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Racconti Erotici Etero

L’esame di diritto penale (scritto)

By 7 Luglio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Non ero preparata all’esame di diritto penale, avevo studiato poco e psicologicamente ero a terra. Lo dimostrava già il modo in cui mi ero vestita quella mattina: un vecchio maglione rosso, i jeans strappati al ginocchio, un vecchio giaccone di lana marron scuro, anfibi e un berretto colorato arrivato dalle Ande. “Ma hai un esame mica vai a un concerto, vestiti decentemente” protestava mia mamma vedendomi uscire vestita così. “Tanto è lo scritto, il prof neanche mi vede”.
Il prof. dettava le domande, nella vecchia aula con i banconi di legno, e nella mia testa calava il buio. Proprio zero, non sarei stata capace di scrivere una riga. C’erano due compiti diversi, per cui i miei vicini seduti a destra e sinistra avevano domande diverse. Li guardo e entrambi scrivevano. A destra un ragazzo con i capelli corti con la riga in parte, una maglia tipo pinocchietto azzurro, la giacca del completo grigio appoggiata sulla sedia: avrà avuto la mia età ma era vestito da cinquantenne. A sinistra un tipo moro, tutto spettinato, una camicia di flanella e jeans, la barba corta con qualche pelo bianco sul mento. Avrà avuto quarant’anni, uno di quei studenti lavoratori che vogliono prendersi la laurea che non hanno fatto da giovani. Guardo entrambi e dopo un’oretta vedo che il signore di sinistra ha riempito il foglio protocollo e sta rileggendo. Gli scrivo su un foglietto “se ti passo il foglio con le domande mi aiuti?”. Con la mano mi fa cenno di passare e lui mi dà il suo, tanto per far vedere che ho un foglio davanti anch’io. Su un foglio a quadretti butta giù delle note, 1), 2), 3), con delle sintetiche risposte e poi sotto scrive “non sono sicurissimo che sia giusto, vedi tu”. Copio sul foglio protocollo quello che ha scritto lui, senza neanche capire quello che scrivo e consegno in extremis il mio compito.
“Nel tardo pomeriggio, fuori dal mio studio, metto i risultati” disse il prof alla fine.
Fuori dall’aula, mentre tutti gli altri a capannelli commentavano le domande e confrontavano le risposte, il mio “salvatore” se ne stava andando via da solo, senza parlare con nessuno. Lo raggiungo e gli dico “hey, grazie, mi hai salvato la vita, io avrei consegnato in bianco se non c’eri tu”.
“Spero di aver beccato le risposte, ti parevano giuste?”
“Boh, credo di sì, non lo so…” risposi. “Aspetti i risultati?”.
“Sì, per l’esame mi danno permesso dal lavoro tutto il giorno e siccome vengo da Mestre pensavo di restare qui a Padova finché non escono i risultati, pensavo di fare un giro in centro”.
“Io sono di Dolo, siamo vicini, anch’io aspetto, ti va se aspettiamo assieme?”.
Faceva un freddo cane, freddo umido, e dopo pochi passi ci siamo infilati in un bel caffè.
“Io prenderei un cognac, per scaldarmi e rilassarmi, tu?”
Non ho mai bevuto un cognac in vita mia e così dissi “Anch’io”.
Era fortissimo e più che scaldarmi mi brucio le budella, ma fece un buon effetto.
Poi andammo a mangiare qualcosa, poi a vedere delle librerie, poi da Coin, tanto per stare al caldo.
Era un tipo di poche parole, sposato, 41 anni (19 più di me, cavolo, una vita), impiegato in un uffico, studiava un po’ per cultura generale un po’ perché sperava di fare qualche passo avanti in carriera. Un tipo qualsiasi, un po’ trasandato, semplice. Di me pareva non gliene fregasse niente, era cortese ma niente di più.
Alle cinque e mezzo tornammo in facoltà e i risultati erano fuori, tutti e due ammessi. Faccio un salto, mi attacco al suo collo e gli stampo un bacione sulla barba. Lui ride e mi dà il cinque.
Poi dice “cognac?”
“Cognac!” rispondo “nel posto di prima, andiamo”.
Volevo pagare io perché fino adesso mi aveva offerto tutto lui e poi avevo un debito per il compito, ma invece pagò ancora lui.
“Devo dirlo a mia moglie” dice, e allora il diavoletto che è in me salta fuori e dice “Digli che i risultati non sono ancora usciti, stiamo ancora un po’ in giro per Padova, non stai bene con me?”.
“Ok, non gli dico niente, allora, non sono bravo a raccontare palle”.
Ci facemmo ancora degli spritz aperol e ancora in giro col freddo, così, agli Scrovegni, senza meta e verso le nove di sera eravamo in stazione a vedere i treni per il rientro. Ce n’era uno comodo dopo pochi minuti.
Lui chiama la moglie e le dice finalmente che ha passato lo scritto, che è ancora a Padova, ha perso il treno e rientrerà più tardi.
Altro drink in zona stazione e a questo punto ci siamo raccontati tutte le nostre vite e la sua è molto meno banale da quello che poteva sembrare, ha viaggiato, letto milioni di libri, ha tanti interessi e fa un sacco di cose, aiuta anche gli immigrati e anche per quello studia legge.
Il treno lo prendiamo dopo le undici di sera, il nostro vagone è vuoto, io sono ubriaca.
Lo guardo negli occhi e gli dico “sono in debito con te” e gli ficco la lingua in bocca. Nei 17 minuti di viaggio non la tolsi più, fu un unico lunghissimo bacio.
Io gli poggiai la mano tra le gambe, lo sentivo eccitato, ma lui non faceva niente per incoraggiarmi. Cercai di infilarmi nella cintola e con la punta delle dita cercavo di raggiungere il suo sesso e forse lo sfiorai. Anche lui mi abbracciava, le sue mani trovarono la mia schiena nuda sotto il maglione e anche lui si infilava nei miei jeans dietro per carezzarmi il sedere.
Quando l’altoparlante chiamò la mia stazione mi staccai da lui e saltai giù, “ciao”.
“Ciao”.

L’orale era dopo tre giorni e fuori dall’aula ci incontrammo e andammo a sederci vicini. Toccò prima a lui, ma c’era brusio e non sentivo come andava. Lo vidi uscire dopo l’esame. Toccò a me, scavai un bel 22, abbastanza insperato e quando uscii dall’aula era lì che mi aspettava. Lui aveva preso 26 ed era contento, ci raccontammo delle domande e di com’era andata, lo ringrazia ancora per l’aiuto, neanche una parola sul viaggio di ritorno di tre giorni prima.
“Adesso cosa fai, cognac? Ma stavolta offro io, per l’esame…” gli dissi.
Così tornammo al bel caffè antico, lì in centro, per quello che ormai era diventato quasi un rito.
“Stavolta sono in auto” mi disse “se vuoi andiamo a mangiare un boccone in giro”.
Così salimmo sulla sua vecchia Clio, piena di libri, giornali e robe, incasinata come lui, e a rivederlo oggi capii che era una persona speciale, adorabile. A prima vista non gli dai due lire ma conoscendolo un po’ di più è un tipo adorabile. Non per il fisico, neanche per i discorsi, non so neanche per cosa, per com’era, così, non so cosa mi attraeva in lui. Aveva pagato anche quel cognac e se l’altra volta lo avevo ripagato in baci, stavolta in auto, appena fuori dal centro, gli aprii i jeans e mi chinai su di lui, prendendoglielo in bocca. Eravamo su una circonvallazione trafficata e da un’auto affiancata tre ragazzi guardarono nell’abitacolo e ridevano. A me non importava niente mentre lui, sotto la barba, era tutto rosso. Prese la prima uscita e girò a caso per piccole stradine, finché ne trovò una bianca e ci si infilò, sempre con la mia bocca attaccata al suo sesso, come un bambino col biberon. Dopo due curve si fermò, in mezzo alla campagna, con la nebbia.
Senza dire nulla armeggiammo sui sedili per ribaltare gli schienali e fare spazio e gli fui subito sopra.
Ci togliemmo i giacconi e mi alzò il maglione, mi tolse il reggiseno, si buttò sui miei capezzoli con tutta l’eccitazione accumulata in quei lunghi minuti in cui io lo succhiavo e lui doveva guidare senza poter fare nulla.
Lo aiutai ad aprirmi i jeans, me li calai fino alle caviglie, non dicevamo nulla solo baci disperati sulle labbra e sul corpo suo e mio, dove capitava, con frenesia. In pochi istanti mi fu dentro e ci spingevamo uno contro l’altro come se non fosse mai abbastanza in fondo. Le sua mani sui miei fianchi mi spingevano su e giù contro il suo pene e io mi spingevo a mia volta, perché mi sbattesse più forte.
Mi fece girare a quattro zampe, con le mani sul sedile dietro e le ginocchia su quelli davanti e mi prese da dietro, con la stessa forza. Mi mise un dito in bocca e con quel dito bagnato prima mi stuzzicava la vagina sotto a dove mi penetrava e poi me lo infilò nel sedere, mentre continuava a scoparmi. Il suo cazzo sotto e il suo dito sopra mi diedero un piacere doppio, che mi fece perdere del tutto il controllo. Bagnava il dito con gli umori della mia patatina e li spalmava sul buchetto dietro, infilandoci il dito, sempre più dentro, fino a farcelo entrare tutto. Poi fece quello che temevo, appoggiò la punta del suo membro, al massimo della durezza, sul mio ano e tenendomi il sedere allargato con le mani provò a spingere. Ma non riusciva a entrare.
“Così non l’ho mai fatto” gli confessai “non so se riesci”. Fece marcia indietro ma mi infilò due dita in bocca e subito dopo nel sedere. Poi le infilò nella vagina bagnata e slambricciata e poi di nuovo dietro, nel sedere. Poi ci riprovò, con la sua asta su quel buchetto che non voleva saperne di farla passare. Si stese col torace contro la mia schiena e baciandomi l’orecchio mi sussurrò “rilassati”.
Cercai di farlo e così sentii che un mezzo centimetro del suo pene mi stava allargando l’ano e continuava piano piano a scivolare dentro, con molta fatica, millimetro a millimetro. Cercavo di pensare ad altro, all’esame andato bene, e non a cosa stava succedendo lì dietro. Faceva male, non scivolava, anche su lui continuava a infilarmi le dita nella vagina per poi passare con quegli umori umidi il mio buchino. Spinse forte e credo che mezzo cazzo fosse dentro, forse urlai quando spinse di nuovo e lo sentii tutto, con la punta che batteva dentro, non so dove, contro le budella o non so cosa, un male terribile, un piacere immenso. Male perché spingeva ancora, anche se non riusciva a muoversi, era praticamente fermo dentro il mio culetto e spingeva e ogni colpo era una fitta e un brivido di un piacere mai provato prima. Cercò di mettermi un dito davanti, nella fessura, ma trovò la strada occupata perché già io mi ero infilata un dito dentro e me la tormentavo. Ma lui si fece spazio e due dita si muovevano nella mia vagina spalancata. Sentivo la mia voce che urlava “ahh, ahh” ma era come se sentissi gridare qualcun altro, ero come fuori di me, completamente abbandonata al piacere di quella penetrazione che non avevo mai provato prima. Mi veniva spontaneo contrarre il buchino, ma ormai era dentro, tutto dentro, ed era inutile, anzi, sembrava che gli aumentasse il piacere e spingeva ancora con più forza se io stringevo e mi faceva davvero male. Io mi fregavo il clitoride, il suo dito mi frugava in profondità, “vieni, vieni” mi sussurrava piano nell’orecchio, ma io ero già venuta, anche due volte, e non ero in grado di rispondere niente.
Si sollevò su di me, tenendomi la mani sui fianchi e mi sbattè con tutta la forza possibile, facendo dei grugniti, non sentivo neanche più dolore ormai, e sentii il suo flusso caldo dentro il sedere. “Ti adoro, sei stupenda” mi pare dicesse. Intanto rimaneva dentro e disse “aspetta ancora un attimo, sennò ti faccio male”. Poi piano piano si sfilò e quest’operazione mi fece malissimo, sentivo il fuoco sul buchino, lì all’ingresso, dentro invece non faceva più male adesso che se ne era uscito.
“E’ stato bellissimo, non l’avevo mai fatto così, è stato bello” furono le uniche parole che riuscii a dire. Tra le mille cose in auto aveva anche dei fazzolettini, perché eravamo tutti sudati e sporchi. Mi aiutò a rivestirmi e rimanemmo lì, esausti e abbandonati, sui sedili abbassati. Io mi addormentai.
Quando riaprii gli occhi era quasi buio, lui era sveglio e mi guardava.
“Ti accompagno?”.
Mi portò a casa, durante il breve viaggio di ritorno parlammo dei prossimi esami e prima di farmi scendere mi diede due baci sulle guance come vecchi amici.
Finora non l’ho più rivisto.

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