza: adesso tocca a lui, può rovinare tutto, oppure… oppure.

Silenzio.

– Alzati – disse lui. La voce tremava appena, potrebbe essere più dura e decisa, ma può andare.

Lei non fece nulla.
Restò seduta, con il telefono in mano.

Silenzio.

– Alzati – ripeté.

Lei, lentamente, finalmente alzò lo sguardo dal telefono.

Cazzo, è bello.
Cioè, lo ha sempre, fin dalla prima volta che l’ha visto, trovato un bell’uomo, non un modello o un attore, no, ma bello nel senso di un uomo vero, normale, bello.
Ma stasera è bello di una bellezza diversa.
Alto, con la camicia un po’ stropicciata dopo una giornata al lavoro, le mani sui fianchi, e visto da sotto in su è anche alto e grosso.

E si alzò.
Lentamente, con un atteggiamento annoiato.

– Ecco, mi sono alzata, contento? –

Lui non rispose.
Le girò attorno.
Lei lo sentì dietro di sé.
Si impose di star ferma.

Cazzo, anche solo questo è meglio di metà del sesso che abbiamo fatto nella nostra vita.
Già solo con questo, potrei sdraiarmi adesso, toccarmi e venire, qui, davanti a lui.

– No – disse lui, interrompendo il flusso dei suoi pensieri – no, non sono contento per niente –
– E perché non sei contento? – rispose, senza vederlo, perché lui era fermo dietro di lei
– E me lo chiedi? Non c’è niente in tavola. Non c’è la cena pronta. Come mai? –
– Non avevo voglia – rispose, e la sua voce tremava.

Lui tornò davanti.
La guardò.
Scosse la testa.
Sospirò.

È bravo, è bravo, è bravo, ti prego non smettere, pensò lei, in un attimo di consapevolezza.

– Cucinare, apparecchiare, sparecchiare, farmi felice – disse, guardandola – queste sono, nell’ordine, le cose che devi fare quando torni a casa. Lo sai, vero? –

Lei annuì.

– Ti ho fatto una domanda –
– Sì, lo so –

Lui scosse la testa.

– E se lo sai, cosa devi fare, ma non l’hai fatto perché non ne avevi voglia, allora dobbiamo trovare un modo per farti venire voglia, per la prossima volta, sei d’accordo? –
– S… sì –
– Bene. Girati. Abbassa i pantaloni. Appoggiati allo schienale –

Lei per un attimo chiuse gli occhi.
Abbassò la testa.
Qualcosa, dentro, la sotto, si stava sciogliendo, e diventava umido e caldo e poi ancora più umido e più caldo.
Riaprì gli occhi, e tenendo la testa in basso, notò la sua erezione dentro i pantaloni.
Cazzo.
All’improvviso le venne voglia di inginocchiarsi, sfilargli pantaloni e mutande e prendergli il cazzo in bocca.
Un desiderio, quasi un bisogno fisico, di sentire quel cazzo duro tra le labbra, sulla lingua, sfregare sui denti, sbattere sul fondo della gola.

Ma non fece nulla di tutto questo.
Invece, si girò, e sbuffò, come se fosse infastidita.

– Ecco, contento? –
– I pantaloni, ho detto –

Un altro sbuffo, poi si slacciò i jeans, abbassò la cerniera e li lasciò scivolare alle caviglie.

– Così…? – chiese, con tono canzonatorio.

Mi sa che adesso si incazza davvero, pensò in un istante.
E l’idea che lui si incazzasse davvero, mentre lei era lì, seminuda, dandogli le spalle, la eccitò ancora di più.
Sentì il calore scendere dallo stomaco verso il sesso, che iniziò a pulsare, sordo.
Speriamo non se ne accorga.

Ma perché, speriamo non se ne accorga?
perché sì, ecco perché.

– Piegati, appoggiando i gomiti al bracciolo del divano – disse lui, con tono freddo

Lei non disse nulla, appoggiò i gomiti come le aveva detto e così facendo si piegò in avanti, ma lo fece il più lentamente possibile.
Lui rimase fermo e zitto.

– Va bene così? – gli chiese

Lui non rispose, si abbassò e le sfilò i jeans dalle caviglie.

– Allarga le gambe. Di più. Basta così –

Lei obbedì meccanicamente.

Lui fece un mezzo passo indietro, e lei sentì, quasi fisicamente, che la stava guardando.
Sentì i suoi occhi sulle caviglie, sulle gambe, sulle cosce, sul culo.
Ebbe un momento di imbarazzo, quasi di pudore, come se chi la stava guardando non fosse il suo compagno, l’uomo della sua vita, con il quale era normale stare nuda e condividere il bagno, ma un estraneo.

Poi, rimase ferma.

– spingi il culo in fuori. Di più. Di più. Inarca la schiena. Ecco, così. Ferma. Adesso non ti muovere se non te lo dico io –

lei piegò appena la testa e riuscì a intravvedere la propria immagine riflessa nello sportello di cristallo di uno dei pannelli del mobile del soggiorno: una figura di donna, in mutando e maglietta, appoggiata al bracciolo del divano, con le gambe larghe e tese, la schiena inarcata e il culo in fuori.

Cercò di memorizzare quella immagine lontana e sfuocata, cazzo, si disse, se anche non succedesse nient’altro, questo è abbastanza per toccarmi e venire per almeno un mese.

Lui era in piedi, dietro di lei.

Cercava di mantenere il respiro sotto controllo, ma sentiva che il cuore aveva aumentato i battiti.
Senza contare l’erezione che spingeva contro i pantaloni.

Guardò il culo della sua compagna, i glutei tagliati a metà dalle mutande, la fica spinta in fuori e le gambe larghe: potrei, si disse, potrei semplicemente abbassarle le mutande, o magari spostarle di lato e basta, e scoparla così, adesso, magari prendendola con forza, e sono sicuro che le piacerebbe e verrebbe e verrei anche io e poi ci metteremmo sul divano a farci le coccole e magari mangeremmo lì, sempre sul divano, nudi sotto una coperta, e ci addormenteremmo felici.

Ma non fece nulla.
Rimase fermo.
Inspirò.
Si leccò le labbra.

Rimasero lì, così, per dieci, venti, forse trenta secondi.

Ma per loro furono lunghissimi.

Fino a quando lei, perché sono sempre le donne a sbloccare queste situazioni di stallo, agitò appena appena il culo.

Destra – sinistra, destra – sinistra.

Non un invito, men che meno nulla di sexy.
No, solo come a dire, ehi, io ci sono, io ti aspetto, fai quello che devi, lo voglio anche io, anche se non so bene cosa sia, ma ci sono, voglio andare ancora un po’ più in là.

Il culo di lei era rosso.
Non rosa, no. Rosso.
Ma si distinguevano lo stesso i segni delle dita, delle mani, ancora più rossi e scuri.

I capelli erano sfatti e sudati, gli occhi liquidi, il respiro stava appena tornando normale.

I seni le facevano male, con una mano se ne massaggiò leggera uno, e al tocco lo sentì indolenzito, provò a stringere appena e quel piccolo dolore le bastò per socchiudere gli occhi.
Respirò a fondo, sentendo ancora in bocca il sapore del suo cazzo, e in gola quello del suo sperma. Deglutì, e in fondo alla gola sentì distintamente il punto dove lui aveva spinto la sua cappella, quando l’aveva afferrata per i capelli.

Sorrise.

Lui aveva gli occhi chiusi, e le accarezzava distratto una spalla.
Con l’altra mano si sfiorò il cazzo, molle e ancora umido.

Lei gli scivolò lenta addosso, strusciandosi sulla sua pelle.
Gli si inginocchiò davanti, in mezzo alle gambe, lo guardò con un mezzo sorriso, appoggiò un leggero bacio alla base del cazzo e si alzò.

– Se vuoi farti una doccia e vestirti, io preparo la cena – gli disse.

Fece un passo verso la cucina, si fermò, si girò appena – io posso vestirmi? –

Lui la guardò, nuda, in piedi, con il culo rosso per i segni delle sculacciate.

Si alzò.
Le andò accanto, e le accarezzò un gluteo.

– No – disse, infine, allontanandosi verso la camera – no, resta così –

L’insalata era buona, croccante, poco condita, come piaceva a lui.
Il pane, fresco di giornata, tagliato a fette appoggiate in un cestino di vimini.
Su un altro piatto, la frutta, sbucciata e tagliata, era già pronta.

Lui prese la bottiglia di vino rosso – ne vuoi? – le chiese.

– Sì, grazie – rispose, allungando il bicchiere attraverso la tavola

Lui le sorrise, e versò il vino.

– Dimmi se ti piace – le disse – è una cantina nuova, me ne ha parlato un collega, ne ho prese un paio di bottiglie per provare –

Lei annuì, annusò e poi assaggiò il vino, piegò la testa di lato, con quel gesto che lui amava così tanto, anche se non glielo aveva mai detto, e sorrise – buono. Forse un po’ troppo pesante, per la stagione, ma buono –

– Sono d’accordo – disse lui, guardandola.

Erano seduti uno di fronte all’altra, la tavola apparecchiata, tovaglia, tovagliette, bicchieri, piatti, tovaglioli.

Lui indossava un vecchio paio di jeans e una t-shirt i un’università americana.

Lei era nuda.
Sedeva rigida, con la schiena dritta e “le tette in fuori”, come le aveva detto lui, prima che le permettesse di sedersi.

Quando, prima, era uscito dalla camera, dopo la doccia, l’aveva trovata in cucina, nuda, in piedi, con le mani dietro la schiena, in silenzio.

Lui aveva guardato la tavola, aveva annuito, poi si era seduto.

– Siediti – le aveva detto

Quando lei si era seduta, aveva aggiunto – ferma. Resta ferma. Testa alta, guardami. Spalle indietro, schiena dritta, tette in fuori. Di più. Ecco, così –

Ci aveva pensato per tutta la doccia, e mentre si asciugava e vestiva.
Ci aveva pensato perché aveva ancora voglia.
In bagno, con la nebbia umida che ricopriva lo specchio, si era domandato come avrebbe dovuto comportarsi, adesso.

Certo, la soluzione migliore sarebbe stata andare da lei, abbracciarla, darle un bacio leggero, aprire una bottiglia di vino e offrirle un aperitivo.
Facile, semplice.

Certo, facile e semplice se non le avessi detto di restare nuda, e se lei non avesse fatto una piega quando gliel’ho detto.

Ma invece adesso io vado di là, e la trovo nuda, che cucina, che apparecchia, probabilmente con il culo ancora rosso e i segni delle sculacciate sulle chiappe.

E mentre pensava a queste cose, il cazzo gli si era risvegliato, aveva socchiuso gli occhi e aveva ripensato ai rumori, ai sospiri, ai gemiti che aveva fatto lei, prima, in soggiorno, piegata sul bracciolo, mentre la lui la sculacciava mentre con l’altra mano le stringeva i capelli sulla nuca, per obbligarla a tenere la schiena inarcata.

E con questa immagine, con quei suoni in mente, era entrato in cucina, e le aveva detto come sedersi.

Poi era andato un po’ tutto a rotoli, perché vederla così, nuda e seduta di fronte a lui, non aveva resistito, si era alzato, l’aveva baciata e portata in camera, dove avevano fatto l’amore, e dove erano rimasti, nudi e sdraiati, appena coperti da un lenzuolo stropicciato.

Lei restava in silenzio, con gli occhi chiusi.
Aspettava che lui dicesse qualcosa, ma lui restava fermo, mentre con una mano le accarezza distrattamente la nuca.

Alla fine fu lei, come sempre, a prendere l’iniziativa.
Con un certo timore, ma confidando in quello che era successo prima.

Quindi si girò su se stessa, e si mise sopra di lui, sdraiandosi e appoggiando la testa sul suo petto.

Il suo seno destro era tra le cosce di lui, e lei sentiva il cazzo, molle e peloso, vicino al capezzolo.

– Voglio dirti una cosa – gli sussurrò, infine, senza alzare lo sguardo.

Lui rimase in silenzio, ma lei sentì la tensione nel suo corpo.

– Voglio parlarti di… noi –

Questa volta lui non riuscì a restare fermo e indifferente – noi? – chiese.
Ecco, se c’è una domanda stupida da fare, per rovinarmi tutto, era questa… “noi?”, che cazzo di domanda è?

Ma per fortuna lui aggiunse – noi… noi, o noi nel senso di… quello che è successo prima, stasera? –

Lei sospirò appena, sentendosi appena più tranquilla.
Allora non è del tutto scemo, pensò, sorridendo appena.

– No, noi nel senso di quello che è successo prima, stasera… –
– Ok – annuì lui, e rimase in silenzio.

Lei prese fiato, e sempre senza guardarlo (era molto più facile, così), iniziò a parlare.

– Però… ecco, non è facile quello che sto per dire… quindi… quindi per piacere non mi interrompere, o meglio, cioè… interrompimi subito, appena… cioè, se dico qualcosa che non ti piace… –

Deglutì.
Non sta andando bene, proprio per niente.
Almeno lui sta zitto.
Riproviamo.

– Non mi interrompere, a meno che non voglia che io smetta di dire quello che dirò… hai capito? –
– Mhm –

Un altro, lungo respiro.
Poi lei prese coraggio, si disse un’ultima volta che l’unica cosa di cui era sicura era di amarlo, e che anche lui l’amava, e che lo faceva per tutti e due.

– Allora, ecco… volevo dirti, uff… – silenzio, di nuovo, denso di attesa e timore – volevo dirti di quello che è successo, oggi, prima… ecco, volevo dirti cosa mi è piaciuto, e cosa no –

Un istante di timore.
Ecco, e se adesso si blocca, spaventato?

– Perché… perché vorrei che… fosse ancora… meglio. Ecco, solo per questo ti… dico, cosa non mi è piaciuto –

Silenzio.
Lui, lentamente, mosse la mano e le accarezzò piano i capelli.
Lei capì, che era il suo modo di dirle, ehi, ci sono, va tutto bene, vai avanti.
Ecco, vado avanti.

– Mi è piaciuto che… mi è piaciuto aspettarti, aspettare, fare quello che mi avevi detto… ordinato… di fare, cioè, non ho fatto niente di quello che mi avevi detto, lo so, ma l’idea… che tu… mi avessi detto, che mi dica cosa fare… cioè non è cosa “cosa”, hai capito… cioè, è proprio l’idea che tu mi dica cosa fare che mi… piace –

Di nuovo, silenzio.
Ecco, un secolo di lotte femministe, buttato nel cesso.
Come un flash, le venne in mente la protagonista di c’è ancora domani, che la guardava sconsolata, scuotendo la testa.
Aspetta, le disse, aspetta, non è finita qua.

– Mi piace, mi… – sospiro. Lo dico? Lo dico – mi eccita – ecco, l’ho detto – che non vuol dire che faccio sempre quello che vuoi tu, cioè, in un certo senso, sì, ma perché… come dire… –
– Perché sei tu a volerlo – disse lui – scusa, scusa, non dovevo interrompere –
– No, anzi, è… giusto. È esatto, è quello –

Silenzio, di nuovo.
Lei gli accarezzò appena la pelle, con la punta dell’indice, sul petto.

– E mi è piaciuto anche… quando mi hai… fatto… fatto male –

Ecco, l’ho detto.
Non si poteva dire in un altro modo?
Boh, sì, no, forse, ma questo è il modo giusto, di dirlo, senza girarci intorno.

– E quando mi hai scopato, mi è piaciuto… –

Uff, perché doveva essere così complicato, parlare di certe cose?

– Mi è piaciuto, che sei stato… egoista. No, aspetta, lo so che pensi sempre a me… intendevo… –

Lui la accarezzò di nuovo.

– E cosa non ti è piaciuto? –
– Ecco, questo è… strano… –

Ennesima pausa.
Ennesimo respiro, come una rincorsa.
Ennesimo tuffo, senza sapere come andrà a finire.

– Non mi è piaciuto che sia… che… che finisca, quando… dopo che abbiamo finito… non mi è piaciuto che finisca quando finisce il sesso –

Si alzò, si mise in ginocchio, accanto a lui sdraiato.
Lo guardò, poi gli prese la mano tra le sue.
Se la appoggiò sul petto, tra i seni.
Lo guardò.

– Voglio essere tua. Tutta. Sempre. Non solo per il sesso. Voglio che non ti preoccupi di me, almeno fino a quando non sia a io a dire basta –

Lui non disse niente, ma la guardò intensamente.

– Però – aggiunse lei – c’è una condizione –
– Dimmi – rispose lui
– Questa cosa vale solo se sei disposto a essere quello che… quello di prima, di oggi. E quando non lo vuoi essere, ci fermiamo e torna tutto come… prima, fino a quando non sei di nuovo pronto. Io posso aspettare, se so che prima o poi ritorna, ritorni quello… quello là –

Lui le mise una mano sulla spalla, e la tirò in basso, verso di se’.

– Baciami – le disse, e quando lei fu piegata su di lui, con gli sguardi che si incrociavano e le labbra a pochi centimetri, lui aggiunse – te lo ordino -, e lei sentì qualcosa di caldo dentro, trattenne un sorriso e lo baciò, sussurrandogli prima – ti amo -.

E niente, lei lo baciò, lenta, appassionata, innamorata, e lui sentì un piccolo brivido, là sotto, niente di più eh, perché alla fine era venuto proprio pochi minuti prima, e però, di solito, dopo essere venuto lui era sempre romantico e tranquillo e tutto e invece, boh, tipo, che se magari il coso, là sotto, adesso si fosse tirato su, lui avrebbe anche ricominciato.

Invece, insomma, l’uomo programma ma la natura decide, che deve essere una specie di proverbio contadino, e quindi là sotto niente, e lei si alza e va in bagno, e lui le osserva ancora il culo, nudo, e poi guarda in alto, il soffitto.

Eh, la fa facile, lei.
Comodo.
Non voglio che tu smetta, devi essere quello lì, e io posso aspettare, e decidi tu ma in realtà decido io anzi decidiamo insieme, eh, sembra facile.

E invece non è facile per niente, pensa lui.
E sai perché?
No, no che non lo sai.
Eh.
Non lo sai perché non te l’ho mai detto.

Sai cosa non ti ho mai detto?, pensa lui.

Per esempio, ricordi quella sera, un po’ bevuti e un po’ no, ma facevamo finta, che dire di essere più ubriachi di quanto si sia è sempre un modo comodo di superare certi confini, e io ti ho chiesto, e tu mi hai chiesto, tu ti sei mai toccata tu ti sei mai fato una sega pensando qualcuno dei nostri amici delle nostre amiche, e tu mi hai detto una volta, sì, ma non con un amico, no, con Sandro, e io Sandro?, il papà di Marco, e tu sì e abbiamo riso, e tu mi hai chiesto e tu?, e io ti ho detto sì, Giovanna, ma come Giovanna, con tutte le amiche fighe che ho, l’unica cicciona?, e abbiamo riso ancora, e basta.

Eh ma non ti ho detto che io, Giovanna, quella volta che mi sono masturbato pensando a lei, che poi non è una volta, ma sono decine, ma insomma, io Giovanna la immagino legata, mentre la sculaccio, la frusto, la umilio, la sodomizzo, e quando nella mia fantasia Giovanna piange e singhiozza, allora e solo allora, vengo, e le vengo in faccia e le vengo sulla bocca sugli occhi sulle lacrime.

E come faccio, adesso, che mi dici che mi vuoi come prima, ma io prima, io ho appena socchiuso una porta che con te non ho mai nemmeno pensato di aprire, e sai, amore mio, da un lato l’idea di poterti avere così come ti sogno, mi eccita e mi commuove insieme, ma dall’altro la paura di perderti, o anche solo di ferirti, o di non essere la persona che tu ami, mi terrorizza.

Ecco, si disse senza staccare gli occhi dal soffitto bianco, ecco, vedi, com’è difficile? E io non so cosa

ma lei uscì dal bagno, nuda, e rimase ferma, in piedi, davanti al letto.

In silenzio, guardandolo.

Lui ci pensò un istante.
Piano piano, con molta attenzione, e sforzandoti di parlare, si disse.

Quindi si tirò su, si sedette sul letto, le sorrise.

– Metti il pigiama, e mettiti a letto. Aspettami sveglia –

Lei non sorrise (brava!) ma sussurrò solo – sì – e prese il pigiama.

Lui andò in bagno, e quando uscì la vide a letto, ferma, sotto le coperte.

Con calma si mise anche lui la maglietta e i boxer che usava per dormire, e si infilò a letto, accanto a lei.

– Posso leggere? – gli chiese
– Sì – rispose

Si girò verso il comodino, fece per spegnere la lampada, poi si fermò e senza guardarla disse – domani mattina, svegliami alle sette e mezza. Lavata, e vestita solo con mutandine e una maglietta. Colazione pronta, in tavola. Buonanotte –

– Buonanotte –

Di notte, lui si svegliò per andare in bagno.
Come sempre, fece tutto in silenzio, facendo attenzione a non svegliarla.
Tornato a letto, sentì come capitava spesso il cazzo indurirsi un po’.

E se…?, si chiese, guardandola dormire nella poca luce dei lampioni della strada che filtrava dalla finestra, poggiata sul fianco, con le coperte che mettevano in evidenza i fianchi.
Chissà, si rispose. Magari, prima o poi, se questa strana cosa andrà avanti.

Lei sentì i rumori, come sempre, di lui che andava in bagno, e si svegliò.
Lo sentì andare, e poi tornare.
E sentì anche, in qualche modo, lo sguardo di lui sul culo.

E se…?, si chiese.

E se lo facesse?, lo dovrebbe fare nel modo giusto, prendendosi quello che vuole, quello che è suo, senza chiedere.
Così, di notte, senza chiedere prima, né spiegare dopo.

E solo il pensiero le fece stringere appena le gambe.

Ma lui si infilò sotto le coperte, e lei pensò di essersi immaginata tutto.
Vabbè, pensò, mentre riprendeva sonno, vediamo come va domani mattina.
E si addormentò con un accenno di sorriso.

La sveglia suonò alle sei e mezza.
Da sempre, lei teneva il volume della sveglia sul telefonino bassissimo, tanto che lui non la sentiva mai ed era poi lei, a chiamarlo.
Anche quella mattina, quindi, lei allungò veloce la mano e spense la suoneria, e girandosi lo vide addormentato, gli occhi chiusi e i capelli sfatti, le labbra semiaperte, il respiro leggero.

Sorrise, con la consapevolezza di amarlo, piena e profonda.

Si alzò in silenzio, e si chiuse in bagno.
Si lavò con cura i denti, e si infilò nella doccia.
Lavandosi, passò la mano in mezzo alle gambe, socchiuse gli occhi e alzò la testa, lasciando l’acqua calda a scorrerle addosso.
Chissà cosa succede, adesso, pensò.

Mi scoperà?
Speriamo di no.
Cioè, sì, speriamo che mi scopi, ma dopo.
Dopo che cosa, poi, non lo so.
Ma magari, pensò, mi sculaccia mentre faccio i piatti.
O invece non sarà contento della colazione, e dovrò stare in piedi, in un angolo, faccia al muro.
E non mi scoperà nemmeno, tipo come punizione.

La mano si mosse lenta e con più intensità, e un dito si spinse appena dentro, mentre pensava queste cose, e sentì immediatamente le labbra aprirsi, e le dita diventarono due e sospirò ancora, e poi si fermò.

Basta, basta.
Devo tenermi per lui.

Si asciugò, e uso il phon per i capelli, sapendo che non l’avrebbe svegliato, come al solito.
Spense la luce, uscì nuda dal bagno, in silenzio prese dal cassetto un paio di mutande bianche, di cotone, e la maglietta di un festival jazz di qualche anno prima.

Sempre in punta di piedi, uscì dalla camera chiudendo piano la porta dietro a se’.

In corridoio, si vestì, indossando veloce mutande e maglietta.

Si guardò nello specchio, e si trovò quasi eccitante, seminuda, scalza, da sola.

In cucina, preparò la tavola apparecchiando per due, mettendo al centro un barattolo di marmellata, delle fette biscottate, dello yogurt, dei cereali, del latte, succo di arancia.

Non che lui, o lei, mangiasse tutte queste cose, a colazione, ma le piaceva l’idea di preparare tutto, così che lui potesse scegliere.

Mentre faceva il caffè, tenendo d’cocchio l’orologio (mancano due minuti!), percepì il proprio corpo, i seni nudi, sotto la maglietta, i capezzoli che sfregavano appena contro la stoffa, le cosce e il culo all’aria, e le mutande che tiravano appena sulla figa.

Quando il caffè fu pronto, lo lasciò nella macchinetta, per non farlo raffreddare, e quando mancava un minuto alle sette e mezza si diresse verso la camera.

Aprì la porta.
E adesso?
Cosa devo fare?
Non mi ha spiegato niente, lui.
Cioè, lo sveglio come se fosse tutto… normale?, cioè buongiorno amore, un bacio sulla guancia, apro le imposte e via?
Gli faccio un pompino?
Non me l’ha mica detto.
Non sta a me prendere iniziative.
Ecco.
Mi ha detto solo svegliami alle sette e mezza, sono le sette e mezza, e io lo sveglio.

Fece due passi dentro la stanza.

– Sono le sette e mezza – disse, a voce alta, ma con tono dolce – buongiorno, ben svegliato –

Lui sospirò, con gli occhi chiusi, poi si girò su un lato, dandole le spalle, e rimase così.

E adesso? si domandò lei.
Si è svegliato? Dorme? E se dorme ancora, cosa faccio? Aspetto, o lo sveglio di nuovo?

Lui non dormiva, proprio per niente.
Appena lei aveva aperto la porta si era svegliato, ma era rimasto fermo, fingendo di dormire.
Poi quando lei lo aveva chiamato, aveva fatto finta di svegliarsi e si era girato.

Ok, e adesso?
Che faccio?
Mi abbasso i boxer, la chiamo e me lo faccio succhiare?
Bello.
Sì, ok, bello, ma forse un po’ troppo banale… magari lei si aspetta qualcosa di più… di più… boh.
Di più.

E quindi?
Vediamo.
Pensa.
In fretta, che non è che puoi star qui due ore.
Che cosa vorrei?

A parte il pompino.

Pensa.

Non è lei.
È un’altra.
Giovanna.
Non Giovanna Giovanna, ma tipo Giovanna.
Ecco, così forse funziona.

Lui si girò, la guardò, nella penombra, con gli occhi gonfi di sonno.
Lei trattenne un sorriso di sollievo.

– Vieni – disse lui

Lei girò attorno al letto, e si mise in piedi accanto a lui.

– Bacio –

Lei si piegò e gli sfiorò le labbra.
Sentì il suo odore, di sonno, di uomo, di capelli arruffati.

Lui si alzò, lento, e lei vide il cazzo gonfio, non ancora eretto ma gonfio, nei boxer.

– Vado in bagno. Fai il letto – disse, e senza voltarsi chiuse la porta del bagno dietro di se’.

Lei rimase ferma, a riflettere.
Era quello che si aspettava?
No.
Cioè, non sapeva cosa aspettarsi, probabilmente immaginava che lui si togliesse i boxer e si facesse succhiare il cazzo, subito, e invece, un bacio leggero, e questa cosa, fai il letto.

Senza riflettere, accese la luce, si piegò afferrando i lembi del lenzuolo, e facendolo la maglietta si alzò sui fianchi e sentì il culo con le mutande esposto.

E la sua figa iniziò a pulsare, appena appena.
Si fermò.
Com’è possibile? Come è possibile che questa cosa mi ecciti? Fai il letto, ha detto, ed è andato in bagno. E io faccio il letto, mezza nuda, ok, ma neanche troppo sexy.
Eppure, di nuovo, qualcosa di caldo si mosse là, appena sotto lo stomaco.

Cazzo.
Adesso però stai rischiando, gli disse col pensiero, perché con questa cazzata del fai il letto hai alzato l’asticella, oh sì, e quindi ci vuol poco per mandare tutto all’aria.

Non fare cazzate, non fare cazzate, gli ripeteva come un mantra, nella sua mente, mentre rifaceva il letto con un’attenzione e una cura maggiori del solito.

Quando il letto fu pronto, rimase ferma.
E adesso?
Adesso aspetto, si rispose.
E si mise ferma, in piedi, accanto alla parte del letto dove dormiva lui.

In piedi, in mutande e con la maglietta, ferma, ascoltò il suono della doccia che finiva, l’acqua del rubinetto, il ronzio dello spazzolino elettrico, il silenzio mentre lo immaginava passo passo regolarsi la barba col rasoio, passarsi il deodorante, pettinarsi.

Poco dopo uscì dal bagno.
Indossava un paio di shorts di una squadra di basket, che lei odiava (gli shorts, non la squadra), perché erano una roba da ragazzini, ma lui rispondeva li metto solo in casa, mica ci vado in giro, e una tshirt blu scura, senza loghi.

Osservò con attenzione il letto (come si permette? Cioè, sta controllando che lo abbia fatto bene? Ma chi cazzo si crede di essere? E come mai di nuovo sento la figa pulsare?), accennò un sorriso, disse – andiamo – e uscì dalla camera.

Senza aspettarla.
Lui, di solito sempre così galante ed educato.

Lo seguì, ed entrando in cucina lo trovò già seduto.
– Caffè – le disse, e lei versò il caffè in una tazza e glielo appoggiò davanti.

Lui prese un sorso dalla tazzina, tenendola tra due dita con quel gesto che lei aveva sempre trovato buffo, quasi femmineo, aspirando l’aroma dal naso.

Poi posò la tazzina, guardò quello che c’era sul tavolo, indicò lo yogurt e i cereali, disse – preparamelo – e poi prese un sorso di succo d’arancia.

– Subito – rispose lei.

Si girò, dalla credenza prese una ciotola, aprì il vasetto di yogurt, versò il contenuto nella ciotola, poi aggiunse i cereali.

– Basta così? Ci vuoi il miele? –
– Sì, il miele sì –

Di nuovo si girò, aprì un pensile, prese il vasetto del miele e con un cucchiaino le lasciò cadere un filo nella ciotola.

– Mescolo? –
– No, faccio io –

Lei, in piedi accanto a lui, gli porse la ciotola.

Lui la appoggiò sulla tovaglietta, poi alzò gli occhi e la guardò.

– Come la mangio? –
– Oddio, scusa! –

E si girò in fretta e prese un cucchiaino pulito dal cassetto, e glielo porse.
Lui fece per iniziare a mangiare, si fermò e la guardò.

– Vuoi fare colazione anche tu? –
– Come… come vuoi tu? –

Arrivare fino a qui era stato complicato, per tutti e due.
Complicato, ma emozionante.

Lui aveva deciso di provare a essere distaccato, non duro, non aggressivo, no, e di non fare nessun riferimento sessuale, nemmeno implicito.
Quindi fai così e cosà, voglio questo e non quello.

A un certo punto, si era anche accorto che la cosa gli stava venendo, come dire, naturale, e lo faceva quasi senza pensare.

Lei si sentiva come se stessero camminando su una corda.
Stava andando tutto bene.

Cioè, non nel senso che lui stesse facendo ciò le sarebbe piaciuto, che poi nemmeno lo sapeva, cosa le sarebbe piaciuto, ma la situazione, l’atteggiamento, ecco, forse più di tutto il fatto che lui stesse riuscendo a far sembrare tutto… “normale”, ecco, quello sì.

E in un certo senso lei era terrorizzata dall’idea che uno dei due facesse qualcosa di sbagliato, e rovinasse tutto.

Ci siamo, pensò lui, dopo quel veloce e banale scambio di battute.
Ci siamo, pensò lei.

– Puoi fare colazione – disse lui, e lei si mosse appena verso il tavolo – ma – aggiunse lui, e lei si bloccò.

Può una congiunzione così banale, così comune come un semplice “ma”, diventare tanto importante?

Quando sentì “ma”, lei si bloccò e istintivamente pensò “sì, cazzo”.

Quando disse “ma”, lui sentì il cazzo muoversi, negli shorts.

– Ma prima dimmi, pensi di avere fatto tutto per bene? –

Lei ripercorse velocemente la mattina.
La sveglia bassa, la doccia, i vestiti, tutto come le aveva detto.
La colazione, pronta, il caffè, pronto, poi l’aveva svegliato all’ora esatta, aveva fatto il letto, e poi era stata precisa e obbediente.
E quindi?

– sì…credo di sì –

Lui la guardò.

Non è lei.
È Giovanna, Paola, Antonella, Silvia. È una sconosciuta. È tutte le donne di cui hai fantasticato. Tutte, tranne lei.

– Il caffè era tiepido. Non c’era la tazza per lo yogurt. Non c’era il miele. Non mi hai dato il cucchiaino – disse infine, con tono monocorde
– Scu… scusa –

Che poi.
Fino all’altro ieri, se mi avesse detto così avrebbe preso due ceffoni e magari anche un calcio in culo, ‘sto fenomeno.

E invece adesso, se mi chiedesse di succhiargli il cazzo per farmi perdonare… ehi, dai, chiedimi di succhiarti il cazzo per farmi perdonare, ne ho voglia, e poi mi toccherò pensandoci per giorni e giorni… chiedimelo, cazzo.

– Sono venti – disse lui, invece

Venti? Venti cosa? Io ho voglia di succhiarti il cazzo e tu giochi agli indovinelli, alle tabelline?

– Cinque per ogni errore: il caffè tiepido, la tazza dello yogurt, il miele, il cucchiaino. Cinque per quattro, venti –

E grazie al cazzo impanato, guarda, pensavo che cinque per quattro facesse centoventirè.

Lui rimase fermo e zitto.

Ok, ho capito.
Tocca a me.
Obbedisco.

E di nuovo, pum pum, una pulsazione sorda, là sotto.

– Venti cosa? –

Ecco, ci siamo.
Secondo me va bene, si può fare, si può dire, insomma, me l’ha detto lei, ieri.
Proviamo.

Respiro.

– Sculacciate. Cinque sculacciate per ogni errore. Quattro errori, venti sculacciate. Poi, potrai fare colazione –

Lei rimase zitta.
Oh cazzo.
Questo è quasi meglio che succhiargli il cazzo.

Se ci aggiunge qualcosa, qualcosa di verbale, diventa anche meglio di succhiargli il cazzo.
Potrebbe per esempio

– Sei d’accordo? –
– In che senso? –
– Voglio sentirtelo dire. Che sei d’accordo a essere punita per gli errori che hai fatto nel prepararmi la colazione –

Da dove salta fuori questa cosa?
Dove l’hai tenuta fino adesso?
Adesso ti punisco io, altroché, per tutti gli anni in cui ho sognato, no, nemmeno sognato, appena appena osato immaginare, qualcosa di simile.

– Sono d’accordo –
– D’accordo su cosa? –
– Su… essere punita –
– Punita per cosa? –

Eh, lo so cosa devo dire, non sono mica scema, in fondo ho una laurea e tutto il resto, ma no, ciccio, adesso me lo tiri fuori un pezzo alla volta, che ma la voglio godere tutta.

– Punita per gli errori –
– Quali errori? –

Guardala, come vuole giocare.
Oh, potrei, vorrei tenerti qui per delle ore, solo a fare questo gioco.

– Gli errori fatti nel preparare la colazione –
– Preparare per chi? –
– Scusa… nel prepararti la colazione? –
– Ecco, adesso tutto insieme, dall’inizio –

Posso accarezzarmi la figa mentre lo dico?
Appena appena?
Anche solo attraverso le mutande?
Solo con un dito, solo poco poco, posso?
Solo l’idea di accarezzarmi mentre lo dico, mi fa venire una voglia irresistibile di farlo.
Posso?
Non glielo chiedo.
Me la tengo qui, la voglia, e ci soffro, dalla voglia, e mi godo la sofferenza della voglia.

Eccomi.

– Sono d’accordo a essere punita per gli errori che ho fatto nel prepararti la colazione –

Ecco.
L’ha detto.
E se la conosco appena, le è piaciuto.

Si alzò.

È alto, pensò lei.
Ha il cazzo duro, pensò anche.
Piace anche a lui.
Ho sempre voglia di succhiarglielo.
Potrei inginocchiarmi, abbassargli i pantaloncini e farlo.
E invece no.
Sto ferma e brava.

Ecco, adesso ho il cazzo di marmo.
Ecco, adesso la giro, la piego sul tavolo e la scopo.
No, che secondo me lei ci resta male.
No, che ho voglia di altro, e scoparla sarebbe solo un modo di evitare di affrontare le mie paure per tutta ‘sta cosa.

– Girati. Appoggiati al lavello. Spingi il culo in fuori. Allarga le gambe. Alza la maglietta sui fianchi –

Lei obbedì meccanicamente.
Si girò, appoggiò le mani al lavello, poi socchiuse gli occhi.
Sì, culo in fuori.
Sì, gambe aperte.
Sì, maglietta tirata su e culo scoperto.

– Infila le mutande tra le chiappe –

Perché non lo fai tu?
No, bravo.
Mi piace, che lo faccia fare a me? Forse. Ma mi piace come me l’ha detto.
Ecco, così, va bene?
Mi da fastidio, sento la stoffa che sfrega contro il buco.
Ecco, fatto, va bene?

Brava.
Io adesso vorrei tanto inginocchiarmi dietro di te, spostarti le mutande di lato e leccarti, leccarti e leccarti fino a quando non vieni, e poi scoparti, calda e umida come so che saresti.

– Adesso voglio che tu me lo chieda –
– Che cosa? –

Verbale, verbale, verbale.
Oh mamma.

– Chiedimi di punirti per ciascun errore. Adesso mi devi chiedere di punirti per avermi dato il caffè tiepido –

Ok.
Ok ok, lo faccio.

Mi fai un video mentre te lo chiedo? O anche solo una registrazione audio?

Lo tengo per me, promesso, lo userò o solo quando ne avrò davvero davvero bisogno, quando avrò voglia di un orgasmo forte e violento, eh?

– Puniscimi per averti dato il caffè tiepido –
– Per favore –
– Per favore, puniscimi per averti dato il caffè tiepido –

Davvero, sto davvero chiedendo di essere punita per aver dato un cafè non bollente, e lo sto chiedendo per favore?

Rimase ferma, ma resistere alla tentazione di toccarsi tra le gambe le costò più di un brivido.

Lui la guardò, e si accarezzò il cazzo attraverso i pantaloncini.
Che si sappia che mi piace, tutto questo.

– Conta – disse, e senza aspettare le assestò una sculacciata

Non se l’aspettava, ma riuscì a rimanere ferma e a contare – uno –

Arrivati a cinque, lui le disse di ripetere tutto, questa chiedendo di essere punita per aver dimenticato la tazza dello yogurt. Per favore.

E dopo cinque sculacciate, di nuovo, per favore, puniscimi per il miele, e poi per il cucchiaino.

Le ultime sculacciate le fecero male.
Le prime no, cioè sì, ma era eccitata e presa dalla situazione e dalle parole e contare e per favore e tutto, ma le ultime cinque fecero solo male, e lei contò in fretta, a denti stretti, sperando solo che finisse tutto il prima possibile.

E finì.

E lei sentiva il dolore sordo e caldo sulle chiappe, e pensò ecco, allora se mi fa così male allora è una punizione vera non un gioco, e questo pensiero le entrò dentro e all’improvviso si sentì eccitata come prima, più di prima, e di nuovo la voglia, quasi l’esigenza, di fare qualcosa per lui, di essere sua, di fare un gesto che significasse sì, sono qui, sono tua, mi stai sottomettendo, qualsiasi cosa questo significhi.

– Siediti, e fai colazione –
– Grazie –

Sedendosi, sentì il caldo del culo, dove l’aveva colpita, e si mosse piano sulla sedia, fino a trovare la posizione meno scomoda.

Lui la guardò, mentre lei spalmava un velo di marmellata su una fetta biscottata.

– Non ti hi mai vista così bella come prima, durante le ultime sculacciate, sai? –

Lei sentì le lacrime riempirle gli occhi, e senza accorgersene iniziò a singhiozzare.

Con la testa tra le mani, le spalle che tremavano per i singhiozzi e gli occhi chiusi, lei sussurrò – scusa -.

Lui si alzò, senza dire nulla si mise dietro di lei, si piegò e la abbracciò, lento e forte e caldo.
Infilò la testa tra i capelli e il collo di lei, senza baciarla né niente, solo tenendola stretta.

Lei spostò le mani su quelle di lui, aprì gli occhi, gli prese un dito, se lo portò alle labbra, lo baciò appena – ti amo, sai? – sussurrò, con la voce ancora tremante per i singhiozzi – e lui annuì appena, poggiandole piano la testa sulla spalla – anche io, anche io – e la strinse e lei alzò la testa, guardando il soffitto.

Rimasero così ancora e ancora, in silenzio, e a poco a poco lei riuscì a rallentare il respiro.

Senza guardarlo, gli prese la mano nella sua e se la posò su un seno.

– Stringi – sussurrò, e lui obbedì.

– Voglio farti godere – gli disse poi – dimmi cosa vuoi –

Lui si staccò da lei, si alzò, e lei vide il cazzo duro nei pantaloncini.

– No – le rispose – dimmi tu come vuoi farmi godere –

Lei accennò un sorriso, e all’improvviso si sentì piena di un’energia e di una felicità rare e profonde, quasi che le lacrime avessero abbattuto una diga, l’ennesima diga, dentro di lei.

Si alzò, nuda, e sempre sorridendo gli si accovacciò davanti, e allungò la mano verso i pantaloncini.

– No – la fermò lui.

Lo guardò, stupita.

– Ti ho detto dimmi come vuoi farmi godere, non di farlo –

Ecco, eccolo di nuovo, quel brivido dentro, che bastano due parole, mannaggiammè.

– Io – sospirò, e lo guardò da sotto in su, è bello, pensò, è bello e intelligente e forte e mio – io… voglio farti godere succhiandoti il cazzo –

Lo sapeva, da sempre, che in certe situazioni le parole volgari le facevano un certo effetto, ma le aveva sempre pensate, magari qualche volta se le era anche sussurrate, piano, attenta che lui non sentisse, mentre la leccava, o la scopava alla pecorina, ma questa volta, queste parole dette così, ad alta voce, guardandolo negli occhi, ecco, se adesso mi mettesse una mano tra le gambe, troverebbe caldo e umido, e tutto per queste poche parole.

Lui la guardò.
Non era certo la prima volta, che lei gli faceva un pompino.
Non era la prima volta, che gli si accovacciava davanti, per succhiargli il cazzo.
Però era la prima volta che diceva di volergli succhiare il cazzo.
Guardarla lì, sotto di lui, e sentirla dire così, gli fece venire il cazzo ancora più duro, in maniera quasi dolorosa.
E quindi?
Cosa faccio? Le dico di sì?
Oppure posso provare a…
Parlare lo rendeva molto più insicuro che fare; alla fine, prenderla, scoparla, insomma era facile, e se qualcosa non andava lei sapeva come fermarlo, rallentarlo, guidarlo, e non c’era bisogno di dirsi niente.
Parlare, invece, era pericoloso.
Ma siamo in ballo, balliamo.
Al massimo, faccio finta di ridere e dico che stavo scherzando, magari funziona.

– Chiedimelo –

Lei lo guardò.
Aprì appena le labbra, il respiro tagliato.
Come “chiedimelo”? cioè, una roba del genere, e me la butti lì così, come se niente fosse? Cazzo, ma lo sai che se mi dicessi di darti dei soldi, per poterti chiedere di succhiarti il cazzo, ecco io pagherei, solo per l’idea? E tu invece niente, tu la butti lì come se fosse la cosa più normale del mondo.
Stronzo.

– Posso succhiarti il cazzo? – ecco, l’ho detto,

Che bello.
È stato bello?
Oh sì, io qui sotto e lui lì, in piedi, e il suo cazzo teso, e io che gli chiedo se posso succhiarglielo, oh sì è stato bello, e sarebbe ancora più bello, praticamente perfetto se adesso lui dicesse

– Chiedimelo per favore –

Occazzo.
Occazzo cazzo cazzosissimo cazzo.
E questa da dove salta fuori?
Qual è il nome del demone che ha preso possesso del corpo del mio compagno? No, perché devo correre a cambiare il nome sul campanello, prima che cambi idea.

Piano.
Calma.
Adesso me la godo.
Sissì.
Lo faccio soffrire, poco poco.
Sissì.
Sto ferma e lo guardo e lo guardo con un’espressione che non si capisce se mi piace o mi sono offesa.
Ecco.

Le piace.
Le piace le piace le piace.
Fa finta.
Stronza.
Lo vedo che ti piace e fai finta.
Ti conosco.
Oh, come ti conosco.
Cioè, non ti conosco, perché questa roba qui, mamma mia, ma ti conosco.
E so quando qualcosa ti piace e se felice.
E allora ecco, ho un’idea.
Un’altra idea.
Vuoi vedere?

– In ginocchio, però –

Faccio lo sguardo incazzato.
Ma poco poco poco.
Che però sembri che non mi piace ma appena appena.
Appena appena, appunto, che non si spaventi.
Ma ti prego ti prego, continua.
Aspetta.
Ti ci porto io.

– In che senso? –
– Chiedimelo per favore, ma prima mettiti in ginocchio –

Ok.
Zitta.
Ha fatto tutto bene.
Di cosa hai voglia adesso? Adesso adesso?
Sono umida, no umida, bagnata, e penso se adesso si sdraiasse sotto di me e mi leccasse.
Mi aprirei subito, tutta, al primo passaggio della sua lingua, e mi struscerei sulla sua faccia sul suo naso sulle labbra fino a sentire i denti.
Ecco.
Adesso sì che sono nei casini.
Dicevo.
Ha fatto tutto bene.
Benissimo.
E allora facciamolo per bene, come si deve.
Ecco, così.
Sguardo perplesso, per un istante.
Poi, abbasso gli occhi.
Sospiro, appena appena.
Ginocchio destro a terra. Ahia, è duro.
Sinistro. Ahia.
Fa male.
Stà dritta con la schiena. Lo diceva sempre mamma.
Guardalo.
Prendi la rincorsa.

Siamo d’accordo che tra averla davanti nuda e accovacciata, e averla davanti nuda e in ginocchio, c’è tutta la differenza del mondo?
Ecco, sai, io adesso, ti terrei qui, così, per ore, giorni, pensa entrare in cucina e trovala così.
Pensa entrare e

– Posso succhiarti il cazzo, per piacere? –

E poi c’è lui appoggiato con la schiena ai cassetti delle posate, e lei in ginocchio nuda gli succhia il cazzo mentre lui le tiene una mano sulla nuca e l’altra tra i capelli, e gli bastò ripensare a quando l’aveva sculacciata, poco prima, per venire subito, forte, stringendole i capelli tra le mani e sospirando e chiudendo gli occhi e riaprirli e vederla assorta, con gli occhi chiudi le guance scavate mentre succhia e manda giù.

Lui si lasciò scivolare sul pavimento, lentamente.
Le prese la faccia tra le mani e la baciò, sentendo il proprio sapore.

Lei gli fece una carezza, sorrise, – contento? – gli chiese, e lui sorride e annuì.

Si alzò, rimettendosi i pantaloncini.
Lei rimase in ginocchio.

– Vuoi venire? – le chiese.

Voglio venire?
Vediamo.
Dipende.
Mi chiedi se, in questo momento, voglio venire più di mangiare, bere, dormire?
Sì.
Se voglio venire così tanto che mi fa quasi male la figa?
Sì.
Se voglio venire e poi venire ancora e ancora e ancora fino a quando non riesco più a venire ma provare provare e provarci fino a che non riesco a venire ancora, un’ultima volta?
Sì.
Quindi direi che sì, voglio venire.

– Come vuoi tu – disse lei, invece
– Andiamo – rispose lui, prendendola per mano e portandola in camera.

Senza dire niente, la fece stendere sul letto, a pancia in su.
Si spogliò, le allargò le gambe e ci si sdraiò in mezzo.
Si abbassò fino a mettere la faccia davanti alla sua figa, tanto che lei sentì il caldo del suo respiro.

Eccomi, pensò lei, socchiudendo gli occhi.

– Aspetta –

Ok. Aspetto.
Ma non troppo, che ci sono cose urgenti, qui, a cui pensare.

– Voglio che mentre ti lecco, tu pensi a quello che è successo stamattina –

Oh no, speravo di poter pensare alle cose da stirare.

– E voglio che mi avvisi quando stai quasi per venire –

Ehi, questa è nuova.
Cos’è ‘sta roba?
Oh.
Az.
Aspetta.
Ha iniziato.
Ok ok ok.
Pensare a stamattina.
E avvisare poco prima.
Ok, posso farcela.

Era calda e bagnata.
Iniziò piano, ma quasi subito lei gli mise una mano sulla testa e spinse il bacino con forza contro la sua bocca.
I muscoli delle cosce si tendevano e rilassavano accanto alla testa di lui, che la leccava e accarezzava con due dita.
Ci volle davvero poco.
Era tesa, le gambe dritte, una mano sulla testa di lui, l’altra sotto il culo.
Emise un rantolo.

Ecco.
Le sculacciate.
Ecco.
Nuda, a tavola.
Ecco, in ginocchio.
Ecco, posso succhiarti il cazzo per favore.
Non smettere continua così piano adesso più forte ecco adesso.
Ah sì devo avvisarlo.
Sì.

– Sto – sospiro – sto per venire. Sto per venire –

Li si fermò.
Si allontanò.
Si mise in ginocchio.

Che.
Cazzo.
Fai.

Si allungò e si mise accanto a lei.

Le sussurrò all’orecchio – allora, adesso decidi tu, che io non sono sicuro –

Perché sai amore mio, io lo so cosa vorrei dire e fare, ma qui mi servi tu, mi serve che mi accompagni, passo passo, e pazienza se non è esattamente quello che vorrei.

Lei annuì.
Incazzata.
Il mio orgasmo, cazzo!
Ma curiosa.

– Se vuoi, io adesso torno là, e ti faccio finire –

Ecco, questo è un buon inizio.
Voglio, certo che voglio.
Ma ti concedo il beneficio del dubbio.

– Ma, sempre se vuoi, posso fare un’altra cosa –

Hai la mia attenzione.

– Posso fare questo –

E si spostò, mettendosi sopra di lei e guardandola fisso.

– E dire così –

Socchiuse un istante gli occhi, e quando li aprì aveva uno sguardo diverso.

– I tuoi orgasmi non sono tuoi. I tuoi orgasmi appartengono a me. Tu veni solo se, quando e come voglio io. E io ho deciso che adesso non hai diritto a nessun orgasmo. Ho deciso che non verrai adesso, non verrai più tardi, non verrai finchè non te lo dirò io. Uscirai, andari al lavoro, farai tutto quello che devi fare a penserai a stamattina e a quanto sei stata vicino a venire adesso, a quanto poco ti è mancato, ma non verrai. Finchè non te lo dirò io –

Lei lo guardò, dritto negli occhi.

– Cosa scegli? –

Sospiro.
Deglutisco.
Si può avere questa scena in versione in 4k, dolby surround, schermo in HD con una mega porzione di pop corn, in loop per ore e ore?

– I miei orgasmi sono tuoi –

Lui le mise una mano tra le gambe, lei ebbe un brivido, lui spinse il palmo forte contro la sua figa, e lo strusciò un paio di volte su e giù.

Poi le mise la mano davanti alla bocca.
Senza dir niente, ma guardandolo fisso, lei leccò lentamente tutto il palmo della mano.

Pochi minuti dopo, sulla porta, si separarono con un bacio veloce.

– Buona giornata amore mio –
– Buona giornata –
– Chiamami in pausa pranzo –
– Non so se posso, potrei essere con dei clienti –
– Chiamami quando riesci, se posso ti rispondo –
– Ti amo-
– Ti amo –
– Ah, amore –
– Dimmi –
– Tieni d’occhio il telefono. Potrei scriverti –
– Che cosa mi devi scri… ah. Scusa. Certo –
– Buona giornata –

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